Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Autori
Roma 2015
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Rosa Mario


Professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, nella quale ha insegnato Storia moderna dal 1989 al 2004 (fuori ruolo dal 2004 al 2007) e della quale è stato vicedirettore dal 1994 al 1998, ha insegnato Storia moderna nelle Università di Lecce (1966-72), di Bari (1970-78), di Pisa (1978-84), di Roma “La Sapienza” (1984-89). È condirettore e direttore responsabile della «Rivista di Storia e letteratura religiosa» presso l’editore Olschki ed è nel Comitato scientifico della rivista «Società e storia», nonché corrispondente straniero della «Revue historique» e socio corrispondente della Société d’histoire religieuse de la France e della Société du XVIIIe siècle. È socio corrispondente della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia nazionale dei Lincei. Ha collaborato e collabora a numerose riviste italiane e straniere e a diverse iniziative di carattere internazionale. I suoi interessi si sono rivolti in particolare alla storia politico-religiosa e alla storia della cultura dell’età moderna.




Rosminianesimo - vol. I


Autore: Fulvio De Giorgi

Rosmini. Il ‘rosminianesmo’ in senso generale fa riferimento alla figura e all’opera di Antonio Rosmini (1797-1855). Tale opera riguarda sia i suoi scritti filosofici (relativi alla gnoseologia, all’ontologia, alla filosofia morale, alla filosofia della politica, alla filosofia del diritto), teologici (relativi all’antropologia ‘soprannaturale’, all’ecclesiologia, alla teodicea, alla teosofia), pedagogici (sull’educazione cristiana e la catechesi, sull’unità e sulla metodica dell’educazione), ascetici e spirituali sia il suo impegno di educatore, di fondatore di un Istituto di perfezione (Istituto della Carità) e perfino di politico, nel corso delle vicende del 1848 e del periodo immediatamente successivo. La cifra sintetica di tale multiforme opera è data dalla volontà di imprimere un indirizzo nuovo al pensiero cattolico – così da porlo in dialogo aperto e fecondo con la modernità – e quindi alla spiritualità e alla vita pastorale. Il fulcro è dato dall’idea dell’essere o, meglio, dalla distinzione tra essere reale, essere morale e essere ideale.

Rosminiani/e. In senso proprio con questo termine si indicano i religiosi del già ricordato Istituto della Carità e le Suore della Provvidenza. Tra le figure di spicco, nell’Ottocento, si ricordano Francesco Paoli, segretario e primo biografo di Rosmini, e Giovanni Battista Pagani, superiore generale e autore di una Vita che poi – ampliata da Rossi – è stata ed è ancora il testo di riferimento per la ricostruzione delle vicende del prete di Rovereto. Nel Novecento, tra i maggiori rosminiani si ricordano Giuseppe Bozzetti, significativo autore ascetico, il poeta Clemente Rebora, Giovanni Pusineri, il vescovo Clemente Riva e Remo Bessero Belti, fine scrittore di spiritualità. Per la comprensione del carisma specifico dell’Istituto è importante la distinzione di una triplice carità, presente nelle Costituzioni: carità corporale, carità intellettuale e carità spirituale.

Filo-rosminianiani. Una significativa area di simpatia per Rosmini e per il rosminianesimo si ebbe, nel corso dell’Ottocento, ma anche nel Novecento, nel clero secolare e in molti ordini e congregazioni religiose. Durante il Risorgimento gran parte del clero ‘nazionale’ (a Milano e, in generale, in Lombardia, in Piemonte e in Veneto) fu filo-rosminiano. Così pure dopo l’Unità: bastino i nomi dell’abate Stoppani e del vescovo di Torino Gastaldi. Tra i religiosi si possono ricordare i barnabiti e gli scolopi, il mazziano Francesco Angeleri, Sebastiano Casara secondo fondatore dell’Istituto Cavanis, nonché i cappuccini Luigi Puecher Passavalli, Claudio Poggi e, nel Novecento, Paolo Piombini. Più in generale la filosofia rosminiana fu vista complessivamente con favore nel vasto mondo francescano, che ne scorgeva le affinità con l’indirizzo serafico bonaventuriano.

Rosministi. I seguaci, anche laici, della filosofia di Rosmini e dei suoi indirizzi culturali possono, più propriamente, essere chiamati ‘rosministi’. Tra questi vi furono, pur con una loro autonomia, alcuni illustri amici dello stesso Rosmini come Alessandro Manzoni (nel dialogo Dell’Invenzione) e Niccolò Tommaseo (in particolare negli scritti pedagogici). Importante fu pure l’opera di alcune riviste, come “Ateneo Religioso” (di Biginelli), “La Sapienza” (di Vincenzo Papa), “Il Rosmini” (di Stoppani), “Il Nuovo Rosmini” (di Michelangelo Billia) e, soprattutto, “Rivista Rosminiana” (che iniziò le pubblicazioni nel 1906 e che continua tuttora). Un puntuale esegeta degli scritti rosminiani, per dimostrarne la perfetta ortodossia, fu Giuseppe Morando. Ma, nel corso del Novecento, i filosofi cattolici italiani che con più forza speculativa ripresero il rosminianesimo o ne furono significativamente influenzati furono Giuseppe Capograssi, Michele Federico Sciacca e Pietro Prini.

Scuola italiana di spiritualità. Il rosminianesimo indica pure un indirizzo di spiritualità: anzi tale indirizzo potrebbe, con molte ragioni, definirsi la ‘scuola italiana’. In essa si ricapitola un lungo cammino – tipico di molte figure spirituali italiane – teso alla “riforma cattolica”: cioè una riforma della Chiesa, ma dall’interno, senza disobbedienze alla gerarchia e senza posizioni eterodosse. Nel corso dell’Ottocento tale indirizzo trova i suoi maggiori esponenti in Rosmini e nel laico Manzoni (ma poi anche in Tommaseo, in Lambruschini, in Gioberti e in molti altri) e ha, al suo centro, la dinamica della Carità. Tra fine Ottocento e primo Novecento ha i maggiori rappresentanti nel cardinale Capecelatro, nel vescovo Bonomelli, nel religioso Gazzola e nel laico Fogazzaro. A tali lezioni si ricollegano anche don Mazzolari e p. Bevilacqua. Un’eco nascosta, ma non invisibile, si ha pure in Roncalli e in Montini.

Questione rosminiana. Con tale termine si intende la controversia sull’ortodossia di Rosmini e del rosminianesimo, che fu aperta dagli attacchi di autori gesuiti e dalla messa all’Indice, nel 1849, delle due operette rosminiane, pubblicate l’anno prima, La Costituzione secondo la giustizia sociale e Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa. Rosmini si sottomise prontamente. L’insieme degli scritti di Rosmini fu allora preso in esame, ma nel 1854 vi fu la dichiarazione (il cosiddetto Dimittantur) di nessun errore dottrinale contenuto in essi. Dopo la morte del Roveretano e la pubblicazione postuma di altre opere rimaste incompiute, le polemiche si riaccesero. Si giunse così, nel 1887, ad un decreto del Sant’Uffizio (cosiddetto Post-Obitum) che condannava 40 proposizioni rosminiane. Da allora e per lungo tempo il rosminianesimo fu guardato con sospetto e fu emarginato. Solo il Concilio Vaticano II, del cui magistero Rosmini apparve un precursore, avviò a definitiva soluzione la questione. Le Cinque Piaghe furono riabilitate. Con interventi nel 1994 e, soprattutto, nel 2001 Congregazione per la Dottrina della Fede sciolse i dubbi di eterodossia. Nel 1998 nella Fides et Ratio, Giovanni Paolo II citava, tra gli altri, Rosmini. Nel 2007 Benedetto XVI decretava la sua beatificazione.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Bergamaschi, Bibliografia rosminiana, 9 voll., Milano, Marzorati; poi Genova, La quercia; poi Stresa, Sodalitas, 1967-1999; F. Traniello, La questione rosminiana nella storia della cultura cattolica in Italia, in “Aevum”, 37 (1963), 1-2, 63-103; Id., Società religiosa e società civile in Rosmini, Bologna, Il Mulino, 1966 (nuova edizione Brescia, Morcelliana, 1997); Id., Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano, Marzorati, 1970; F. De Giorgi, La questione rosminiana nella storia della cultura cattolica, in B. Gariglio – M. Margotti – P.G. Zunino (a cura di), Le due società. Scritti in onore di Francesco Traniello, Bologna, Il Mulino, 2009, 229-252; P. Marangon, Le eredità/1: i rosminiani, in A. Melloni (a cura di), Cristiani d’Italia. Chiese, Stato e società 1861-2011, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, 1253-1264.


LEMMARIO




Rurale Flavio





Rusconi Roberto





Sacro romano impero - vol. I


Autore: Tommaso di Carpegna

Con questa espressione viene designata per lunga tradizione l’istituzione sovrana che governò su differenti parti d’Europa dall’anno 800 (incoronazione di Carlomagno) all’anno 1806 (deposizione della corona imperiale da parte di Francesco II d’Asburgo dietro pressione napoleonica). Il termine non è del tutto esatto, in quanto il Sacro Romano Impero propriamente detto è basso medievale e moderno, ma il suo uso è generalmente accettato poiché condensa il concetto di fondo dell’esistenza di un Impero romano rifondato in Occidente dopo la fine di quello antico (476). I milleduecento anni della sua storia si suddividono in sei fasi fondamentali: Impero carolingio (800-887); Impero ottoniano o della dinastia sassone (962-1024); Impero della dinastia salica (1024-1125); Impero della dinastia sveva (1139-1250); Impero basso medievale (1273-1428); Impero della dinastia asburgica (1438-1806).

La conquista franca del regno longobardo (774) e il rivolgimento degli indirizzi politici del papato, che smise di guardare all’ oriente bizantino e si rivolse all’ occidente franco, sono le premesse della prima Renovatio dell’Impero, avvenuta con l’incoronazione di Carlomagno la notte di Natale dell’800. Invocando come giustificazione l’assenza di un sovrano sul trono imperiale a Costantinopoli (era infatti imperatrice una donna, Irene), con l’incoronazione di Carlo si volle sancire il ritorno dell’Impero in Occidente, dopo che, nel 476, Odoacre aveva restituito le insegne imperiali a Bisanzio. L’Impero carolingio, che perdurò sino all’887 (deposizione di Carlo III il Grosso) fu proposto come il rinnovato Impero romano, sebbene la sua conformazione territoriale non corrispondesse all’istituzione antica: mentre infatti l’antico impero aveva il baricentro nel Mediterraneo, quello carolingio corrispondeva sostanzialmente all’Europa centro-occidentale. Al tempo della sua massima espansione (regni di Carlomagno e di Ludovico il Pio) esso comprendeva una parte considerevole dell’Europa continentale, corrispondente alle attuali Spagna del Nord, Francia, Italia centro-settentrionale, Svizzera, parte della Germania, Austria, Slovenia. Con il trattato di Verdun (843) l’Impero fu diviso in tre parti. Quella più occidentale si sarebbe distaccata definitivamente dando origine al regno di Francia e ai regni cristiani di Spagna, mentre le parti centrale e orientale, ricompattate (e aumentate di superficie verso oriente nei secoli successivi) avrebbero continuato a costituire l’Impero. In particolare, il regno italico, situato nella parte centro-settentrionale della penisola, corrispondeva all’antico regno longobardo, con l’aggiunta del ducato di Spoleto e delle Marche. L’Italia meridionale rimase invece parte araba, parte bizantina e parte longobarda; mentre i territori già bizantini corrispondenti all’Esarcato cominciarono a essere rivendicati dall’arcivescovo di Ravenna e dal pontefice romano. Nei secoli successivi queste regioni, con l’aggiunta di parte del ducato di Spoleto e delle Marche, avrebbero costituito lo Stato della Chiesa. Soprattutto per l’azione sinergica dell’imperatore e del pontefice, il periodo carolingio segnò una fase fondamentale di costruzione della societas christiana, che fu organizzata dal punto di vista istituzionale, ponendosi allora le basi per una koinè culturale che, fatte salve le numerose differenze locali, si sarebbe mantenuta per secoli. L’Impero carolingio fu peraltro una costruzione politica non duratura, che implose alla fine del secolo IX.

