Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
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Satire: temi, espressioni, condanne - vol. I


Autore: Lentini Giuseppe«Castigat ridendo mores». Così il letterato francese Jean de Santeuil (1630-1697) si racconta che apostrofò un busto di Arlecchino destinato a decorare il palcoscenico della Comedie Italienne di Parigi. Queste parole compendiano ciò che in epoca moderna si intende per satira: correggere i costumi attraverso lo scherzo.

Varie sono le sfaccettature della satira; essa ha aspetti comuni con la comicità, l’ironia, il sarcasmo, la parodia e l’umorismo, ma si può affermare che differisce da queste, giacché lo scopo non è l’ilarità, bensì la correzione dei costumi.

Per alcuni autori la satira è espressione multiforme di uno stato, di un atteggiamento e di un’attività dello spirito, che può variare a seconda dei tempi, degli individui, delle condizioni storiche, sociali, politiche e morali. L’espressione della satira va dall’invettiva violenta allo scherno amaro, dall’ironia al sarcasmo, dal lamento all’allegra caricatura. Essa nasce da un sentimento psicologico che infiamma l’uomo di fronte a un atteggiamento moralmente sbagliato, a un’offesa, e insieme ad esso all’istinto che porta all’uomo a ridire, a commentare e a deridere i vizi e le debolezze di altri uomini (V. Cian)

Per altri autori la satira è l’esame di coscienza di un’intera società, un sale che impedisce la corruzione e, a volte, è la sola libera espressione che si possa opporre al vizio che trionfa (C. Cattaneo).

Talvolta la satira viene confusa con la comicità, poiché ambedue spesso suscitano il riso, anche se non sempre la satira è legata ad esso (ad es. in Jacopone da Todi). Nel comico il riso è fine a se stesso, mentre nella satira vi è sempre un fine più serio: riprendere un costume vizioso.

Possiamo distinguere la satira per la materia di cui tratta (morale, politica, religiosa, femminista, nazionale, ecc.) o per la forma in cui viene espressa (lirica, dialogica, narrativa, poetica, prosastica, drammaturgica, ecc.).

Il genere satirico e la letteratura che ne scaturisce sono stati molto spesso trascurati, soprattutto circa la lettura della storia politica (E. Ruth), ma anche di quella religiosa (Pasquinate, situazione morale del clero e della Chiesa, ecc.).

  1. Origini e sviluppo

La satira greca non fu paragonabile a quella latina. Gli inizi della satira presso i romani furono con Ennio, il quale usò per la prima volta la parola “Satira”, mutuata dal fenicio e forse dal greco σάτυρος. La fortuna di questo genere letterario fu fatta da Lucilio, il quale diede uno spirito nuovo alla satira, intesa come forma d’arte, seguito poi da Orazio, Persio e Giovenale.

Satira e letteratura cristiana. Gli autori cristiani dei primi secoli, sebbene non utilizzino il genere satirico, così come era nato, nelle loro opere utilizzarono delle espressioni satiriche per canzonare i propri rivali (Agostino nel Carme contro i donatisti del 393, Commodiano contro i marcioniti nel 394, Prudenzio contro il paganesimo persistente nel 402; Paolino da Nola nel V sec. in uno dei suoi poemi si avvale della satira contro i monaci vaganti: «Qualia vagari per mare et terras solent / avara mendicabula, / qui dejerando, monachos se vel naufragos, / nomen casumque venditant», oppure il poliedrico Girolamo che, qua e là nelle sue opere, non disdegna di apostrofare chierici e delatori con accenti tra il satirico e il ridicolo, ad esempio usa l’appellativo Grunnius per riferirsi a Rufino, ormai suo nemico, In Rufinum 1, 17, oppure, additando i chierici vanitosi, scrive: «Pudet dicere reliqua, ne videar potius invehi, quam monere. Sunt alii, de mei ordinis hominibus loquor, qui ideo Presbyteratum et Diaconatum ambiunt, ut mulieres licentius videant. Omnis his cura de vestibus, si bene oleant, si pes, laxa pelle, non folleat. Crines calamistri vestigio rotantur; digiti de annulis radiant: et ne plantas humidior via aspergat, vix imprimunt summa vestigia. Tales cum videris, sponsos magis aestimato quam Clericos. Quidam in hoc omne studium vitamque posuerunt, ut matronarum nomina, domos, moresque cognoscant», Ep. 22). Anche i pagani, però, in questo frangente continuarono a produrre delle opere con spirito satirico nei confronti dei cristiani (ad es. Claudio Rutilio Namaziano nel suo Itinerarium ci ha lasciato uno dei più antichi esempi di satira antimonastica).

Medioevo. I satirici latini nel medioevo ebbero molta fortuna, ne sono testimonianza l’infinità dei manoscritti trascritti dai chierici e dai monaci nei conventi, i commenti fatti a queste opere e le loro citazioni negli scritti degli autori medievali (Giovanni di Salisbury conosceva il Satiricon di Petronio). A ciò e agli avvenimenti e scontri di questo periodo si deve la copiosità delle opere satiriche latine medievali. Molti di questi scritti, dato il loro carattere soventemente polemico, sono anonimi, mentre gran parte della letteratura popolare è andata perduta. I divulgatori di queste opere satiriche erano i giullari e i clerici vagantes.

Il medioevo predilesse la satira allegorica fatta di storie di animali, talvolta anche figurate; la satira morale, soprattutto nei confronti del clero; la satira politica e religiosa con Guittone d’Arezzo, Jacopone da Todi, Boccaccio, Petrarca e Dante Alighieri. Nella letteratura medievale la satira morale seguì spesso i modelli classici di Orazio, Persio e Giovenale.

Dal seno stesso della cristianità, nel medioevo, iniziarono a levarsi delle voci di rimprovero e di scherno contro la decadenza di Roma, l’avarizia del papato e il traffico di reliquie, ad es. l’ignoto autore, probabilmente napoletano, dei Versus Romae del IX sec. Così anche il contemporaneo Giovanni Imonide nella Cena Cypriani (876-877), verso la fine del poema, abbandona l’ilarità per sferzare tre personaggi contemporanei, tra i quali papa Formoso. Tra il IX e il X sec. troviamo Eugenio Vulgario che si scaglia contro le guerre e le armi, Liutprando, vescovo di Cremona (+972) nella sua opera Antapodosis ci consegna un importante esempio di satira menippea medievale, scagliandosi contro Marozia.

In questo periodo, date le vicissitudini e gli scontri di carattere politico e religioso, abbondano i componimenti satirici contro sovrani, imperatori, chierici e pontefici, così molte questioni religiose finivano per diventare politiche (ad es. tra l’844 e l’855 tra la chiesa di Venezia e quella di Aquileia vi fu una contestazione di diritti circa l’isola di Grado, così un chierico veneziano, usando un ampia gamma di ingiurie medievali, scrisse il Carmen de Aquilegia nunquam restauranda, con il quale scagliava un’invettiva contro il vescovo di Aquileia).

  1. Temi ed espressioni della satira

Dalla metà dell’XI sec. la produzione letteraria satirica andò man mano accrescendosi, così che «i ruscelli che ne sgorgarono dapprima, divennero torrenti» (V. Cian), anche se in Italia, rispetto alla Francia, troviamo opere di questa letteratura in numero inferiore e legate a temi transitori o d’occasione.

a) Correnti satiriche d’occasione

Satira e riforma ecclesiastica. In Italia Pier Damiani (1006-1072) scrisse molte opere in prosa e in versi intessute di satire e scherni contro la simonia, i vizi, la corruzione, il concubinato e la sodomia degli ecclesiastici. Goffredo Malaterra nella sua Historia Sicula si scagliò contro la città di Roma, definendola sede di ogni malizia, lusso e avarizia, poiché aveva abbandonato la guida di Gregorio VII per seguire l’antipapa Clemente II (1084). Nel 1099 un ignoto poeta francese nella Altercatio inter Urbanum et Clementem e il canonico di Toledo nel Tractatus Garsiae Tholetani canonici de Albino et Rufino dipingono la curia romana come un «gazophilacium sanctae cupiditatis».

Nel XII sec. Pietro Diacono (1107-1159), discusso monaco cassinate, nel Rhytmus de novissimis temporibus dipinge i sacerdoti simoniaci e gozzovigliatori come nemici dei poveri e devoti dei potenti, anche se quest’autore va interpretato con cautela.

Satira e lotta delle investiture. Un’altra occasione per la stesura di opere dal linguaggio satirico fu data dalla lotta delle investiture. Così Guido, vescovo di Ferrara, nel De schismate (1086) lanciava accuse contro Enrico IV in una vera e propria requisitoria. Con l’imperatore le invettive erano indirizzate anche verso i suoi fautori, sorte che toccò all’arcivescovo di Ravenna Guiberto da parte di Donizone nella sua Vita Mathildis Perditionis filius, homullus antichristi, membrum Sathanae, non dominum, sed demonium») e del vescovo di Lucca Rangerio nel poema De anulo et baculo Perfidae dux, ecclesiae vastator apertus»). Successivamente (1111) un chierico romano scrisse un ritmo sulla prigionia di papa Pasquale II contro Enrico V e il popolo germanico (il primo rappresentato come uno scorpione, i secondi apostrofati come sacrileghi e uomini diabolici).

Dall’altra parte i fautori dell’imperatore rispondevano alle accuse a suon di opere intessute di immagini satiriche. Uno di questi fu Benzone, vescovo di Alba che scrisse un panegirico (1085-1086), in prosa e in versi, per Enrico IV, sbeffeggiando papa Alessandro (Asinander, asinus hereticus), Ildebrando di Soana (Prandellus, Folleprand manicheus, diabolus cucullatus) e i coniugi Matilde e Goffredo, marchesi di Toscana, (Cornefredus, pestilens Grugnefredus), mentre per incitare i popoli germanici ad una spedizione contro Roma mette sulla loro bocca una irriverente litania (Ab omni bono, libera nos Domine; ab arce imperii, libera nos Domine; ab Apulia et Calabria, libera nos Domine; a Benevento et Capua, libera nos Domine; a Salerno et Maltha, libera nos Domine; a Neapoli et Gerenthia, libera nos Domine; a felice Sicilia, libera nos Domine; a Corsica et Sardinia, libera nos Domine).

Altro fautore dell’imperatore, Pietro Crasso, scrisse la Defensio Henrici IV regis, la quale più che una difesa risuonava come una requisitoria invettiva contro Gregorio VII e Matilde di Canossa.

b) Correnti satiriche perenni

Le correnti satiriche, che si sono susseguite lungo il corso dei secoli e che sono rimaste immutate, sono quelle che trattano dei temi più generali, sociali, politici o religiosi. Per questo genere di satira sono una fonte preziosa i sermoni degli oratori sacri, tanto che V. Cian scrive: «Non credo di esagerare affermando che spesso, per la parola che il predicatore medievale lanciava dal pergamo alla folla devota, il tempio sembra diventare agli occhi nostri non un’asilo di fede, di preghiera, di raccoglimento pietoso, di alta e umana eloquenza, si invece una palestra tumultuosa di satira acerba e di malignità, non sempre rivolte a combattere i vizi e gli abusi dei fedeli e della grande milizia chiesastica, a cooperare all’impresa della riforma dei costumi». I predicatori non risparmiavano alcuno, anche se i peggiori richiami erano rivolti nei confronti del clero (ad es. i Sermones ad status di Alano di Lille e Jacopo da Vitry). Così anche illustri personaggi, come il futuro Innocenzo III nella città di Parigi, rimproveravano l’abuso di rappresentare nelle chiese spettacoli profani, oppure il cardinale Oddone di Chateauroux ammoniva che la Chiesa era divenuta un mercato di Cristo ed invocava la riforma pontificia.

Satira sociale. Assume un’importanza singolare la satira sociale nella Divina Commedia. Origine di questa satira si può riscontrare nelle scritture in prosa e in versi di carattere ascetico morale. Solitamente sono chiamate nei codici De contemptu mundi. In uno di questi componimenti un anonimo poeta medievale annuncia la fine del mondo a causa del decadimento morale e addita i pontefici e i pastori come spettatori silenziosi che, non rimproverando, diventano complici di tali delitti, poi prosegue con le varie categorie: i mercanti, gli avari, i falsi profeti e i monaci degeneri, i quali «Daemonum facti sunt socii», concludendo con una preghiera finale riconducente allo scopo ascetico.

Satira antiecclesiastica e anticuriale. La corrente satirica più prolifica e più ricca, sviluppatasi soprattutto in Germania, è quella che prende di mira la chiesa di Roma e i chierici, ma mentre in ambito francese la satira contro gli ecclesiastici e i frati fu prospera e rigogliosa, in Spagna fu molto più scarsa, limitandosi al generico biasimo anche se di carattere personale.

In un primo periodo la satira antiecclesistica difficilmente ebbe un carattere personale (ad es. i famosi epigrammi contro papa Lucio III, una sorta di pasquinata ante litteram), poiché solitamente si limitava a condannare le istituzioni religiose e i loro vizi. Così si additava il clero traviato, la chiesa e la curia romana di peccati di simonia, avarizia, nepotismo, licenziosità, gola e ignoranza. La fantasia medievale, spinta dalla fede, ci ha lasciato epigrammi satirici, parodie e ritmi che tra i tanti rimproveri non disdegnano di rappresentare Cristo stesso armato di satira per flagellare gli indegni (Ritmo Quid ultra tibi facere, vinea mea, potui?), o la vergine Maria che assiste la Chiesa mentre rimprovera i monaci (Matia Flacius Illyricus, Carmina Vetusta, Wittemberg 1548).

La satira anticuriale trova posto anche nella poesia goliardica (Giovanni di Hauteville, Archithrenius; Bernardo de Morlas, De contemptu mundi), mentre la derisione satirica dei mali della Chiesa e della simonia degli ecclesiastici erano talmente diffuse da generare in ogni dove proverbi, carmi, cantilene volte a deridere il clero in tutta la Gallia e l’Italia, rendendo l’ufficio sacerdotale materia di istrioni (Victor IV antip., Bulla Scismaticorum sectas). Questi componimenti satirici, sferzando i vizi e la simonia dei chierici, avevano principalmente uno scopo morale. Altri componimenti, pur non essendo spinti da motivazione religiose, ma spesso politiche, schernisco e deridono i papi, la curia romana, i prelati, i monaci e il basso clero.

La raccolta più conosciuta oggi di questi carmi satirici, grazie all’adattamento musicale del 1937 di Carl Orff (1895- 1982), è i Carmina Burana, che cantano contro la curia romana («Roma noruti curia non est nisi forum; / ibi sunt venalia jura senatorum, / et solvit contraria copia nummorum» Carm. Bur. I, XIX), i sacerdoti («Fures non pastores» Carm. Bur. I, LXIV), i frati («Fratribus perversis» Carm. Bur. II, 175), anche se queste categorie non sono le sole prese in considerazione nella letteratura satirica e goliardica (corti, sovrani, filosofi, politici, nobili, ricchi, donne, abbadesse, ecc.).

Altra espressione satirica rilevante è la parodia sacra, il cui genere è ben rappresentato dalla Apocalypsis Goliae e dalla Confessio Goliae (The latin poems, 1-20; 71-75), grotteschi poemi satirici che «ostentano con vanità puerile tutti i propri ricordi della storia e delle letterature antiche» (V. Cian).

Tra gli autori satirici che prendono di mira gli ecclesiastici e la curia romana abbiamo anche esponenti dello stesso clero e dei religiosi. Esempio rilevante è l’opera di fra Salimbene de Adam (1221-1290), frate minore, seguace di Gioacchino da Fiore. La Chronica di fra Salimbene usa uno spirito satirico attraverso giudizi pungenti, similitudini vivaci, «aneddoti che sono veri bozzetti satirici, ora in certi ritratti che sono gustose caricature di stampo italiano» (V. Cian). In questa cronaca vengono presi di mira gli abusi del clero, la ciarlataneria di alcuni predicatori, la simonia, il nepotismo e l’avarizia di alcuni pontefici, i vescovi, il traffico delle reliquie, il degenerare degli ordini mendicanti, di cui anche lui faceva parte, la corruzione del clero, riportando anche passi della satirica Disputatio membrorum di Filippo di Greve e la famosa Epistula Luciferi ad prelatos.

La satira antiecclesiastica si ritrova anche in opere satiriche politiche, scritte in occasione delle lotte tra Guelfi e Ghibellini (ad es. Alberto di Beham, Dante Alighieri e anonimi autori). Il documento più cospicuo può essere considerato il ritmo Vehementi nimium commotus dolore, attribuito a Pier della Vigna (1190-1249), un sermone-parodia tenuto dall’autore per non risparmiare con la sua satira alcuno, anche se ad una lettura approfondita nelle strofe antiecclesiastiche e antifratesche si nota come sospetta quest’imparzialità.

La satira antiecclesiastica si riscontra anche nel XV secolo nell’enorme produzione satirica nei confronti di papa Alessandro VI, della quale Antonio Cammelli, detto il Pistoia (1436-1502), è l’espressione più viva e schernitrice, non perdendo occasione per dileggiarlo e denunziare gli scandali della sua corte, definendolo «famelico verme iniquo e tristo, / che divora la croce a Jesu Cristo».

Satira profetica. Le profezie, prosperate durante tutto il medioevo (Gioacchino da Fiore, Malachia, ecc.), crearono un terreno propizio in Italia durante il XII-XIII sec. per opere satiriche ispirate ad esse. Questi componimenti, talvolta pseudoepigrafi, furono composti per schierarsi nelle lotte Guelfe e Ghibelline a favore dell’impero o della Chiesa di Roma. Si ebbe una produzione in gran parte caotica, dalla qual Dante Alighieri (1265-1321) seppe trarre la luce della sua profezia, insuperabilmente satirica. Questa produzione andò ampliandosi via via grazie agli avvenimenti storici del XIV sec., perdendo di novità e di forza.

La satira del Savonarola (1452-1498) può essere accomunata al genere profetico, giacché egli nel De ruina Ecclesiae raffigura la curia come una meretrice superba, mentre in altre sue opere e sermoni si abbandona a lamenti amari e pungenti, invettive e requisitorie circa il decadimento dei costumi e soprattutto della Chiesa e del papato.

Satira politica. Nel periodo in cui le lotte tra Guelfi e Ghibellini impazzavano a Firenze, le satire ebbero toni politici coloriti, traghettando così dalla poesia del dolce stil novo (G. Cavalcanti) a una satira a volte personale e pungente (G. Orlandi). Non mancarono però in questo periodo opere anonime contro Bonifacio VIII, scritte probabilmente da qualche vittima risentita dalla politica pontificia. Esempio di questi componimenti è il sonetto-epitaffio contro il pontefice, che pone sulla bocca del papa defunto la confessione dei suoi misfatti contro la Francia, Firenze, i Siciliani, ecc. Quest’opera ebbe una grande diffusione, tanto che fu rimaneggiata e arricchita da molti.  Ricordiamo anche la poesia popolare medievale, le ballate politico-satiriche, e i poemetti trecenteschi di Franco Sacchetti (1332-1400) contro Gregorio XI e il clero simoniaco (Dar, per pecunia d’ariento o d’ori, / i benefici ch’ànno tra le mani, / simoneggiando e commettendo errori)

c) Letteratura e satira

Poesia popolare e giullaresca. La poesia popolare del duecento è ricca di detti satirici (ad es. fra Salimbene nella sua opera riporta alcuni detti popolari, come quello contro frate Elia e i minori in genere «Or attorna, frate Elia, / che pres’ a’ la mala via»).

La poesia didattica e popolare riporta tante espressioni dal carattere satirico soprattutto contro le donne, i chierici e i frati. Esempio di questa letteratura sono il Floridus aspectus di Pietro Riga (1140-1209), che inserì una disputa tra Innocenzo II e Ulgerio di Angers, le opere anonime Proverbia quae dicuntur super natura feminarum, contro le donne e le monache, e Della caducità della vita umana, che nella scena dei funerali di Messer Giovanni sbeffeggia i parenti che vogliono un funerale affrettato, mentre il prete si dilunga con la messa, celebrandola solennemente cantata, come se desse cento anni d’indulgenza e si divertisse a dire messa, quasi che con le sue preghiere avesse il potere di risuscitare il morto. Anche le poesie moraleggianti dell’anonimo genovese riportano delle invettive satiriche contro un sacerdote pervicace, contro preti corrotti e indegni che predicavano l’astinenza e nel frattempo si saziavano dei migliori bocconi.

Della poesia popolare e giullaresca medievale ci rimangono pochi e frammentari documenti che attestano lo spirito satirico del popolo italiano, ad es. la storia di frate Sbereta, trasmessaci da un frammento bergamasco, nella quale lo spirito satirico dell’ignoto autore vien espresso nella forma della ballata, tipica del fableau giullaresco contro frati e chierici, oppure una canzonetta di scherno nei confronti di Niccolò III, al quale rimproveravano più di ventidue figli riconosciuti ufficialmente, tanto che con esagerazione popolare si diceva: «Di qua e di là dal Po / tutti figli di Niccolò», oppure su Martino V, il quale, mentre si trovava a Firenze (1420), nella notte sentì sotto le sue finestre una canzonetta satirica (Papa Martino, / signor di Piombino, / conte de Urbino, / non vale un quattrino. / Ah! Ah! Ah! Ah!) cantata da giovani, donne e bambini accompagnati da una chitarra, cosa che suscitò in lui un «capitale odium» verso i fiorentini.

Nello stesso XV secolo vi furono anche dei canti e delle ballate satiriche nei confronti del Savonarola e dei piagnoni, molte andate perdute, ce ne rimane notizia da alcune cronache del tempo che raccontano come a Ferrara venne punito il compositore di una di queste.

Poesia d’arte. La poesia d’arte medievale, soprattutto quella siciliana, è dominata dai temi d’amore, pertanto raramente possono trovarsi accenti di satira. Questi li troviamo in maggior numero contro l’imperatore, un nemico, una donna, gli angioini, ecc. (ad es. Percivalle Doria, Caloga Panzano, Provenzano e Rugieri di Siena).

Guittone d’Arezzo (1235-1294), altro esponente della poesia d’arte, non si sottrasse ad usare la satira contro i vizi ed i viziosi, i chierici lussuriosi e simoniaci (Son. CXXIII-CXXIV).

Jacopone da Todi (1236-1306) colpì principalmente nei suoi componimenti la decadenza degli ordini monastici e mendicanti, a cominciare dal francescanesimo, e le condizioni penose della Chiesa durante i pontificati di Celestino V e Bonifacio VIII. I suoi componimenti non mirano a suscitare il riso, ma a correggere i cattivi costumi, pertanto possono essere annoverati fra i componimenti satirici, giacché in Jacopone la satira è subordinata all’idea etica religiosa. Altri temi satirici di quest’autore sono quelli contro le donne, i falsi religiosi, che predicavano bene e agivano male, e la Chiesa stessa.

Le satire di Folgore da San Gimignano (1270-1332) erano rivolte per lo più contro i costumi e gli ideali cavallereschi, anche se vengono accennati temi contro la Chiesa e i frati («Prete non v’abbia mai, ne monastero. /Lasciate predicare i frati pazzi; / Ch’ hanno troppe bugie e poco vero», Marzo, in Parnaso italiano, Venezia 1819, 196).

Cecco Angiolieri (1260c.-1313), ricordato più per la satira personale contro i familiari e contro Dante Alighieri, non tralascia nelle sue opere l’accenno a preti e frati («ché non mi piace il prestar ad usura / a mo’ de’ preti e de’ ghiotton frati», Son. LXXV, vv 13-14), sottolineando dei primi la fame di denaro, dei secondi la vita beata e spensierata («o veder far misera vit’ a frieri», Son. XC, v 4).

Dante Alighieri. Egli raccoglie tutta la tradizione satirica medievale e la fonde in unità artistica, concedendo al sentimento satirico italiano un’espressione altissima e divenendo interprete dei suoi tempi. La sua satira iniziò già nel periodo giovanile con lo scontro a suon di sonetti satirici con Forese Donati. Aspro e veemente il tono di questo scontro che V. Cian conclude «il leoncello che, ancor giovinetto, aveva mostrato la granfia minacciosa, diventerà il poeta satirico, maturo e potente della Commedia». Se nella Vita Nova e nel De Vulgari Eloquentia la satira dantesca si scaglia contro letterati e politici, nella Monarchia attacca i nemici dell’idea imperiale, i cattivi giuristi, i falsi religiosi, avidi soltanto delle decime dei poveri, i Guelfi che si consideravano figli della Chiesa, ma che erano figli del demonio. Nelle lettere il tema satirico politico si mescola con quello antiecclesiastico del clero perverso dalla cupidigia. Nel Convivio, il cui scopo filosofico-dottrinale mira a difendersi dalle accuse dei concittadini che lo avevano mandato in esilio, non risparmia il suo spirito satirico contro gli avversari del volgare, dell’impero e gli ecclesiastici indegni — la maggior parte secondo lui — che cercavano solo onori e denaro. Ma è nella Divina Commedia, la più «grande profezia satirica in forma di visione», che Dante, con spirito satirico spesso vendicativo, specie nell’Inferno, apostrofa e inserisce i suoi nemici e delatori, compresi ecclesiastici e papi, passando dall’accento satirico, laconico ed epigrafico, quasi impercettibile, all’invettiva e alla maledizione esplicita e tagliente.

Petrarca (1304-1374). Se Petrarca è ricordato maggiormente per l’amore verso Laura, non deve passare in secondo piano il suo spirito satirico, disseminato nelle sue opere polemiche, ma anche in quelle latine. È riscontrabile soprattutto la sua satira antiecclesiastica nel De vita solitaria, dove ritrae con minuzia di particolari la vita del contadino, semplice e serena, del cittadino e del curiale di Avignone, dissipata e vergognosa. Le accuse verso i prelati e i chierici di una vita sregolata e indegna del loro stato diventano occasione di additare il loro modo di vivere come causa della decadenza della fede cattolica, così da consigliare al vescovo di Cavaillon: «Quorum te ante alios testem voco, non dissimulans inter multa, quibus valde me volentem cogis ut te diligam, illud esse non ultimum, quod amore solitudinis et huic coniuncto libertatis studio vicinam tibi nunc et prope contiguam romanam quam vocant curiam fugis, ubi non mediocrem forte hodie sortireris gradum, si quantum solitudo tibi semper angelica, tantum tumultus ille tartareus placuisset». Così anche nel Bucolicorum Carmen (egloghe VI, VII e XII), nelle Epistule sine titulo e nei tre sonetti antiavignonesi non perde occasione di sfoderare il sarcasmo e l’ironia contro la Chiesa e soprattutto la curia romana, a quel tempo stabilitasi ad Avignone.

Boccaccio (1313-1375). La satira boccaccesca, ricordata da molti per il più famoso Decameron, è quella più colorita e sarcastica del medioevo. Nella meno conosciuta opera De genealogia deorum, opera senile di Giovanni Boccaccio, sono contenuti dei ritratti canzonatori di molti personaggi, nemici e detrattori del poeta, tra cui teologi e frati ipocriti. Anche nel suo Commento alla Commedia di Dante Alighieri si lascia andare in commenti, digressioni e chiose satiriche sulle scene e i personaggi descritti. Circa il Decameron le opinioni degli studiosi sono contrastanti, se si tratti di spirito satirico (G. Carducci) o di riso fine a se stesso (F. De Sanctis), sta di fatto però che, sferzando i preti e i frati, in questa sua magnifica opera, altro non fa Boccaccio, facendo riflettere chi legge, che perseguire lo scopo della satira, «castigat ridendo mores», tanto che secoli dopo fu uno dei libri messi all’Indice dal Sant’Uffizio, non tanto per l’immoralità, bensì per la paura della sua condanna satirica (V. Cian).

Umanisti. Tra gli umanisti degni di nota per la satira verso i chierici e i frati vi è Poggio Bracciolini (1380-1459). Egli in varie opere (De avaritia, In hypocritas, Facetiae) rimprovera frati e funzionari della curia con quello spirito pungente e penetrante, tipico della sua satira narrativa, e, riportando episodi e aneddoti della vita reale, ci offre uno dei più coloriti e mordaci scorci della società del suo tempo.

Altro umanista satirico di spicco fu Leon Battista Alberti (1404-1472). Nel suo Pontifex immagina un dialogo tra un vescovo ed un giovane pastore sui doveri di un alto prelato, questo dà occasione all’autore di toccare i tasti nevralgici della critica ai chierici (nepotismo, avidità, ipocrisia, fasti e lascivia). Lo stesso spirito satirico pervade le altre sue opere (Intercoenales, Religio, Nummus, Defunctus, Momus), alternando pagine colme di satirica vivacità a pagine nelle quali l’interesse del lettore si sminuisce per la presenza dell’allegoria e della mitologia.

Giovanni Pontano (1429-1503) invece esprime la sua satira antiecclesiastica e antifratesca nel Charon, dove afferma che la causa principale dei tanti mali che attanagliano il mondo è l’avarizia dei preti e continua inveendo contro i cattivi sacerdoti che diffondono la superstizione, tanto da far affermare ad un saggio toscano: «Deum ubi perspexissem, sacerdotum mendaciis aures occludebam». Questo suo spirito satirico, pittoresco e pieno d’astio, si esprime con aneddoti ricchi di particolari, tanto da sembrare esser mutuati dalla vita reale. Anche nelle altre sue opere il Pontano trova sempre l’occasione per colpire il clero venale, che ha il privilegio di «vendere il cielo e largire l’inferno».

Ariosto (1474-1533). Nell’opera più conosciuta di Ludovico Ariosto, l’Orlando furioso, la satira anticuriale prende le mosse dalla rivisitata allegoria dantesca della lupa, simbolo della cupidigia, di cui la «romana corte» è stata vittima, e come in una caccia tutti le corrono dietro, anche il leone che sul dorso porta la scritta «decimo», chiara allusione al papa Leone X. Scagliandosi invece contro i frati, dipinge la vita spirituale dei conventi e dei monasteri come blanda, a causa di frati oziosi e crapuloni,  che hanno reso quei luoghi pieni di discordia. Ma è nelle Satire che l’Ariosto, con una variegata serie di toni e di temi, esprime il suo pensiero satirico — visione di un uomo vissuto nelle corti di Ferrara e di Roma, tra la fastosa curia e le corti cardinalizie —, delineando i profili di uomini ed episodi realmente accaduti. Così ad esempio la Sat. VI, 65-66, nella quale descrive la delusione provata dopo le grandi speranze riposte nella elezione di Leone X, adombrandola dietro l’allegoria della zucca. Bersagli della sua satira con violenti accenti sono i chierici, dal papa ai semplici preti e frati, ma anche cortigiani, umanisti, camerieri e frequentatori delle anticamere cardinalizie.

Pasquino. Genio della satira antipapale e antiecclesiastica sono gli spesso anonimi componimenti affissi al torso della statua detta Pasquino. Questi motteggi hanno inizio nel 1501, bensì si possono riscontrare pasquinate ante litteram già nell’antica Roma, quando alla statua di Priapo e di altri dei venivano affissi epigrammi satirici, oppure nel medioevo, come già ricordato, quando i detti e i motti che si diffondevano tra il popolo avevano una grande diffusione, tanto da essere inseriti da alcuni cronisti nei propri racconti (ad esempio l’epigramma latino composto contro Lucio III: «Lucius est piscis et rex tyrannus aquarum, / a quo discordat Lucius iste parum», o il motto diffuso alla morte di Bonifacio VIII ed usato per vari pontefici, soprattutto per quelli che scelsero il nome Leone: «Intravit ut vulpes, vixit ut leo, mortuus est ut canis»). Poi nel rinascimento gli epigrammi più violenti, talvolta anche illustrati, furono scagliati contro Sisto IV, questi vennero trovati «in campo flore Romae», oppure affissi sul ponte di Castel Sant’Angelo. In seguito la più grande produzione di pasquinate fu scagliata contro Alessandro VI e poi, ad uno ad uno, contro i suoi successori, fino ad arrivare quasi ai nostri giorni.

Questi componimenti, talvolta in latino, talaltra in volgare, sono chiari esempi di satira occasionale di carattere antiecclesiastico, che condanna, ora con l’aulico poetare umanistico, ora col motteggio canzonatore popolare, i costumi di un papato in decadenza, dei chierici lascivi e di una Chiesa poco o punto edificante, più dedita al lusso e al denaro che alla salvezza delle anime. La voce di Pasquino è, secondo alcuni studiosi, interna al potere stesso, espressione di una minoranza — e non a torto —, poiché il popolo ne era evidentemente escluso, dato il tasso di analfabetizzazione, dunque non poteva certo scrivere componimenti spesso in rima e in latino.

La libertà di parola e di espressione, rilevata da più autori, nella Roma del rinascimento è dimostrata dalla parresia dei compositori delle pasquinate (ad es. l’Aretino) e di coloro che apertamente si scagliavano contro il papa (ad es. Floriano Dolfi nei confronti di Alessandro VI). Così Pasquino e il suo compare Marforio, altra statua posta nelle vicinanze, si esprimevano, canzonando e sbeffeggiando i pontefici di turno, in dialoghi espressivamente satirici, poesie, motteggi, frottole e sonetti, raccolti in manoscritti che ancora si conservano, ogni tanto ripresi e raccolti da qualche studioso in edizioni a stampa.

Nel ’600 i componimenti satirici affissi alla statua di Pasquino saranno innumerevoli, soprattutto in concomitanza con i conclavi e sui quei cardinali e uomini di Chiesa di maggiore spicco e in particolar modo contro gli appartenenti alla Compagnia di Gesù, mal visti dalla società del tempo e parimenti dai motteggi pasquineschi (Se fosse papa il buon Pallavicino / finirebbero per i preti i carnevali, / che tutti i gesuiti cardinali / faria dal generale a fra’ Ruffino / […] Sarebbe una perfetta monarchia / essendo incorporata senza svario / la Santa Sede nella Compagnia. / Spinola, Centurion, Doria, Riario: / bei nomi! in Roma Genova saria, / e tutta l’Italia nostro seminario). Questo genere di componimenti contro Papi, cardinali e gesuiti continueranno maggiormente nei due secoli successivi, con l’avanzare del secolo dei lumi e dei moti rivoluzionari.

XVI sec. Da ricordare anche, nel corso del 1500, grandi personaggi che ci hanno lasciato esempi di satira nei confronti dei chierici, dei prelati, dei frati e dei pontefici. Questi sono il politico e filosofo Nicolò Machiavelli, Anton Lelio, Pietro Aretino, Luigi Alamanni, Giovanni Guidiccioni, Michelangelo Buonarroti, Guido Postumo Silvestri, Jacopo Sannazaro, discepolo del Pontano, Angelo Manzolli della Stellata, con lo pseudonimo di Marcello Palingenio Stellato, Lelio Capilupi, i frati domenicani Giordano Bruno e Tommaso Campanella, i poeti satirico-burleschi Pietro Nelli di Siena, celatosi sotto il nome di Andrea da Bergamo, e Luigi Tansillo di Napoli, e infine l’espressione di poesia da piazza di Olimpo da Sassoferrato e di Nicolò Franco, il quale nei suoi sonetti per il Bembo prende di mira il papa, i cardinali ed il «Ser Concilio Trentino». Nel XVI secolo, dinanzi all’avanzare della produzione satirica, si scagliarono contro di essa la censura ecclesiastica, attraverso l’Index librorum prohibitorum del 1559 sotto papa Paolo IV, e la censura politica dei vari regni.

XVII sec. Sul finire del XVI secolo iniziò la trasformazione della tradizione satirica, dovuta al cambiamento dei tempi e alla censura incontro alla quale andavano gli autori di essa. Si ha una produzione satirica, a detta di alcuni studiosi, vuota di pensiero e di sentimento (F. De Sanctis), fino ad affermare che al seicento manca la satira (A. Momigliano). D’altro canto, invece, altri sostengono la presenza di una modesta produzione letteraria non indegna di attenzione. Espressione di questa satira barocca è Salvatore Rosa (1615-1673), che ci ha lasciato un esempio di acre satira nei confronti di mons. Favoriti ne L’invidia, oppure Giovanni Battista Ricciardi (1623-1686), che ci ha lasciato delle rime di chiaro intento satirico contro l’ipocrisia del sentimento religioso e la simulazione della devozione, tipica del XVII secolo, vissuta in parte anche dal clero (Così caro signor, oggi prevale / l’ipocrisia alla bontà sincera, / è la veggiamo in lucco e ’n piviale). Ma son anche da ricordare Michelangelo Buonarroti il giovane (1568-1646); Benedetto Menzini (1646-1704), che, oltre a scagliarsi contro i bacchettoni, richiama i preti e i frati con quella satira tipica di Pasquino, di cui era grande ammiratore, alla sobrietà, dato che erano dediti al gioco d’azzardo e alla ricerca del vile danaro (O che gente, che razza maledetta! / la bussola passava tutto il die; / d’ogni età, d’ogni lingua e d’ogni setta: / frati con unghie di rapaci arpie, / beghini pregni di celesti ardori, / i crocchi, buffoni, mozzorecchie e spie, / questi del Santo Padre eran gli amori); Gabriello Chiabrera (1552-1638) non risparmia la sua penna per condannare ipocriti e avari e quella Roma, che «appar non men che Circe, incantatrice»; Alessandro Tassoni (1565-1635), che pone sulla bocca del legato pontificio ne La Secchia rapita una battuta contro papa Paolo V, oppure, sempre nella stessa opera, adombrato nel concilio degli dei, offre una allegorica visione dei concistori dei cardinali; Francesco Moneti (1635-1712), che con la sua satira antigesuitica nella Cortona nuovamente convertita ci offre ritratti di padri gesuiti, infarciti di gravi accuse, tra le quali quella di servirsi per i loro loschi scopi del sacramento dell’Eucaristia, e il padre Sebastiano Chiesa (1602-1666) che scrisse il Capitolo generale dei frati, inedito scritto che denunzia i disordini e la corruzione dei vari ordini, in particolare dei gesuiti.

XVIII sec. La satira rivolta contro i membri di quest’ordine avrà lunga eco tra il XVII e XVIII secolo, prendendo di mira la loro oppressione tirannica, gli abusi commessi dai membri e la loro ipocrisia, dilagante anche nella società. Esponenti di questa corrente saranno: il priore Vincenzo Comandi, Pier Salvetti, Luca Terenzi e Girolamo Gigli (1660-1722), il più prolifico in questo campo (O voi, che mezzi frati e mezzi preti / vi dimostrate a’ popoli minchioni, /astrologi, filosofi e poeti, / voi siete un branco d’asini e castroni. / Voi disprezzate i Canoni e i Decreti / con le vostre politiche ragioni; / per espiar de’ Principi i segreti / rivelate tra voi le confessioni. / Colui che di Gesù chiamò voi Padri, / a rimirarvi ben da capo ai piedi / dovea con più ragion chiamarvi ladri, / poiché con finti paternostri e credi, / infinocchiando le ammalate madri, / rubate la sostanza a’ figli eredi).

Il bresciano Bartolomeo Dotti (1651-1713), invece, nei suoi versi in lingua dialettale si scaglia contro i gesuiti, i finti religiosi e la corruzione dei monasteri femminili, mentre il siciliano Paolo Maura (1638-1711) apostrofa i finti religiosi come coddi torti (colli piegati, così ancora oggi si continuano a chiamare in Sicilia coloro che sembrano seguire la religione, ma si dimostrano cattivi), mentre Ludovico Sergardi (1660-1726), conosciuto con lo pseudonimo di Quintus Sectanus, nel suo Dialogo tra Pasquino e Marforio analizza i mali della Roma del tempo, fondendo lo stile satirico pasquinesco con quello classico. Infine Benedetto Micheli (1699-1784), nei suoi sonetti e nel suo poema in dialetto romanesco La libertà romana acquistata, usa la mitologia classica come schermo, alludendo con essa a personaggi a lui contemporanei.

XIX sec. Tra i principali esponenti della satira anticlericale prima dell’unità nazionale possiamo ricordare Giuseppe Giusti (1809-1850), esponente della satira popolare di gusto ‘paesano’, fatto di caricature, amarezza e talvolta di odio. Nei suoi due componimenti a Pio IX esprime lo sdegno per i religiosi, i gesuiti, che con la loro corruzione hanno insozzato la Chiesa, e le tasse che hanno esasperato il popolo (Tirate via, Beatissimo Padre, / tirate via. Tagliate con la scure / e monture e tonsure e prelature, / Svizzeri e birri e frati e l’altre squadre. / Nettate il grembo a nostra Santa Madre / di gesuiti e simili lordure; / scemate i dazi, appianate l’usure / e con Vienna e con Roma e tutte ladre. / Rassettate la barca del Signore / e, così come siete, ignudo e bruco, / armatela e mandatela a vapore. / E tutto questo lo pretende un ciuco, / che, messo lì per vostro successore, / non leverebbe un ragnolo da un buco).

Un altro esponente ragguardevole è Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863), compositore di una infinita serie di sonetti in italiano e in romanesco, che trattano dei più svariati temi. La satira del Belli si prende gioco del vissuto cristiano (La pantomìna cristiana, La riliggione der tempo nostro, La santa Messa), di frati e preti ghiotti e ipocriti (La porteria der Convento, In vino veribus), delle spie del Papa (La porta dereto), dei prelati e monsignori amici di donne di malaffare (La puttana protetta), i conclavi e i concistori (La sscerta der Papa, Li Cardinali ar Concistoro, L’upertura der concrave), la vita dei chierici e del Papa (Le cappelle papale, La vita der Papa, Le risate der Papa, Le visite der Cardinale,  Li Prelati e li Cardinali) e di tanti altri argomenti che, rivolti a tutti gli strati sociali, arrivano a Dio stesso e ai santi (Er miracolo de San Gennaro), «una sorta di gioco al massacro, che non lascia nulla di integro» (C. Costa)

d) Arte e satira

Ciò che avvenne nel corso dei secoli nel campo della poesia e delle opere satiriche, trova il suo riscontro anche nelle arti figurative.

Danza macabra e trionfo della morte. Il tema delle danze macabre e del trionfo della morte nasce dall’ascetismo e dal pessimismo del medioevo, che voleva spingere gli uomini al disprezzo delle cose mondane, alla condanna e alla derisione satirica di chi ammassava ricchezze, di chi era potente e di chi non aveva nulla, accomunati alla fine dalla stessa sorte. Questo particolare tema, principalmente figurativo (alcuni esemplari oltre a essere raffigurati erano anche accompagnati anche da didascalie), fu molto diffuso in Francia, Germania e Inghilterra, ma se ne riscontrano alcuni tratti particolarmente eloquenti anche in Italia, grazie soltanto agli elementi satirici che vi erano penetrati. Il trionfo della morte raffigura uno scheletro su di un cavallo o di un carro di trionfo, che schiaccia uomini di ogni classe sociale (fig. 1), mentre l’analogo tema della danza macabra raffigura scheletri o corpi decomposti che accompagnano uomini di ogni ceto, che si distinguono dal vestiario, in una sorta di danza con altri scheletri, talvolta anche loro vestiti, come a ricordare lo status a cui appartenevano (fig. 2). Particolare è l’unione dei due temi nell’affresco (fig. 3) di Giacomo Borlone de Buschis sull’esterno dell’Oratorio dei Disciplini a Clusone (1485).

Giudizi universali. Un tema che dava occasione di rivalsa contro il potere politico, o contro gli avversari in genere, era il Giudizio universale o dell’oltretomba. Probabilmente affonda le sue radici nel poema dantesco e nelle dispute medievali del giudizio particolare (visione beatifica o pena dell’inferno), dogma definito da papa Benedetto XII nella Benedictus Deus, dottrina compatibile con quella del giudizio finale. Partendo da ciò questo tema satirico si sviluppò con facilità, tanto che lo stesso domenicano Giovanni da Fiesole, meglio conosciuto come Beato Angelico (1395-1455), raffigurò tre opere del Giudizio universale, mettendo tra i beati i frati domenicani e fra i dannati i rivali francescani (fig. 4).

Miniatura. Molto spesso anche nelle miniature a bordo pagina o in calce al testo i miniatori, talvolta anonimi, ci hanno lasciato rappresentazioni satirico-allegoriche: volpi, cinghiali o cani vestiti da vescovi (fig.5) o cardinali, scimmie vestite da pontefici, predicatori dalla cui bocca escono rane per indicare i falsi profeti (fig. 6), uomini in arme che combattono contro lumache, o conigli armati che fanno guerra con altre bestie. Temi satirici, ad esempio quello del lombardo e della lumaca, o del mondo alla rovescia, che prendono le mosse da quelli già contenuti nelle danze macabre e nei trionfi della morte.

Scultura. Esempi satirici antifrateschi e antiecclesiastici raffigurati attraverso l’arte della scultura possono trovarsi, al contrario di quanto si possa pensare, nella penombra delle cattedrali. A Parma, ad esempio, i capitelli sono stati scolpiti nel XII secolo con raffigurazioni antifratesche (fig. 7), probabilmente tratte dal Roman de Renart. Così anche nella cattedrale di Ferrara si trovano simili raffigurazioni, forse segno che la Chiesa usasse anche queste raffigurazioni per schernire e ammonire il malcostume dei chierici e dei laici (V. Cian).

Pittura. La satira manifestata attraverso la pittura era pericolosa tanto quanto quella letteraria, ne è esempio ciò che successe al giovane pittore romano che osò ritrarre sopra un panorama di Cave, assediata dai soldati di Sisto IV, un francescano che corteggia una donna: fu perseguito dal pontefice ed espulso da Roma. O anche il già ricordato Beato Angelico, oppure Giotto o il famoso Michelangelo Buonarroti (1474-1564) che, nel dipingere il giudizio universale nella cappella Sistina, raffigurò nell’infernale Minosse avvinghiato da un serpente il cerimoniere di papa Paolo III, Biagio da Cesena, il quale aveva criticato il dipinto in corso d’opera (fig.8)

e) Condanne della satira

Lungo il corso dei secoli la satira e il riso in genere furono condannati da autori ecclesiastici e dai pontefici romani. Così Giovanni Crisostomo e Basilio di Cesarea affermano che per il credente non è mai tempo di ridere, giacché Cristo non cedette mai al riso, seguiti poi da un’infinità di autori (Salviano di Marsiglia, Ferreolo, Benedetto di Aniane, Ludolfo di Sassonia, Pietro Cantore, ecc.), i quali, sebbene possano usare degli elementi satirici e canzonatori nelle loro opere, affermano che il riso non si confà ai cristiani (Tertulliano, Ambrogio, Agostino, Clemente Alessandrino, ecc.).

I concili provinciali e i capitolari carolingi condannarono la presenza dei cristiani agli spettacoli nei giorni di festa (concilio di Cartagine del 398), le feste dei folli (concilio di Tours del 567 e di Toledo del 633), le satire popolari (concilio di Chàlon-sur-Saône del 650), le leggende e i canti satirici (Capitolare di Carlo Magno del 764).

Poi anche i Papi iniziarono a condannare pratiche parodistiche diffuse un po’ in tutto l’orbe ecclesiale, ad es. la pratica medievale di eleggere un vescovello nella festa dei santi Innocenti, più volte condannata e sopravvissuta fino agli anni trenta del secolo scorso, oppure le condanne lanciate dall’antipapa Vittore IV contro i chierici corrotti che rendevano, a causa del loro comportamento, l’ufficio sacerdotale materia di istrioni (Acta Pontificum Romanorum inedita, ed. J. v. Pflugk-Harttung, II, Stuttgart 1884, n. 432). Il concilio di Trento condannava invece chi si serviva di episodi ed espressioni delle scritture per le buffonate e le vanità (Sess. IV, Decr. II), condanna poi ripresa dai vari concili provinciali celebrati dopo Trento, probabile allusione alla riprovevole pratica germanica del risus paschalis, che aveva poco di satirico e molto di osceno.

Nel ’500 e nei secoli successivi la condanna delle parodie e della satira, generatrice del riso smodato, venne rinnovata dai pontefici Pio V e Sisto V e da vari autori ecclesiastici, tra i quali il Bellarmino, Ignazio di Loyola, Leonardo da Porto Maurizio ed altri. Queste condanne non soppressero però lo spirito satirico, anzi lo alimentarono, fino al punto che la sterminata serie di autori che si avvicendano tra il ’600 e l’800 non disdegnano di prendersi gioco nelle loro opere satiriche di chierici, frati, prelati e pontefici, senza riguardo per alcuno e senza edulcorazioni di alcun genere.