Al suo disfacimento seguì un periodo turbolento (888-962) durante il quale i singoli regni e ducati di cui l’Impero si componeva assunsero fisionomie sempre più autonome. Il regno italico costituì un’entità separata, in cui gli appartenenti a pochissime grandi famiglie si contesero il trono e in i cui sovrani assunsero – è il caso di Guido e Lamberto di Spoleto – anche il titolo imperiale, pur non governando, nei fatti, al di fuori della penisola. Il periodo ottoniano è quello compreso tra gli anni 962 (incoronazione di Ottone I) e il 1024 (morte di Enrico II). Con il matrimonio tra Ottone I di Sassonia e Adelaide di Borgogna (951) il riconquistato regno italico diventò parte fondamentale della sfera di azione dei sovrani germanici, che ne assunsero il governo diretto. Il nuovo Impero, rifondato il 2 febbraio del 962 con l’incoronazione di Ottone seguita alla guerra vittoriosa contro Berengario II, comprendeva gran parte della Germania e dell’Italia centro-settentrionale e, dal 1033, anche il regno di Borgogna. Poiché non includeva più il regno dei franchi occidentali, spesso si è soliti considerare l’Impero ottoniano, anziché quello carolingio, come la prima autentica espressione del Sacro Romano Impero (benché, come si è detto, tale termine in quel’epoca non esistesse ancora). È in particolare agli anni di regno di Ottone III (996-1002) che si deve la grande costruzione ideologica della Renovatio imperii Romanorum in chiave costantiniana e avente come capitale simbolica la città di Roma. Da allora, il vincolo con l’Urbe e la cristomimesi dell’imperatore diventarono sempre più marcate, trovando una fase di climax durante il regno di Enrico III, che imponendo nel 1046 un proprio candidato sul trono pontificio avrebbe dato avvio alla grande stagione della Riforma della Chiesa. Solo se il re dei romani (cioè l’imperatore designato) veniva incoronato a Roma, egli diveniva a tutti gli effetti imperatore: un vincolo e un obbligo che giustifica, sia in chiave politica che simbolica, una parte preponderante dell’azione di tutti gli imperatori fino al 1452, quando Federico III d’Asburgo ricevette per l’ultima volta la corona a Roma dal pontefice. Suo nipote Carlo V, le cui truppe avrebbero messo per mesi a sacco la città di Roma nel 1527, fu incoronato invece a Bologna nel 1530, tuttavia seguendo ancora l’antico rituale.

L’incontro di volontà politica e ideologica tra Impero e Papato si ruppe nel periodo detto della Lotta per le Investiture (1076-1122), quando le due massime istituzioni della Cristianità occidentale si combatterono l’un l’altra per l’egemonia. Benché l’Impero all’apparenza non perdesse allora che poche delle proprie prerogative (il Concordato di Worms del 1122 è infatti un compromesso), in realtà era ormai in atto un processo di lunga durata che avrebbe indebolito l’istituzione imperiale, desacralizzandola. Al tempo di Federico I, detto il Barbarossa (1155-1185) fu coniata l’espressione sacrum imperium, poi trasformatasi nella dizione corrente di Sacro Romano Impero. Riprese allora lo scontro con il Papato, sovrapponendosi alla base tradizionale della lotta due novità fondamentali: da una parte la volontà imperiale di ricondurre nella forma del tradizionale controllo sovrano le nuove realtà istituzionali che proliferavano in Italia del Nord, cioè i comuni; dall’altra l’assunzione di fondamenti ideologici che si rifacevano direttamente alla romanità classica e che portarono alla riscoperta e al reimpiego del diritto romano. Dopo il 1183 (pace di Costanza) e fino ai primi decenni di regno di Federico II, si riebbe una fase di sostanziale equilibrio nei rapporti tra Papato e Impero, sfociata però in una guerra aperta.

Dalla morte di Federico II (1250), cui seguì un interregno senza imperatori durato oltre venti anni, l’Italia si trovò sempre più svincolata dal controllo diretto dell’imperatore. Nonostante gli iterati tentativi di ricostruire l’assetto italiano-tedesco e il ritorno a una monarchia di aspirazioni universali (soprattutto nel corso dei primi decenni del secolo XIV con il regno di Enrico VII – si pensi alla Monarchia di Dante – e con il regno di Ludovico il Bavaro) e nonostante la lotta accanita combattuta fra Due e Trecento dalla fazione ghibellina, cioè imperiale, contrapposta a quella guelfa, cioè pontificia e angioina (una lotta che però nascondeva soprattutto contrapposizioni e disequilibri locali) in realtà l’Impero assunse da allora una fisionomia sempre più marcatamente germanica, resa formale dalla Bolla d’Oro di Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia (1356), con la quale vennero stabiliti i grandi principi elettori preposti alla scelta dell’imperatore, che erano tutti tedeschi e che de facto regolavano l’elezione imperiale da oltre cento anni. Dal XV secolo si cominciò a usare l’espressione «Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca» (termine ufficializzato nel 1512), che perdurò durante tutta l’età moderna.

La rimozione della storia della presenza dell’Impero in Italia durante l’età moderna è stata pressoché totale fino a tempi recenti, causata in gran parte dalla connotazione ideologica anti-tedesca della nostra storiografia risorgimentale (e il suo ruolo nella storia ecclesiastica attende ancora uno sguardo di sintesi). Ciononostante, il progressivo attenuarsi della capacità di azione dell’imperatore in Italia, non significò affatto che l’antico regno d’Italia non continuasse a essere considerato parte integrante dell’Impero durante tutto l’Ancien Régime. Pur contendendo il territorio italiano con altre potenze (sopra tutte la Francia e la Spagna), i territori facenti parte dell’antico regno italico rimasero, almeno nominalmente (e non di rado ben più che nominalmente) sotto l’alto dominio imperiale. In alcuni periodi, come la prima metà del Cinquecento, la fine del Seicento e il periodo 1745-1799 (quando è strettissimo il vincolo dinastico tra Impero e granducato di Toscana), l’autorità imperiale nella penisola fu molto accentuata. In termini generali, erano considerati come appartenenti all’Impero gli Stati sabaudi, il Monferrato, la Repubblica di Genova, gli Stati toscani, gli Stati di Milano, Mantova, Parma, Piacenza, Modena e alcuni altri Stati padani come Guastalla e Reggio Emilia. L’imperatore rivendicava l’alta sovranità sopra tutti questi territori e i principi vi dominavano in quanto suoi vicari, mentre il duca di Savoia era vicario dell’imperatore per l’Italia intera. Accanto a questi feudi imperiali che si è soliti definire maggiori, esistevano anche numerosi altri feudi imperiali che si è soliti definire minori, i quali avevano la caratteristica di essere quasi tutti collocati in zone di confine tra i feudi imperiali maggiori, oppure inseriti all’interno di quelli, o, ancora, posti al confine con lo Stato pontificio.

Durante la prima età moderna, il peso dell’imperatore in Italia ebbe rilievo anche sotto il profilo della storia religiosa ed ecclesiastica, in quanto la linea perseguita fu sempre la difesa del cattolicesimo. Si verificarono però allora fortissimi contrasti tra la politica imperiale e quella papale, sia nei termini di schieramenti politico-militari (sacco di Roma del 1527 e successiva pacificazione del 1530), sia intorno al Concilio di Trento (0000), che si celebrò in più fasi in un territorio che si trovava compreso entro i confini dell’Impero, ma che era altresì di lingua italiana e retto da un principe vescovo. In generale, tuttavia, mentre il dominio nei territori germanici protestanti dovette portare a soluzioni politiche di compromesso con i principi protestanti, l’azione dell’imperatore, del papa e poi soprattutto quella del re di Spagna possono essere considerate un elemento fondamentale alla base dell’insuccesso della riforma protestante e, viceversa, del successo della riforma cattolica nel corso del XVI secolo in Italia. Sebbene non fosse più advocatus della Chiesa romana come era stato durante il medioevo e sebbene non potesse scegliere il pontefice (come era accaduto soprattutto tra la seconda metà del X e la prima metà dell’XI secolo), l’imperatore continuava ad esercitare prerogative nella designazione dei cardinali e manteneva un diritto di veto nell’elezione pontificia. Nel corso del Settecento furono attuati ampli processi di secolarizzazione negli Stati italiani in qualche modo aggregati alla monarchia asburgica (Toscana, Lombardia), sebbene tale processo vada colto come conseguenza delle politiche ecclesiastiche delle rispettive dinastie, indipendentemente dalla formale appartenenza all’Impero.

Fonti e Bibl. essenziale

P.E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio. Studien und Texte zur Geschichte der römischen Erneurungsgedankens vom Ende des karolingischen Reiches bis zum Investiturstreit, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1929; E.H. Kantorowicz, Federico II di Svevia, Garzanti, Milano 1939; R. Folz, L’idée d’empire en Occident du Ve au XIVe siècle, Aubier, Paris 1953; Nascita dell’Europa ed Europa carolingia: un’equazione da verificare, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 27, 19-25 aprile 1979, CISAM, Spoleto 1981; P. Cammarosano, Nobili e re: l’Italia politica nell’alto medioevo, Laterza, Roma-Bari 1998; F. Heer, Il Sacro Romano Impero: mille anni di storia d’Europa, Newton Compton, Roma 2001; C. Donati, H. Flachenecker (edd.) Le secolarizzazioni nel Sacro Romano Impero e negli antichi stati italiani: premesse, confronti, conseguenze, Bologna, il Mulino; Berlin, Duncker & Humblot, 2005; M. Schnettger, M. Verga (edd.), L’Impero e l’Italia nella prima età moderna, Atti del convegno Trento, 19-21 giugno 2003, il Mulino, Bologna 2006; K. Brandi, Carlo V, Einaudi, Torino 2008; M. Bellabarba, J.P. Niederkorn (edd.), Le corti come luogo di comunicazione: gli Asburgo e l’Italia (secoli XVI-XIX), Atti del convegno Trento 8-10 novermbre 2007, il Mulino, Bologna, 2010; C. Cremonini, R. Musso (edd.), I Feudi Imperiali in Italia tra XV e XVIII secolo, Atti del Convegno dell’Istituto internazionale di studi liguri, Albenga-Finale Ligure-Loano, 27-29 maggio 2004, Bulzoni, Roma 2010; H. Keller, Gli Ottoni. Una dinastia imperiale fra Europa e Italia (secc. X e XI), Roma, Carocci, 2012.


LEMMARIO




Sanfilippo Matteo


Professore ordinario di Storia moderna all’Università della Tuscia, dirige la Fondazione Centro Studi Emigrazione di Roma. Si interessa di storia delle mobilità e dei rapporti tra Vecchio e Nuovo Mondo, con particolare attenzione al ruolo della Chiesa cattolica. Co-dirige la rivista “Archivio storico dell’emigrazione italiana” e le correlate collane di pubblicazioni a stampa e in digitale, nonché il sito www.asei.eu e la collana Studi di storia delle istituzioni ecclesiastiche (Viterbo, Sette Città). Co-ordina inoltre la rivista “Studi Emigrazione” ed è nella commissione scientifica del Rapporto italiani nel mondo, curato dalla Fondazione Migrantes. Fa inoltre parte del comitato scientifico delle riviste: “Giornale di storia contemporanea”, “Journal of Belgian History”, “Populaçao e sociedade” (Oporto, Portogallo), “La questione meridionale – The Southern Question”. È infine membro del comitato scientifico del Centro interuniversitario di storia e politica euro-americana, del Centro Internazionale Studi Emigrazione Italiana (www.cisei.it) e di Terra. Réseau scientifique de recherche et de publication (http://www.reseau-terra.eu).




Santità - vol. II


Autore: Zamboni Lorenzo

Secondo il cristianesimo, è Dio che comunica la “santità” ad ogni essere umano attraverso la mediazione di Cristo. Infatti, se per l’Antico Testamento Dio solo è il “santo” (Isaia 6,3), nel Nuovo Testamento è Gesù a manifestarlo con pienezza, in quanto è l’unico “Santo di Dio” (Giovanni 6,69). Così nessun uomo può esaurire la perfezione di Dio, ma ciascuno può dirne qualcosa, ed alcuni riescono a realizzare con totale radicalità la volontà di Dio, trasmettendo con la loro azione il suo amore: essi sono i “santi”, il capolavoro della grazia di Dio, modelli di umanità e di libertà. La Chiesa, perciò, non può esimersi dal proclamare i santi in nome di quell’annuncio che ne costituisce la missione.

A questo punto, ci possiamo chiedere se sia possibile scrivere una “storia della santità”, e come si possa intenderla. Si può: poiché i santi hanno il cuore per Dio e per i fratelli, ma camminano nella storia con i piedi per terra, così la storia della santità cristiana è la storia del mondo come gli uomini vorrebbero che fosse secondo il messaggio evangelico: è una storia incarnata, vissuta nel tempo. Ne deriva, dunque, che il fenomeno della santità è complesso e multiforme; ne esamineremo alcuni aspetti relativi alla Chiesa italiana dall’Unità della Penisola in poi.

Beatificazioni e Canonizzazioni

Un primo aspetto da considerare è il numero delle beatificazioni e delle canonizzazioni, che rappresentano il riconoscimento “ufficiale” della santità.

Numero beatificazioni e canonizzazioni di diocesi italiane
Periodo Beati Santi
1861-1870 4 5
1871-1880 0 0
1881-1890 7 5
1891-1900 8 2
1901-1910 6 2
1911-1920 2 1
1921-1930 11 3
1931-1940 7 8
1941-1950 8 7
1951-1960 10 11
1961-1970 11 4
1971-1980 12 1
1981-1990 38 10
1991-2000 59 7
2001-2007 47 23
Fonte: mia elaborazione da Index ac status causarum, 1999 e I supplementum 2000-2007.

In questa tabella è possibile leggere il numero dei beati e dei santi promossi nelle diocesi italiane, anche se non si tratta necessariamente di santi italiani: ad esempio, sono comprese figure come San Leopoldo Mandic, cappuccino croato che ha esercitato il ministero a Padova – diocesi in cui si è svolta l’Inchiesta – mentre sono escluse figure come Santa Francesca Cabrini, italiana di Sant’Angelo Lodigiano, che tanto ha fatto per gli immigrati negli Stati Uniti, ma la cui causa è stata portata avanti dalla diocesi di Chicago, cioè laddove ella è morta. La scelta riprende il n. 21 § 1 della Istruzione Sanctorum Mater della Congregazione delle Cause dei Santi uscita nel 2007, che prescrive che il vescovo competente ad istruire l’Inchiesta diocesana sia quello nel cui territorio il Servo di Dio è morto, poiché si presume che quella sia la diocesi in cui egli ha operato maggiormente. È tuttavia possibile chiedere il trasferimento, come suggerisce il n. 22 § 1.

Dal conteggio dei dati, ricavabile dall’Index ac status causarum, pubblicato a cura della stessa Congregazione, emerge come l’andamento delle cause sia stato abbastanza costante fino al 1920, con l’esclusione del decennio 1871-1880, periodo in cui Pio IX fermò ogni cerimonia in seguito alla presa di Porta Pia. Successivamente, all’incirca dal 1922, anno d’inizio del pontificato di Pio XI, si registra un aumento delle canonizzazioni, riconosciute con una media di circa una figura all’anno tra quelle promosse nelle diocesi italiane; quindi, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, segue un’ovvia flessione. L’intuizione del papa lombardo, che col Motu Proprio Già da qualche tempo del 1930 istituì la Sezione Storica, è stata quella di superare la mentalità “giuridica”, e di attribuire quindi un valore importante ai documenti ed alle testimonianze. Questa riforma da un lato valorizzava il contesto storico, familiare, sociale e culturale in cui aveva vissuto il santo, dall’altro apriva la strada ad una presenza più varia di figure, e così tutti potevano e dovevano essere santi. Questo andamento numerico si è confermato fino all’inizio degli anni Ottanta, momento in cui segue una decisa impennata, in linea con l’andamento generale delle beatificazioni e delle canonizzazioni. Infatti, dopo una prima riforma di Paolo VI nel 1969 col Motu Proprio Sanctitas Clarior, con cui furono unificati i due processi, ordinario ed apostolico, si ridussero da quattro a due i miracoli necessari per arrivare ad una canonizzazione per virtù eroiche, nel 1983 la Costituzione Apostolica Divinus Perfectonis Magister e le Normae Servandae riformarono radicalmente il procedimento per le beatificazioni e per le canonizzazioni, in particolare con la riduzione a cinque anni del periodo di tempo successivo alla morte necessario per l’inizio del processo rispetto ai trenta originariamente previsti dal canone 2038 del Codice del 1917.

Lo studio delle beatificazioni e delle canonizzazioni rivela come buona parte della chiesa italiana fosse attenta a questo tema.

DIOCESI ITALIANE CON PIÚ DI 5 PROCESSI APERTI
Diocesi Anno 1953   Diocesi Anno 1999
Napoli 56   Roma 102
Roma 56   Napoli 74
Torino 23   Torino 36
Genova 14   Palermo 32
Milano 14   Milano 28
Palermo 12   Bologna 19
Firenze 10   Firenze 17
Lucca 9   Brescia 16
Bologna 8   Genova 14
Brescia 7   Vicenza 14
Nocera Inferiore 7   Verona 13
Lodi 6   Bergamo 12
      Venezia 12
      Lucca 9
      Monreale 9
      Novara 9
      Nocera Inferiore 8
      Viterbo 8
      Bari 7
      Catania 7
      Lodi 7
      Messina 7
      Parma 7
      Agrigento 6
      Osimo 6
      Imola 6
      Padova 6
      Senigallia 6

Dal computo dei processi in corso nelle singole diocesi emerge come il numero degli stessi sia decisamente aumentato in poco meno di cinquant’anni, e per di più si nota appunto che la distribuzione delle cause riguarda tutta l’Italia. Se negli anni Cinquanta erano le grandi diocesi ad avere in corso il maggior numero di processi, la situazione del 1999, pur confermando questo dato, dimostra che in numerose realtà diocesane più piccole rimaneva viva l’attenzione al riconoscimento della santità tramite i processi. È aumentato considerevolmente anche il numero delle diocesi con almeno un processo in corso: se erano soltanto 106 nel 1953, nel 1999 sono 244, tra le quali 95 con un solo processo avviato.

Per quanto riguarda i processi, è importante segnalare l’introduzione nel 2017 dell’offerta della vita come “quarta via” dell’iter delle canonizzazioni. Con il Motu Proprio Maiorem hac dilectionem, papa Francesco ha introdotto una novità nella secolare prassi della Chiesa, che finora aveva riconosciuto come vie della canonizzazione il martirio, le virtù eroiche e la conferma di un culto antico (“casus excepti”). Con l’offerta della vita, cioè tramite l’accertamento di una morte certa e prematura, si viene ad agevolare la beatificazione e la canonizzazione di quei fedeli che hanno eroicamente offerto in modo libero e volontario la propria vita per il prossimo; questa forma di canonizzazione si differenzia dal martirio nell’assenza del persecutore anticristiano. È per ora prematuro valutare concretamente l’effetto sui processi di beatificazione e di canonizzazione, ed in particolare per le figure italiane.

Modelli di Santità

Connessi con le canonizzazioni, ma non solo, sono i modelli di santità proposti dalla chiesa in Italia. Alcuni di essi sono presentati, anche se non ancora riconosciuti, dalla Chiesa Ufficiale; inoltre sono soprattutto gli ordini religiosi a proporre i loro modelli. È possibile, tuttavia, rintracciare alcune caratteristiche costanti.

Un primo modello proposto alla venerazione dei fedeli di tutto il mondo, che rimane costante per tutto l’Ottocento e per gran parte del XX secolo, è quello dei fondatori e delle fondatrici. Questo modello si configura innanzitutto nel suo essere di stampo italiano e, soprattutto, romano: la presenza nell’Urbe e nelle sue vicinanze di istituzioni centrali di ordini e congregazioni religiose, di fatti, ha facilitato l’introduzione delle cause dei fondatori a Roma. In questo modo, il riconoscimento della santità dei religiosi e degli ecclesiastici ha accentuato la sacralità della città eterna, elemento che certamente non è dispiaciuto alle autorità ecclesiastiche. Ne è derivato che, nella diocesi di Roma, il numero delle cause è aumentato al punto di essere superiore a quello di interi paesi tradizionalmente cattolici, come Austria, Portogallo e Belgio. Ciò vale soprattutto per le figure femminili: la metà delle sante canonizzate a partire dal XX secolo sono fondatrici di ordini religiosi. Il fatto che ciò sia potuto avvenire solo in tempi recenti è dovuto al fatto che le stesse istituzioni femminili hanno potuto affrontare il lungo ed impegnativo iter della canonizzazione solamente dopo aver raggiunto un’autonomia finanziaria e il necessario spirito di iniziativa.

Un secondo modello proposto ai fedeli è quello della “santità ultramontana”, che propone un ideale di santità a forte configurazione ecclesiastica, con accentuato privilegio del modello clericale. In un contesto permeato da una notevole sensibilità post-tridentina, Giovanni Maria Vianney e San Carlo Borromeo sono i modelli rispettivamente per i presbiteri e per i vescovi: la fedeltà alla Chiesa, infatti, è proposta come valore predominante. Sono inoltre incentivate alcune devozioni, come quella del Sacro Cuore e della Vergine Maria, la quale in particolare trae vantaggio dalle apparizioni che culminano a Lourdes nel 1858, con la conferma della precedente approvazione del dogma dell’Immacolata Concezione. Il movimento ultramontano raggiunge il proprio acme durante il Concilio Vaticano I, con l’approvazione del dogma dell’infallibilità. Pochi mesi dopo termina il potere temporale del papa, Pio IX si proclama “prigioniero in Vaticano” e suscita la solidarietà del mondo cattolico, che risponde con affetto e devozione.

Attorno al 1880 lentamente interviene un cambiamento. La devozione ultramontana, che pure aveva ispirato tante iniziative caritatevoli ed assistenziali, ma che anche aveva promosso forme di preghiera che sottolineavano aspetti sentimentalistici e puerili, come pure intenzioni moralizzatrici, cedeva lentamente il passo ad una ricerca di Dio più semplice ed essenziale, ad un abbandono incondizionato. È questo il messaggio di Teresa di Lisieux, che ebbe eco immediata in quel contesto, al quale in Italia si può associare quello di Rita da Cascia, canonizzata durante il Giubileo del 1900, e di Gemma Galgani, morta nel 1903 e canonizzata per una vita di nascondimento, di segrete penitenze e di umiltà.

In questo scorcio di fine Ottocento, in Italia inizia ad emergere in Italia il riconoscimento di una “santità sociale” a diversi individui, spesso ancor prima che la Chiesa li proponga ufficialmente alla venerazione dei fedeli. Il modello di questa santità è san Giuseppe, sposo di Maria. Se, alla fine dell’Ottocento, la Chiesa iniziava a rapportarsi con una società in trasformazione e con la nuova categoria produttiva degli operai, la risposta delle gerarchie alle mutate condizioni di vita produsse una fitta rete di enti ed istituti di assistenza di vario tipo. Da questo contesto emergono, soprattutto nel XX secolo, diversi personaggi italiani, come don Giuseppe Benedetto Cottolengo, morto nel 1842 e canonizzato nel 1934 alla conclusione del Giubileo della Redenzione, oppure don Luigi Orione (morto nel 1940, canonizzato nel 2004), don Carlo Gnocchi (morto nel 1956), o don Zeno Saltini (morto nel 1981).