Fonti e Bibl. essenziale

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Didascalia immagini

fig. 1 Palermo, Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Trionfo della morte, (1446), affresco staccato.
fig. 2 Pinzolo, chiesa di San Vigilio, Simone Baschenis, Danza Macabra, (1539), affresco.
fig. 3 Clusone, Oratorio dei Disciplini, Giacomo Borlone de Buschis, Trionfo della morte e Danza macabra, (1485), affresco.
fig. 4 Firenze, Museo nazionale di San Marco, Beato Angelico, Giudizio universale, (1481), tempera su tavola.
fig. 5 Il vescovo cinghiale (particolare), Morgan Library & Museum, Libro d’ore, (1440-1450), miniatura, MS M.358, fol. 13r.
fig. 6 I falsi profeti (particolare), British Library, (sec. XIV), miniatura, Royal 19 B XV,  f. 30v.
fig. 7 Parma, Duomo, Capitello raffigurante un asino e un lupo vestiti da monaci, (XIII sec.), scultura.
fig. 8 Roma, Cappella sistina, Michelangelo Buonarroti, Giudizio universale (particolare di Minosse), (1535-1541), affresco.

LEMMARIO




Saverio Venuto Francesco





Savigni Raffaele


Professore associato confermato (M-STO/01 STORIA MEDIEVALE) Nato a Budrio (BO) il 25 maggio 1953, ha conseguito nel luglio 1972 il diploma di maturità classica. Successivamente ha conseguito, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, la laurea in Lettere moderne (il 5 luglio 1977) e la laurea in Storia, indirizzo medievale (il 14 marzo 1986), in entrambi i casi con la votazione di 110 su 110 e menzione di lode, discutendo due tesi elaborate sotto la guida della prof. Alba M. Orselli (Giona di Orléans: una ecclesiologia carolingia; e Storia universale e storia ecclesiastica nel «Chronicon» di Freculfo di Lisieux). I due lavori, rielaborati, sono stati pubblicati rispettivamente dall’editore Pàtron di Bologna (sotto forma di volume, n. 2 della collana «Cristianesimo antico e medievale», diretta dalla stessa prof. Orselli) e sulla rivista “Studi medievali”. Ha inoltre frequentato la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Bologna, conseguendo nel 1981 il relativo diploma; ed ha tenuto, nell’anno accademico 1977-78, un corso di esercitazioni pratiche per gli studenti di Storia del Cristianesimo. Ha insegnato nelle scuole secondarie dall’anno scolastico 1977-78 al 1994-95. Nominato docente di ruolo di Italiano, Storia e Geografia nella scuola media in quanto vincitore di concorso ordinario a cattedre (con immissione in ruolo in data 19 settembre 1984), il 10 settembre 1985 è stato immesso per concorso nei ruoli della scuola secondaria superiore, come docente di Materie letterarie, e quindi di Italiano e Latino nei licei. Ha frequentato il dottorato di ricerca (quadriennale) in Storia medievale (VI ciclo, anni accademici 1990-94) istituito presso l’Ateneo di Firenze (coordinatore prof. G. Cherubini; sedi consorziate: Bologna e Roma «La Sapienza»), in quanto vincitore del concorso bandito con D.M. 28 maggio 1990; ed ha conseguito il titolo di dottore di ricerca il 19/01/1996, discutendo una tesi su Episcopato e società cittadina a Lucca da Anselmo II (+1086) a Roberto (+ 1225), pubblicata lo stesso anno dall’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti. Dal 1° novembre 1995 è stato immesso nel ruolo dei ricercatori universitari in quanto vincitore del concorso bandito dall’Ateneo bolognese con D.R. n. 14 del 12/01/1994, per il gruppo disciplinare M03C, Storia del Cristianesimo antico e medievale (poi M-STO/07, Storia del Cristianesimo e delle Chiese), ed ha prestato servizio come ricercatore universitario nella Facoltà di Lettere e Filosofia, sede di Ravenna, e quindi nella Facoltà di Conservazione dei beni culturali dell’Università di Bologna, ottenendo nel 1999 la conferma in tale ruolo, con afferenza presso il Dipartimento ravennate di «Storie e metodi per la conservazione dei beni culturali». Nel marzo 2001 ha conseguito l’idoneità a ricoprire un posto di professore associato per il settore scientifico-disciplinare M-01X-Storia medievale (ora M-STO/01), nell’ambito di un procedimento di valutazione comparativa bandito dalla Facoltà di Beni culturali dell’Università di Lecce con D.R. n. 1935 del 4 luglio 2000; ed ha preso servizio in tale ruolo il 1° novembre 2001 nella Facoltà di Conservazione dei Beni culturali dell’Università di Bologna, ottenendo la conferma in ruolo nel novembre 2004. Ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale nella prima tornata (2012) per il settore concorsuale 11/A4, Scienze del libro e del documento e scienze storico-religiose. Dall’anno accademico 1998-99 al 2003-2004 gli è stato affidato l’insegnamento di Paleografia latina. Dal 2001-02 ha tenuto l’insegnamento di Storia medievale, e successivamente quelli di Istituzioni medievali e Storia dell’Emilia Romagna nel Medioevo nella Facoltà di Conservazioone dei Beni culturali di Ravenna (corsi di laurea quadriennale, poi triennali e magistrali); e dal 2007-2008 anche l’insegnamento di Storia medievale nel corso di Archeologia navale (sede di Trapani). Ha svolto per molti anni la funzione di tutor nell’ambito del corso teledidattico di diploma (e poi di laurea) per operatore dei beni culturali, per gli insegnamenti di Esegesi delle fonti storiche, Paleografia latina, Diplomatica; ed ha tenuto lezioni di taglio storico-documentario in alcuni master di ambito archgivistico-librario a Ravenna ed a Trapani . Nella sua attività di ricerca, inizialmente incentrata sull’analisi del complesso ed articolato rapporto degli intellettuali carolingi con la cultura patristica e con l’evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche e dell’ideologia politica, ha progressivamente allargato la propria attenzione dagli aspetti più propriamente storico-religiosi e storico-esegetici alle problematiche connesse alla costruzione di strumenti concettuali e lessicali che riflettono il complesso tentativo di definire le istituzioni della società cristiana. Ha poi analizzato il rapporto tra istituzioni ecclesiastiche, ordinamento territoriale e società urbana nel periodo precomunale e comunale; l’esegesi biblica carolingia, in connessione con con il contesto politico-ideologico e lo sforzo di ridefinizione del sacro da parte degli esponenti della cultura clericale e monastica; l’associazionismo del clero lucchese ed i diversi aspetti del rapporto tra dinamiche sociali e memoria culturale tanto in ambito cittadino quanto in aree periferiche (come la Valdinievole e la Garfagnana). Il prof. Savigni, già membro (dal 1994 al 2002) del gruppo di ricerca nazionale «Studi sulla letteratura esegetica cristiana e giudaica antica», ha sviluppato la sua attività di ricerca in collaborazione con importanti istituzioni culturali italiane e straniere (la SISMEL di Firenze, il CISAM di Spoleto, il CNRS, il “Centre d’études médiévales di Auxerre, le Università di Nizza, Zurigo, Limoges) e nell’ambito di Convegni e Colloqui internazionali. Inoltre è socio corrispondente di «Reti medievali», socio della SISMEL (Società italiana per lo studio del Medioevo latino), dell’Istituto storico lucchese, del centro studi «Ravennatensia» e dell’Associazione Internazionale per le Ricerche sui Santuari (A.I.R.S.). Collabora con il CISEC (Centro interdipartimentale di Scienze delle religioni) e con l’osservatorio regionale dell’AISSCA per la Toscana. Inoltre è stato membro del Collegio docenti del Dottorato di ricerca «Società, regalità, sacerdozio nelle fonti filologiche, storiche, antropologiche (secoli V-XVI)», coordinato dal prof. Antonio Carile (attualmente denominato «Bisanzio ed Eurasia»), e del Dottorato in Storia coordinato da Maria Malatesta, nel quale il suddetto Dottorato è confluito (in questo ambito è stato responsabile dell’indirizzo “Bisanzio ed Eurasia” ed ha organizzato seminari e momenti formativi per dottorandi).Attualmente fa parte del Collegio docenti del Dottorato “Studi sul patrimonio culturale”, costituito presso il Dipartimento di Beni culturali e coordinato dal prof. Cosentino, ed è tutor di due tesi di dottorato. Ha fatto parte due volte della Commissione giudicatrice per l’esame di ammissione al Dottorato, nonché della Commissione finale per il conferimento del titolo di dottore di ricerca. Inoltre è membro del Comitato scientifico della rivista «Actum Luce», emanazione dell’Istituto storico lucchese (per il quale ha organizzato e sta organizzando vari cicli di incontri culturali), e coordinatore della “Storia della Chiesa di Rimini”, volume I, Dalle origini all’anno Mille, pubblicata nel dicembre 2010, nonché curatore del volume “Santuari d’Italia: Romagna”, Roma, De Luca, 2013. Già membro per molti anni della Commissione Biblioteca e della Commissione tirocini della Facoltà, è attualmente membro della Giunta del Dipartimento di Beni culturali e della Commissione per gli obblighi formativi (OFA), e presidente del Comitato scientifico della Biblioteca di Campus di Ravenna. Ha organizzato, per la Facoltà, un ciclo di “Incontri con l’autore”, ed organizza attualmente attività culturali nell’ambito del Dipartimento di Beni culturali.




Scatena Silvia





Scienza - vol. I


Autore: Roberta GrossiImmagine nuova

Antichità. La nascita del Cristianesimo costituisce l’evento che ha maggiormente influenzato la cultura del mondo tardo antico (II-VII secolo). La ricerca sulla realtà fisica in cui sono impegnati i filosofi della natura cristiani e pagani, si svolge secondo criteri analitici e linguistici. L’uomo di scienza era fondamentalmente un letterato e la sua autorità scientifica si fondava su una riconosciuta solidità nell’esegesi letteraria delle opere e delle teorie scientifiche. Lo spazio crescente acquisito dalla religione cristiana, in tutte le sue espressioni, ha il suo apice nell’editto di Giustiniano del 529 con il quale viene sancita la chiusura dell’Accademia di Atene e proibito ai pagani l’insegnamento. Tali scelte avrebbero portato ad una minore conoscenza del greco e la conseguente difficoltà di accesso al patrimonio scientifico della tradizione ellenistica. Fino al VI secolo, l’interesse dei teologi cristiani e dei Padri della Chiesa verso le scienze della Natura resterà marginale. L’atteggiamento prevalente verso questo campo del sapere sarà improntato al monito di Tertulliano (155 ca.-230 ca.) nel De Praescriptione Haereticorum, secondo cui il cristiano esprime nella fede il senso integrale della propria vicenda terrena. La dissoluzione dell’Impero romano d’Occidente si accompagnò ad una profonda crisi istituzionale che travolse ogni forma di espressione culturale. Si interruppe ogni legame con la filosofia e la scienza greca. Sul papato di Roma, unico punto di stabilità culturale, cadde la responsabilità di restaurare la civiltà in Europa. Nel IV secolo, al progressivo disfacimento della trama di rapporti tra mondo greco e Occidente latino, si sviluppa l’azione degli enciclopedisti che attraverso un’intensa opera di codificazione avrebbero reso disponibili gran parte delle nozioni scientifiche allora conosciute. E’ noto l’atteggiamento di sospetto, se non di vera e propria avversione, dei primi Padri latini verso il sapere profano. Talché in Agostino d’Ippona (354-430) esso è riferibile a un’erudizione superficiale raggiungibile attraverso il ciclo delle artes liberales, cosiddette non solo perché considerate degne dell’uomo libero, ma altresì perché contribuiscono a renderlo libero.

Un’azione di riequilibro del peso delle discipline letterarie nel percorso formativo viene intrapresa da Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (480 ca.-526 ca.) e ha il suo cardine nella traduzione di opere attinte al patrimonio greco quali i testi di logica di Aristotele (384/383-322). Probabilmente, lo scopo è quello di rendere disponibile un manuale di base relativo a ognuna delle quattro discipline matematiche, il quadrivium, appunto, come Boezio medesimo lo definisce nell’Institutio arithmetica ad indicare l’insieme di aritmetica, geometria, astronomia e musica come quadruplice itinerario verso la sapienza. Negli stessi anni le discipline liberali vengono definitivamente integrate da Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (490 ca.-580 ca.) all’interno del sapere cristiano. Nelle Institutiones divinarum et humanarum litterarum egli traccia un panorama delle scienze sacre e illustra gli elementi necessari alla formazione profana, distinta nelle sette arti, indispensabili per prepararsi allo studio della Bibbia. Il carattere di novità delle Institutiones rispetto all’enciclopedismo tardo-antico sta nel rilevo assegnato alla bibliografia, per cui un elenco di autori e testi affianca ogni disciplina, pur essendo lo studio delle arti finalizzato alla pratica esegetica; e nel porsi un problema concreto, l’alfabetizzazione dei monaci, da realizzare in un ambito istituzionale definito, il monastero. In tale concezione il legame tra scuola e biblioteca e quindi tra attività didattica e disponibilità di testi si presenta cruciale in relazione alle modalità di trasmissione del sapere. L’insegnamento delle discipline liberali, obbligatorio nelle scuole monastiche per laici, viene esteso, a partire dal XII secolo, anche alle università integrandosi nel canone della cultura medievale cristiana.

I monasteri, divenuti durante l’Alto Medioevo i nuovi centri di cultura affiancano all’insegnamento e alla pratica laica della medicina, documentabili fin dal VI secolo nell’Italia gota e bizantina, un proprio marcato impegno ispirato a una visione cristomimetica che appartiene sia all’ideologia politica che alla teologia tardo-antica e medievale, secondo cui è nell’amore verso i propri simili che l’uomo trasfigura in Cristo. Tale visione, influenzata dalla spiritualità monastica bizantina, fu espressa, in particolare, dal monachesimo benedettino. Il servizio, diviso fra lo scriptorium e l’infermeria delineava uno spazio che era fisico e morale nel quale l’agire cristiano esauriva tutte le possibilità. In un arco cronologico compreso tra la fine del X e il tardo XVIII secolo i testi fondamentali della tradizione scientifica greca e araba furono resi accessibili alla cultura latina, mediante l’attività di traduzione scientifica dall’arabo, contribuendo attraverso questa azione di mediazione culturale alla nascita della scienza europea. I centri in cui, in Italia, fu più intensa tale opera, furono Pisa e Lucca. La fitta trama di relazioni esistente tra gli studiosi rivela gli interessi che orientavano le scelte di traduzione: la matematica, le tecniche dell’aritmetica indo-araba, della geometria euclidea e dell’astrolabio, del calcolo degli oroscopi e dell’interpretazione delle tavole astronomiche che non aveva, quest’ultima, solo una valenza filosofica bensì essenziale per il computo ecclesiastico, cioè il calcolo calendaristico delle feste mobili. Tale patrimonio di conoscenze fu reso disponibile alla nascente università. Gli autori tradotti arricchirono le raccolte enciclopediche del tardo medioevo consolidandone la molteplice funzione di strumenti per conservare, organizzare e diffondere le conoscenze. Salerno (Principato) e il monastero di Montecassino, ma successivamente anche Bologna (città imperiale, sotto l’autorità dei conti e papale) e Padova (comune indipendente), furono i centri più importanti relativi allo studio della medicina. Accanto all’opera di traduzione, furono elaborate nuove forme di insegnamento della disciplina, di esegesi dei testi e di estensione del vocabolario dei termini in latino. Nelle fasi iniziali della diffusione della nuova cultura medica svolse un ruolo di particolare rilievo l’attività di traduzione ed elaborazione teorica di Costantino l’Africano (1015 ca.-1087 ca.), monaco a Montecassino. Risultato dell’importanza crescente che nel tardo XI secolo venivano attribuite alla logica e alla razionalità, estendendole a ogni ramo del sapere, fu la teologia sistematica. Tale esito innescò un moto di rinnovamento che ebbe il suo apice nelle Sententiae di Pietro Lombardo (fine XI sec.-1160), composte tra il 1155 e il 1158. L’opera, che sostituì rapidamente tutti i testi in uso fino ad allora, divenne per i cinque secoli successivi il libro principale, accanto alla Bibbia, nelle scuole di teologia. Il rilievo delle Sententiae, per la storia della scienza, risiede nei numerosi punti di contatto tra la teologia medievale e la filosofia della Natura, principalmente quella di Aristotele. Il vasto impegno intellettuale costituito dai commenti all’opera di Pietro ebbe tra i protagonisti Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca.-1274), Tommaso D’Aquino (1225/1226-1274), Egidio Romano (1234 ca.-1316) e Gregòrio da Rimini (m. 1358) e mostra il livello raggiunto dai filosofi medievali nel ricorso alla filosofia della Natura per spiegare e razionalizzare i problemi teologici. Tali commenti non conseguirono risultati di rilievo per le scienze della Natura, nondimeno fu la qualità dei problemi teologici affrontati a consentire, secondo Grant, uno sviluppo della filosofia della Natura che essa non avrebbe mai raggiunto in un contesto strettamente secolare.

Rinascimento. Tra la seconda metà del Trecento fino alla fine del Cinquecento entra in crisi l’immagine del mondo elaborata dalla civiltà classica e ripresa in varie forme dalla civiltà cristiana medievale. Maturava un atteggiamento nuovo fondato sulla fiducia in un rinnovamento generale della vita e della storia umana, sulla rivendicazione della centralità cosmica dell’uomo e l’esaltazione della sua libertà, della sua dignità (Vasoli). L’affermazione del rigore filologico degli studi permea ogni campo del sapere determinando le condizioni da cui emerse la mentalità scientifica moderna. Un aspetto di rilievo per la storia della scienza rinascimentale è dato dal ruolo svolto da personaggi come Bessarione (1403 ca.-1472), la cui importanza si colloca su una linea di confine tra la filologia e le scienze, e dediti alla raccolta di opere della tradizione filosofica e scientifica classica. Notevole in tal senso l’impegno nel promuovere la ricerca di manoscritti antichi di Tomaso Parentucelli da Sarzana, futuro Niccolò V (1447-1455), soprattutto di ambito scientifico; tra i quali il codice A di Archimede, una delle pietre miliari della costruzione galileiana. Nel lavoro rigoroso di revisione dei testi della tradizione classica va segnalata l’opera dell’umanista veneto Ermolao Barbaro (1453-1493), Patriarca di Aquileia, compiuta sulla Naturalis Historia di Plinio. Luca Pacioli (1445 ca.-1517) nel De Divina Proportionae (1509) sosteneva essere la pittura una disciplina matematica tal quale la musica, recependo in tal senso l’accresciuta articolazione della partizione medievale delle artes liberales. La conseguenza di questo processo avrebbe portato innovazioni rivoluzionarie nel campo della creazione artistica, figurativa e architettonica.

In Italia venne istituita al Collegio Romano, principale università gesuita, la cattedra di Mathesis cum Geometria et Astronomia (1556). I più stretti collaboratori di Ignazio di Loyola (1491/1492-1556) erano insigni matematici e ciò ebbe un peso notevole nel determinare la situazione di monopolio nell’insegnamento delle arti liberali da parte della Compagnia. In quegli stessi anni si sviluppa un dibattito sulla scientificità e sui metodi della matematica suscitato dalla pubblicazione dell’opera di Alessandro Piccolomini (1508-1578), Commentarium de Certitudine mathematicarum disciplinarum (1547). Dibattito a cui prese parte Giuseppe Biancani (1566-1624), professore di matematica e astronomo gesuita formatosi a Padova, dove incontrò Galilei. Tali discussioni di carattere metodologico, accompagnate da una mai esausta azione di promozione degli antichi testi greci, produssero risultati fondamentali determinando una tendenza stabile per cui l’ascesa della matematica europea procedeva parallela al declino di quella araba. Bernardino Baldi (1536-1617), formatosi con Guidobaldo dal Monte (1545-1607) alla Scuola di Urbino, oltre alla traduzione delle opere di Erone e Pappo compose 202 Vite di matematici, opera considerata la prima grande storia europea della matematica. Egnazio Danti (1536-1586), astronomo, cartografo, costruttore di strumenti scientifici, realizzò due gnomoni nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Trasferitosi a Roma alla corte papale ebbe da Gregorio XIII l’incarico di realizzare le carte geografiche dell’Italia nella Galleria delle Carte geografiche.

Rivoluzione scientifica. La nozione di rivoluzione scientifica, comunemente riferita alle vicende intellettuali dei secoli XVI e XVII, non indica solo l’insieme di novità e scoperte nei diversi settori della conoscenza della natura ma anche quei cambiamenti profondi attraverso i quali si costituì una specifica forma del sapere (P. Rossi) che avrebbe condotto alla identificazione dell’attività di ricerca scientifica con una professione. Questo processo investì sia discipline tradizionali, come l’astronomia, con una vicenda millenaria radicata nell’antichità classica ellenistica, sia discipline, precipuamente dal carattere sperimentale, che nascono con la modernità, e introdusse mutamenti di metodo e contenuto, ridisegnò gli ambiti di saperi consolidati, modificandone il dominio, il campo d’indagine. Con il De revolutionibus orbium coelestium Nicolò Copernico (1473-1543), all’interno di un apparato matematico sostanzialmente identico all’Almagesto di Claudio Tolomeo (100 ca.-170 ca.), introduce la novità rivoluzionaria relativa ai moti planetari. Nel campo delle scienze sperimentali emersero vere e proprie discipline, come la chimica, la geologia, la fisica sperimentale, le scienze naturali, anche se il processo attraverso il quale maturarono i loro metodi e contenuti specifici fu lento, faticoso e raggiunse un assetto stabile solo nel Settecento. Nel Seicento, per alcune di queste nuove scienze non esiste ancora un lessico adeguato a designarne il nome e le tecniche sperimentali. L’attenzione per l’astrazione matematica come per lo sperimentalismo più minuto, il fatto che per molto di questo sperimentalismo il ricorso all’astrazione matematica non offriva alcuna risorsa per indagare il tipo di problemi a cui guardava, delinea, seppur sommariamente, la natura composita della rivoluzione scientifica e le origini complesse, intricate, della nascita della scienza moderna. Un dato pare comunque acquisito: solo dalla modernità emerge quel tipo di sapere che tutt’oggi indichiamo col termine scienza.

Per la prima volta, in Occidente, diversamente dal passato e da altri contesti geografici, quel sapere lega insieme teoria ed esperimento, elabora forme istituzionali proprie; linguaggi specifici; orienta le proprie scelte in un arco di valori concernenti “la irrilevanza dell’appello alle autorità e il rispetto dei fatti; l’autonomia delle convinzioni scientifiche rispetto a quelle religiose o politiche” (P. Rossi). Questo percorso non fu lineare e non procedette con la stessa intensità in ogni settore della scienza. La spinta alla matematizzazione della natura, l’estensione del meccanicismo alle scienze della vita, la costruzione di nuovi strumenti come il cannocchiale e il microscopio, avviarono una fase di espansione dell’attività scientifica accompagnata da un processo di trasformazione delle scienze tutt’ora in atto. Le mutazioni di carattere intellettuale prodotte dalla teoria copernicana e che attraverso l’opera di Galilei e la successiva sintesi newtoniana portarono alla formazione di un legame tra la filosofia naturale, la matematica e la storia della natura, erano connesse a una trasformazione istituzionale altrettanto importante: la nascita di accademie e riviste scientifiche come sedi di discussione dei risultati delle ricerche sulla Natura. Tali innovazioni davano risposta a un’esigenza tutt’altro che agevole, nel Seicento, quella di far circolare le proprie idee. E che, rafforzandosi lungo il secolo, farà emergere una nuova istituzione, l’Accademia, una comunità indipendente dalle università e dalla Chiesa, resa omogenea dal campo di indagine, la Natura, e che qui trovava un’identità e una dimora. Tale fu l’ispirazione di Federico Cesi (1585-1630), fondatore e animatore della prima accademia scientifica italiana ed europea, l’Accademia dei Lincei istituita a Roma nel 1603. Egli affronta la questione dell’atteggiamento del potere nei confronti della scienza e dell’educazione e denuncia il carattere di inadeguatezza del modello dell’accademia di corte dove la dignità dello studioso è lesa dal legame di patronato con l’autorità. I Lincei chiedono alla Chiesa e al potere politico il rispetto della libertas philosophandi in naturalibus e si impegnano a non invadere il campo proprio della politica e della teologia, pur consapevoli della dimensione ‘politica’ dell’attività scientifica per l’influenza che esercita sulla intera vita civile, e senza astenersi dal contribuire a sciogliere il rapporto di subalternità esistente tra ricerca scientifica e magistero della fede. Nello schierarsi a difesa di Galilei essi non intesero offendere il sentimento religioso bensì riaffermare la distinzione di piani. Nella visione lincea, infatti, la coerenza con i principi del cristianesimo nell’interpretazione delle Sacre Scritture non era lesiva della dignità della ragione umana e si accordava con equilibrio all’evidenza dell’osservazione sperimentale.

La pubblicazione, nel 1543 a Norimberga, del De revolutionibus di Nicolò Copernico segna la fine del Medioevo e la data di inizio della modernità. La teoria eliocentrica dell’astronomo polacco determinava, secondo Koyré “il crollo di un mondo creato intorno all’uomo e per l’uomo […] il crollo della gerarchia”. Una visione del mondo, comune a cattolici e protestanti, veniva cancellata; e con essa, il sistema cosmologico aristotelico-tolemaico. La sua portata dirompente sul piano metafisico e in ambito scientifico si sarebbe sviluppata solo qualche decennio più tardi, in particolare negli scritti di Giordano Bruno e nell’opera scientifica di Galilei. Ragioni di natura scritturistica avevano comunque suscitato critiche da parte di Filippo Melantone (1497-1560), anche se l’avviso al lettore, inserito come premessa nel De revolutionibus dal pastore luterano di Norimberga Andreas Osiander aveva, secondo alcuni studiosi, proprio lo scopo di prevenire le reazioni dei filosofi aristotelici ma soprattutto le critiche dei teologi riformati. Da parte cattolica le critiche al De revolutionibus non furono ostili, registrando, in qualche caso, un’accoglienza addirittura favorevole da personalità eminenti che ne sostennero la pubblicazione, quali il canonico Tiedemann Giese divenuto, poi, vescovo di Chelmo. Il silenzio della Chiesa su Copernico, durato fino al 1616, fu determinato anche da fattori contingenti: Bartolomeo Spina (1475-1526), il Maestro del Sacro Palazzo incaricato da Paolo III di esaminare l’opera, era orientato a condannare il De revolutionibus ma la sopravvenuta morte lo avrebbe impedito. Il suo successore nell’incarico trascurò la questione; il pontefice stesso e la Chiesa tutta erano immersi nella temperie politico-religiosa determinata dallo svolgimento del Concilio di Trento (1545-1563) e dalle guerre europee in atto. La figura di maggior rilievo tra i sostenitori della teoria copernicana fu Giordano Bruno (1548-1600). La sua adesione alla teoria eliocentrica e la critica della concezione aristotelico-tolemaica, rappresentarono la base di una speculazione di natura filosofica che ha nella pluralità dei mondi e possibili abitanti, e nell’universo infinito (De l’infinito, universo e mondo, 1584) gli approdi dalle implicazioni teologiche profonde. Suddette concezioni investirono il problema della salvezza, l’estensione spaziale del sacrificio di Cristo e il carattere della redenzione. Tali argomenti costituiranno il nucleo delle accuse durante il processo cui fu sottoposto e conclusosi con la condanna, eseguita il 17 febbraio 1600. La vicenda di Bruno influirà senza dubbio nelle questioni relative alla controversia copernicana al tempo di Galilei.

Nel 1610 a Venezia, Galileo Galilei (1564-1642) presentava le prime scoperte astronomiche nel Sidereus Nuncius, con le osservazioni sulle traiettorie dei satelliti di Giove, confermando le ipotesi copernicane. Il viaggio a Roma del 1611 segna l’apice del successo di Galilei: allaccia rapporti con i matematici della Compagnia di Gesù al Collegio romano, ottiene l’udienza dal papa Paolo V (1605-1621) e viene ammesso all’Accademia dei Lincei. Non mancarono critiche dall’ambiente aristotelico, ma di natura ideologica, estranee ad una valutazione scientifica dei risultati galileiani. La questione della coerenza con le Sacre Scritture, sollevata in ambito filosofico, avrebbe allargato la polemica alla sfera teologica. Il tema della compatibilità del nuovo sistema cosmologico fu affrontata direttamente da Galilei in due lettere: nel 1613, al monaco benedettino Benedetto Castelli (1578-1643), suo allievo, e nel 1615 a Cristina di Lorena, allo scopo di chiarire la relazione tra verità scientifica e verità creduta per fede. Nei due scritti, lo scienziato precisa la visione del rapporto tra Sacra Scrittura e Natura ed enuncia quel principio di autonomia dello studio della Natura che sarebbe diventato uno dei cardini della ricerca scientifica moderna. Il domenicano Niccolò Lorini (1544-1617 ca.), punto di riferimento dei circoli antigalileiani fiorentini, inviò una copia della lettera a Castelli alla Congregazione dell’Indice che trasferì le carte al Sant’Uffizio, ove si decise di avviare una pratica istruttoria. Nel 1615 il domenicano fiorentino Tommaso Caccini, depose al Sant’Uffizio contro le tesi eliocentriche di Galilei, perché contrarie alle Sacre Scritture. Di parere favorevole alle nuove scoperte era il teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini (1565-1616), che nel 1615 pubblicava un trattato: Sopra l’opinione dei pitagorici e del Copernico in cui sosteneva, invece, la compatibilità scritturistica con il sistema copernicano. Il 19 febbraio 1616 si concluse quello che impropriamente viene definito il primo processo a Galilei. In realtà venivano condannate all’unanimità le due proposizioni sul sistema copernicano, ossia: che il Sole sia il centro del mondo et per conseguenza imobile di moto locale; che la Terra non è centro del mondo, né imobile, ma si muove secondo sé tutta, etiam di moto diurno. Il cardinale Bellarmino (1542-1621) fu incaricato di ammonirlo a non seguire più le nuove teorie. Tale monito, benché atto privato, ebbe un ruolo rilevante nel processo del 1633, istruito in seguito alla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), allorché vi si riconobbe l’esposizione del copernicanesimo e la chiara violazione dell’ammonimento del gesuita. Il divieto dell’eliocentrismo sarebbe durato fino al 1820. É necessario precisare che l’azione censoria della Congregazione dell’Indice fu meno aggressiva di come è stata rappresentata, pur restando il carattere di negatività. Tra il 1542 e la fine del XVIII secolo in totale furono proibite le opere di 130 autori di scienza. Ad un’analisi approfondita emerge che “nessuna proibizione di contenuti scientifici venne dalle regole dell’Indice, ma tutte dall’obbligo di congruità fissato dalla Apostolici Regiminis (1513)” (Baldini).

Le tensioni presenti nell’ambito della ricerca astronomica sono del tutto assenti negli altri campi della fisica, dove la produzione, fino alla fine del Seicento, pur di livello non elevato, sarà cospicua e impegnerà nei settori più matematizzati i laici, mentre l’ottica fisica, l’acustica, l’elettrologia, la magnetologia, saranno presidiati da religiosi. Nel campo della botanica il lavoro di alcuni monaci benché collegato ad ambienti universitari restava circoscritto alla tradizione dell’erborismo di ambito monastico. Il movimento di riscoperta e reinterpretazione dei testi originali della matematica e della geometria greca che ebbe luogo nel XVI secolo costituirà la base di profonde rivoluzioni concettuali nel secolo successivo. Il 1575 segna l’inizio di quel processo nel quale occupano un posto di assoluto rilievo l’opera di Bonaventura Cavalieri (1598-1647) e del gesuita Luca Valerio (1553-1618). Nel De centrum gravitatis solidorum (1604), Valerio affrontava e risolveva il problema di determinare il centro di gravità di tutti i solidi allora conosciuti. Un risultato che gli valse la stima di Galilei. La sua lezione metodologica sarà raccolta da Cavalieri, dell’Ordine dei Gesuati, nella Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota (1635). Con la loro opera, i due matematici contribuirono a creare il contesto concettuale da cui sarebbe nata la matematica moderna. Frutto del clima avverso alla libera speculazione cosmologica ma che incoraggiava quella ricerca scientifica che non metteva in discussione la visione geocentrica fu l’Almagestum novum (1651) del gesuita bolognese Giovanni Battista Riccioli (1598-1671), in cui lo studioso riportava con equilibrio gli argomenti a favore e contro l’eliocentrismo. Interessato alla dimensione sperimentale del lavoro di Galilei, elaborò un programma di ricerca sulle leggi che riguardavano la caduta dei gravi e le traiettorie paraboliche. Va invece collocata nell’ambito della ricca produzione di lavori sperimentali sulla natura della luce e delle sue proprietà fisiche l’opera del gesuita Francesco Maria Grimaldi (1618-1663). Allievo di Riccioli, in un trattato pubblicato postumo, Physico-mathesis de lumine, coloribus et iride (1665), descrisse una nuova proprietà della luce: la diffrazione.

Un capitolo a parte costituisce la vicenda della ricezione in Italia del calcolo leibniziano, ‘il calcolo sublime’, che vide in posizione di assoluto rilievo scientifico personalità quali l’olivetano Ramiro Rampinelli (1697-1759), allievo di Magini, docente nei collegi religiosi di Roma, Pavia, Bologna, Brescia e Milano. Guido Grandi (1671-1742), camaldolese, tra gli esponenti più significativi dell’intera cultura italiana del primo Settecento, insegna a Pisa il calcolo differenziale e integrale; a lui si deve il primo scritto italiano di analisi, il De quadratura circuli et hyperbolae (1730). A Bologna, al Collegio di Santa Lucia, insegna il gesuita Vincenzo Riccati (1707-1775), che pubblicherà con l’allievo Gerolamo Saladini le Institutiones Analyticae (1765-1767), in due volumi; summa delle conoscenze di analisi dell’epoca. In fisica vi fu, ad esempio tra i gesuiti, una accettazione quasi immediata della meccanica galileiana-torricelliana, applicata e sviluppata per casi particolari da Confalonieri, Zucchi, Bettini, Grassi, Riccioli, Casati P., Boldigiani, Ceva, Borgondio, Boscovich. In tutt’altro ambito è significativa la figura del cardinale Michelangelo Ricci (1619-1682), attraverso la quale è possibile seguire quella che dovette essere la ricezione di temi e metodi della scienza galileiana da parte delle personalità più aperte dell’ambiente della curia romana. Attraverso i contatti con la comunità dei frati minimi francesi esistente a Trinità dei Monti, presso cui soggiornarono matematici quali Mersenne e Nicéron, fu da questi introdotto agli sviluppi recenti dell’algebra e della geometria analitica, svolgendo a sua volta il ruolo di trait-d’union tra la ricerca italiana più avanzata e i circoli scientifici parigini.

Illuminismo. Il Diciottesimo secolo, l’età dei Lumi, si caratterizza principalmente come l’epoca in cui si afferma in modo stabile e definitivo la nuova mentalità scientifica, cioè la fiducia nell’utilità pratica della scienza. Esso vide, altresì, il dislocarsi permanente del centro della produzione del sapere e dell’innovazione, della conoscenza della Natura, dall’Italia ai paesi dell’Europa del Nord, e quindi da un ambito culturale in prevalenza cattolico a uno prevalentemente protestante. Sul piano metodologico, le indagini privilegiano l’approccio sperimentale su quello dell’osservazione. Su un versante più specifico la grande sintesi newtoniana dei Principia (1687) e dell’Opticks (1704), aprirà agli studiosi settecenteschi di filosofia naturale nuovi problemi fisici e metodologici. Le accademie, le società di studiosi, acquistarono il carattere di sedi stabili di discussione e valutazione dei risultati delle ricerche presentate dagli associati o svolte in altre sedi. Le scuole superiori e le Università diventano il luogo in cui si concentra progressivamente l’elaborazione e lo sviluppo delle conoscenze. Opera simbolo di questa stagione culturale fu l’Encyclopédie, diretta da Jean Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) e finalizzata a svolgere una funzione di sintesi e divulgazione. Le polemiche e gli attacchi suscitati dall’iniziativa editoriale ebbero in comune il medesimo obiettivo: lo spirito antidogmatico e la polemica, degli enciclopedisti, contro le religioni rivelate. Un atteggiamento che avrà il suo esito nella condanna di Clemente XIII (1758-1769).

In Italia, il clima di riforme innescato dal movimento dei Lumi avrà nel papato di Benedetto XIV (1740-1758) un interlocutore colto e sensibile alle istanze dei circoli più avanzati della cultura italiana ed europea. Frutto di questa nuova sensibilità sarà la riedizione delle opere di Galileo a Padova. Sempre in Italia, la Compagnia di Gesù si segnala per l’impegno e il livello tra i più avanzati della ricerca fisico-astronomica condotta al Collegio romano, in quello di Brera, a Milano e a Bologna; più in generale, l’atteggiamento degli scienziati gesuiti, i quali non aderiranno alle letture materialistiche dei risultati della scienza dell’epoca, ma si opporranno, altresì, all’identificazione che un certo cattolicesimo porrà tra quelle posizioni ideologiche e attività scientifica in quanto tale, contribuì, secondo Baldini, a impedire che l’opposizione a taluni sviluppi filosofici inducesse la Chiesa a isolarsi rispetto alle acquisizioni della scienza. Il risultato di questa espressione fu che alla metà del Settecento tale modo di fare ricerca si presentava con caratteri indistinguibili da quello dei “moderni”. Boscovich, Calandrelli, Lecchi, Cetti, Ximenes operano secondo standard del tutto adeguati all’epoca; è l’approdo di un percorso in cui gli scienziati della Compagnia avevano agito da traino più che da freno. In tale ambito si colloca la figura e l’opera del gesuita Lazzaro Spallanzani (1729-1799), le cui ricerche naturalistiche nel campo della generazione spontanea furono raccolte nel Saggio di Osservazioni Microscopiche sul Sistema della Generazione de’ Signori di Needham e Buffon (1765). Di carattere pioneristico anche i suoi esperimenti sulla fecondazione artificiale esposti nelle Dissertazioni di fisica animale e vegetale (1780). Un ruolo non secondario nello sviluppo della scienza sei-settecentesca fu quello svolto dalle accademie scientifiche animate da vescovi, ma soprattutto abati, come Celestino Galiani (1681-1753) a Napoli e l’abate Girolamo Sampieri a Bologna. L’intensa attività di promozione e dibattito su temi scientifici darà frutti di grande portata tra cui la nascita dell’Istituto delle Scienze (1711) apice organizzativo della scienza italiana del primo Settecento; alla cui realizzazione diede un contributo decisivo Prospero Lambertini, prima come arcivescovo di Bologna poi come papa.

Ottocento. Nell’epoca segnata dal passaggio dall’età romantica alla società industriale, il campo della conoscenza, cioè di quel complesso di linguaggi utilizzati per descrivere i fenomeni, si presenta con caratteristiche che non consentono “se non al prezzo di forzature, di tracciare confini netti tra argomenti filosofici e argomenti scientifici” (E. Bellone). Un dato, questo, rilevabile in molte pagine di filosofi in cui l’argomentazione filosofica rinvia a conoscenze sullo stato reale di discipline scientifiche. E’ il caso di personaggi quali Ernst Mach, Pierre Maurice-Marie Duhem o Henry-Louis Bergson, in cui la speculazione teorica è radicata in saperi concernenti la meccanica analitica, la termodinamica e la biologia. Scoperte fondamentali sulla struttura della materia suscitano dispute circa la plausibilità di concezioni materialistiche della Natura e gran parte dell’elaborazione darwiniana rinvia alla “possibilità di ricondurre il mondo dei valori alla biologia” (E. Bellone). Le concezioni meccanicistiche della Natura che già Newton indicava come ostacoli per la conoscenza dell’Universo, vengono erose da teorie che emergono durante l’Ottocento. Viene incrinata alle fondamenta la descrizione del mondo come di un meccanismo ad orologeria. La dimensione storica, in termini di evoluzione viene introdotta in astronomia grazie a filosofi come Kant, fisici matematici come Pierre-Simon de Laplace e astronomi come William Herschel. Un processo analogo, ad opera di Jean-Baptiste Lamarck e Jean-Baptiste Fourier, attraversa il regno del vivente e la termodinamica in cui vengono integrate la dimensione storica e l’elemento trasformistico osservabili sia nei processi termici che in ambito biologico. Emerge, con Ludwig Boltzmann, la nozione di quantum sia nell’ambito della teoria cinetica dei gas che negli studi sui sistemi irreversibili. Da tale matrice scientifica e filosofica, su cui si fonda l’interpretazione del mondo ottocentesca, nascerà senza significative cesure metodologiche e di continuità, la cultura del Novecento.

La scienza italiana, fatta eccezione per alcuni contributi di rilievo nel campo della matematica e più limitatamente nell’astronomia, resterà estranea a tali cambiamenti. L’assenza di uno stato nazionale e la fragilità politica e culturale delle sue èlites perpetueranno a lungo tale condizione di marginalità che avrà riflessi severi in ogni campo della vita culturale civile. Pur con tutte le debolezze e ritardi va comunque distinto il caso delle culture lombarda e piemontese e, in qualche misura, toscana che seppero, attraverso un rapporto diretto fra lo sviluppo sociale e politico, ricerca scientifica e diffusione del sapere tecnico, mantenersi al passo con il progresso culturale e civile della società europea del XIX secolo. Emblematica, in tal senso, è l’opera e la figura di Francesco Maria Denza (1834-1894), barnabita, allievo di Secchi al Collegio romano, operò presso il Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, in Piemonte; fondatore della meteorologia italiana moderna. Un segno di tale peculiare vivacità furono le Riunioni degli Scienziati Italiani che tennero, a Pisa, su iniziativa di Carlo Bonaparte, principe di Canino, la prima di queste assise, nel 1839; e, poi, con cadenza annuale, fino al 1847. Tali consessi, sull’esempio di analoghe iniziative svoltesi in Inghilterra, in Francia e in Germania, esprimevano un’esigenza connaturata alla scienza moderna: la libera circolazione delle idee e lo scambio di opinioni tra studiosi delle medesime discipline. Ciò mancò negli Stati pontifici dove, agli scienziati, fu vietata la partecipazione a tali riunioni e, quindi, la condivisione di un altro importante processo costituito dallo scambio di esperienze e informazioni, e da imprese comuni con la realtà scientifica e tecnologica transalpina.

Tale stato di cose fu accompagnato da un tentativo della Chiesa di dar luogo a un aggiornamento culturale caratterizzato da scelte di apertura alla scienza, ma sotto il controllo delle gerarchie ecclesiastiche e in una precisa funzione apologetica. Gli obiettivi dichiarati di tale programma culturale erano il contrasto del materialismo illuminista e l’innesto della teologia cattolica nella cultura della nascente società industriale, che aveva nella scienza positiva uno dei cardini fondamentali. Combattere la scienza con la scienza, affermava l’abate rosminiano Antonio Stoppani (1824-1891), geologo e paleontologo, cioè le conseguenze filosofiche della scienza, considerate inaccettabili, con un’assunzione priva di remore dei risultati e dei metodi della scienza del tempo. Il più tenace esecutore di tale programma fu il cardinale Luigi Lambruschini (1776-1854), Segretario di Stato, proveniente da una congregazione, quella dei barnabiti, pur ricca di tradizioni scientifiche. Ma è all’istituzione della cattedra di fisica sacra e astronomia alla “Sapienza”, nel 1816, affidata da Pio VII (1800-1823) all’abate Feliciano Scarpellini (1762-1840), che va collocata l’origine di tale programma apologetico e culturale nei confronti del pensiero scientifico moderno. Con questo atto, unitamente alla rinascita dell’Accademia dei Lincei (1801), aperta ai professori della Gregoriana e della “Sapienza”, la Chiesa conferiva uno statuto istituzionale alla ricerca scientifica. Tali tentativi di conciliare le Scritture con le nuove ipotesi scientifiche, etichettato come ‘concordismo’, sarebbero naufragati di fronte al darwinismo e alla sua incompatibilità con la rivelazione. L’atto, comunque, più rilevante nell’ambito del processo di adeguamento della Chiesa cattolica alla cultura moderna fu l’esclusione (1825) dall’Indice delle opere di Galilei da parte di Leone XII (1823-1829), che seguiva la determinazione del Sant’Uffizio di non negare più la licenza di pubblicazione a opere di ispirazione copernicana. Insieme a Stoppani è da segnalare la figura e l’opera del padre gesuita Angelo Secchi (1818-1878), che per l’originalità dei suoi lavori fu uno dei più importanti astronomi e astrofisici d’Europa. La sua opera si colloca nella migliore tradizione astronomica della Compagnia di Gesù al Collegio romano; e la sensibilità e apertura verso gli aspetti filosofici e metodologici circa la natura della conoscenza scientifica fanno di Secchi una figura peculiare all’interno della stessa comunità astronomica italiana. Egli fu, senza dubbio, tra i rappresentanti più significativi di una corrente di pensiero che vide in Europa “un’interpretazione spiritualistica allearsi audacemente alla metodologia induttiva del contemporaneo pensiero positivista” (Redondi).

La vicenda biografica e scientifica di Secchi e Stoppani, strettamente intrecciata con la temperie politica e ideologica dell’Italia di quel tempo, rende icasticamente la complessità e disomogeneità del ruolo della Chiesa cattolica e dei religiosi scienziati, delle Congregazioni di appartenenza e delle loro proprie modalità di azione e proiezione esterna, dei processi di resistenza o adattamento alle mutate condizioni politiche, istituzionali e sociali dell’Europa cattolica, nell’arco temporale segnato dalla Rivoluzione scientifica alla definitiva integrazione delle sue acquisizioni nel pensiero cattolico moderno. Si è detto ampiamente della parte svolta dalla Compagnia di Gesù e del profilo decisamente frastagliato, che le ricerche più aggiornate presentano in ordine a una lettura tradizionale solo coercitivo-repressiva che i suoi religiosi avrebbero svolto lungo il corso della modernità; si evidenzia un contesto poliparadigmatico testimoniato anche dalla partecipazione degli scienziati religiosi ai nuovi costumi della comunità intellettuale. Le infrastrutture scientifiche di cui sono dotati i collegi e gli studia degli ordini, furono aperti ad accogliere anche laici. Fu il caso del galileiano Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), in difficoltà economiche, accolto dai padri scolopi nella loro casa generalizia, presso la chiesa di S. Pantaleo a Roma, dove insediò un’accademia di matematica in aggiunta ai corsi regolari in cui già si insegnavano la geometria euclidea e la meccanica galileiana; e donò ai padri la sua biblioteca personale e i propri strumenti scientifici. Tra tutte le congregazioni religiose insegnanti, solo gli scolopi di S. Giuseppe Calasanzio (1557-1648) prevedevano uno spazio riservato alla didattica della matematica nelle cosiddette scuolette per i poveri; e la creazione della scuola matematica scolopica, sorta a Firenze nel 1638 e diretta dal padre Clemente Settimi (1612-?), maestro di Vincenzo Viviani (1622-1703), pur mancando risultati degni di rilievo segnò tuttavia l’identità della congregazione, radicandovi una sensibilità per la ‘nuova’ scienza che nel lungo periodo finì per incidere anche a livello normativo preparando il terreno per quella saldatura durevole tra erudizione e scienza che, tra Sei e Settecento, caratterizzerà le congregazioni regolari più attente. Domenico Chelucci (1681-1754) e Odoardo Corsini (1702-1765), entrambi procuratori generali dell’ordine, si segnalano, il primo per l’introduzione dell’analisi nei manuali per le scuole (Institutiones arithmeticae, 1733); Corsini per l’antidogmatismo e l’eclettismo nella filosofia naturale caratterizzante l’insegnamento nelle scuole scolopie (Institutiones philosophicae ac mathematicae ad usum Scholarum Piarum, (6 voll. 1731-1734).

Nel caso dei barnabiti, i chierici regolari di S. Paolo Decollato, la figura di assoluta eminenza è quella di Paolo Frisi (1728-1784), fisico, matematico, astronomo e idraulico. Benché la sua vicenda intellettuale si svolga in una fase della vita della congregazione segnata dall’orientamento antinewtoniano e, in generale, avverso alle idee illuministe, di Giacinto Sigismondo Gerdil (1718-1802), egli fu l’esponente più lucido dell’illuminismo scientifico lombardo. Fortemente eccentrico rispetto al suo ordine e con una decisa propensione mondana, esercitò un’influenza profonda sia come didatta, orientando la filosofia insegnata dai barnabiti alle Arcimbolde (dal 1753) da un eclettismo aristotelico-cartesiano verso una fisica matematica e sperimentale, sia come consulente del governo asburgico per la riforma dell’istruzione e delle professioni scientifiche nelle cui scuole si formò quel nucleo di scienziati barnabiti che opererà nell’Italia del nord. La vastità e il livello della sua opera lo porranno in relazione, durante un viaggio in Francia e Inghilterra, con d’Alembert, D. Diderot, C.A. Helvétius, G.-L. Leclerc de Buffon a Parigi, e D. Hume, e B. Franklin a Londra. La sua opera maggiore è la Cosmographia physica et mathematica (I-II, Milano 1774-75).