Un ulteriore modello di cristianità caratterizza il periodo 1910-1950 circa. In quegli anni, infatti, dapprima si accresce la tensione internazionale, quindi l’esasperato nazionalismo produce effetti deleteri (Pio XI ne denuncerà gli eccessi) che culminano nelle due Guerre Mondiali. La chiesa propone il ritorno ad un ideale di cristianità da opporre alle ideologie del tempo, con un programma che nel 1925 ha portato, tra le altre iniziative, all’introduzione della festa di Cristo Re. Di conseguenza, figure come San Giovanni Bosco, beatificato nel 1929 e canonizzato nel 1934, o Santa Paola Frassinetti, beatificata nel 1930, costituiscono modelli di educazione della gioventù. Proprio il fondatore dei salesiani è canonizzato nel giorno di Pasqua, 1° aprile 1934, in una solenne celebrazione con cui si conclude l’anno Santo della Redenzione, terminato il giorno seguente con la chiusura della Porta Santa. La data di questa canonizzazione è eccezionale, ed il papa stesso la considerò come suggello dell’anno della Redenzione. A questi modelli si aggiungono i santi giovani: tra essi spiccano Domenico Savio, su cui nel 1859 è pubblicata a cura dello stesso don Bosco una biografia modellata su quella di San Luigi Gonzaga, patrono della gioventù dal 1729, oppure la figura di Pier Giorgio Frassati, morto nel 1925 e di cui tre anni dopo don Antonio Cojazzi pubblicò un’interessante biografia. Anche all’interno degli ordini regolari spiccano casi di santi giovani, come Gabriele dell’Addolorata, morto nel 1862, beatificato nel 1908 e canonizzato nel 1920, il cui culto, originariamente promosso in funzione antiunitaria, si diffuse sino alla canonizzazione del 1926, con la quale fu elevato al livello di co-patrono della gioventù. In quegli stessi anni, si recuperò anche l’interesse verso i santi dell’antichità, come san Tarcisio, figura in realtà più letteraria che storica, oppure come Sant’Agnese, proposta alle ragazze come figura esemplare, sulla base della quale venne riletta la vicenda di Maria Goretti, morta nel 1902 e la cui prima biografia agiografica è del 1929.

Già durante il pontificato di Pio XI, ma ancor più con quello di Pio XII, inizia ad emergere una valorizzazione della santità anche nel laicato, ampliata certamente dal Concilio Vaticano II, ma di cui l’assise conciliare non ha l’esclusiva. Tra i santi laici si trovano personaggi molto diversi tra loro, come il già citato Frassati, oppure come Bartolo Longo, fondatore del santuario di Pompei, morto nel 1926 e beatificato nel 1980, o come Giuseppe Moscati, medico beneventano morto nel 1927 e canonizzato nel 1987, o anche come Contardo Ferrini, professore universitario, morto nel 1927 e beatificato nel 1947, oppure come la mamma Gianna Berretta Molla, morta nel 1962 e proclamata santa nel 2004, ed ancora come il professor Giuseppe Lazzati, morto nel 1986 e proclamato venerabile dal 2013: tutte figure che sono soltanto alcuni tra gli esempi che riflettono l’insegnamento del Concilio Vaticano II sulla santità. Il Concilio di Trento aveva già trattato del culto dei santi, contestato dalla Riforma, ma non aveva fornito un’esposizione sistematica sulla santità, come fece invece Lumen Gentium, da cui è possibile sintetizzare tre elementi centrali: in primo luogo, tutti i fedeli sono chiamati alla santità; quindi essa non è altro che l’unione con Cristo; infine, quest’unica santità si presenta in forme molteplici. Per questo motivo, accanto ai modelli tradizionali, si moltiplicano i santi vissuti in ambienti e àmbiti di vita diversi da quelli tradizionali, che pure continuano a permanere, come quello della vita religiosa, nel caso di San Pio da Pietrelcina, oppure in quello della vita sacerdotale, come per San Giovanni Maria Vianney e per San Giovanni Bosco.

Nel mondo contemporaneo, questo cammino trova una conferma ed un’esplicitazione nell’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità Gaudete et exsultate del 19 marzo 2018. Papa Francesco, ricordando che “per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità” (n. 19), riporta al centro della vita cristiana l’universale chiamata alla santità, valorizza “i santi della porta accanto” o “la classe media della santità” (n. 7); porta cioè alla luce i segni della santità di tutti i membri del popolo di Dio, a partire dai genitori, dagli sposi, dai malati che vivono con fede, speranza e carità la loro vita ordinaria. Inoltre, si dà grande attenzione alla santità femminile (tra le altre, sono citate espressamente due figure italiane contemporanee: la beata Maria Gabriella Sagheddu e santa Giuseppina Bakhita, sudanese che ha vissuto gran parte della vita in Veneto). Per questo motivo, nel capitolo quarto dell’esortazione, papa Francesco evidenzia cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo che ritiene importanti nel contesto culturale del ventunesimo secolo: sopportazione, pazienza e mitezza; gioia e senso dell’umorismo; audacia e fervore; aspetto comunitario; preghiera costante. La santità proposta da papa Francesco non è, dunque, un traguardo impossibile, ma una via per tutti praticabile attraverso i piccoli gesti della quotidianità.

Le Devozioni Popolari

Al tema della santità si lega anche una riflessione sulle devozioni, che dimostrano la sensibilità alla santità “dal basso”. Se ci riferiamo ai santi, il culto sembra aver subìto un’eclissi, perché il secolo XIX sembra essere il secolo delle devozioni ai santi, mentre nel XX esse sono soggette ad un lento ma costante oblio. In realtà, durante l’Ottocento, sono due gli interlocutori più invocati: la Vergine Maria e San Giuseppe, che respingono nell’ombra il resto dei santi. Il culto di Maria è associato a quello di Gesù, in particolare nella Santa Famiglia, un modello proposto dal clero cattolico con sempre maggior frequenza contro la secolarizzazione crescente. Grazie anche al riconoscimento delle apparizioni mariane, lo spazio dedicato alla Madonna nella spiritualità cristiana si estende in modo crescente, ed essa è invocata da tutte le categorie di fedeli: è madre umile e gloriosa di Dio, è Madre dolorosa del Calvario, è Madre Misericordiosa per coloro che la invocano. Anche i due dogmi, quello dell’Immacolata Concezione del 1854 e quello dell’Assunta del 1950, contribuiscono a diffondere e rinforzare questa devozione. Il rosario diviene preghiera comune, il mese di maggio assume uno spazio notevole nella scansione del tempo cristiano. Inoltre, grazie al culto mariano, nell’Ottocento ritorna ad emergere una fitta rete di santuari mariani: tra questi, in Italia si distinguono per numero di presenze Loreto e Pompei, che hanno progressivamente assorbito l’importanza precedentemente dedicati ai santi, soprattutto locali. Il culto della Sacra Famiglia si giovò anche della maggiore attenzione dedicata a san Giuseppe, molto invocato nel XIX secolo, modello di ubbidienza e umiltà ed efficace protettore. Nel 1847 Pio IX estese a tutta la Chiesa la festa liturgica di San Giuseppe il 19 marzo; quindi, nel 1955, papa Pio XII volle dare un senso cristiano alla Festa dei Lavoratori del 1° maggio fissando la festa di San Giuseppe lavoratore; inoltre, sia Pio IX, sia e Pio XI, consacrarono a San Giuseppe il mese di marzo.

In generale, le devozioni ai santi affrontano nel tempo un’evoluzione, perché piano piano l’interesse verso il santo protettore cede il passo al santo da cui si attende un insegnamento ed uno stimolo all’emulazione. A questo proposito, è bene notare che l’interesse storico ha fatto sì che, poco dopo il 1900, il culto di Santa Filomena, presunta martire che una errata interpretazione di una scritta catacombale aveva reso tale, abbia perso forza e diffusione, mentre figure come San Vincenzo de Paoli, simbolo della carità, San Francesco Saverio o San Luigi Gonzaga, grandi figure della Compagnia di Gesù, abbiano guadagnato interesse. Secondo Pio XI, i santi dovevano avere funzione catechistica, formativa ed esemplare, perciò, come già osservato, lo stesso papa promosse numerose canonizzazioni e beatificazioni. Verso il 1930 fu inoltre riletta e riscoperta la figura di san Francesco d’Assisi, più in virtù del cristocentrismo più che per lo spirito di povertà: lo stesso santo nel 1939 fu proclamato patrono d’Italia. Al giorno d’oggi, alcuni santi mantengono uno spazio di devozione grazie al santuario dove è conservato il corpo, come san Francesco, ad Assisi, sant’Antonio, a Padova, san Gabriele dell’Addolorata, il cui santuario è vicino a Teramo, san Giuseppe Moscati, le cui stanze sono ricostruite presso la chiesa di Gesù Nuovo a Napoli, Padre Pio da Pietrelcina, il cui corpo è conservato al santuario di San Giovanni Rotondo. Infine, alle devozioni dei santi e all’attenzione alla santità contribuisce ancora la diffusione di santini e di bollettini dei santuari, di molto aumentati negli ultimi duecento anni.

Fonti e Bibl. Essenziale

Fonti: Index ac status causarum, Città del Vaticano (varie edizioni: 1953; 1962; 1975; 1988; 1999); Index ac status causarum. I supplementum 2000-2007, Città del Vaticano 2008, Francesco, esortazione apostolica Gaudete et exsultate, Città del Vaticano 2018.

Opere: Plongeron B. (cur.), Storia dei Santi e della santità cristiana, 11 vv., Parigi 1991; Scaraffia L., Zarri G., Donne e fede, Roma-Bari 1994; Rusconi R., Una chiesa a confronto con la società in Benvenuti A., Boesch Gajano S., Ditchfield S., Rusconi R., Scorza Barcellona F., Zarri G., in «Storia della santità nel cristianesimo occidentale», Roma 2005; Boesch Gajano S., La santità, Roma-Bari 1999; Rumi G., Santità sociale in Italia tra Otto e Novecento, Torino 1995; Rusconi R., Santi della Chiesa nell’Italia Contemporanea, in «Cristianesimo nella storia», 18, 1997, 585-591; Delooz P., Sociologie et canonisations, Liegi 1969; Accattoli L., Nuovi martiri nell’Italia di oggi, in Elberti s.j. P.A. (cur.), «La santità» (Nuova Biblioteca di Scienze religiose), Napoli 2001, 155-162; Apeciti E., Pio XI e i suoi santi. La politica delle canonizzazioni, in Cajani F. (cur.), Pio XI ed il suo tempo (Quaderni della Brianza), Besana Brianza, 2000; Spadaro A., Gaudete et exsultate. Radici, struttura e significato della esortazione apostolica di papa Francesco in «La Civiltà Cattolica» 2018, II, 107-123; Criscuolo V., Pellegrino C., Sarno R.J., Le Cause dei Santi. Sussidio per lo Studium, Città del Vaticano 20184.

LEMMARIO




Santuari - vol. I


Autore: Giovanni Liccardo 1

Definizione. Condizione essenziale perché un luogo della memoria sia definito santuario è che sia (o sia stato) meta di pellegrinaggi periodici e istituzionalizzati; questo concetto è ora fissato dal can. 1230 del CJC del 1983, mentre il Direttorio su pietà popolare e liturgia (nn. 261-287) ha distinto i vari santuari e ha delineato la conformità del culto praticato mostrando l’orientamento per armonizzare la pietà popolare con la liturgia.

Secondo una definizione flessibile, un santuario è ogni luogo segnato da “apparizioni” e “miracoli”, oggetto per questo di devozione e di pellegrinaggio; in ogni caso, l’origine e la permanenza del santuario non è determinata dall’autorità, ma dalla pietà popolare e dalla devozione dei fedeli.