Gli scienziati presentati costituiscono solo le tracce di una trama ben più fitta e estesa che ha segnato con caratteri chiaramente progressivi gli sviluppi di alcune discipline scientifiche. In alcuni, quali la meteorologia e l’astronomia, tale ruolo ha portato alla creazione di infrastrutture tecnico-scientifiche, ancor oggi operanti, che hanno collocato l’Italia in posizioni di preminenza nel contesto europeo, dando una manifestazione concreta del grado elevato che la presenza religiosa ha saputo esprimere.

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Immagine: Antonio Zanchi, Abramo insegna l’astrologia agli egizi.


LEMMARIO




Scienza, medicina, biologia - vol. II


Autore: Ludovico Galleni

L’unità d’Italia si apre con un panorama della scienza internazionale in cui sta prepotentemente salendo alla ribalta il tema dell’ evoluzione biologica. Infatti la pubblicazione, nel 1859, del libro di Darwin, sull’origine delle specie per selezione naturale, (preceduto nel 1858 dalla pubblicazione congiunta delle due note dello stesso Darwin e di A.R. Wallace) aveva suscitato notevole interesse e animate discussioni nel campo scientifico, ma anche filosofico e teologico, sia in Gran Bretagna che altrove.

Il libro di Darwin infatti, non solo riprendeva la teoria della trasformazione nel tempo dei viventi e della discendenza delle specie da antenati comuni che era già stata presentata agli inizi del XIX secolo da J.B. Lamarck, ma anche proponeva un meccanismo, quello della selezione naturale, facile da comprendere e anche da osservare in natura, chiaro e sperimentabile, almeno confrontandosi con il modo di lavorare degli allevatori. Divenne subito evidente non solo come questa teoria mettesse in discussione qualunque ulteriore possibilità di una lettura letterale del libro della Genesi, ma anche come potesse essere facilmente applicata all’Uomo. E questo aprì discussioni e scontri con la teologia e la filosofia della chiesa d’Inghilterra.

Al contrario proprio l’ambiente cattolico inglese, ricco delle esperienze del cardinale Wiseman e di John Henry Newman, fu invece molto più pronto di quello anglicano a recepire le novità dell’ evoluzione. Non possiamo non ricordare come sia stato proprio uno zoologo inglese, convertitosi al cattolicesimo, St. George Jackson Mivart, a pubblicare, già nel 1865 un albero di filogenesi in cui chiaramente si mostra la separazione tra il ramo delle scimmie antropomorfe e quello che porta all’uomo. Questa discussione investì anche il mondo cattolico italiano che stava vivendo un momento di particolare vivacità culturale e intellettuale dopo il grande sforzo dell’unità. Filosofi come Gioberti e Rosmini e altre figure, in particolare del cattolicesimo lombardo che tanto aveva dato alla causa del Risorgimento, avevano creato uno spazio di libertà intellettuale che veniva fortemente recepito anche nel mondo scientifico. Desideriamo quindi, facendo riferimento ad alcuni personaggi chiave della cultura italiana post unitaria, proporre una ricostruzione dei rapporti tra chiesa e scienza subito dopo l’Unità d’ Italia.

La prima figura che incontriamo è quella dello zoologo lombardo, ma docente a Torino, Filippo de Filippi. Si tratta di una figura attiva nelle discussioni che hanno luogo durante gli incontri degli scienziati italiani e che ha avuto anche un’ importante attività di divulgatore e di insegnante. Era abbastanza noto un piccolo libro dedicato alla figlia, “Lettere sulla Creazione terrestre”, in cui si sottolineava quanto la conoscenza delle scienze naturali fosse importante per l‘educazione delle ragazze; ma fu importante anche la conferenza del 1864 tenuta a Torino sui rapporti tra Uomo e Scimmie. T. Huxley aveva appena pubblicato in Inghilterra, il suo libro, “Il posto dell’ Uomo nella natura” in cui affrontava il problema del rapporto Uomo e Scimmie. La conferenza di Torino è immediatamente successiva. De Filippi sottolinea come la adesione alle ipotesi evolutive e darwiniane ponga il problema dei rapporti dal punto di vista anatomico e fisiologico tra Uomo e scimmia.

Una analisi attenta mostra come siano ben poche le differenze e rende quindi plausibile l’idea che esse derivino da un antenato comune. Semmai la grande diversità è quella psicologica e lì forse va cercato un salto di qualità. Di fronte alle obiezioni di Bianconi, anatomo comparato di Bologna, che gli rimproverava di non avere tenuto in considerazione il testo biblico, De Filippi faceva notare come in fondo anche nel testo biblico, Dio aveva immesso l’anima in materia preesistente: un pezzo di impuro fango. E, aggiunge De Filippi, non è molto più bello pensare che l’abbia immessa in un essere che rappresenta la ricapitolazione di tutta la Creazione? Il dibattito è molto civile anche se avviene tra due scienziati di posizioni teologicamente diverse.

È dunque interessante vedere come la prima ricezione del darwinismo in Italia avvenga da parte di uno scienziato dichiaratamene cattolico come il De Filippi. Naturalmente le cose non sono così semplici: il mondo della cultura cattolica si divide in due campi, ma mentre il mondo scientifico nell’insieme si confronta abbastanza serenamente con i dati, la reazione più dura viene dal mondo dei letterati che entrano in polemica con gli autori che usano l’evoluzionismo darwiniano per una apologetica di tipo ateo. Ne è un esempio il durissimo attacco all’evoluzione che porta Niccolò Tommaseo in una serie di interventi raccolti poi con un titolo quasi simile a quello del De Filippi: l’ Uomo e la Scimmia.

De Filippi è anche impegnato nella riorganizzazione degli insegnamenti delle scienze naturali nell’ Italia ormai unita e promuove una collana didattica di testi di scienze naturali, si preoccupa anche del rilancio e della organizzazione della ricerca e proprio per questo è tra i promotori della prima grande spedizione scientifica dello stato unitario, quella della nave Magenta che parte da Montevideo per giungere poi in Estremo Oriente . In fondo il naturalista de Filippi aveva ben chiaro come le grandi scoperte naturalistiche erano state in parte almeno, merito dei grandi viaggi di esplorazione, viaggi che gli staterelli in cui era frammentata l’Italia non erano stati in grado di organizzare. Quindi era importante anche la progettazione e la realizzazione di spedizioni scientifiche che poi saranno uno dei vanti della attività scientifica del Regno d’Italia. Purtroppo proprio in questa spedizione De Filippi si ammalerà e morirà a Hong Kong con i conforti della fede cattolica. Oggi è sepolto nel camposanto monumentale di Pisa, vicino alla cosmografia teologica di Piero di Puccio, che esprime la sintesi artistica dell’universo aristotelico tomista, ma anche vicino a quella che fu probabilmente la vera lampada di Galileo, conservata anch’essa nel camposanto monumentale.

È ancora il cattolicesimo lombardo che ci propone un’altra figura importante, quella del geologo Antonio Stoppani. Sacerdote, filosoficamente vicino alle idee di Antonio Rosmini sarà anche impegnato in quella opera di rinnovamento della chiesa che poi, tra alterne vicende che qui ci interessano marginalmente, porterà al Concilio Ecumenico Vaticano Secondo. Geologo, si confronta con le novità delle scienza naturali affermando senza ambiguità che, tra il dogma ed il vero scientifico, egli si sentirà sempre di aderire al vero scientifico, nella certezza che poi i problemi si riveleranno superabili. Nonostante queste premesse, egli ritiene che l’evoluzione biologica non abbia ancora superato l’esame della scienza sperimentale e quindi non è disposto ad accettarla. Ma da ottimo geologo vedeva bene come la storia geologica della terra fosse storia di cambiamenti continui. Come poteva allora la vita essere caratterizzata dalla stabilità? Stoppani presenta la risposta a questa domanda durante alcune conferenze pubbliche tenute a Milano dove dirigeva il Museo Civico di Storia Naturale. Secondo Stoppani la vita agisce attivamente, a livello planetario, per mantenere stabili i parametri che le permettono di sopravvivere. La sua è la prima ipotesi scientifica che prende in considerazione la Biosfera come una entità unitaria che tende a mantenere stabili i suoi principali parametri. E’ un recupero dell’idea di una armonia della natura che sarà tipica come vedremo, anche di altri scienziati di cultura cattolica, in particolare in Italia e nell’ambiente latino.

È importante che la presentazione venga fatta durante conferenze pubbliche: anche Stoppani fu un grande divulgatore e questa opera culminerà con la pubblicazione di un testo, “Il bel paese” che sarà usato nelle scuole elementari di tutta Italia per contribuire a costruire un coscienza unitaria, grazie ad una descrizione chiara e precisa della geografia e della geologia italiane, agli scolari di una nazione da poco unita politicamente ma ancora frammentata in differenti dialetti e culture. Il grande sforzo di divulgazione scientifica era anche legato al fatto che la scienza aveva in comune con la religione la necessità di combattere la superstizione, allora come oggi del resto, troppo diffusa un po’ in tutti gli ambienti. Infine non possiamo non ricordare come il libro sia organizzato in forma di dialogo tra uno zio e i nipotini e tra i nipoti di Stoppani c’era Maria Montessori, figlia della sorella, che dalla madre e dallo zio avrà la spinta per studiare medicina.

Il dibattito sull’ evoluzione continuerà nell’ambiente cattolico italiano, con alterne vicende. Qui vogliamo ricordare la posizione favorevole di Antonio Fogazzaro che addirittura terrà conferenze in tutta Italia per mostrare la compatibilità tra l’evoluzionismo e la fede. Antonio Fogazzaro era, indubbiamente, affascinato come scrittore dall’ animalità che sembrava emergere dalla storia naturale dell’ Uomo. Ma in Fogazzaro vi era anche un compito di tipo apologetico: contrapporre il vero scientifico che si presenta con tutto il fascino della ricerca sperimentale a una visione teologica ormai superata, di fatto voleva dire portare acqua al mulino della apologetica atea. Se si proponeva l’alternativa Darwin o Mosè, che poi era il titolo di un libro diffuso in Europa e tradotto anche in Italia, certamente il fascino di Darwin avrebbe messo in secondo piano la rivelazione mosaica. Quindi occorreva mostrare le compatibilità tra evoluzione e fede cattolica, anche se queste richiedevano uno sforzo di approfondimento teologico e di rinnovamento della catechesi. Da questo punto di vista gli interventi della gerarchia sembrano di fatto bloccare queste linee, anche se in fondo si tratta più del tentativo di bloccare le proposte di rinnovamento della struttura ecclesiale che non di vere limitazioni all’opera degli scienziati.

Un capitolo importante del rapporto tra chiesa e scienza dopo l’unità è quello della fisica e in particolare dell’astronomia. Infatti dopo la presa di Roma i vari osservatori attivi nello stato pontificio divengono patrimonio dello stato italiano e la loro strumentazione andrà a costituire il nucleo dell’ Osservatorio Nazionale di Monte Mario. Tra gli astronomi aveva particolare risalto Padre Secchi, gesuita, nato a Reggio Emilia, e astronomo della Stato Pontificio. Quando gli osservatori astronomici romani furono conquistati dopo la Breccia di Porta Pia per rispetto a lui, scienziato noto in tutto il mondo, pioniere della fotografia astronomica e della spettroscopia stellare, si attenderà la sua morte prima di smembrare l‘osservatorio del collegio romano. A questo punto inizia il lavoro di ricostituzione della Specola Vaticana che dovrebbe diventare, attraverso la qualità del lavoro scientifico, il biglietto da visita grazie al quale la chiesa, liberata dalle necessità talora drammatiche e anti evangeliche di gestire uno stato, riacquistava visibilità nei riguardi della cultura internazionale. E dopo padre Denza, sarà Pietro Maffi presidente della Specola e cardinale e arcivescovo di Pisa a rilanciarla.

La figura di Maffi è una figura chiave della cultura cattolica a cavallo della prima guerra mondiale. Astronomo della scuola di Schiaparelli, viene nominato vescovo ausiliare a Ravenna, ma ben presto viene chiamato alla presidenza della Specola vaticana che era entrata in un ambizioso progetto internazionale, collaborando con numerosi altri osservatori di tutto il mondo per la preparazione del catalogo stellare. Le nuove tecniche fotografiche, di cui tra l’altro Padre Secchi era stato un pioniere, rendevano possibile una mappatura delle stelle: il cielo veniva diviso in zone che venivano assegnate a diversi osservatori che dovevano catalogare le stelle per luminosità e posizione. La Specola si era proposta perché, come già abbiamo detto, la scienza doveva essere uno strumento per riaprire alla chiesa le porte del dialogo col mondo moderno. Per portare a termine un’opera così importante, occorreva una direzione capace, competente e autorevole.

Ecco quindi un nuovo presidente, un astronomo, che riceve anche la dignità cardinalizia e viene mandato in una sede prestigiosa, ma non troppo grande, quale Pisa, dove tra l’altro grazie all’opera di Giuseppe Toniolo si comincia a formare un nucleo importante di studiosi di scienze sociali ed economiche. Pisa era una piccola città, ma con una grande tradizione culturale, la città di Galileo che aveva ospitato nel 1839, la prima riunione degli scienziati italiani e con una Università allora tra le prime in Italia. Inoltre a Pisa vi era l’ unica scuola italiana di studi di eccellenza, cioè la Scuola Normale Superiore. A Pisa insegnava Antonio Pacinotti a cui si deve la scoperta della dinamo e vi era un’ottima scuola di matematica con Ulisse Dini. Maffi affronta il problema della Specola affidandola ad un religioso, Padre Hagen, astronomo di chiara fama e appartenente ad un ordine, quello dei Gesuiti che era in grado di gestire l’osservatorio stesso sollevando in parte il Vaticano dalla gestione economica.

Maffi espose nel padiglione vaticano delle esposizioni universali i risultati del lavoro di ricerca della Specola e tra l’altro anche il modellino di un globo celeste utilizzato per la mappatura delle stelle cadenti che erano state oggetto delle sue ricerche quando era ancora un astronomo sperimentale e non solo un organizzatore. Inoltre continuò l‘attività divulgativa pubblicando un volume: Nei cieli che presentava le scoperte astronomiche in modo chiaro e comprensibile.

Maffi è anche consapevole di essere un vescovo astronomo nella città di Galileo e quindi ricorda in tutti i modi possibili il grande scienziato pisano. Interessante è la risposta ad una lettera di Turner, coordinatore del progetto del Catalogo stellare e direttore dell’osservatorio astronomico di Oxford. Quest’ultimo si congratulava per l’ottimo lavoro fatto dalla specola e in particolare delle suore dell’ordine di Maria Bambina che avevano fatto materialmente le misure delle posizioni delle stelle, ma sottolineava anche l’importanza del fatto che Maffi, astronomo, fosse vescovo della città di Galileo. Il Cardinale rispondeva come fosse stato un gran peccato che in un periodo di trionfi della scienza si fossero, per piccolezze umane, addensate delle nubi nei rapporti tra chiesa e scienza, che oggi per fortuna erano state del tutto spazzate via. Maffi si adoperò perché la Piazza del Duomo di Pisa ospitasse un monumento a Galileo, come segno tangibile della avvenuta riconciliazione…ma il progetto dopo vari veti, non andò in porto. Maffi cercò anche di porre le basi per una riconciliazione con lo stato italiano e anche per questo usò la scienza come strumento di dialogo, incontrandosi ad esempio con gli esponenti del Regno d’Italia ai convegni di Astronomia o altri incontri accademici o scientifici. Importanti sono stati gli incontri con Vittorio Emanuele III, in particolare quello del 1925, a Pavia. Ma a noi interessa ancora il rapporto con la scienza attiva e qui abbiamo una interessante sorpresa. Nel primo decennio del ventesimo secolo vi fu un forte ritorno di uno spiritualismo idealista che vide la scienza come una attività secondaria e quasi artigianale rispetto alla filosofia che affrontava i grandi problemi della spirito. Di questa corrente saranno poi campioni Benedetto Croce e Giovanni Gentile e la scienza italiana ne soffrirà non poco. Ma agli inizi del secolo Maffi fonda e dirige dapprima a Pavia e poi a Pisa, la “rivista di fisica matematica e scienze naturali” che ospita lavori sperimentali in varie discipline, ma anche articoli di storia della scienza e traduzioni di articoli di importante interesse culturale e scientifico. Inoltre pubblica le effemeridi e le posizioni dei pianeti e le mappe del cielo.

Ma ciò che colpisce di più sono un gruppo di lavori di biologia evolutiva affidati da Maffi come coordinamento a Padre Agostino Gemelli che sarà tra i fondatori della università cattolica del Sacro Cuore. In un gruppo di articoli intitolati “Per ‘Evoluzione” Padre Gemelli chiarisce la linea della rivista: Darwin è stato il grande innovatore della biologia dell’ottocento, ma ha lasciato aperto il problema di capire se e come la selezione naturale possa spiegare tutti i meccanismi evolutivi. Ecco allora che la rivista comincia a pubblicare articoli sul mutazionismo di De Vries, una teoria in qualche modo complementare a quella di Darwin secondo la quale però i cambiamenti erano derivati da mutazioni rapide e di grande entità, un meccanismo difficilmente integrabile con quello delle piccole e graduali variazioni necessarie alla teoria di Darwin: quindi un problema scientifico che si affrontava con gi strumenti della scienza. La rivista , come abbiamo appena scritto, è una vera e propria miniera di articoli, molti dei quali di matematica, fisica e astronomia, argomenti del resto ovvi data la formazione culturale del Maffi. Vi era anche una grande attenzione alla storia toscana in particolare a quella scuola galileiana di cui Maffi ricorda i successi e i principali esponenti: ancora una volta esempio di una riconciliazione col pensiero galileiano di fatto ormai avvenuta.

A Pisa nasce la società internazionale degli scienziati cattolici, la prima società al mondo che ha esplicitamente nello statuto il progetto di indagare sui rapporti tra scienza e teologia. E sempre dalla Toscana Maffi lancerà le settimane sociali, su ispirazione di Giuseppe Toniolo. Quindi Maffi è una figura fondamentale per i rapporti tra scienza e fede, ma anche tra chiesa e società italiana per il suo lavoro di promozione della ricerca scientifica e della divulgazione scientifica tra i cattolici. Purtroppo però l’uso delle conquiste della scienza per una apologetica atea, rendono il dialogo e le sintesi estremamente difficili.

Lo si vede molto bene nel dibattito sull’ evoluzione. De Filippi, infatti, aveva sottolineato, senza nessun problema, la relazione filogenetica tra l ‘uomo e le scimmie sottolineando anche la necessità di usare sempre gli strumenti di indagine della biologia evolutiva, affermando che i sistemi misti, cioè i sistemi che in parte si basavano sull’evoluzione e in parte ritenevano necessari atti speciali di creazione per spiegare passaggi come l’origine della vita o di grandi gruppi dei viventi, erano da abbandonarsi perchè insoddisfacenti sia dal punto scientifico che teologico. Ma ben presto anche in Italia si diffonde il monismo di E. Haeckel. Per Haeckel la possibilità della scienza di spiegare l’origine della vita e l’origine e la derivazione filetiche delle specie dei viventi con un’unica teoria scientifica, quella dell’evoluzione appunto, veniva elevata a strumento di interpretazione filosofica: il monismo scientifico veniva considerato la prova del monismo filosofico e quindi la prova che l‘unica realtà esistente fosse quella conoscibile con gli strumenti della scienza. A questo punto si perde la chiara lucidità epistemologica di De Filippi e si cerca di mostrare (ecco il senso dei lavori di Padre Gemelli ), che l’evoluzione esiste e funziona ma che l’indagine scientifica spiega l’evoluzione all’interno dei gruppi, ma non quella tra gruppi. Quindi la ricerca sperimentale sull’evoluzione dovrebbe dimostrare che il monismo non solo è un grave errore filosofico, ma non ha nemmeno basi sperimentali. Cercare nella indagine scientifica la confutazione di un errore filosofico è pur sempre anch’esso un errore. Inoltre la difesa dal materialismo monista ha anche come conseguenza alcune censure da parte delle autorità romane dell’evoluzionismo filosofico, che in Italia ad esempio colpiranno Raffaello Caverni e in modo meno eclatante anche un vescovo come Mons. Bonomelli, condanne che non riguardano scienziati, ma filosofi, teologi e pastori che in qualche modo hanno ritenuto di utilizzare alcune delle ipotesi derivanti dalle scienze dell’evoluzione. Ma di fatto oltre a far tacere voci importanti per il dialogo, susciteranno anche dubbi e tensioni nei riguardi di quegli scienziati che onestamente cercavano di fare il loro lavoro di indagine e dubbi e tensioni nei riguardi del lavoro stesso della scienza.

Presto però da una parte la crisi del modernismo, poi lo scoppio della prima guerra mondiale e poi la tragedia del fascismo sembrano far passare in secondo piano il lavoro di indagine scientifica e il rapporto tra scienza e fede.

La scienza italiana raggiunge risultati importanti, in particolare con la scuola di fisica di Enrico Fermi e con la scuola di matematica di Vito Volterra, ambedue laureati a Pisa alla scuola Normale Superiore. Ma ben presto una tragedia interesserà tutta la società italiana e quindi anche l’ambiente scientifico e sarà l’adesione alla teoria della razza. Per alcuni fu una adesione entusiasta per altri una silenziosa ma pur sempre colpevole accettazione di una discriminazione inaccettabile. Purtroppo le leggi razziali faranno sì che Volterra finisca per sparire dalla scena culturale italiana e Fermi emigri negli Stati Uniti e con lui molti giovani e non più giovani scienziati ebrei.

Ma intanto all’estero alcune figure importanti cominciano a essere conosciute e discusse. Il matematico belga Padre Lemaitre lavorando sulla cosiddetta fuga delle galassie, mostra come esse si allontanino da un punto che può essere considerato il momento della loro origine nel tempo e nello spazio e che egli chiama: l’uovo cosmico. L’evoluzione animale e umana tornano prepotentemente alla ribalta grazie al lavoro di due religiosi francesi, il padre H. Breuil e il Padre P. Teilhard de Chardin. Quest’ ultimo, gesuita, comincia ad abbozzare una importante sintesi tra teologia cattolica ed evoluzione, che ruota attorno al concetto di muovere verso: la materia muove verso la complessità e la vita muove verso la complessità e la coscienza. Viene descritta una progressiva complessificazione delle strutture in particolare di quelle cerebrali, che porta alla origine della coscienza riflessa e quindi del pensiero. A questo punto la storia della vita diviene grazie alla accettazione dell’alleanza da parte della creatura libera anche storia di alleanza e salvezza che si concluderà nel momento della seconda venuta di Cristo. L’evoluzione riporta in primo piano l’idea dell’umanità in cammino verso il futuro e affianca alla prospettiva escatologia della salvezza del singolo in Paradiso, quella dell’umanità che su questa terra muove verso la seconda venuta di Cristo. Si tratta di idee importanti, sia dal punto di vista scientifico (l’evoluzione come muovere verso) sia dal punto di vista filosofico (la ricezione dell’evoluzionismo come sistema generale di pensiero) sia dal punto di vista teologico (l’evoluzione come muovere verso il futuro, con un progetto di perfezione che non è da ricercarsi nel passato in un ipotetico giardino dell’ Eden, ma nel futuro sulla Terra costruita grazie all’alleanza).

Purtroppo le gerarchie cattoliche vietarono a Teilhard de Chardin di pubblicare in vita i suoi scritti filosofici e teologici. La condanna al silenzio è un comportamento sempre profondamente sbagliato perché le idee circolano ugualmente ma non è permesso più il libero e aperto confronto. Frammenti del pensiero di Teilhard de Chardin cominciamo a diffondersi ma solo dopo la sua morte essi verranno conosciuti e nonostante la condanna divengono tra le linee portanti del Concilio Ecumenico Vaticano secondo (da qui in poi semplicemente Concilio). E sul Concilio occorre andare in profondità dal momento che tratta del più importante documento magisteriale del ventesimo secolo e che ha dato precise indicazioni dottrinali che sono fondamentali per il rapporto chiesa e scienza in particolare nella Gaudium et Spes.