Non ogni luogo di culto è un santuario, solo quei luoghi che rispondono alla nozione di “segno memoriale”, dove cioè l’intervento divino si è manifestato personalmente (epifania), o in forma impersonale (ierofania), e sono meta di pellegrinaggi perché in quei luoghi Dio, provvidenzialmente, mediante la Vergine Maria o i santi, interviene operando miracoli a favore dei suoi fedeli. Dunque, non tutte le chiese possono dirsi santuari, soprattutto se non presentano la tomba o le reliquie di un santo e presso di esse non si verifica il pellegrinaggio annuale che costituisce il criterio indispensabile perché si possa definire santuario. Viceversa, possono esserlo i monumenti sacri o le cappelle rurali che – per esempio – conservano all’interno un’immagine creduta miracolosa o vari cicli pittorici cristologici o mariani o relativi alla vita e ai miracoli del santo che vi si venera.

In questi anni le indagini sui santuari si sono intensificate, arricchendosi di notevoli risultanze, espresse soprattutto attraverso ricerche di singoli o di gruppi coagulate intorno a progetti, seminari convegni o workshop svoltisi prevalentemente in Italia, ma anche all’estero. Considerando che la storia di ogni luogo sacro si pone all’intersezione tra la sua specifica identità e il problema generale del rapporto uomo-spazio, l’attuale orientamento degli studi si muove su vari filoni; nel giugno del 1996 l’École française de Rome ha approntato un progetto di ricerca per il censimento dei santuari italiani, con l’adesione e la collaborazione di un grande numero di studiosi e ricercatori delle università italiane sparsi su tutto il territorio nazionale (risultati disponibili sul sito: www.santuaricristiani.iccd.beniculturali.it). Attesa la fecondità di questo nuovo campo d’indagine, ha avuto inizio un dibattito storiografico su complesse questioni collegate al concetto-santuario (identità, funzioni religiose, culturali e sociali).2

Eppure, è ancora difficile arrivare a una tipologia condivisa che coniughi le specificità territoriali con l’analisi storiografica nel rispetto delle dinamiche istituzionali proprie ad ogni singolo caso; se ne può proporre una schematica classificazione: santuari martiriali (che includono santuari sulla tomba; santuari-memoria e/o con reliquie); santuari epifanici/ierofanici (che comprendono complessi cultuali sorti sui luoghi dove si è verificato un evento storico collegato con la vita del santo e santuari eremitici); santuari teofanici (che contano santuari micaelici e santuari mariani); santuari legati a eventi miracolosi tramite elementi naturali e santuari legati alla presenza di reliquie del santo e/o all’inventio miracolosa di oggetti. Un tipo distinto è quello cosiddetto ad instar, ovvero una ricostruzione su modello del prototipo (o anche contenente una semplice replica dell’immagine lì venerata; o una reliquia prelevata da un corpo santo e persino un privilegio di indulgenza simile a quella che si lucra nel santuario prototipo). Nella cristianità occidentale la prassi di costruire santuari ad instar fu inaugurata con un transfert della sacralità dal Santo Sepolcro a Roma: Santa Croce in Gerusalemme costituisce il primo esempio (poi le imitazioni del sepolcro eretto sulla tomba di Gesù Cristo si diffusero ovunque), ancorché il transfert sia legato non alla ricostruzione su modello – l’Anastasis non era stata ancora progettata – ma al trasferimento di terra del Calvario e di reliquie della passione.

Infine, il desiderio di dare ai propri figli morti prematuramente la salvezza dell’anima è all’origine dei santuari del «ritorno alla vita», che gli studiosi francesi hanno chiamato à répit e altri della «doppia morte» o della «morte sospesa». In questi loca sancta compassionevoli cortei portavano i piccoli che non avevano visto la luce, o avevano chiuso gli occhi nei primi istanti di vita senza aver potuto ricevere il battesimo; frequentemente localizzati in luoghi appartati, su alture, in vallette, nei boschi, ma anche in zone collinari, sono rari in Italia (sulle Alpi occidentali la maggiore concentrazione) e di solito dedicati alla Madonna e ad alcuni santi.3

L’età tardoantica e medioevale. L’origine dei santuari risale ai primi secoli del cristianesimo, intrinsecamente connessa al culto dei martiri, per il quale alcuni autori hanno trovato aspetti comuni con gli eroi greci; si riteneva che il santo, ormai in cielo, fosse rimasto “presente” in terra, presso la sua tomba, in questo modo quei monumenti funebri divennero dei santuari, meta di pellegrinaggi e l’autorità ecclesiastica si interessò presto della loro gestione. Allo stesso modo, se la tomba e il santuario edificato su di essa radicavano la memoria del santo in un luogo determinato, la moltiplicazione delle reliquie consentì un’accrescersi virtualmente infinito di luoghi santi non più vincolati all’inamovibilità del sepolcro; concetto sintetizzato nei celebri versi del Carme XIX di Paolino di Nola, composto nel 405 (vv. 342-352). Così, il fenomeno delle reliquie dei santi – ricercate, inseguite, contese, strappate o comperate – assunse, specie nel Medioevo, proporzioni considerevoli (e anche in questo non sono mancate relazioni con i casi di reliquie di eroi greci traslate e custodite gelosamente in luoghi sacri, come la spalla d’avorio di Pelope, venerata ad Olimpia).

Eppure fino a quando proseguirono le persecuzioni i sepolcri dei martiri dovettero avere di solito le caratteristiche di una semplice memoria, un segno, un piccolo monumento, talvolta distinti da una sobria lapide. Esemplificativi, in propo­sito, sono i cosiddetti “trofei” eretti sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo e i sepolcri dei papi sistemati nella catacomba di S. Callisto sulla via Appia. Con la pace della Chiesa la venerazione per i martiri si diffuse ampiamente e il culto si avviò velocemente verso manifestazioni veramente colossali, soprattutto se si pensa alle basiliche volute da Costantino; alle soglie del V secolo si concentrarono a Roma i santuari più importanti e frequentati. La città accolse progressivamente nel suo tessuto urbano ed extraurbano in via di radicale trasformazione i segni monumentali del cristianesimo; ai peregrini, romani o stranieri, che fino alle soglie del medioevo si affollarono nelle strade verso i luoghi di devozione, l’area intorno alle Mura Aureliane si presentò come un’intricata rete di santuari, subdiali o sotterranei, di disuguale impatto visivo. Tra i santuari più visitati furono quelli di S. Pietro in Vati­cano, S. Paolo, S. Pancrazio, S. Lorenzo, S. Agnese, S. Ales­sandro, S. Ermete.

Fuori dal Lazio, invece, si distinse innanzitutto il complesso basilicale di Cimitile (Nola), il cui nucleo si sviluppò per iniziativa di Paolino di Nola intorno alla tomba di San Felice. Notevole fu anche la diffusione, dalla fine del V secolo, del culto dell’arcangelo Michele, che fu venerato particolarmente nei santuari del monte Gargano (il più celebre e antico santuario dell’occidente latino dedicato all’Arcangelo), del Mons Aureus presso Olevano sul Tusciano, presso Larino e a Potenza; in questo caso, l’assestamento politico del Mezzogiorno, tra VI e VII secolo, sotto i bizantini e i longobardi di Benevento, rese più sicuro il transito e favorì varie forme di pellegrinaggio lungo le vie del Meridione d’Italia.

Molto presto il santuario pugliese rappresentò il modello ideale anche per tutti i santuari angelici del settentrione d’Italia, che furono appunto eretti ad instar di quello garganico. Così, per esempio, la Sacra di San Michele della Chiusa, nacque e si sviluppò con la sua storia e le sue strutture attorno al culto di San Michele che approdò in Val di Susa nei secoli V o VI. La sua ubicazione in altura e in uno scenario altamente suggestivo, richiama immediatamente l’insediamento micaelico del Gargano. Fondata tra il 983 e il 987 sullo sperone roccioso del monte Pirchiriano si trova al centro di una via di pellegrinaggio di oltre duemila chilometri che unisce quasi tutta l’Europa occidentale da Mont-Saint-Michel a Monte Sant’Angelo.4

Invece, relativamente ai luoghi di culto dedicati a san Benedetto e al suo Ordine, dei dodici monasteri voluti dal santo nella valle sublacense, l’unico sopravvissuto ai terremoti e alle distruzioni saracene fu quello di Santa Scolastica, che, sino alla fine del XII secolo, fu il solo monastero di Subiaco; suggestivo è anche quello della Madonna della Mentorella presso Capranica Prenestina, amministrato dai benedettini dal IX al XIV secolo. Tra i santuari benedettini settentrionali, invece, ebbe un ruolo importante quello di Santa Maria in Sylvis, nei pressi di Pordenone, costruito tra il 730 e il 735; nondimeno, del nobile e potente monastero benedettino sopravvive oggi solo una parte, incentrata intorno alla basilica, nella cui cripta si conserva la cosiddetta urna di S. Anastasia. Infine, della presenza benedettina in Sardegna è testimone, tra gli altri, il santuario di San Pietro di Sorres, in provincia di Cagliari, costruito su un colle nell’XI secolo e completato fra il 1170 e il 1190.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Bisconti – D. Mazzoleni, Alle origini del culto dei martiri. Testimonianze nell’archeologia cristiana, Aracne Editrice, Roma 2005; L. Canetti, Frammenti di eternità. Corpi e reliquie tra Antichità e Medioevo, Viella, Roma 2002; Del visibile credere. Pellegrinaggi, santuari, miracoli, reliquie, a cura di D. Scotto, Olschki, Firenze 2011; A. Dupront, Il Sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini, Bollati Boringhieri, Torino 1993; M. Fumagalli Beonio Brocchieri – G. Guidorizzi, Corpi gloriosi. Eroi greci e santi cristiani, Editori Laterza, Roma-Bari 2012; Le vie della devozione: gli archivi dei santuari in Emilia Romagna, a cura di E. Angiolini, Mucchi Editore, Modena 2000; Luoghi sacri e spazi della santità, a cura di S. Boesch Gajano – L. Scaraffia, Rosenberg e Sellier, Torino 1990; F. Mattioli Carcano, Santuari à répit. Il rito del “ritorno alla vita” o “doppia morte” nei santuari alpini, Priuli & Verlucca editori, Scarmagno (TO) 2009; R. Oursel, Pellegrini del Medioevo. Gli uomini, le strade, i santuari, Jaca Book, Milano 2001; Pellegrini e luoghi santi dall’Antichità al Medioevo, a cura di M. Mengozzi, Società editrice il Ponte Vecchio, Cesena 2000; Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Il santuario. Memoria, presenza e profezia del Dio vivente, LEV, Città del Vaticano 1999; Santuari cristiani d’Italia. Committenze e fruizione tra medioevo e età moderna, a cura di M. Tosti, Collection de l’École française de Rome. 317, Roma 2003; Santuari locali e religiosità popolare, Atti del XXVI Convegno «Ravennatensia» del Centro studi e ricerche sull’antica provincia ecclesiastica ravennate (Sarsina, 6-8 settembre 2001), a cura di M. Tagliaferri, University Press, Bologna 2003. Infine, nella collana “Santuari d’Italia” (edita a Roma, De Luca Editori d’Arte): Santuari d’Italia. Lazio, a cura di S. Boesch Gajano, M.T. Caciorgna, V. Fiocchi Nicolai, F. Scorza Barcellona (2010); Santuari d’Italia. Puglia, a cura di I. Aulisa – G. Otranto (2012); Santuari d’Italia. Trentino – Alto Adige/Süd Tirol, a cura di E. Curzel – G. M. Varanini (2012); Santuari d’Italia. Umbria, a cura di C. Coletti – M. Tosti (2012); Santuari d’Italia. Roma, a cura di T. Caliò, S. Boesch Gajano, F. Scorza Barcellona, L. Spera (2012); Santuari d’Italia. Romagna, a cura di M. Caroli – A.M.Orselli-R. Savigni (2013); Santuari d’Italia. Umbria, a cura di C. Coletti – M. Tosti (2013).

Immagini:

1) Aosta, resti della basilica paleocristiana; 2) Roma, Santuario della Madonna delle Grazie (1523); 3) Foggia, Grotta del santuario di Monte Sant’Angelo; 4) Matera, Santuario Madonna del Monte.