In questa costituzione infatti il Concilio ha definito i rapporti tra la chiesa ed il mondo moderno, rapporti che non debbono essere conflittuali, ma di aiuto reciproco. In particolare va sottolineato come al numero 44 si definisca come la chiesa riceva un aiuto importante dal mondo contemporaneo: “Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano”.

L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la Verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa.” Ecco il progresso della scienza che diviene fondamentale perché concorre a comprendere meglio la natura stessa dell’uomo e ad aprire nuove vie verso la verità. Le conquiste della scienza, ben lontane dall’essere fonte di crisi e di dubbio con cui confrontarsi spesso con difficoltà talvolta addirittura con sospetto, divengono uno strumento per aprire nuove vie verso la Verità.

Inoltre al numero 36 la Gaudium et Spes , parlando della autonomia delle realtà terrene, chiarisce l’aspetto dell’autonomia delle scienze “Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza legittima, che non è solo postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla loro stessa condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte. Perciò la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Iddio”.

In fondo, è importante il riferimento all’autonomia del metodo: la scienza nell’accertare strumenti che aprono nuove vie verso la verità, non risponde né alla teologia, né al magistero, ma risponde al proprio metodo. Quindi nulla nella scienza come approfondimento di conoscenze sulla natura e sull’uomo è negativo; semmai fondamentale è il giudizio etico su come si raggiunge la conoscenza e come questa conoscenza viene poi applicata.

Il concilio apre una stagione fecondissima che ovviamente a questo punto possiamo riassumere in poche parole e ancora col riferimento ad alcune figure importanti. Innanzitutto ancora Teilhard de Chardin. Nell’immediato secondo dopo guerra, terminata l’esperienza cinese, era venuto a Roma nella speranza di avere la autorizzazione a pubblicare lo scritto a cui teneva di più: Il Fenomeno Umano e a Roma aveva visitato uno dei principali siti italiani di paleoantropologia, al Circeo, accompagnato da Alberto Carlo Blanc. E Blanc pubblicò la traduzione di alcuni suoi scritti in un volumetto intitolato: L’avvenire dell’Uomo.

Inizia qui l’influenza teilhardiano sui geologi, i paleontologi e i paleoantropologi latini che si concretizzerà nel gruppo di ricercatori francesi italiani e spagnoli che si riuniscono a Sabadell, in Catalogna. Il gruppo, riprendendo in pieno la lezione teilhardiana, affronterà il tema dell’ evoluzione cercando un approccio più ampio di quello basato sulla biologia delle popolazioni. Cercherà di spiegare alcuni passaggi importanti come la stabilità di parametri nei tempi lunghi come risultato degli equilibri degli ecosistemi e di meccanismi di evoluzione armonica. In particolare in Italia Piero Leonardi, riprendendo anche la tradizione italiana sulle interazioni tra specie e gli equilibri degli ecosistemi di Vito Volterra e Umberto D’Ancona, sottolineerà la necessita di indagare sugli equilibri della Biosfera e arriverà a parlare di simbiosi generale della Biosfera. Ma se siamo in grado di riferirci ad una vera e propria scuola latina, più difficile è delimitare contorni di scuola italiana di evoluzionisti collegati in vario modo all’esperienza culturale cattolica. Di fatto però vi è lo sviluppo della tradizione antropologica con a Pisa, Raffaello Parenti, e in Gregoriana Padre Marcozzi, ma forse l’esperienza più interessante è ancora quella che parte dalla riflessione su Teilhard de Chardin e ha origine dall’opera svolta a Firenze, all’Istituto Stensen dal gesuita padre Alessandro Dall’Olio. A Firenze si svolgono importanti convegni su Teilhard de Chardin, Darwin e dopo la morte di Padre Dall’Olio, su Mendel. E la rivista dell’Istituto, Il Futuro dell’ Uomo, ospita articoli di numerosi scienziati che in vario modo rispondono alle sollecitazioni dell’opera di Teilhard de Chardin.

Fondamentale è il problema sollevato dalla più importante evoluzionista italiana, Maria Gabriella Manfredi Romanini, che fu anche presidente della sezione di Pavia del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale. Come si può in maniera consapevole costruire la Terra, di fronte a scelte quali quelle delle biotecnologie, scelte difficili da spiegare e quindi difficili da proporre all’interno di un processo democratico di cittadini attivi? Con grande lucidità veniva previsto e discusso uno dei problemi posti dalla scienza contemporanea, quello del difficile rapporto tra partecipazione democratica e scelte operative su temi intellettualmente difficili.

Ma non possiamo non concludere ricordano anche il lavoro svolto da due importanti matematici: in particolare Ennio De Giorgi che ha sviluppato una visione sapienziale delle scienza e che ha culminato nella proposta di un linguaggio semi-formale che superasse i limiti del riduzionismo e infine sempre in matematica l’opera di Giovanni Prodi che ha rilanciato in Italia la consuetudine di incontri in cui si discutessero temi di confine tra scienza e fede.

Un’ultima considerazione: ci siamo concentrati sul magistero del concilio perché nulla del magistero papale successivo ha aggiunto alla chiarezza delle posizioni del Concilio Vaticano secondo, come del resto è giusto che sia visto che nessuno dei Papi che si sono succeduti dopo la chiusura del Concilio ha usato del magistero straordinario. Il Concilio rimane dunque ancora il riferimento fondamentale su questi temi anche se i bibliografia sono stati aggiunto i riferimenti a Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI di cui ricordiamo gli interventi al convegno di Castel Gandolfo su Creazione ed Evoluzione.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Creazione ed Evoluzione, un convegno con Papa Benedetto XVI, Bologna, 2007; F. Facchini – F. Badiali, Vivere una doppia cittadinanza. La teologia della creazione nei quaderni de “La civiltà cattolica” Bologna, 2013; L. Galleni, Scienza e Teologia, proposte per una sintesi feconda, Brescia 1992; L. Galleni, Darwin, Teilhard de Chardin e gli altri… le tre teorie dell’evoluzione, Pisa, 20122; L. Galleni – M.P. Palla, Descrizione dei documenti dell’Archivio del cardinale Maffi che riguardano la Specola Vaticana, Pontedera, 2005; G. Giacobini – G.L. Panattoni, Il Darwinismo in Italia, Torino, 1983; Giovanni Paolo II On science and religion, Città del vaticano, 1989; S. Maffeo, La specola vaticana, nove papi e una missione, Città del Vaticano, 2001; Paolo VI, Insegnamenti sulla scienza e sulla tecnica, Brescia, 1986; P. Teilhard de Chardin, Le singolarità della specie umana, trad. it. Milano, 2013.


LEMMARIO




Scismi - vol. II


Autore: Francesco Saverio Venuto

Lefebvriani. Lo “scisma” lefebvriano, consumatosi nel giugno del 1988, è la conseguenza della decisione di Mons. Marcel Lefebvre – vescovo francese tradizionalista, contestatore di alcuni orientamenti e interpretazioni del Concilio Vaticano II, soprattutto in relazione ai temi della collegialità episcopale, dell’ecumenismo, del dialogo interreligioso e della libertà religiosa – di consacrare vescovi, senza il necessario mandato della Sede Apostolica, quattro membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X, da lui fondata per la salvaguardia della Tradizione. Il movimento scismatico lefebvriano è presente in Italia con tre centri: la “casa madre” ad Albano Laziale in provincia di Roma e due priorati, san Carlo Borromeo a Montalenghe nel Torinese e Madonna di Loreto a Rimini. Il ramo italiano del tradizionalismo lefebvriano si esprime anche attraverso la pubblicazione di una rivista, La Tradizione Cattolica. All’interno di essa vengono proposti articoli di vario genere su alcune questioni nodali della presenza del movimento di Mons. Lefebvre in territorio italiano: lo statuto canonico delle comunità lefebvriane, specialmente in relazione ad una convinta appartenenza alla Chiesa Cattolica, nonostante le difficoltà giuridiche derivanti dal rifiuto del Vaticano II e dallo scisma del loro fondatore; la critica al valore dogmatico del Vaticano II in conformità ai giudizi critici di Mons. Lefebvre; il rapporto della Chiesa con il mondo contemporaneo; l’azione pastorale ispirata dal Concilio, particolarmente in campo ecumenico e nel dialogo con le altre religioni; l’apostasia all’interno della Chiesa, innanzitutto nei suoi pastori; e non ultima, in ordine di importanza, la riforma liturgica. I tre centri lefebvriani presenti in Italia sono impegnati nell’organizzazione di convegni di studio finalizzati a promuovere un ritorno alla “vera” Tradizione, unico rimedio di fronte alla situazione assai critica della Chiesa post-conciliare (diffusione di una mentalità anticristiana e drastico calo delle vocazioni sacerdotali) e di un annuale pellegrinaggio nazionale da Bevagna ad Assisi. In Italia, accanto al movimento più fedele alle tesi di Mons. Lefebvre, si è diffusa anche una forma di contestazione più radicale e critica rispetto a quella del presule francese, nota come sedevacantismo. Questo ulteriore scisma all’interno dello scisma lefebvriano non si esprime soltanto a favore una disobbedienza contro i papi quando insegnano contro la Tradizione della Chiesa, ma ritiene che i pontefici che convalidano e professano con il loro magistero l’errore del Vaticano II sono privi in senso assoluto dell’autorità pontificia oppure, se la posseggono, la esercitano tuttavia in senso materiale, ma non formale. La prima forma di sedevacantismo fa capo all’Associazione Santa Maria Salus Populi Romani in Feletto (To) e possiede una propria rivista Il Nuovo Osservatore Cattolico, mentre la seconda fa capo all’Istituto Mater Boni Consilii con una sede anche in Italia in Verrua Savoia (To) e si esprime attraverso il periodico Sodalitium.

I Vetero-Cattolici. Il movimento scismatico dei vetero-cattolici dipende da tre differenti avvenimenti storici dai quali si sono sviluppate e dipendono tre realtà ecclesiali. La prima di esse è da collegarsi ad un gruppo di giansenisti olandesi con sede a Utrecht, i quali avendo rifiutato la condanna del giansenismo contenuta nella bolla Unigenitus del 1713 di Papa Clemente XI, si separarono da Roma ottenendo nel 1723 l’ordinazione episcopale del loro leader Cornelius Steenhoven (1662-1725). La seconda si è costituita in seguito alla contestazione e al rifiuto del dogma dell’infallibilità del Pontefice, proclamato al Concilio Vaticano I (1869-1870), da parte dei teologi-discepoli del sacerdote e professore di Storia ecclesiastica Ignaz von Döllinger (1799-1890). Uno di essi, il tedesco Josef Hubert Reinkens (1821-1896), riuscì a procurarsi dai vescovi olandesi della sede giansenista di Utrecht la consacrazione episcopale, divenendo nel 1873 “vescovo cattolico dei vetero-cattolici”.

L’ultima realtà è più recente e si presenta come un tentativo di coordinare comunità ecclesiali di origine nazionale e separatasi da Roma, ispirandosi ai principi ecclesiologici che soggiacciono alla Chiesa d’Inghilterra. Nell’insieme le tre specifiche realtà professano la validità dei sette sacramenti della Chiesa Cattolica romana, il possibile accesso delle donne al ministero ordinato, un’ecclesiologia di tipo episcopale-sinodale, e utilizzano molteplici forme liturgiche, dal rito romano (antico e nuovo) alla liturgia di San Giovanni Crisostomo.

In Italia sono presenti due particolari realtà: la Chiesa Vetero-Cattolica dell’Unione di Utrecht e la Chiesa Vetero-Cattolica Italiana. La prima forma ecclesiale conta un centinaio di fedeli, alla cui guida sono preposte anche delle donne-sacerdote, e si presenta al suo interno divisa su questioni di carattere teologico-pastorale (matrimoni tra persone dello stesso sesso). Essa adotta differenti liturgie, alcune di esse con forme provenienti dai movimenti carismatici (imposizione delle mani e unzioni). La Chiesa Vetero-Cattolica Italiana si collega idealmente ad alcuni tentativi politici di costituire in Italia una Chiesa nazionale divisa da Roma. Un primo progetto fu realizzato nel 1808 dal vescovo Domenico Forges Davanzati (1742-1810) con l’istituzione del Magistero Catechetico civile Laicale, costituitosi prima in Associazione dei Protocattolici (1862) e successivamente in Chiesa Cattolica Nazionale Italiana (1882). Un secondo tentativo è da attribuire a Filippo Cicchitti Suriani (1861-1944), fondatore del Centro Culturale Cattolico Antico, e a Ugo Janni (1865-1938), cultore di teologia pancristiana. Questo movimento, ereditato da Mario De Conca (1901-1970) e, più tardi, da Luigi Caroppo (1933-2004), un ex servita, è rimasto fino al 1997 congiunto all’Unione di Utrecht, dalla quale si è separata per il rifiuto di ammettere all’orinazione sacerdotale le donne. La Chiesa Vetero-Cattolica Italiana professa un credo simile a quello della Chiesa Cattolica romana, riletto tuttavia secondo i principi vetero-cattolici, ed utilizza una liturgia che compendia diversi riti (romano, ambrosiano e bizantino). In ambito pastorale questa realtà ecclesiale è orientata ad opere di carattere sanitario (psicoterapia) e alla diffusione di un bollettino a contenuto ecumenico, Il Dialogo.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., La Chiesa cattolica: centro, periferia e scismi, in M. Introvigne – P. Zoccatelli (ed.), Le religioni in Italia, Elledici, Leumann 2006, 37-40; AA.VV., Tradizionalisti e sedevacantisti, in M. Introvigne – P. Zoccatelli (ed.), Le religioni in Italia, Elledici, Leumann 2006, 51-57; N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio Vaticano II, Edizioni Studium, Roma 2003, 110-158; Chr. Gabrieli, Uno scisma moderno. La comunità lefebvriana, EDB, Bologna 2012; D. Menozzi, L’anticoncilio (1966-1984), in G. Alberigo – J.-P. Jossua (edd.), Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985, 433-464; G. Miccoli, La chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Laterza, Roma-Bari 2011; AA.VV., Le Chiese vetero-cattoliche, in M. Introvigne – P. Zoccatelli (ed.), Le religioni in Italia, Elledici, Leumann 2006, 44-51; C. Milaneschi, Ugo Janni. Pionere dell’ecumenismo, Claudiana, Torino 1979; L. Minervini Gadaleta, Pancristianesimo. Da Forges Davanzati a Giovanni Paolo II, Edizioni La  Meridiana, Molfetta 1997; A. Cicchitti Suriani, Il Vecchio Cattolicismo in Italia, in BSSV, CII 12 (1957), 73-77.


LEMMARIO




Scultura - vol. I


 

Autore: Giovanni Liccardo1

Dalle origini al gotico. La scultura cristiana, rispetto alla pittura, si sviluppò più lentamente prendendo a prestito i suoi primi temi dal simbolismo funerario pagano. In effetti, sono state recuperate poche copie di sculture cristiane; il Buon Pastore fu uno dei soggetti più ripetuti, come prova la statuetta conservata a Roma e risalente al III secolo. Di controversa esegesi è la statua che raffigura S. Ippolito (III secolo); scoperta a Roma nel 1551 fra le rovine dell’area soprastante la catacomba omonima, non aveva la testa, il petto e le mani (poi aggiunte nel restauro), ora è sistemata ai piedi dello scalone d’ingresso della Biblioteca Vaticana: ai lati della cattedra, dove è seduto il personaggio, si leggono due lunghe iscrizioni in greco, una contenente il ciclo pasquale e l’altra l’elenco dei suoi scritti.

Nondimeno, la maggior parte della scultura cristiana antica ha carattere funerario e nasce nel III secolo; alla fine dell’età tetrarchica (inizio del IV secolo) compare la figura dello stesso Cristo, dapprima barbato come un filosofo cinico, in seguito con aspetto giovanile, quindi si moltiplicarono le scene dei miracoli sui sarcofagi (solitamente di marmo in tutte le sue varietà e tonalità). Di questo periodo esistono bellissimi modelli, alcuni a due registri, come il sarcofago di Adelfia di Siracusa, quello detto dogmatico o teologico dei Musei Lateranensi e quello detto dei due fratelli, il cui stile sempre più classico porterà al più tardo (359) sarcofago del console Giunio Basso (Roma, Grotte Vaticane) dove sono introdotte scene della Passione di Gesù. Quest’ultimo pezzo è considerato la più alta realizzazione della corrente postcostantiniana; la divisione delle scene è ottenuta mediante colonne, particolare caratteristico degli ultimi anni del regno di Costantino e dell’epoca di Teodosio.

Per quanto riguarda i centri di produzione, dopo la scomparsa delle fabbriche di Roma, dovute al sacco della città da parte di Alarico nel 410, Ravenna divenne un polo assai originale, come testimoniano i sarcofagi del V e VI secolo conservati nelle sue note basiliche; tra le altre influenti officine si distinse anche Milano, dove sul finire del IV secolo furono prodotti numerosi esemplari (come quello della basilica di S. Ambrogio).2

Ovviamente, l’arte dello scolpire fu utilizzata anche per realizzare i capitelli delle colonne, le transenne, i plutei, le balaustre e altre decorazioni liturgiche e cultuali. Tra gli oggetti di arte minore, realizzati in metallo prezioso, in avorio, in bronzo, in terracotta, in legno ecc., molto diffusi furono i dittici. In avorio con ornati e figure furono realizzate anche coperture di codici, come quelle del Museo del Duomo e del Museo Archeo­logico di Milano, e cofanetti-reliquiari, come la lipsanoteca del Museo Cristiano di Brescia, forse del IV secolo. Molto nota è la cosiddetta Cattedra di Massimiano, prezioso esemplare di suppellet­tile liturgica, interamente rivestita di placche in avorio istoriate. Tra le decorazioni lignee, infine, di grande valore è la porta intarsiata della basilica di S. Sabina a Roma, risalente forse alla metà del V secolo, o poco più tardi.

Nell’alto medioevo la scultura manifestò un marcato disinteresse verso l’arte classica, ripudiandone le tecniche artistiche e le forme. Frequenti furono i bassorilievi e tutte le opere di piccole dimensioni; nel campo della metallurgia da ricordare i rilievi dell’altare della basilica di S. Ambrogio di Milano, eseguiti nella prima metà del IX secolo da Vuolvino. La scultura intesa come ripresa dei valori plastici e volumetrici, persi a seguito della diffusione del gusto bizantino, ebbe nuovo vigore solamente agli inizi del XII secolo, in corrispondenza col pieno fiorire della civiltà romanica ed elaborò forme di solida plasticità e grande senso figurativo. Peraltro, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono anzitutto la finalità educativa; dal momento che bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male e a praticare le virtù e il bene, il tema ricorrente (specie nei portali) fu la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse. Con questa raffigurazione si voleva rimarcare che Cristo è la porta che conduce al cielo; i fedeli, varcando la soglia dell’edificio sacro, entravano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria. Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.

Tra le personalità artistiche distintamente riconoscibili furono Wiligelmo (autore per il Duomo di Modena tra 1099 e 1106 delle Storie della Genesi), Benedetto Antelami (che eseguì le decorazioni del Battistero di Parma, tra 1196 e 1270), ancora Bonanno Pisano (che lavorò per la Cattedrale di Pisa). In Guglielmo, infine, che realizzò tra il 1159 e il 1165 il pulpito per il Duomo di Pisa (poi trasferito a Cagliari sostituito da un nuovo manufatto di Giovanni Pisano), gli studiosi riconoscono l’iniziatore di una vera e propria scuola, influenzata dai modi e dalle forme dei sarcofagi; tra gli emuli fu Biduino che nel 1180 scolpì l’architrave del portale della pieve di San Casciano a Settimo.3

Il fiorire del gotico (almeno fino al XV) segnò il ritorno alla scultura a tutto tondo e alla statuaria; molte sculture furono ancora strettamente legate all’architettura ecclesiastica, altre godettero di maggiore autonomia e raffigurarono re e signori del tempo. In Italia le figure furono simili a quelle romane e ci fu una diffusione delle forme allungate; i materiali più usati furono il marmo, il bronzo, i metalli preziosi, la pietra e il legno. Gli scultori più importanti di quest’epoca furono Nicola Pisano, Giovanni Pisano e Arnolfo Di Cambio.

La scultura gotica fece delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore, mentre il Christus patiens divenne un’immagine atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica rivelò una pietà felice e serena; frequenti furono anche le manifestazioni “laiche” dell’esistenza, come le rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti. Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia.

L’età moderna e contemporanea. Anche la scultura cristiana tra ‘400 e ‘500 risente del rinnovato spirito umanistico che oppone all’universalismo e al senso del trascendente medievale la piena coscienza delle capacità razionali dell’uomo e della sua individualità, secondo una concezione che trova riscontro nel pensiero della civiltà antica che riconosceva all’uomo la sua autonomia e faceva della terra il suo regno; Lorenzo Ghiberti con la realizzazione della Porta del Paradiso a Firenze rappresenta indubbiamente il primo trapasso dalla tradizione gotica alla nuova civiltà rinascimentale. La scultura si affranca dall’architettura e le statue assumono toni sempre più realistici per via del continuo studio dell’anatomia umana. Esemplificativa è una scultura di Andrea del Verrocchio, L’increduiltà di S. Tommaso, nella Chiesa di Orsanmichele, a Firenze. Il centro dell’azione è l’incontro di quelle mani che non si sfio­rano, è il dialogo di quegli sguardi che non si incontrano; il vero significato di quel gruppo è l’incontro fra il divino e l’umano, è l’umana difficoltà a cre­dere «quia absurdum est».

In questo movimento emerge il nome di Michelangelo Buonarroti; nella sua opera si fondono appieno le due dimensioni spirituali e simboliche del tempo. Nella Pietà incompiuta del Duomo di Firenze, ad esempio, dalle braccia dell’uomo incappucciato scivola a terra l’inanimato corpo di Cri­sto che la Madre non regge, ma al qua­le si stringe quasi a confondersi con esso. È un gruppo che sta per sciogliere i nessi che stringono ancora umano e divino, così come dai larghi piani inerti dove l’ombra quasi inizia la decomposizione, all’angolo secco della gamba, anticipo del­la verità scheletrica, il corpo del Cristo denuncia la morte e bellezza ed energia non hanno più luogo. Solo l’amore della Madre è l’e­mozione viva insieme alla pietà con cui l’uomo religiosamente assolve l’opera di misericordia. Momento intensamente tragico e rassegnato insieme, momento in cui an­che Cristo è divenuto, come gli uomini di cui aveva assunto la forma, materia che sta per perdere perfino la sua organica nobile struttura. A tanto si e assoggettato il Salvatore.4

In seguito gli scultori manieristi si limitarono ad imitare gli artisti rinascimentali, perfezionando le loro opere. Le statue sono più virtuosistiche e vogliono spingere il fedele a guardarle con più attenzione. Le forme barocche, invece, rimasero dominanti per tutto il XVII secolo; le sculture ebbero configurazioni fortemente dinamiche e rispecchiarono il ruolo della Chiesa nell’età controriformistica. Grande protagonista di questo movimento culturale fu Gian Lorenzo Bernini, che offrì un apporto originalissimo a questo linguaggio, con il movimento di forme immerse nello spazio. Modello esemplare è l’Estasi di Santa Teresa in S. Maria della Vittoria, a Roma. Illuminata dall’alto con una luce vera che scende sulla scia dei raggi d’oro fino a lei, la bianca figura della santa cede all’intensità dell’amore di Dio venendo meno su quel­le stesse nuvole che l’avevano avvicinata al calore divino. L’angelo, quasi un Eros cristiano, lieve e ridente, porta la freccia che puntualizza l’acutezza del dolore d’a­more. Dall’opacità delle nuvole, all’affan­nato chiaroscuro della bianca pesante ve­ste monacale, al guizzo pittorico dell’an­gelo, tutto è colore; solo il volto e la mano della santa, le parti più inerti, sono vero pallore. Alla contem­plazione delle sacre scene immobilizzate nel loro valore di presentazione atempo­rale, si sostituisce ora una partecipazione emotiva che viene sollecitata nel fedele dal dramma in atto.

Verso la fine del XVIII secolo si svilupparono le forme neoclassiche, caratterizzate ancora da una riscoperta dell’arte classica, che si tradusse nella semplicità e nella regolarità delle forme così come nell’assenza di elementi superflui. Nondimeno, inserita in un complesso architettonico o nella forma di opera plastica isolata, dall’antichità a tutto l’Ottocento la scultura ha coltivato una vocazione primariamente monumentale e celebrativa; da questo punto di vista la sua storia fa risaltare una effettiva continuità fino agli inizi del Novecento, quando essa viene investita da una robusta innovazione che elegge l’antimonumentalità e l’antiretorica a sue caratteristiche vitali e si dispiega nell’elaborazione di nuovi linguaggi, la sperimentazione di materiali non tradizionali, la ridefinizione dei rapporto dell’opera con lo spazio circostante e con l’osservatore.

In Italia il Novecento inizia con la ri­velazione sacra e la tenerezza del contatto materno riscoperto attraverso la scultura gotica senese e la solennità espressiva del primo Rinascimento. Figurazione e astrazione vengono sempre più avvertite come tecniche stili­stiche antitetiche o linguaggi contrappo­sti, piuttosto che come metodologie poetiche autonome in parte confinanti, se non confluenti. Tra gli artisti e le opere spiccano Luciano Minguzzi, autore della quinta porta del Duomo di Milano, rea­lizzata negli anni Cinquanta, e della Porta del Bene e del Male terminata nel 1977 per la basilica di San Pietro. Giaco­mo Manzù, invece, lavorò per la stessa basilica dagli anni Cin­quanta – per precisa volontà di Giovan­ni XXIII – alla Porta della Morte, che ebbe realizzazione definitiva nel 1964 e rappresenta l’epicentro di una poetica che nel dialogare con la tradizione ne rifiuta gli aspetti più strettamente accademici. Sia sul fronte larvatamente figurativo che su un piano più o meno astratto, emergono le personalità arti­stiche, tra gli altri, di Marino Marini, di Agenore Fabbri, di Pietro Consagra, di Nino Franchina, di Pericle Fazzini; le loro opere sembrano oggi ancora capaci di atti­rare senza inganni gli sguardi degli spettatori.

Fonti e Bibl. essenziale

P. Angiolini Martinelli, Altari, amboni, cibori, cornici, plutei con figure di animali e con intrecci, transenne e frammenti vari, De Luca, Roma 1968; C. Baracchini – G. Parmini (a cura di), Scultura lignea dipinta. I materiali e le tecniche, Spes, Firenze 1996; R. Bossaglia (a cura di), La scultura italiana dall’alto medioevo alle correnti contemporanee, Electa, Milano 1960; M. Chelli, Manuale per leggere una scultura: guida per l’analisi e la comprensione delle opere d’arte, EDUP, Roma 2000; G. Ciardi, La scultura del Cinquecento nelle chiese di Roma, Scriptaweb, Napoli 2007; C. Costantini, Manzù, una vita straordinaria, Editrice Galileo Galilei, Roma 1989; R. Farioli Campanati, La scultura architettonica: basi, capitelli, pietre d’imposta, pilastri e pilastrini, plutei, pulvini, De Luca, Roma 1969; H. W. Janson (a cura di), La scultura nel XIX secolo, CLUEB, Bologna 1984. Pittura e scultura italiane dal 1910 al 1930, catalogo della mostra ordinata dalla VII Quadriennale di Roma al Palazzo delle Esposizioni, Roma, nov. 1955-1956, De Luca, Roma 1956; G. Previtali, Studi sulla scultura gotica in Italia: storia e geografia, G. Einaudi, Torino 1991; Scultori italiani contemporanei, catalogo della mostra “La Gradiva”, Di Lauro, Roma 1970; G. Wilpert, I sarcofagi cristiani antichi, 3 voll., Città del Vaticano 1929-1936.

Immagini:

1) Wiligelmo, Storie della genesi, Duomo di Modena (1106 ca.); 2) Jacopo della Quercia, Madonna dell’umiltà, National Gallery of Art, Londra (1400 ca.); 3) Michelangelo Buonarroti, La Madonna Medici, Sagrestia Nuova, Firenze (1521-1534); 4) Giuseppe Sanmartino, Cristo velato, Cappella Sansevero, Napoli (1753).

Sitografia:

http://mv.vatican.va/2_IT/pages/MV_Home.html (sito dei Musei Vaticani); http://www.thais.it/scultura/default.htm (sito dedicato alla scultura italiana, dalle origini a oggi, con ricca documentazione iconografica); http://pintura.aut.org (sito dove le opere possono essere reperite per autore, per musei, per periodi); http://www.calga.it/ (portale italiano dedicato alla scultura moderna); http://www.scultura-italiana.com/ (sito per studiosi e appassionati di storia della scultura italiana dal mille ad oggi).


LEMMARIO




Scuola - vol. I


Autore: Raffaele Savigni

Sin dai primi secoli all’interno delle comunità cristiane coesistettero atteggiamenti diversi nei confronti della cultura: alcuni movimenti privilegiarono nettamente la dimensione dell’oralità e l’annuncio del Vangelo «sine glossa», mentre altri cercarono di reinterpretare in chiave cristiana la cultura classica, e pur promuovendo specifiche scuole teologiche (come la celebre scuola alessandrina di Clemente ed Origene) utilizzarono il sistema scolastico dell’antichità, incentrato sull’insegnamento della grammatica e della retorica.  Agostino è un testimone autorevole della paideia classica: nelle Confessioni egli ricorda il proprio percorso di studi, dalla scuola che diremmo elementare, finalizzata all’apprendimento delle litterae e dei numeri, alla scuola di grammatica, e quindi agli studi di di retorica ed eloquenza, distinguendo i primi magistri dai grammatici e dagli insegnanti di retorica e precisando di avere poi insegnato lui stesso le disciplinas liberales.

Antonio, il padre del monachesimo, viene presentato dal suo biografo Atanasio come inlitteratus ma dotato di una memoria che teneva il posto dei libri, nel quadro di una contrapposizione tra la semplicità della fede e le litterae ed i sillogismi. Sulpicio Severo ricorda che nella comunità monastica di Martino di Tours, anch’egli homo inlitteratus ma dotato di scientia ed ingenium, «nessun’arte era esercitata, eccettuato il lavoro dei copisti», ribadendo peraltro che il Regno di Dio non si fonda sull’eloquenza ma sulla fede, e che la salvezza non fu predicata al mondo da oratori, bensì da pescatori. Questa istanza antiintellettualistica è stata ribadita più volte da esponenti di una cultura monastica che intendevano difendere la simplicitas della fede rispetto alla cultura mondana: Gregorio Magno dichiara che il discorso dell’uomo di Chiesa (così come lo stesso messaggio evangelico) non può essere sottoposto alle regole del grammatico Donato; e Pier Damiani afferma che Dio non ha bisogno della nostra grammatica per attirare a sé gli uomini, dal momento che per spargere i semi della nuova fede non inviò filosofi ed oratori ma sem,plici pescatori.

Nonostante queste riserve, il sistema delle arti liberali, delineato tra IV e V secolo da Marziano Capella nel suo De nuptiis Philologiae et Mercurii  ed articolato in trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), costituì  il fondamento dell’organizzazione medievale del sapere: adottato da Cassiodoro, esso fu trasmesso alle scuole medievali attraverso le opere enciclopediche di Isidoro di Siviglia (Etymologiae I 2, 1-3) e Rabano Mauro (De clericorum institutione, III 18-25) ed i commenti di Scoto Eriugena e Remigio di Auxerre. Il sistema educativo antico entrò in crisi con la caduta dell’Impero romano d’Occidente: poiché la cultura delle popolazioni germaniche che occuparono la penisola era caratterizzata da una netta prevalenza dell’oralità sulla scrittura, dopo la chiusura delle scuole pagane i monasteri e le Chiese si trovarono di fatto ad esercitare un monopolio quasi totale sulla trasmissione della cultura, anche se in età carolingia non manca qualche laico colto, come il marchese Eberardo del Friuli, di cui è nota, attraverso il suo testamento, la ricca biblioteca, che comprendeva testi biblici, liturgici e teologici ma anche opere storiche. Il termine laicus fu a lungo considerato sinonimo di illitteratus, espressione chiamata ad indicare una persona priva di un regolare curriculum di studi letterari, mentre chi conosceva le lettere latine era tendenzialmente assimilato ad un clericus.

Una spia dell’emergere delle scuole episcopali è costituita dal concilio di Toledo del 531, il quale stabilisce che presso la casa del vescovo siano istruiti coloro che sono destinati alla carriera ecclesiastica, ma non esclude che da questa scuola possano uscire laici istruiti, poiché precisa che all’età di diciotto anni gli allievi potranno anche rinunciare all’ordinazione se non si sentiranno pronti a vivere castamente. La breve esperienza monastica avviata a Vivarium (presso Squillace) da Cassiodoro, e fondata sul connubio tra ascesi e ricerca intellettuale, non ebbe seguito, in quanto si collocava ad un livello troppo alto rispetto alle concrete possibilità dell’epoca.

La Regola benedettina, pur presupponendo la presenza nel monastero di alcuni novizi incapaci di scrivere, dispone che i monaci si dedichino alla lectio all’inizio della giornata e dopo il pranzo, e che durante i pasti un monaco legga testi spirituali scelti secondo un ordine preciso; durante la Quaresima ciascun monaco dovrà leggere per intero un codice tratto dalla biblioteca del monastero (Regula Benedicti 48, 15). Nella Vita di Colombano Giona di Bobbio ricorda che il santo studiò le arti liberali (in particolare grammatica, retorica, geometria). Perlomeno sino alla riforma di Benedetto di Aniane, che col decreto sinodale di Aquisgrana (10 luglio 817) riservò agli oblati la scuola monastica, i monasteri trasmisero non solo ai novizi ma anche ad allievi esterni le conoscenze linguistiche necessarie per la lettura e la comprensione della Bibbia: a tal fine vennero copiate anche le opere di autori classici, utilizzate come strumento propedeutico per l’apprendimento della grammatica. Il divieto dell’817 fu ben presto eluso mediante l’istituzione di due scuole distinte, l’«interna» e l’«esterna»: la pianta del monastero di San Gallo, costruito nella prima metà del secolo IX, mostra gli ambienti destinati ai due tipi di scuole già ben distinti.

La rete di monasteri fondata sul continente dai monaci irlandesi ed anglosassoni favorì la salvaguardia della cultura antica e preparò il terreno alla riforma carolingia, che penetrò anche in Italia. Con l’Admonitio generalis del 789 Carlo Magno stabilì norme precise per i ministri dell’altare: «riuniscano e tengano presso di sé non solo i bambini di condizione servile ma anche i figli dei liberi. Organizzino scuole di lettura per i ragazzi in ogni monastero o vescovado, dove si possano apprendere i salmi, le note, il canto, il computo, la grammatica». Con un capitolare emanato a Corteolona (presso Pavia) nel maggio 825 Lotario I istituì nel regno italico una rete di scuole: «a Pavia, presso il maestro Dungalo, converranno gli studenti di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli, Tortona, Acqui, Genova, Asti, Como. Ad Ivrea il vescovo provvederà egli stesso alle scuole. A Torino converranno gli studenti di Ventimiglia, Albenga, Vado, Alba. A Cremona andranno a scuola quelli di Reggio, Piacenza, Parma, Modena. Firenze raccoglierà quelli della Tuscia».

Nell’829 i vescovi franchi chiesero a Ludovico il Pio di promuovere in tre città dell’Impero scuole pubbliche che proseguissero il lavoro di promozione culturale già avviato da Carlo Magno. Da queste scuole centralizzate appaiono distinte le scuole promosse dai vescovi nelle singole diocesi ed indirizzate in primo luogo alla formazione dei chierici, come previsto dal concilio di Attigny (822), il quale disponeva che ogni uomo formato per svolgere un ministero nella Chiesa avesse una scuola ed un maestro adatto, e dal concilio romano del novembre 826:  «In tutti i vescovadi, nelle parrocchie dipendenti e negli altri luoghi, nei quali si presenti la necessità, si stabiliscano quindi, con ogni cura e diligenza, maestri e dottori che, istruiti nelle lettere e nelle arti liberali e nei sacri dogmi, assiduamente li insegnino, perché in questi soprattutto sono manifestati ed esposti i divini mandati […] Bisogna badare dunque che non accedano al ministero senza istruzione e senza conoscenza delle lettere, cosa quanto mai sconveniente». Riprendendo quest’ultimo canone, anche il concilio romano dell’853 (c. 34) prevedeva la presenza, nelle scuole episcopali e plebane, di magistri delle arti liberali (o perlomeno delle scienze bibliche), pur sottolineando la difficoltà di reperire «liberalium artium preceptores in plebibus», per cui appariva inevitabile richiedere perlomeno che vi fossero «divine Scripturae magistri et institutores ecclesiastici officii» che rendessero conto annualmente al vescovo della loro attività formativa nei confronti dei candidati al sacerdozio.

Richiamando una disposizione dell’813, che aveva previsto scuole per predicatori nelle quali si insegnassero le lettere e le Scritture, il concilio parigino dell’829 auspicava un maggiore impegno dei vescovi nella formazione dei milites Christi tramite le scuole diocesane: «Ordiniamo pertanto che, lasciata d’ora in poi da parte l’inerzia e la trascuratezza, si ponga da parte di tutti più attenta e vigilante cura nell’educare e nell’istruire i soldati di Cristo. Inoltre ogni vescovo, recandosi al concilio provinciale, porti con sé i maestri della propria scuola in modo che a tutti sia manifesta la sua vigile preoccupazione per il culto divino».  Come a Reims tra IX e X secolo (ove Incmaro invitava i preti ad insegnare le lettere ai loro discepoli ma a non accogliere tra di loro le fanciulle), anche in Italia dovettero esistere scuole articolate a diversi livelli, capaci di rispondere alle esigenze dei canonici della cattedrale e dei chierici rurali: ma la documentazione è sensibilmente più sporadica sin verso la fine del X secolo, anche se non manca qualche disposizione vescovile, come in Attone di Vercelli.

Accanto alle scuole destinate alla formazione del clero compaiono scuole per una prima alfabetizzazione delle popolazioni rurali, alle quali peraltro era indirizzata una catechesi che si serviva prevalentemente delle immagini. Come ha osservato Carla Frova, il canone I del Concilio di Vaison (5 novembre 529) segna una data fondamentale nella storia della scuola medievale, in quanto affidando ai preti rurali il compito di fornire un’istruzione elementare dei ragazzi destinati al sacerdozio, dà origine a una nuova organizzazione scolastica, che presto accoglierà non solo i futuri chierici, ma laici che vogliono imparare a leggere e scrivere: «Tutti i preti che svolgono il loro ministero nelle parrocchie, seguendo l’uso che a quanto ci consta vige molto opportunamente in tutta Italia, accolgano nella propria casa i lettori più giovani, che siano ancora celibi; educandoli spiritualmente come buoni padri si sforzino di insegnar loro i salmi, di farli applicare allo studio dei testi sacri e di istruirli nella legge del Signore. Si prepareranno così successori degni e otterranno il premio eterno da Dio». Per molti secoli queste scuole, subentrate alle ormai scomparse scuole municipali romane, costituirono, insieme con quelle monastiche, la struttura scolastica di base. Anche due documenti modenesi del 796 e del 908 richiamano il dovere dei pievani di «radunare i chierici, di tener scuola, di istruire i fanciulli». A tali scuole fa riferimento nei primi anni del secolo IX Teodulfo d’Orléans, in un capitulum episcopale ripreso alla lettera, nel secolo X, dal vescovo Attone di Vercelli, che invita i preti ad istituire scuole rurali nelle quali possano essere accolti ed istruiti ad discendas litteras anche i figli dei loro parrocchiani, ribadendo altresì il principio della gratuità dell’insegnamento, pur non vietando offerte spontanee al parroco-maestro.

Nel sec. XI il cronista Rodolfo il Glabro (Hist. II 12, 23) evidenzia i pericoli insiti in un attaccamento eccessivo alla cultura classica, che nel caso del ravennate Vilgardo si traduce in esiti eterodossi: gli Italici appaiono caratterizzati da una predilezione unilaterale per l’ars gramatica (che può tradursi, come in questo caso, in una smodata passione per i poeti pagani ed i loro miti) rispetto alle altre artes. Da parte sua Richero (Hist. III 44) osserva che nella seconda metà del X secolo, quando si venne formando Gerberto di Aurillac (il futuro pontefice Silvestro II, sospettato dopo la sua morte, a causa delle sue vaste curiosità intellettuali, di aver praticato arti magiche), «musica et astronomia in Italia tunc penitus ignorabantur». Peraltro Gerberto, pur prediligendo la matematica, l’astronomia e la logica (Richero ricorda la pubblica disputa con Otrico tenuta nel dicembre 980 a Ravenna alla presenza di Ottone II), non temeva la lettura degli antichi poeti, ma la considerava uno strumento indispensabile per acquisire una padronanza dell’arte oratoria.

Presso le cattedrali cittadine e le comunità canonicali (che educano i loro allievi adolescenti «ad legendum, cantandum et psallendum» e nelle dottrine ecclesiastiche, come previsto dall’institutio canonicorum di Aquisgrana dell’816)  è documentata l’esistenza di scholae cantorum (menzionate anche in un concilio di Chieti dell’840, ove compare un magister della schola cantorum et scribarum), ma non conosciamo con precisione l’itinerario formativo di chi ne faceva parte: possiamo presumere che esso comprendesse nozioni di musica e liturgia, ma anche rudimenti di grammatica, come suggerisce il riferimento dell’ep. 40 di Pier Damiani al prete fiorentino Rozo «qui dicitur magister cantorum, Florentinae aecclesiae presbiter, vir adprime litteralibus studiis eruditus». Il codice Angelica 123, presumibilmente di origine bolognese, ha sollecitato qualche studioso ad ipotizzare qualche rapporto (non documentabile in modo preciso) tra cultura ecclesiastica cittadina e nascita dello Studio.

Pier Damiani, che dichiara di avere seguito un percorso di studi incentrato sulle arti liberali a Faenza e quindi a Parma, fa riferimento alle varie tappe dell’apprendimento scolastico (ep. 117: «In litterario quippe ludo, ubi pueri prima articulatae vocis elementa suscipiunt, alii quidem abecedarii, alii sillabarii, quidam vero nominarii, nonnulli iam etiam calculatores appellantur, et haec nomina cum audimus, ex ipsis continuo quis sit in pueris profectus agnoscimus»), ma contrappone la cultura monastica a quella scolastica (alla quale appare legato, nel proprio itinerario formativo, il clero secolare, che «ad hoc grammaticorum scolas ingreditur, ut cum fuerit in arte perfectus abscedat», ep. 152), in quanto quest’ultima rischia di distogliere i cristiani dal rigore ascetico e dalla ricerca di Dio (cf. l’allusione polemica dell’ep. 117 agli interessi astronomici dell’ambizioso chierico di Parma Ugo, che «tantae fuit ambicionis in artium studiis, ut astrolabium sibi de clarissimo provideret argento», e dell’ep. 119 alle «puerorum scolas, qui sepe rigorem sanctitatis enervant ac dissipant»).  Proprio il secolo XI è caratterizzato dall’emergere di un nuovo metodo e di nuove curiosità intellettuali, che si traducono, presso la scuola di Laon, nell’elaborazione della Glossa ordinaria. Andrea da Strumi osserva, nella sua Passio Arialdi, che il santo patarino «in diversis terris scholasticis se studiis tam diu tradidit, donec optime tam liberalium quam divinarum litterarum haberet scientiam», ed anche il vescovo lucchese Anselmo II, secondo il suo anonimo agiografo, «in arte grammatica et dialectica extitit peritus».  Guiberto di Nogent rileva, intorno al 1115, un notevole incremento di scuole rispetto ai decenni precedenti, e ricorda la severità del suo precettore, mentre i biografi di sant’Anselmo d’Aosta sottolineano la sensibilità pedagogica del santo, che utilizzava un metodo caratterizzato dalla lenitas e da un graduale passaggio da insegnamenti più semplici a altri più complessi (viene richiamata in tal senso la diffusa metafora del latte e del cibo solido, cf. Eb 5,13-14).

Il rapporto dei “moderni” con le auctoritates viene prospettato da Bernardo di Chartres mediante il ricorso all’immagine dei «nani sulle spalle dei giganti», che legittima talune innovazioni rendendole compatibili con l’ossequio dovuto ai classici. Con Abelardo si afferma la figura moderna dell’intellettuale, che organizza l’insegnamento in modo più critico rispetto alla tradizione, sviluppando il metodo della quaestio: l’insegnamento diventa una professione retribuita, con uno stacco rispetto al principio (ribadito dal concilio lateranense del 1139, c. 9 e poi da Alessandro III) secondo il quale la scienza, in quanto dono di Dio, non può essere venduta. Il suo grande antagonista, Bernardo di Chiaravalle, distingue varie modalità di conoscenza, legittimando solo quelle finalizzate all’edificazione del prossimo o di se stessi, e liquidando le altre come espressione di curiositas e vanitas o di una turpe ricerca del guadagno.

Nel XII secolo entrò in crisi il sistema altomedievale, incentrato sul monopolio ecclesiastico della cultura  e riscontrabile (con l’eccezione di qualche scuola notarile) anche in Italia: va infatti  sfumata la contrapposizione, prospettata nel secolo XI da Wipone (Tetralogi, v. 165), tra i Tedeschi, che riservavano l’insegnamento delle lettere ai futuri chierici, e la situazione della penisola italica, ove i giovani nobili avrebbero frequentato abitualmente le scuole (modello che Wipone vorrebbe esportare in Germania). La scuola medica salernitana, consolidata alla fine del secolo XI, svolse un ruolo significativo ma non riuscì a trasformarsi in una vera e propria università, mentre una facoltà di medicina sorse a Montpellier verso la fine del XII secolo.

Per quanto i concili lateranensi del 1179 e del 1215 ribadissero la necessità che presso le cattedrali ed altre chiese dotate di forze sufficienti vi fosse un maestro che istruisse gratuitamente i chierici e gli studenti privi di mezzi, emersero gradualmente scuole a pagamento gestite da laici, mentre nei confronti dei monaci venne richiamato il detto (riconducibile a Girolamo, Contra Vigilantium 15) «Monachus non doctoris, sed plangentis habet offitium», veicolato da Graziano (Decretum II 16, 1, 4). Le scuole laiche, che rispondevano alle nuove esigenze degli uomini d’affari e di coloro che praticavano le artes mechanicae (ora rivalutate), si svilupparono soprattutto nelle città dell’Italia centro-settentrionale, ove il tasso di alfabetizzazione delle popolazioni subì un incremento notevole. Si trattava di scuole gestite da maestri laici, con una combinazione variabile di intervento pubblico (a Venezia pressoché inesistente sino al pieno Quattrocento) ed iniziativa privata: gli insegnanti venivano retribuiti dalle famiglie degli alunni o stipendiati almeno in parte dal Comune, che impose talora una sorta di monopolio sull’insegnamento elementare. La didattica rimase per lo più quella tradizionale, incentrata su testi tradizionali quali i Disticha Catonis (una raccolta di sentenze moraleggianti), il Theodolus, il Liber Aesopi, talora volgarizzati. Esaminando il processo di alfabetizzazione nelle campagne toscane (ove, nelle piccole comunità, lo stesso maestro insegnava ad un pubblico differenziato ora i primi rudimenti, ora il latino), il Balestracci osserva che «i preti, in genere, sono il primo punto di riferimento per chi vuole imparare a leggere e a scrivere» e che «il passaggio dalla scuola tenuta da ecclesiastici a quella gestita dai laici non è affatto lineare», tant’è vero che «i maestri che insegnano nelle scuole laiche sono ampiamente debitori ad una formazione culturale ecclesiastica». Se alcuni Statuti quattrocenteschi prescrivono che l’insegnante sia un laico, all’inizio del ‘500 il pievano di Barga insegna ancora ai ragazzi della sua comunità.In alcune aree le scuole sono gestite direttamente dai laici, mentre in altre (ad esempio a Venezia) sopravvive più a lungo un ruolo determinante dell’iniziativa privata; ed a Milano svolsero un ruolo significativo alcune confraternite. Il livello di alfabetizzazione appare differenziato sul piano geografico, ed in genere più elevato nelle città toscane del tardo Medioevo, come suggerisce l’eccezionale presenza di memorie familiari redatte nel ʼ400 da un contadino.