Sitografia:

http://www.vaticano.com/santuari.asp (sito con l’elenco di santuari di tutta Italia suddivisi per regione); http://www.santuaricristiani.iccd.beniculturali.it/ (sito dedicato al censimento dei santuari cristiani in Italia); http://www.siticattolici.it/Luoghi_cattolici/Santuari_Mariani/ (sito dedicato alla ricerca dei santuari mariani); http://www.vaticanoweb.com/monasteri/initalia.asp (sito dove sono raccolte notizie su monasteri, abbazie e conventi italiani).


LEMMARIO




Santuari - vol. II


Autore: Giovanni Liccardo1

La svolta moderna. Mentre nella tarda antichità e nel medioevo, lo sviluppo dei santuari fu principalmente legato al culto dei santi e delle loro reliquie, a partire della fine del Trecento e in epoca moderna la loro nascita si riferisce per lo più alle loro immagini o ad alcune rivelazioni soprannaturali; così in Occidente, l’origine della devozione, testimoniata nelle leggende di fondazione, risale spesso alla scoperta fortuita fatta da un contadino o da una pastorella, di una statua di Cristo o della Vergine Maria sepolta nella terra o nascosta nel tronco di un albero.

Paradigmatica è la storia del santuario pugliese della Madonna della Fontana, a Francavilla Fontana, legata alle vicende del principe di Taranto Filippo D’Angiò (1278-1332); secondo la tradizione, mentre cacciava cervi in quella zona, il nobile avrebbe rinvenuto presso una fontana un’immagine della Vergine dipinta su un muro in rovina. Simili circostanze determinarono l’erezione, tra gli altri, dei santuari casertani di Roccamonfina (S. Maria dei Lattani) e della B.V. del monte Altino, nella media valle Seriana, in provincia di Bergamo.

Ciò nondimeno, altri tipi di santuari sono legati alla perdita definitiva della Terra Santa nel 1291 e alle invasioni turche che rafforzarono il desiderio dei cristiani, soprattutto in Italia, di riportare Gerusalemme in patria, nel quadro di un movimento spirituale di superamento mistico della crociata. Iniziò allora un processo di trasferimento in Occidente delle sacralità orientali, illustrato in modo particolare dal “miracolo” della Santa Casa di Loreto, dove, secondo la tradizione, la Vergine Maria ricevette l’Annunciazione. La casa di Maria era costituita da due parti: da una grotta scavata nella roccia e da una camera in muratura antistante, composta da tre pareti di pietre poste a chiusura della grotta. Alcune indicazioni documentali, i risultati degli scavi archeologici a Nazareth e nel sottosuolo della Santa Casa (1962-65) e studi filologici e iconografici, sembrerebbero confermare l’ipotesi secondo cui le pietre della Santa Casa furono trasportate a Loreto su una nave, per iniziativa della nobile famiglia Angeli, che regnava sull’Epiro. Comunque, dalla sua fondazione la memoria lauretana coinvolge numerose manifestazioni religiose, artistiche, letterarie; la Santa Casa di Loreto è diventata meta di pellegrinaggio, centro spirituale e culturale tra i più importanti e noti d’Europa. Ancora oggi Loreto continua ad essere “sosta dell’anima”, luogo d’incontro con Dio e talora forza ispiratrice per nuove iniziative, per istituti religiosi e movimenti della Chiesa.

Dal Trecento l’esigenza di fissare nello spazio l’immaginario religioso legato all’esistenza terrena di Cristo e di sua madre trovò un’espressione tangibile nella creazione di spazi devozionali basati sulla ricostruzione cronologica e topografica della Passione di Cristo in un percorso simile a quello che si può desumere dai vangeli. In questo modo la fissazione delle memorie religiose in stretto collegamento con la realtà visibile e durevole di un paesaggio e tramite la figurazione scenografica di alcuni episodi maggiori della storia della salvezza furono impiegate dalla Chiesa per dare un carattere immutabile alle credenze religiose.2

Più o meno nello stesso tempo, inoltre, fu promossa la venerazione di specifici santi dagli Ordini Mendicanti, che trasformarono i loro santuari in articolate imprese architettoniche e artistiche; basti pensare alle basiliche francescane di Assisi, che videro la presenza dei massimi pittori della fine del ’200 e del ’300 (Cimabue, Giotto, Simone Martini e altri). In particolare, l’itinerario nei luoghi del francescanesimo primitivo, dentro e fuori Assisi (tra gli altri, la Porziuncola a Santa Maria degli Angeli, il Convento di S. Damiano, l’eremo delle Carceri, il santuario di Rivotorto) racconta la storia di un grande cammino di fede e permette di ricostruire le tappe di una strada che condusse sempre Francesco e poi i suoi seguaci all’incontro con gli altri uomini e ad un rapporto di amore ed armonia con tutto il creato. Altro importante polo francescano di pellegrinaggio fu la basilica di Sant’Antonio di Padova, ininterrotto cantiere dal XIV al XX secolo (a decorare il santuario concorsero, tra gli altri, Donatello, Giorgione, Tiziano, Annigoni, ecc.). Secondo la tradizione, deceduto Antonio nel 1231, il suo corpo – secondo il suo stesso desiderio – venne trasportato e sepolto nella chiesetta di Santa Maria Mater Domini. Il primo nucleo della basilica, una chiesa francescana a una sola navata con abside corta, fu iniziato nel 1238; furono poi aggiunte le due navate laterali e alla fine si trasformò il tutto nella stupenda costruzione visitata ogni anno da decine di migliaia di pellegrini e turisti.

All’ordine agostiniano, invece, è legato il santuario di San Nicola da Tolentino (morto nel 1305). La sepoltura e specialmente la fama e la considerazione del “grande taumaturgo”, celebrate dagli affreschi del Cappellone, dalle numerosissime tavolette ex voto e dalle belle tele, hanno da allora richiamato l’attenzione di grandi masse popolari; le prove della consolante presenza di Dio, testimoniate dal santo agostiniano, hanno avuto, in questo caso, anche un valore pedagogico per fare scoprire ai fedeli le vie della virtù e della santità.3

I santuari più frequentati. I santuari possono concorrere anche nell’attuale fase storica ad arginare il secolarismo e a incrementare la pratica religiosa, lo sottolinea una recente raccomandazione del cardinale Mauro Piacenza e dell’arcivescovo Celso Morga Iruzubieta, presidente e segretario della Congregazione per il Clero, indirizzata, tramite gli ordinari diocesani, ai rettori dei santuari di tutto il mondo; i santuari, secondo la nota, «possono continuare ad illuminare molti con la gioia della fede cristiana ed a contribuire a sensibilizzare all’ascolto della chiamata universale alla santità».

Tra i santuari più frequentati attualmente in Italia è quello della Madonna del Rosario di Pompei, edificato per volontà del beato Bartolo Longo: l’8 maggio e la prima domenica di ottobre nel santuario si recita la supplica scritta dallo stesso benefattore. Costruito tra il 1876 e il 1891, ampliato nel 1933-39, è visitato ogni anno da più di quattro milioni di fedeli: l’affluenza dei devoti e dei pellegrini, la particolare benevolenza papale, vivissima specie durante il pontificato di Giovanni Paolo II, la diffusione della pratica del rosario lo hanno reso uno dei nuclei principali degli itinerari mariani d’Italia e d’Europa. Centro della devozione mariana è l’icona della Beata Vergine del Rosario, che rappresenta Maria con in grembo Gesù assisa in trono e circondata da san Domenico e da santa Caterina da Siena; l’opera, della scuola di Luca Giordano, si presenta adorna di gemme e attorniata dai misteri del rosario, dipinti su rame da Vincenzo Paliotti. Nella cripta sotto l’altare maggiore si conservano i resti di Bartolo Longo, proclamato beato il 26 ottobre 1980: a lui è dedicato anche il Museo del Santuario, in cui si conservano la sua camera da letto, le sue suppellettili e numerosi ex voto.

Sempre in Campania, un caso peculiare è rappresentato dal santuario della Madonna dell’Arco; costruito a cavallo tra il 1500 e il 1600, il santuario è rimasto fondamentalmente come appare oggi al visitatore. Qui la pietà popolare prorompe esuberante ogni anno da oltre cinque secoli il lunedì dopo Pasqua, in ricordo del lunedì del 1450 in cui avvenne il primo miracolo, mentre alcune altre manifestazioni di fede, che ebbero origine alla fine del Cinquecento, non sono mutate molto con il passare degli anni. Si calcola che il lunedì in albis oltre centomila persone affluiscano da tutta la Campania e da altre regioni d’Italia; caratteristica di questa giornata è la partecipazione al pellegrinaggio di numerosi gruppi di “battenti” (cioè coloro che si battono mentre camminano in processione a devozione della Vergine) o “fujenti” (cioè coloro che corrono durante il loro cammino verso il santuario) di ambo i sessi. Vestiti di bianco con fasce rosse alla vita e azzurre a tracolla, preceduti da bandiere e stendardi tutti con l’immagine della Madonna dell’Arco, vengono a piedi (talora scalzi), spesso con molte ore di cammino alle spalle. Di solito, i gruppi di devoti che si recano al santuario della Madonna dell’Arco allo scopo di portare a compimento il proprio voto, partono nelle prime ore del mattino, dopo essersi radunati davanti alla chiesa parrocchiale o presso la sede dell’associazione. Il pellegrinaggio alla Madonna dell’Arco con la sua schiettezza e semplicità popolare, con le sue esuberanti manifestazioni, ha esercitato un potente fascino sull’animo di molti artisti.4

Altro importante santuario, assai frequentato oggi, è quello dedicato a Santa Rita. La sua costruzione si rese necessaria per l’affluire di una massa sempre crescente di pellegrini che si recavano a rendere omaggio alle spoglie della santa (canonizzata da Leone XIII il 26 maggio 1900). Venne iniziata nel 1936 di lato alla primitiva chiesa e al convento; progettato da Spirito Maria Chiapetta, fu ultimato nel 1940 e aperto al culto nel 1948. La festa che Cascia tributa a Santa Rita, e che rappresenta uno dei richiami principali per i pellegrini, è particolarmente articolata e momenti puramente celebrativi si alternano ad ampi spazi di riflessione legati ad una liturgia che ormai conta secoli di storia. È il caso dei “giovedì di Santa Rita”, una particolare devozione nata quasi trecento anni fa e mai interrotta: per i 15 giovedì antecedenti la festa del 22 maggio si svolgono in diverse ore della giornata incontri di fede in preparazione della festa.

Una straordinaria intensità devozionale, infine, si compie oggi presso il moderno santuario di San Giovanni Rotondo, centro del culto di San Pio da Pietrelcina che visse nell’omonimo borgo per quattro decenni e del quale si custodiscono le memorie più importanti. Il flusso dei pellegrini, che raggiunge cifre di sei/sette milioni l’anno, ha determinato la costruzione di un’imponente serie di costruzioni per i fedeli, culminate nell’edificazione di una nuova chiesa commissionata dall’Ordine dei Frati Minori Cappuccini della provincia di Foggia alla Renzo Piano Bulding Workshop. La fabbrica religiosa, iniziata nel 1994 e consacrata il primo luglio 2004 con la dedicazione a “San Pio da Pietrelcina” (dinanzi ad oltre trentamila persone), ha determinato la necessità di scavare 70.000 metri cubi di roccia; si sviluppa su una superficie complessiva di circa 9.200 mq. con una capacità di 7.000 posti a sedere, ciò nondimeno nelle grandi occasioni il grande sagrato permette a 30.000 fedeli di poter assistere alle cerimonie religiose. Il santuario, unico nel suo genere, ha la forma della conchiglia; i suoi diciassette arditi e possenti archi, disposti a raggiera, realizzati con blocchi di pietra garganica, costituiscono la struttura portante della struttura secondaria in legno e acciaio che sorregge la volta, e convergono tutti nel punto dov’è l’altare. Nel pilastro centrale è stata collocata l’urna contenente i resti di Padre Pio, traslati dalla cripta della chiesa di Santa Maria delle Grazie il 19 aprile 2010. Eppure, la costruzione ha raccolto anche molte critiche, poiché la grandiosa architettura sembra priva di pregio artistico; lo stile (per alcuni adatto più ad uno stadio che ad un luogo di culto) ha deluso poi chi era propenso per una forma più classica dell’edificio. Accese discussioni ha meritato pure la realizzazione della cripta del santo in oro massiccio, con l’inserimento di 2.000 metri quadrati di mosaici, grazie al contributo ventennale dei milioni di devoti al padre di Pietrelcina; l’edificio è stato inaugurato da papa Benedetto XVI.