Alla fine del Duecento il milanese Bonvesin de la Ripa (Le meraviglie di Milano, III 33-36) menziona la presenza in città di otto professori di grammatica, quattordici insegnanti esperti nel canto ambrosiano e più di settanta maestri di istruzione elementare, nonché almeno quaranta copisti di libri; e nel Quattrocento anche alcune confraternite milanesi promossero l’istituzione di scuole per il popolo. A Firenze il livello di scolarizzazione appare più elevato: Giovanni Villani (Nuova cronica, XII 94) distingue tre diversi livelli scolastici, dalla scuola elementare (che accoglieva 8-10 mila fanciulli su una popolazione complessiva di circa novantamila abitanti) alle scuole tecniche (destinate ai ceti mercantili) ed a quelle di grammatica.  In questo contesto cittadino si inserirono nel ‘200 i nuovi Ordini Mendicanti: più decisamente i Domenicani, ma, dopo qualche tensione interna, anche i frati minori. Se Francesco d’Assisi aveva manifestato qualche timore nei confronti dei possibili esiti negativi della nuova cultura (che poteva tradursi in una forma di superbia intellettuale, allontanando le élites dal popolo), autorizzando solo Antonio da Padova ad insegnare ai frati la teologia, «purché nel tempo dedicato al suo studio non si spenga lo spirito di preghiera e di devozione», alla fine del secolo Salimbene di Parma ricorda il proprio percorso di studi, dal calcolo alla gramatica e infine alla teologia, sottolineando in termini positivi il passaggio dai primi tempi  dell’Ordine, caratterizzati dalla preminenza dei frati laici, all’epoca attuale, segnata dalla presenza qualificata di chierici litterati. Le scuole degli Ordini mendicanti formarono progressivamente una rete gerarchizzata di Studia, al vertice della quale si collocavano gli Studia generalia, destinati a competere con le Università, nelle quali i frati si inserirono progressivamente, acquisendo il controllo della maggior parte delle cattedre di teologia.

Gli umanisti italiani prepararono il terreno ai moderni collegi, istituendo pensionati a pagamento e redigendo trattati pedagogici come il De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae di Pier Paolo Vergerio (1402). Guarino Guarini (1374-1470), che introdusse lo studio del greco, e Vittorino da Feltre (1378-1446) si sforzarono di superare il tecnicismo delle scuole tradizionali, valorizzando la formazione morale e gli esercizi fisici. La “Ca’ gioiosa” avviata presso Mantova, col sostegno dei Gonzaga, da Vittorino integrava la preparazione culturale con la pratica religiosa, gli esercizi ginnici e le escursioni; e preparava gli allievi tanto agli studi universitari quanto all’assunzione di pubblici uffici. Vittorino, che non volle sposarsi per potersi dedicare completamente ai suoi ragazzi, accettò anche fanciulli poveri e abolì quasi completamente le punizioni corporali, riservandole ai casi di bestemmia e turpiloquio. Nel ʼ400 si diffuse comunque, tra le famiglie dell’élite aristocratica, la figura dell’istitutore privato.

Se Lutero promosse una intensa scolarizzazione, nel clima di riforma cattolica che precedette ed accompagnò il Concilio di Trento iniziò un processo di riclericalizzazione dell’insegnamento: nel 1587 a Venezia sono registrati 258 maestri, di cui solo 97 laici, mentre nel ʼ400 i maestri di condizione ecclesiastica menzionati nelle fonti erano una minoranza. Con la bolla In sacrosancta beati Petri (1564) Pio IV obbligò tutti gli insegnanti a prestare una professione di fede; l’autorità ecclesiastica esercitò un controllo anche attraverso la concessione della licentia docendi, e l’attenzione fu rivolta alla moralità dei comportamenti prima ancora che alla qualità dell’insegnamento. All’insegnante venne affidata una funzione di educatore morale e civile: negli Statuti cinquecenteschi di Camaiore (in Lucchesia) si chiede che gli scolari siano timorati di Dio, frequentino i Sacramenti e la dottrina cristiana, pregando per la repubblica di Lucca e la comunità di Camaiore, ed obbediscano ai genitori ed ai superiori. Il card. Silvio Antoniano (1540-1603) scrisse, su suggerimento di san Carlo Borromeo, il trattato in tre libri De l’educazione cristiana de’ figliuoli (1584), che abbandonava l’ottimismo rinascimentale e considerava necessario infondere nel fanciullo i principi morali mediante un continuo sforzo di correzione degli impulsi; mentre Cesare Crispolti (1563-1608) cercò di delineare nell’opuscolo Idea dello scolare che versa negli studi, affine di prendere il grado del dottorato, ispirato ai medesimi principi pedagogici, il modello perfetto di studente universitario.

Il sacerdote Castellino da Castello avviò a Milano, a partire dal 1536, le Scuole della dottrina cristiana, allo scopo di «riformare il mondo a vera vita christiana» mediante l’organizzazione delle scuole parrocchiali di catechismo, considerate uno strumento utile anche per formare il buon cittadino. Da questo nucleo iniziale fiorirono progressivamente le piccole scuole che insegnavano al popolo a leggere, scrivere e far di conto, impiegando come insegnanti sia sacerdoti che laici. Il binomio catechismo-grammatica costituisce la matrice dell’acculturazione religiosa e dell’alfabetizzazione dei ceti più umili. Sorsero inoltre nuove congregazioni religiose che fecero dell’insegnamento la loro missione principale. I Gesuiti rivolsero la loro attenzione soprattutto alla formazione delle classi dirigenti mediante l’istituzione di appositi collegi fondati su una precisa Ratio studiorum (1599), che si fondava sul principio dell’unità del sapere e sulla centralità della figura del docente, privilegiando lo studio del latino, dei classici e della filosofia; ma delinearono anche un percorso di studi preuniversitario, ponendo le premesse per l’istituzione del ginnasio-liceo classico. Ad un pubblico più ampio si rivolgevano le Scuole pie degli Scolopi, create da san Giuseppe Calasanzio (1557-1648), che rappresentarono uno strumento efficace di promozione dell’alfabetizzazione popolare, sostuituendo le scuole private dirette da maestri laici. Attive a Bologna dal 1616, esse assorbirono di fatto quegli insegnamenti (come l’aritmetica e la calligrafia) ormai marginali all’interno dello Studio: nel 1796 gli scolari erano ben 1362, con una netta prevalenza delle classi di aritmetica rispetto a quelle di grammatica.  Se G.Domenico Peri (Il negotiante, Genova 1638) aveva raccomandato anche al mercante un curriculum di studi umanistici, gli Ordini aritmetici di Giacomo Venturoli (1663) illustrano le finalità prevalenti delle scuole pie: formare un massaro, un contabile, un artigiano.

Esistevano inoltre, nelle principali città, anche scuole parrocchiali; ed i Seminari per chierici accoglievano spesso anche convittori laici. Giovanni Battista de La Salle (Reims 1651-1719) cercò di assicurare un’educazione cristiana al giovani dei ceti popolari ed alle popolazioni rurali, aprendo in Francia diverse scuole di carità per ragazzi poveri, i cui maestri costituirono l’embrione della congregazione dei «Fratelli delle Scuole Cristiane», riconosciuta ufficialmente da Benedetto XIII (1725). Egli, distinguendosi dalla prassi del tempo, diede priorità alla madrelingua rispetto al latino nell’avviamento alla lettura; fondò Scuole normali per formare i maestri rurali (denominate “seminari per i maestri di campagna”) e scuole serali e domenicali per i giovani lavoratori, e ideò una scuola ad indirizzo tecnico-professionale, esponendo i suoi principi educativi in diverse opere che ebbero notevole fortuna (Guida delle Scuole Cristiane; Regole di buona creanza e di cortesia cristiana); e soprattutto nella prima metà dell’Ottocento la sua congregazione,  si diffuse anche in Italia. Va sottolineato il ritardo notevole dell’alfabetizzazione femminile, che fece passi significativi solo nell’’800, grazie a personalità come Luisa Amalia Paladini (1810-1872), soprintendente degli asili infantili a Lucca e quindi direttrice di istituti femminili di vario grado a Firenze e Lecce. Dalla pia Opera di Santa Dorotea, fondata nel 1815 a Calcinate (Bergamo) da Luca e Marco Passi, sorsero varie congregazioni femminili denominate “Dorotee” e impegnate nell’educazione cristiana delle giovani.

L’attenzione alla condizione di abbandono dei bambini delle classi popolari indusse don Ferrante Aporti (1791-1858) a fondare nel 1828 a Cremona la prima scuola infantile d’Italia. Nella sua prospettiva l’asilo doveva formare i figli dei lavoratori sul piano intellettuale, religioso, morale, dedicando ampio spazio al gioco, all’educazione fisica, alla preghiera, al canto, mentre la storia sacra si insegnava per mezzo di tabelloni illustrati, e l’apprendimento di lettura, scrittura e nozioni di aritmetica era riservato all’ultimo anno. Egli promosse anche scuole per sordomuti, ciechi e orfani, nonché corsi per maestri, scuole festive di disegno e architettura, e presentò un progetto di riforma per creare gli istituti tecnici. L’istituzione dell’asilo suscitò dibattiti anche vivaci: le scuole aportiane, diffuse in diverse regioni italiane, furono proibite nello Stato Pontificio a causa di taluni pregiudizi, dovuti anche al suo impegno per costruire l’identità nazionale. A Venezia i due fratelli Antonio (1772-1858) e Marco Cavanis (1774-1853) aprirono nel 1804 la prima scuola di carità, e  nel 1808  diedero  vita  anche  ad un convitto  femminile: le loro scuole erano destinate soprattutto ai ragazzi poveri, ai quali venivano insegnati l’italiano parlato e scritto ed i fondamenti dell’aritmetica e del latino. Essi aprirono anche una tipografia per dare lavoro agli allievi che non avevano intenzione di proseguire gli studi. Per garantire la continuità dell’opera diedero vita ad una comunità religiosa, approvata  nel 1835 da Gregorio XVI e denominata “Congregazione delle scuole di carità” (o Istituto Cavanis). Da parte sua don Giovanni Bosco (1815-1888), pur non sviluppando una sistematica riflessione pedagogica, rivolse l’attenzione all’educazione dei giovani dei ceti popolari ed anche ai marginali, elaborando, in alternativa alla repressione dei comportamenti devianti, un “sistema preventivo” incentrato sullo forzo di “guadagnare il cuore dei giovani” curando, mediante oratori, scuole professionali e collegi, la loro formazione umana e cristiana per preparare ad un tempo “utili cittadini e buoni cristiani”.

Queste scuole cattoliche, gestite per lo più da Ordini religiosi, svolsero un ruolo determinante nel periodo della Restaurazione, ma sopravvissero in genere anche dopo la politica di laicizzazione dell’insegnamento intrapresa dal governo sabaudo. Il modello scolastico esercitò una forte influenza anche sull’organizzazione del catechismo parrocchiale, strettamente intrecciato con l’istruzione popolare.

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LEMMARIO




Scuola - vol. II


Autore: Raffaele Savigni

Il nuovo Stato unitario favorì una progressiva laicizzazione della scuola pubblica, anche se nei territori dell’Italia meridionale restò a lungo piuttosto forte l’influenza della Chiesa in campo educativo. La libertà della scuola non statale non era tutelata costituzionalmente, ma era affidata alla legge ordinaria, e quindi sottoposta ai condizionamenti politico-ideologici, anche se il Consiglio di Stato frenò le spinte anticlericali. Da parte sua l’intransigentismo cattolico difese la famiglia come luogo educativo originario, chiamato a resistere alla pretesa educativa dello Stato liberale.

L’insegnamento religioso nella scuola pubblica, mantenuto dalla legge Casati (1859) perlomeno nei primi due anni della scuola elementare (ove veniva impartito dal maestro unico), venne successivamente marginalizzato dalla legge Coppino (1877) e dai nuovi programmi del 1888, che lo resero facoltativo, sostituendolo con l’insegnamento obbligatorio delle «nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino». Due decreti del 1895 e del 1908 prevedevano che l’insegnamento di Religione fosse impartito a cura dei padri di famiglia che lo richiedessero, a meno che la maggioranza dei consiglieri comunali non decidesse di organizzarlo a carico del Comune; esso fu reintrodotto dalla riforma Gentile (1923) e quindi reso di fatto obbligatorio (salva la possibilità di chiedere l’esonero) dal Concordato del 1929, in quanto «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» (un principio poi ripreso nel 1955 dalla legge Ermini). Con la revisione del Concordato (1984) tale insegnamento è divenuto opzionale, ma lo Stato si è impegnato «ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado». Non ha avuto fortuna la proposta di introdurre il cosiddetto“doppio binario”, ossia un insegnamento aconfessionale gestito dallo Stato ed obbligatorio per tutti, affiancato da un insegnamento facoltativo a carattere confessionale per chi lo richiedesse.

Dopo il ventennio fascista il Codice di Camaldoli (1943-45) rivolse l’attenzione anche all’educazione, ribadendo l’impossibilità di una scuola “neutra” e “laica”, ed il primato della famiglia nell’educazione: «famiglia e Chiesa hanno una missione essenzialmente educatrice. La Chiesa ha il diritto indipendente dallo Stato di stabilire scuole di ogni grado per l’educazione e l’istruzione dei suoi figli [….] Il diritto della famiglia di educare i figli è anteriore a qualsiasi diritto della società civile e dello Stato, è inviolabile in quanto è naturale». Veniva inoltre chiaramente affermato il principio democratico, che implicava il superamento di metodi coercitivi, anche se alcune affermazioni contenute nel Codice (come la netta preferenza per una educazione separata degli alunni dei due sessi) risultano oggi datate. La Costituzione italiana riconobbe ad enti e privati «il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato» (art. 33): su quest’ultimo inciso si sviluppò un vivace dibattito, anche se il proponente Corbino aveva precisato, di fronte all’Assemblea Costituente, che non si intendeva escludere ogni forma di sostegno economico alle scuole non statali da parte dello Stato, ma soltanto eventuali rivendicazioni di una sorta di diritto automatico a riceverla. Nel 1945 nacque la Federazione degli Istituti di attività educative (FIDAE), poi strutturata giuridicamente nel 1974, che raggruppa istituti non statali riconosciuti dall’autorità ecclesiastica (quindi “scuole cattoliche” in senso stretto, non semplicemente “scuole di ispirazione cristiana”), difendendone il ruolo in base al principio della libera scelta educativa delle famiglie. Il suo organo ufficiale è il mensile “Docete”, fondato nel 1946.

Nel 1944-45 sorsero anche l’AIMC (associazione dei maestri cattolici) e, nell’ambito del Movimento laureati di Azione cattolica, l’UCIIM (Unione cattolica insegnanti medi), che, sotto la guida di G. Nosengo (1906-1968) e poi del noto pedagogista Aldo Agazzi, promosse il rinnovamento della scuola, nello spirito di un autentico pluralismo, ispirandosi alla filosofia personalista di J. Maritain e di L. Stefanini. Soprattutto l’UCIIM favorì un graduale superamento della contrapposizione cultura umanistica-lavoro ed appoggiò l’introduzione (nel 1958) dell’insegnamento dell’educazione civica, e la riforma istitutiva della scuola media unica (1962), anche a prezzo di qualche polemica con l’AIMC (che propugnava una scuola post-elementare per il soddisfacimento dell’obbligo scolastico).

I documenti conciliari rivendicarono per i genitori «il diritto di determinare la forma di educazione religiosa da impartirsi ai propri figli» (Gravissimum educationis, 3), e quindi «il diritto di scegliere, con vera libertà, le scuole e gli altri mezzi di educazione» (Dignitatis humanae, 5): la libertà di educazione viene quindi considerata un’espressione della libertà religiosa. In questa prospettiva il principio di sussidiarietà implica «il diritto della Chiesa a fondare liberamente e a dirigere scuole di qualsiasi ordine e grado», caratterizzate da «un ambiente comunitario permeato dallo spirito evangelico di libertà e carità» e dalla ricerca di una sintesi tra la cultura umana ed il messaggio di salvezza (Gravissimum educationis, 8).

Per adattare alla situazione italiana le indicazioni generali espresse dalla sacra Congregazione per l´educazione cattolica col documento La scuola cattolica del 1977, la CEI emanò nel 1983 il documento La scuola cattolica oggi in Italia, nel quale si afferma (al n. 58) che «anche la Scuola Cattolica deriva il motivo fondamentale della propria identità e della propria esistenza dall’appartenenza alla Chiesa locale, in cui è chiamata a vivere e a servire». Dopo il Convegno nazionale sulla scuola cattolica del ‘91 la CEI ha costituito il Centro studi per la scuola cattolica (CSSC), che dal 1999 prepara e pubblica un Rapporto annuale. Nel primo Rapporto (Scuola cattolica in Italia, La Scuola, Brescia, 1999) mons. C. Nosiglia ribadiva che «la comunità di fede è il soggetto educante naturale della scuola cattolica», prospettando quest’ultima come «luogo di una “inedita conciliazione epistemologica” tra fede e cultura, tra azione pastorale propria della comunità cristiana e riflessione critica specifica della scuola, per consentire a ogni persona la crescita integrale di se stessa nella libertà e nella comunione con gli altri». G. Dalla Torre sottolineava l’esigenza di rispettare la specificità delle scuole che non hanno fini di lucro ma un progetto educativo specifico, proponendo di interpretare il vincolo costituzionale «senza oneri per lo Stato» come riferito alle istituzioni scolastiche, ma non alle famiglie, per cui il finanziamento pubblico si giustificherebbe sulla base dei principi della libertà di educazione e del diritto allo studio (art. 30 e 34 della Costituzione).

Nel secondo guerra i governi a guida democristiana, sottoposti a pressioni contrastanti, non riuscirono a realizzare quella legge sulla parità scolastica che il ministro Gonella aveva progettato tra il 1946 ed il 1951. Solo nel 2000 fu approvata la legge n. 62, «Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione», che definì un sistema pubblico integrato di istruzione, comprensivo di scuole statali e non statali. Essa riconosceva che «il sistema nazionale di istruzione è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali» (art. 1), per cui «alle scuole paritarie private è assicurata piena libertà per quanto concerne l’orientamento culturale e l’indirizzo pedagogico-didattico. Tenuto conto del progetto educativo della scuola, l’insegnamento è improntato ai princípi di libertà stabiliti dalla Costituzione» (art. 3). Venivano poi elencate le condizioni richieste per il riconoscimento della funzione pubblica delle scuole e per il loro conseguente inserimento nel “sistema nazionale di istruzione”. A giudizio di G. Tettamanti, che è intervenuto nel XII Rapporto sulla Scuola Cattolica in Italia, A dieci anni dalla Legge sulla parità (La Scuola, Brescia, 2010), l’applicazione di questi principi ideali sarebbe tuttavia ancora incompleta. Se le scuole cattoliche sono state a lungo gestite in prevalenza dagli Istituti religiosi, il XIII Rapporto del CSSC, L’impegno delle Chiese locali. Scuola cattolica in Italia (a cura di G. Malizia, La Scuola, Brescia, 2011) sottolinea il legame tra scuola cattolica e Chiesa locale, auspicando un coinvolgimento più diretto delle diocesi e delle parrocchie. In un contesto segnato dalla crisi degli Ordini religiosi che avevano individuato nell’impegno educativo il loro carisma, attualmente un numero sempre maggiore di scuole è gestito da movimenti cattolici, che talora privilegiano la dimensione dell’affinità carismatica.

Nel secondo guerra l’AIMC e l’UCIIM si sono fortemente impegnate per qualificare in senso culturale e democratico la scuola pubblica, concepita come «comunità educante», fondata sul coinvolgimento nel progetto educativo di insegnanti, famiglie, alunni. Nel 1968 diverse associazioni di genitori si riunirono costituendo l’A.G.E., un’associazione nazionale di genitori che intendeva favorire il dialogo educativo con la scuola in un periodo di notevoli tensioni. L’istituzione, coi decreti delegati (1974), degli organi collegiali della scuola favorì una partecipazione alla gestione della scuola pubblica, che vide coinvolti anche gruppi di ispirazione cristiana, i quali intendevano superare tanto un’idea di scuola come istituzione separata, quanto un’enfatizzazione unilaterale del protagonismo studentesco. Non mancarono vivaci dibattiti sull’interpretazione del principio della libertà di insegnamento. Alcuni gruppi sottolinearono più decisamente la centralità dell’identità cattolica: “Comunione e liberazione” teorizzò negli anni ’70 un’articolazione della scuola pubblica in sezioni culturalmente omogenee, incentrate su precisi progetti educativi, ma successivamente privilegiò il sostegno alla scuola cattolica. In quegli anni fu promossa anche l’esperienza del “tempo pieno”, che, nata come risposta alle esigenze dei ceti popolari in un contesto di espansione del lavoro femminile, suscitò qualche riserva in ambienti cattolici che intravvedevano il rischio di ridimensionare eccessivamente il ruolo educativo della famiglia. Alcuni sacerdoti cercarono di ridefinire le modalità del processo educativo in situazioni di frontiera: nacque così la scuola di Barbiana di don Milani, i cui ragazzi scrissero nel 1967 la Lettera a una professoressa, mettendo sotto accusa una scuola selettiva che emarginava i ragazzi più poveri; e don Roberto Sardelli avviò con i ragazzi delle baracche romane esperienze scolastiche alternative, da cui nacque il libro Scuola 725: non tacere (Libreria Editrice Fiorentina, 1971).

Recentemente la CEI ha cercato di rispondere all’emergenza educativa elaborando gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 Educare alla vita buona del Vangelo, ove si ribadisce (n. 48) che «la scuola cattolica e i centri di formazione professionale d’ispirazione cristiana fanno parte a pieno titolo del sistema nazionale di istruzione e formazione. Nel rispetto delle norme comuni a tutte le scuole, essi hanno il compito di sviluppare una proposta pedagogica e culturale di qualità, radicata nei valori educativi ispirati al Vangelo». Una grande sfida concerne, nell’attuale contesto multiculturale, la capacità della scuola cattolica (che ha visto ridursi progressivamente il numero degli alunni: 625.781, ossia il 7 % della popolazione scolastica complessiva, nel 2006, mentre erano il 9 % nel 1992) di riqualificarsi e di aprirsi ai bisogni di alunni provenienti da tutti i ceti sociali. Una interpretazione aperta del principio della libertà di educazione può contribuire a realizzare una «convivialità delle differenze», recuperando (al di là degli aspetti discutibili) talune istanze di Ivan Illich (Descolarizzare la società, Mondadori, Milano, 1972), il quale aveva polemicamente teorizzato una “descolarizzazione della società” come difesa delle culture popolari e valorizzazione della creatività personale contro i rischi di omologazione culturale a suo avviso insiti nella diffusione su scala mondiale del sistema scolastico dell’Occidente.

Fonti e Bibl. essenziale

V. Sinistrero, La politica scolastica 1945-1965 e la scuola cattolica, FIDAE, Roma, 1967; G. Tettamanti, Scuola cattolica e libertà di educazione, La Scuola, Brescia, 1981; Quale scuola per una società più libera? Atti del convegno del Coordinamento nazionale per la libertà di educazione (Roma, 2 maggio 1986), Roma, FIDAE, 1986 (Suppl. alla rivista «Docete», 1987, n. 7); L. Pazzaglia (ed.), Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1958), La Scuola, Brescia, 1988; G.C. Boccardi (ed.), Libertà di educazione e pluralismo scolastico, Pellegrini, Cosenza, 1991; A. Gaudio, Scuola, Chiesa e fascismo: la scuola cattolica in Italia durante il fascismo, 1922-1943, La Scuola, Brescia, 1995; L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, La Scuola, Brescia, 1999; M. A. Manacorda, Scuola pubblica o privata: la questione scolastica tra Stato e Chiesa, editori Riuniti, Roma, 1999; L. Pazzaglia (ed.), Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, La Scuola, Brescia, 2003; L. Corradini (ed.), Laicato cattolico, educazione e scuola in Gesualdo Nosengo. La formazione, l’opera e il messaggio del fondatore dell’UCIIM, Elledici, Torino, Leumann, 2008; G. Campani, Dalle minoranze agli immigrati: la questione del pluralismo culturale e religioso in Italia, Unicopli, Milano, 2008; P. Liberace, Contro gli asili nido: politiche di conciliazione e libertà di educazione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2009; F. De Giorgi, L’ istruzione per tutti: storia della scuola come bene comune, La scuola, Brescia, 2010.


LEMMARIO