Fonti e Bibl. essenziale

Arte e Architettura nel Santuario di Cascia (Pg): opere, documenti e testimonianze; primo centenario della canonizzazione di S. Rita 1900-2000, Centro per l’Arte, Roma 2000; Basilica San Nicola a Tolentino: guida al santuario, Basilica San Nicola (Pollenza Tip. S. Giuseppe), Tolentino 2008; S. Boesch Gajano e L. Scaraffia (a cura di), Luoghi sacri e spazi della santità, Rosenberg e Sellier Editori, Torino 1990; P. Caggiano – M. Rak – A. Turchini, La madre bella, Pontificio Santuario di Pompei, Pompei 1990; D.L. Carmichael, J. Hubert, B. Reeve, A. Schanche, Luoghi di culto, culto dei luoghi. Sopravvivenza e funzioni dei siti sacri nel mondo, ECIG, Genova 1996; O. Condorelli, Clerici peregrini: aspetti giuridici della mobilità clericale nei secoli XII-XIV, Il Cigno-Galileo Galilei edizioni, Roma 1995; Donne in viaggio: viaggio religioso, politico, metaforico, a cura di M.L. Silvestre – A. Valerio, GLF editori Laterza, Roma 1999; E. Dupré Theseider, Loreto e il problema della città santuario, Sonciniana, Fano 1959; F. Grimaldi, Devozione e committenza nelle Marche: la Madonna di Loreto, Delegazione pontificia per il Santuario della Santa casa di Loreto, Loreto 1997; Le Basiliche rinate: San Francesco ad Assisi, San Pietro a Roma, De Agostini-Rizzoli periodici, Milano 1999; Il grande cammino: itinerari e luoghi dei pellegrini nel Medio Evo e nel nostro tempo, a cura di R. Bove, I.S.U. Università Cattolica, Milano 2000; G. Palumbo, Giubileo giubilei: pellegrini e pellegrine, riti, santi, immagini per una storia dei sacri itinerari, RAI-ERI, Roma 1999; G. Scarvaglieri, Pellegrinaggio ed esperienza religiosa: ricerca socio-religiosa sul Santuario Santa Maria delle Grazie in San Giovanni Rotondo, Padre Pio da Pietrelcina, San Giovanni Rotondo 1987; Scotto D. (a cura di), Del visibile credere. Pellegrinaggi, santuari, miracoli, reliquie, Olschki, Firenze 2011; L. Sganzini – S. Valzania, La via maestra: attraverso le Alpi sulle orme dei pellegrini, Casadei Libri, Padova 2009; M. Tosti, Santuari cristiani d’Italia. Committenze e fruizione tra Medioevo ed Età Moderna. Atti del convegno di Isola Polvese (Perugia, 11-13 settembre 2001), Roma 2003.

Immagini:

1) Siracusa, Santuario Madonna delle Lacrime; 2) Trieste, Santuario Nazionale a Maria Madre e Regina; 3) Tindari (Me), Decorazioni della cupola del santuario della Madonna; 4) Cascia,  Abside del santuario di Santa Rita.

Sitografia:

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commissions/pcchc/index_it.htm (sito della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa); http://www.chiesacattolica.it/beniculturali/ufficio/00006065_Finalita_e_struttura.html (sito dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana); http://www.santuario.it/ (sito del Pontificio Santuario della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei, con notizie storiche generali); http://www.santuari.it/ (sito dedicato ai santuari d’Italia).


LEMMARIO




Satira - vol. I


Autore: Paolo Poli

La satira è un genere letterario che, servendosi del paradosso e della giustapposizione umoristica, tende a criticare, mettendo in ridicolo, un gruppo sociale (o una singola persona) sulla base dell’incoerenza tra la sua condotta effettiva e l’ideale che si propone di perseguire. Da un punto di vista etimologico il termine deriva dal latino satura lanx, piatto ricolmo (satur) di cibo di vario genere che nell’antichità veniva dato in offerta a Cerere e Bacco: proprio per la particolare eterogeneità dei suoi contenuti il termine si rivela appropriato per gli autori che vanno man mano delineando questo genere letterario. La satira si delinea sempre più a partire da autori classici latini quali Varrone, Orazio, Persio, Giovenale, Marziale, Seneca e Petronio [Fig. 1]. La satira può avere varie forme di rappresentazione: dal poema vero e proprio al breve componimento, dall’aforisma alla riproduzione grafica. Inoltre, elementi satirici possono essere presenti in racconti, romanzi, opere teatrali e immagini che non presentano caratteristiche esclusivamente satiriche.

Fig. 1 – T. COUTURE, I romani durante la decadenza dell’impero, 1847, Museo d’Orsay, Parigi. L’illustrazione mette in evidenza i vizi degli antichi romani, riassunti nella decadenza generale dei costumi: questa, secondo l’accusa già lanciata dagli scrittori satirici, fu la causa della caduta dell’impero.

Nel campo specifico della storia della chiesa si possono ritrovare due livelli di satira: il primo, indubbiamente minoritario, che ha come autori uomini di chiesa che vogliono difendere i principi e i diritti della propria istituzione denigrando gli avversari anche attraverso questo mezzo; il secondo, quello più diffuso, che, al contrario, fa degli uomini di chiesa e dei loro comportamenti l’oggetto del proprio scherno.

Dal Tardo-Antico all’Alto Medioevo

La cristianizzazione dell’Europa, e quindi anche dell’Italia, fu un processo graduale e diversificato a seconda delle situazioni: vi furono, pertanto, sacche di resistenza al cristianesimo che persistettero per secoli in seno alla cristianità. Questo fatto si realizzava specialmente nel caso delle conversioni di massa; è il caso, piuttosto frequente, di nuovi popoli che si affacciavano sulla scena europea e aderivano alla nuova religione in seguito all’attività evangelizzatrice di un missionario (o di un gruppo di missionari) che puntava alla conversione del capo per ottenere quella di tutto il clan.

Pertanto, l’adesione di larghe porzioni della popolazione al cristianesimo era sancita, in questi casi, dal battesimo e da un’istruzione dottrinale più o meno sommaria. Questo fenomeno determinava la permanenza di tradizioni e usanze pagane quando non, addirittura, di vere e proprie contestazioni alla nuova religione attraverso attacchi fisici e verbali al clero e ai fedeli laici. Soprattutto nelle campagne, ampie fasce della popolazione restavano legate al culto della terra o a quello di determinati alberi e fonti [FIG. 2]. Da un punto di vista letterario, queste forme di contrasto al cristianesimo non arrivavano mai ad una forma espressiva esplicita; in questo caso si ha notizia di ciò in maniera indiretta, quasi in controluce, attraverso le stesse agiografie dei santi o i racconti delle loro gesta o del culto tributato ad essi. Queste testimonianze, infatti, riportano sovente episodi in cui, assieme alle gesta del santo evangelizzatore, ai suoi miracoli, alle sue reliquie e alle celebrazioni a lui connesse, emergono in chiaroscuro personaggi che rifiutano di credere alle reliquie, di rinunciare al proprio lavoro nel giorno della festa del santo, di prestar fede all’autenticità dei suoi miracoli e lo irridono, schernendolo in maniera più o meno velata; oggetto di irrisione è, inoltre, la creduloneria della gente verso tali fenomeni. Pur non ritrovandosi, in questo periodo, un genere letterario specifico o vicino alla satira, tuttavia è utile tenere presente questo milieu paganeggiante o sincretista che accompagna in maniera alternativa il processo dell’instaurazione del cristianesimo in Europa.FIG. 2 – GIOVANNI D’ALEMAGNA, Sant’Apollonia distrugge un idolo pagano, 1442-1445 circa, National Gallery of Art, Washington. L’immagine vuole rappresentare la fase dell’antichità e della tardo – antichità in cui il cristianesimo si impose al mondo pagano anche attraverso atti di forza. L’episodio raffigurato in quest’opera riguarda una martire del III secolo; tuttavia, è noto che anche in Europa i missionari (tra cui ricordiamo in particolare San Martino di Tours) non esitarono ad utilizzare metodi radicali nell’estinzione del paganesimo: ciò comportò nondimeno la prosecuzione di una certa resistenza al cristianesimo. Questa arrivò a manifestazioni di dissenso: talune nascoste (riti pagani), talaltre meno (organizzazione di sette o gruppi para-ecclesiali, perseguiti poi dalla chiesa come eretici).

Tra Basso Medioevo e Umanesimo

Prima di scendere nel concreto occorre precisare, alla luce dell’universalismo medievale, che fino all’epoca moderna è difficile parlare di un pensiero o di una cultura nazionale (come nel caso dell’Italia): conviene, pertanto, inquadrare il contesto europeo per cogliere nello specifico la sensibilità italiana. Dall’XI secolo la chiesa si strutturò sempre più gerarchicamente e indipendentemente rispetto all’impero grazie a  quei  passaggi  storici  generalmente  noti  come “riforma gregoriana” e “lotta per le investiture”. In Europa, con l’assestamento e la conversione degli ultimi popoli provenienti da nord-est quali i normanni e gli ungari, si instaurò sempre più un regime di christianitas che segnò in maniera decisiva tutti gli aspetti della vita sociale del tempo. In questo clima di rinnovamento e di fervore nacquero, a partire dall’XI secolo e a non molti decenni di distanza tra loro, grandi movimenti spirituali, filosofici, teologici e artistici: i nuovi ordini monastici (tra i più potenti ricordiamo i certosini e cistercensi, nonché il già attivo ordine cluniacense in seno alla grande famiglia benedettina), i grandi ordini mendicanti, le universitates studiorum, il sistema di pensiero della Scolastica, gli originali stili architettonici quali il romanico e il gotico. Non mancarono in questo frangente storico le contestazioni, anche radicali, a tutto ciò: si trattava di eretici, catari, albigesi e valdesi.

Tuttavia, anche in seno alla società cristiana sorsero movimenti di contestazione che, pur rimanendo nell’alveo della piena ecclesialità, si fecero interpreti di un sentimento diffuso, ovvero lo sdegno verso un clero corrotto e avvertito come inadeguato alla propria missione: trovandosi in una posizione socialmente e culturalmente egemonica, il clero visse spesso la tentazione di una condotta di vita rilassata, tendente più alla conservazione dei propri privilegi che non alla realizzazione della propria missione ecclesiale. In genere, come già accennato, per tutto il Medioevo la satira fu un genere letterario assai diffuso e presente in maniera più o meno esplicita dal nord al sud dell’Europa; per quanto riguarda l’Italia, che di seguito esamineremo approfonditamente, occorre tenere presente come questo genere fosse ben presente in maniera più o meno esplicita negli autori che rappresentano il vertice della cultura medievale italiana e che al tempo stesso anticipano già le novità del Rinascimento, quali Dante e Petrarca: nei loro scritti il genere letterario satirico è sempre molto diffuso. Per quanto riguarda nello specifico il Basso Medioevo, è possibile riscontrare una suddivisione del genere letterario satirico in due strati. Il primo è quello che vede la contrapposizione tra le diverse famiglie religiose che rivendicano, l’una a dispetto dell’altra, l’autenticità della propria opera di riforma. Il secondo strato di satira è quello che si registra tra quegli scrittori (quasi sempre laici) che irridono le contraddizioni tra la predicazione e lo stile di vita degli uomini di chiesa, talvolta al fine di sollecitarne la correzione, talvolta per irriderli. Alcuni esempi del primo filone, quello della tensione fra ordini religiosi (e tra questi e il clero secolare) possono essere riscontrati nella predicazione e negli scritti, talora a tratti veementi, di San Pier Damiani (che scrisse il Liber Gomorrhianus) e San Bernardo di Chiaravalle nonché nelle omelie di Sant’Antonio di Padova, che stigmatizza con forza l’attaccamento del clero ai beni mondani. Un altro francescano, Gilberto di Tournay, compose la Collectio de scandalis ecclesiae, proposta al Concilio di Lione del 1274: essa passa in rassegna una serie di problematiche connesse alla decadenza morale e disciplinare della vita religiosa del suo tempo. Se oltralpe durante il Basso Medioevo si sviluppa un vero e proprio genere letterario satirico esplicito e dai toni sferzanti o grotteschi contro le incoerenze del clero in genere – basti citare poemi o scritti quali l’Ynsegrimus, la Metamorphosis Goliae, il Discipulis Goliae de grisis Monachis, sino al De nugis curialium di Walter Map e al Roman de Renart sino ai Carmina Burana [FIG. 3] – in Italia tale genere sarà relativamente moderato e spesso localizzato nella predicazione dei religiosi, che avevano come scopo quello di voler scuotere l’uditorio. Tale genere di critica certamente è riscontrabile nei già citati Pier Damiani e Antonio di Padova ed arriva fino a San Bernardino da Siena. È bene precisare che in questi autori ecclesiastici non si può parlare di satira vera e propria in quanto nei loro sermoni e nelle loro opere mancava, di fatto, l’intento di suscitare il riso nei propri uditori. Tuttavia, è bene che siano ricordati in questa sede poiché i toni dei loro discorsi erano forti, ovvero ricchi di pathos e di verve, e l’intento di condannare ogni tipo di abuso da parte del clero era risoluto.

FIG. 3 Renart la volpe, prima metà del XV secolo, Rettoria della Chiesa della Santa Croce, Byfield, Northamptonshire. Tipico esempio di satira bassomedievale del Nord Europa, il Roman de Renart, cui fa riferimento quest’opera, racconta un mondo alla rovescia dove i protagonisti sono animali che, rivestendo diversi ruoli umani, irridono le varie classi della società del tempo.

Il secondo filone satirico, oltre ai testi di satira già accennati per il nord Europa, ha bisogno di essere contestualizzato all’interno del mutamento di orizzonte socio-religioso verificatosi nella penisola nel corso del XIV secolo. Tale processo ha i propri albori nella riscoperta dell’umanità di Cristo (dovuta ai pellegrinaggi e alle crociate in Terra Santa), nella ripresa della predicazione e della pratica religiosa ad opera di francescani e domenicani (per svilupparsi ulteriormente con la devotio moderna proveniente da oltralpe). Questo relativo antropocentrismo, sempre e comunque religioso almeno ai suoi inizi, innescò, unitamente alla scoperta degli autori classici dell’antichità, lo sviluppo di quel movimento culturale che sfocerà nell’Umanesimo. Ciò comportò un cambiamento anche per la letteratura satirica: si passa, come già accennato, da una critica “costruttiva” che, per quanto forte, era sempre finalizzata ad emendare le incoerenze della classe clericale, ad un’altra più ilare, disincantata e atta a suscitare il riso del lettore. Questa tendenza venne intrapresa e sviluppata in Italia da un vero e proprio campione della satira: Giovanni Boccaccio. Questi, con il suo Decameron, porta alla ribalta un originale genere letterario: quello della novellistica [Fig. 4]. Egli opera una vera svolta nella storia della satira: da un punto di vista letterario, le novelle sono semplici storie inventate ma che, al tempo stesso, mantengono sempre un fondo di verosimiglianza con la realtà del tempo; da un punto di vista contenutistico vengono stigmatizzati con sagacia e ironia (non senza arrivare a sfiorare il tono grottesco) i principali difetti del clero e dei fedeli dell’epoca (specie l’avarizia, la lussuria e la creduloneria). Infine, l’obiettivo delle novelle è quello di ridicolizzare quella credenza religiosa che è vicina alla superstizione; egli personalmente non ha niente contro la dottrina e la gerarchia cattolica. L’autore toscano intende farsi portatore di un nuovo modello di vita, fondamentalmente razionale e borghese, che si lascia alle spalle la creduloneria medievale.

FIG. 4 – L. SABATELLI (1772-1850), La peste di Firenze nel 1348, incisione nell’edizione del Decameron da lui data alle stampe. Per Boccaccio la morte e la desolazione, rappresentate come conseguenze della peste, erano in realtà mali profondi della società del suo tempo, diffusi a tutti i livelli: la decadenza esteriore è quasi manifestazione della decadenza morale, interiore.

Sulla stessa linea del Boccaccio si collocano Franco Sacchetti (Trecentonovelle), Giovanni Sercambi (Novelle), Gentile Sermini (Novelle) e Masuccio Salernitano (Novellino). Durante il XV secolo, nel pieno sviluppo dell’Umanesimo, si trovano scritti critici e pungenti non più solamente contro l’ipocrisia del clero (come ad esempio il Contra Hypocritas di Poggio Bracciolini), ma anche, quale critica ben più appropriata al nuovo contesto rinascimentale, contro l’ignoranza e la pressappocaggine dei contenuti nella predicazione del clero: in quest’ambito troviamo Coluccio Salutati (De seculo et religione) e Andrea Alciati (Contra vitam monasticam ad Bernardum Mattium epistola).

I fermenti del XVI secolo, la Riforma e la Controriforma

Con il XVI secolo cambia radicalmente il contesto spirituale ed ecclesiale in Europa: si passa dall’unità della christianitas alla frammentazione confessionale ed, infine, alle guerre di religione. In ambito culturale-letterario avviene un decisivo mutamento da una letteratura critica contro le inadempienze del clero (ma al tempo stesso animata da una morale almeno idealmente autentica e ancora fiduciosa in un possibile cambiamento) ad una letteratura che lascia trasparire tutto il disincanto e l’amarezza per una riforma mancata della chiesa. Già i germi di questa svolta sono rintracciabili in Italia con i pungenti scritti di Lorenzo Valla, soprattutto nella critica verso i religiosi (che sarà un vero cavallo di battaglia della Riforma) del De professione religiosorum. Oltralpe ci penserà Erasmo a denunciare in maniera originale i rischi in cui potevano cadere i religiosi del tempo nel celebre Encomium moriae.

Con il consumarsi dello scisma luterano in Italia la letteratura satirica si sviluppò in una duplice direzione. Da una parte si trova quella del mondo protestante (oltralpe) e della cultura popolare (soprattutto a Roma) che insiste sulla condanna dei vizi degli ecclesiastici e della creduloneria del popolo [Figg. 5 e 6]; in questo contesto fa la sua apparizione nell’Urbe l’originale stile delle Pasquinate: queste rappresentavano una modalità di espressione libera e pubblica ed erano indirizzate particolarmente contro la gerarchia ecclesiastica e il papato. Dall’altra parte si sviluppò sempre più un movimento di difesa della dottrina cattolica tradizionale anche attraverso scritti e raffigurazioni dai toni decisamente anti-luterani [Fig. 7].

FIG. 5 – LUCAS CRANACH IL GIOVANE, La vera religione di Cristo e la falsa dottrina dell’Anticristo, 1546. Dittico molto eloquente che raffigura, nella metà di sinistra, la dottrina protestante che si basa sui due soli sacramenti del battesimo e dell’eucaristia mentre, nella metà di destra, la dottrina cattolica con un grande disordine dove, tra le altre cose, le indulgenze vengono vendute a caro prezzo e il frate che predica è consigliato dal diavolo.

FIG. 6 – LUCAS CRANACH IL VECCHIO, Il papa asino a Roma, acquaforte, Wittenberg, 1523. L’illustrazione riprende una figura mostruosa già nota in Roma alla fine del ‘400 che rappresenta il papa in sembianze animalesche; sullo sfondo vi sono due simboli dell’oppressione papale: la fortezza di Castel Sant’Angelo e le carceri di Tor di Nona.

FIG. 7 Lutero compie il patto con il demonio, acquaforte.  La Riforma è rappresentata satiricamente come il patto che Lutero stringe con il demonio sulla stessa Bibbia.

Riguardo al primo filone sono da segnalare alcuni autori principali, tra cui Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca: questi adottò lo stile e fece propri gli argomenti di Boccaccio, soprattutto nella collezione di novelle Le Cene del 1549. Altro autore attivo a tutto tondo in Italia nella prima metà del XVI secolo fu Pietro Aretino: il suo stile satirico, così mordace e pungente, lo ha fatto ritenere addirittura l’inventore delle Pasquinate. Egli, piuttosto, trovò questo movimento già avviato, lo adottò e lo portò a sviluppi notevoli, specie nel suo testo Pasquinate del Conclave. Il secolo XVI secolo fu caratterizzato in Italia da un fervore letterario certamente stimolato dai grandi sconvolgimenti religiosi, ecclesiali e politici di cui la penisola fu teatro: in questo contesto si stagliano le maggiori figure letterarie dell’epoca quali Cesare Caporali e Francesco Berni, oltre al già citato Aretino. Questi rispecchiarono nei loro componimenti l’inquietudine di quel tempo e, anche se non ebbero direttamente a che fare con la satira anti-ecclesiastica, sicuramente alimentarono quel clima di insofferenza, di sfida e di critica aperta verso ogni autorità costituita.

Dal XVII secolo all’Unità Nazionale

Tra Sei e Settecento in ambito italiano il tenore della satira andò di pari passo con il mutare del contesto socio-politico: esso era caratterizzato da divisione e continue lotte intestine nella penisola tra piccoli staterelli che spesso avevano alle spalle le potenze europee. La faziosità, la cortigianeria, il carrierismo e la corruzione era la regola della classe dirigente di allora. In questa situazione la satira ampliò il raggio della propria attenzione dall’ambito religioso, squisito appannaggio di una società dominata dalle gerarchie ecclesiastiche, a quello civile, politico e delle arti. Pertanto, ad essere presa di mira non fu soltanto la doppia morale dei religiosi incoerenti ma anche la vanità dei nobili, l’incapacità dei governanti, la spregiudicatezza dei mercanti, la falsità dei cortigiani, i capricci delle dame e la superbia degli artisti. Questi grandi temi si trovano, infatti, ove più ove meno, negli autori di satire del tempo, tra cui vanno ricordati senz’altro Salvatore Rosa, Benedetto Menzini e Lodovico Adimari con le rispettive Satire. Nel corso del XVIII secolo tale genere letterario si sviluppò sempre più e si specificò come “Satira del costume”: Il giorno di Giuseppe Parini e le potenti Satire di Vittorio Alfieri fecero scuola in tal senso.

Nel contesto europeo, dopo le grandi guerre di religione e a partire dal nuovo movimento illuminista, soprattutto in Francia, gli autori satirici (tra tutti basti ricordare Moliere e Voltaire) passarono dal contestare la chiesa in virtù della sua mancata coerenza con i propri ideali al mettere in dubbio la stessa natura della chiesa e, di conseguenza, il suo ruolo nella società: in un contesto razionalista la chiesa veniva vista sempre più come una forza conservatrice contraria alle istanze della modernità [FIG. 8].

FIG. 8 – Un’illustrazione satirica ottocentesca raffigura un chierico che vuole fermare il treno con le sue forze; il titolo è eloquente: il “progresso” è rappresentato dal treno guidato da una figura femminile, mentre il “regresso” è personificato dal prete stesso.

Infine, nel corso del XIX secolo in Italia andava sempre più crescendo, soprattutto tra le classi colte e istruite, un sentimento nazionalista unitario: in esso, accanto alla corrente romantica, ve n’era un’altra anti-clericale o, se non altro, anti-papale [FIG. 9]. In quest’ambito vanno ricordati i popolari Sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli nella Roma del papa re, l’aspro componimento Il papato di Prete Pero di Giuseppe Giusti e i Giambi ed Epodi di Giosuè Carducci.

FIG. 9 – Tale illustrazione raffigura polemicamente la presa di Roma da parte del Regno d’Italia: i chierici rappresenterebbero le nuove “oche” che fuggono dal Campidoglio.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO