Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
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Segreteria di Stato - vol. II


Autore: Paolo Valvo

La duplice dimensione “universale” e “romana” della Chiesa cattolica fa del Vaticano un punto naturale di incontro tra l’Italia e il mondo. Dal 1861 ad oggi, in particolare, le direttive dell’azione globale della Santa Sede sono state elaborate all’interno di una Segreteria di Stato che, divenuta “italiana” a tutti gli effetti diverso tempo dopo la breccia di Porta Pia, solo in tempi relativamente recenti ha visto l’avvio di una lenta e progressiva internazionalizzazione del proprio personale.

Per questa ragione, la storiografia ha cercato di mettere in luce l’influsso del quadro culturale e politico italiano sull’operato dei membri della Curia, anche in riferimento a contesti diversi dall’Italia. L’indagine storica deve peraltro considerare anche la dinamica contraria, che dal “mondo” procede verso la realtà italiana: l’esperienza internazionale del servizio diplomatico, infatti, accomuna molti membri della Segreteria di Stato, in misura crescente nel XX secolo. Ne consegue la necessità di studiare attentamente le biografie dei singoli, per comprendere gli intrecci originali tra formazione culturale ed esperienze vissute, sempre tenendo presente la centralità dell’elemento teologico-pastorale nell’azione politico-diplomatica della Santa Sede.

Nel Novecento, importanti riforme della Curia hanno definitivamente riconosciuto la posizione privilegiata della Segreteria di Stato come organo di governo della Chiesa universale. La realtà concreta tuttavia sfugge spesso alle formulazioni di principio delle costituzioni apostoliche; anche qui il “fattore umano” gioca un ruolo decisivo, generando rapporti di fiducia che non sempre rispecchiano una divisione dei ruoli precisa e coerente. Di particolare interesse, a tale riguardo, il rapporto che si crea di volta in volta tra il pontefice e il cardinale segretario di Stato, suo principale collaboratore.

Volendo prendere in considerazione il ruolo della Segreteria di Stato in riferimento alle vicende italiane a partire dal 1861, si può individuare una prima grande fase, dominata dalla “Questione Romana”, che si conclude con la stipula dei Patti Lateranensi nel 1929. Nei primi decenni dell’Italia unita la legislazione anticlericale e il Non expedit (1874) indeboliscono le basi “reali” del “paese legale”, mentre sul piano internazionale la Santa Sede è alla ricerca di una sponda europea che possa appoggiare le sue rivendicazioni. A questo proposito Leone XIII (1878-1903) mostra inizialmente di appoggiare la linea favorevole alla Triplice Alleanza di mons. Luigi Galimberti, potente segretario della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari. Per il disbrigo degli affari interni, papa Pecci preferisce affidarsi al “gabinetto segreto dei Perugini” – composto da prelati di sua fiducia conosciuti negli anni del ministero episcopale – piuttosto che alla Segreteria di Stato dell’anziano cardinale Ludovico Jacobini, dimostrando una volontà centralizzatrice che emergerà anche in successivi pontificati. Nel 1887 un primo tentativo di “conciliazione” vede protagonista insieme al presidente italiano Francesco Crispi non un membro della Segreteria di Stato ma l’abate benedettino Luigi Tosti.

La fine del Kulturkampf in Germania è il risultato più importante di Galimberti e dei suoi collaboratori, ma con l’arrivo del nuovo segretario di Stato Mariano Rampolla del Tindaro (1887) il quadro muta sensibilmente. Deciso a tenere saldamente le redini del governo, il cardinale Rampolla riduce considerevolmente il potere del gabinetto dei Perugini e promuove una politica estera filo-francese il cui obiettivo è lo scardinamento della Triplice Alleanza per isolare l’Italia attraverso un riavvicinamento franco-austriaco. Esito di questa politica, più radicale di quella “evoluzionista” di Galimberti, è il ralliement dei cattolici francesi alla Terza Repubblica e l’avvicinamento della Santa Sede alla Francia, che durerà fino alla rottura delle relazioni diplomatiche nel 1905.

Meno attivo sulla scena internazionale, Pio X (1903-1914) dà un grande impulso all’attività della Curia, che viene riformata con la costituzione Sapienti consilio (1908), recepita pienamente dalla codificazione del 1917. La Segreteria di Stato risulta ora suddivisa in tre sezioni, la prima delle quali, guidata da un segretario, si identifica sostanzialmente con la Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari; gli affari ordinari e la corrispondenza con i rappresentanti diplomatici della Santa Sede rientrano nelle competenze della seconda sezione (guidata da un sostituto), mentre la terza – la Cancelleria dei Brevi Apostolici – cura la preparazione e la spedizione dei brevi pontifici. Anche papa Sarto, tuttavia, privilegia una forma di governo accentrata, che lo porta ad affidare gli affari più importanti a una segreteria particolare (la “Segretariola”). È questo ufficio a occuparsi delle questioni relative all’Italia, tra le quali spiccano la crisi modernista, le vicende del sacerdote Romolo Murri, la riforma dell’Opera dei Congressi e i rapporti sempre delicati con le autorità civili; l’attività della Segreteria di Stato del cardinale Rafael Merry del Val sembra concentrarsi principalmente sui rapporti con gli altri Stati.

Con l’avvento al soglio pontificio di Giacomo Della Chiesa (Benedetto XV, 1914-1922), che come segretario di Rampolla e sostituto della Segreteria di Stato aveva dato in precedenza un importante contributo al conciliatorismo, prende avvio una “conciliazione ufficiosa”, che trova nella Segreteria di Stato un attore fondamentale. Se da una parte la guerra non migliora i rapporti ufficiali con il governo – si pensi all’esclusione della Santa Sede dalle trattative di pace, stabilita nel Patto di Londra su richiesta dell’Italia, e alla ricezione della “Nota di pace” del papa (1° agosto 1917) –, dall’altra una mediazione discreta e costante, come quella esercitata in Vaticano dal barone Carlo Monti, pone le basi di importanti sviluppi successivi. Nel 1919 il cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri invia in tutta fretta mons. Bonaventura Cerretti a Parigi, per dare autorevolmente seguito ai pourparlers sulla soluzione della Questione Romana iniziati a titolo personale da un prelato americano, mons. Francis Clement Kelley, con il presidente Vittorio Emanuele Orlando. Molto importante è anche la positiva collaborazione tra Gasparri e Francesco Saverio Nitti, risalente ai tempi delle trattative tra Italia e Austria-Ungheria del 1917, attivamente sostenute dalla Santa Sede. Le buone disposizioni del Vaticano verso l’Italia si manifestano anche in ambito internazionale: nel 1924 la Segreteria di Stato favorisce la ratifica del Trattato di Roma tra Italia e Jugoslavia, agendo sui deputati cattolici croati e sloveni del parlamento jugoslavo attraverso il nunzio a Belgrado mons. Pellegrinetti. L’avvio del pontificato di Pio XI (1922-1939) e l’inizio della dittatura fascista non alterano radicalmente tale contesto nel quale, nonostante la tensione suscitata a più riprese dalle pretese totalitarie del regime, nel 1926 prendono corpo le trattative che porteranno l’11 febbraio 1929 alla conclusione dei Patti Lateranensi, che comprendono un Trattato internazionale, un Concordato e una convenzione finanziaria.

I Patti chiudono definitivamente la Questione Romana, riconoscendo alla Santa Sede la sovranità territoriale sulla Città del Vaticano; pur rappresentando il più importante successo di Gasparri, essi allo stesso tempo sanciscono il distacco definitivo di quest’ultimo da papa Ratti, che pochi mesi dopo nomina segretario di Stato il cardinale Eugenio Pacelli, già nunzio a Berlino. All’origine vi è una notevole differenza di vedute sui rapporti con l’Italia (Gasparri non condivide l’insistenza di Pio XI sull’inscindibilità del vincolo tra Concordato e Trattato), ma più ancora l’incompatibilità tra un segretario di Stato – esperto giurista e diplomatico – abituato ad agire con una certa autonomia, e un pontefice dal temperamento autoritario, che in Pacelli vede un collaboratore più disponibile a eseguire le sue direttive. Anche Pacelli, inizialmente, subisce le iniziative di Pio XI, ad esempio nel 1931, quando durante lo scontro con il governo italiano sull’Azione Cattolica il papa “scavalca” in almeno un’occasione la Segreteria di Stato, agendo di concerto con il nunzio in Italia Francesco Borgongini-Duca. Il conflitto con Mussolini fa emergere i malumori presenti nel Sacro Collegio, dove diversi cardinali non condividono lo stile di governo di papa Ratti e lamentano di non essere stati consultati nelle trattative per la conciliazione; da questa crisi, tuttavia, l’autorità di Pacelli sugli altri porporati esce rafforzata: è l’inizio di una nuova fase di centralizzazione nel governo della Curia, destinata a protrarsi anche nel successivo pontificato.

Negli anni che precedono l’“accelerazione totalitaria” del regime fascista, la Segreteria di Stato è un luogo dove vengono condivisi con il governo italiano importanti indirizzi di politica estera (si pensi allo sforzo comune per difendere l’indipendenza dell’Austria dall’espansionismo hitleriano, almeno fino alla fine del 1935), mentre per i problemi più prettamente “italiani” la Santa Sede si avvale, oltre che della Segreteria di Stato e della nunziatura, anche del fondamentale contributo del gesuita Pietro Tacchi-Venturi, che fin dal 1923 svolge il ruolo di tramite ufficioso del Vaticano con Mussolini. Il progressivo avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista suscita reazioni negative Oltretevere – l’incaricato d’affari austriaco presso la Santa Sede riferiva nel 1936 che secondo Pacelli «gli italiani non avevano carattere, e gli faceva semplicemente schifo leggere i giornali italiani, cosa alla quale era obbligato dal suo ufficio» (F. Engel-Janosi, Il Vaticano fra fascismo e nazismo, 228) – ma di un’effettiva volontà di denunciare unilateralmente il Concordato, attribuita a Pio XI negli ultimi mesi del suo pontificato, non si è avuta ad oggi una convincente prova documentaria.

Eletto papa dopo soli tre scrutinii il 2 marzo 1939, Eugenio Pacelli – ora Pio XII – nomina segretario di Stato il nunzio a Parigi Luigi Maglione, ma alla morte di quest’ultimo (1944) sceglie di non designare un successore, continuando ad avvalersi dell’opera del sostituto agli Affari Ordinari Giovanni Battista Montini e del segretario agli Affari Ecclesiastici Straordinari Domenico Tardini, al quale ultimo il pontefice confida di non volere «collaboratori, ma esecutori». L’assenza di un superiore, che si protrae fino alla fine del pontificato (nel 1952 sia Tardini che Montini vengono nominati “prosegretari di Stato”), non impedisce alla Segreteria di Stato di accrescere la propria importanza nel governo della Chiesa. Anche se è Tardini, diplomatico romano di impostazione “gasparriana”, a occuparsi più da vicino degli affari politici della Santa Sede, il bresciano Montini rappresenta un punto di riferimento per Alcide De Gasperi e la nuova classe dirigente democristiana, anche a seguito del suo precedente impegno nell’Azione Cattolica (e in particolare nella Fuci).

All’indomani della fine del conflitto mondiale, la Santa Sede segue con attenzione i lavori dell’Assemblea Costituente, mantenendosi in contatto con i principali esponenti politici (non solo democristiani) attraverso molteplici canali, Segreteria di Stato in primis: insieme a Tardini e Montini, è significativo il ruolo svolto dal minutante Angelo Dell’Acqua (che subentrerà come sostituto a Montini, nominato arcivescovo di Milano, nel 1954). In materia di rapporti tra Stato e Chiesa, il Vaticano appoggia la formulazione dell’art. 5 (divenuto poi art. 7) di Giuseppe Dossetti, pur manifestando una certa preoccupazione per l’appoggio ambiguo del PCI di Togliatti.

In quegli anni il giudizio sulle vicende italiane fa emergere importanti differenze tra le due anime della Segreteria di Stato di Pio XII: mentre Montini è un convinto sostenitore dell’unità dei cattolici nella Democrazia Cristiana, nel quadro di una maggiore autonomia dei laici nell’azione politica, Tardini è più cauto, non disapprovando un pluralismo di posizioni nella vita politica del Paese ma escludendo aperture a sinistra; entrambi, in ogni caso, sono contrari alla formazione del blocco cattolico-conservatore prospettato da Luigi Gedda nel 1947. Anche l’ingresso dell’Italia nell’Alleanza Atlantica suscita opinioni discordanti: piuttosto contrario Tardini, che guarda con favore alla neutralità italiana e teme un coinvolgimento della Santa Sede; favorevole invece Montini, che anche in questa occasione conferma la sua vicinanza alla linea di De Gasperi. Le preoccupazioni di Tardini sono condivise dal papa che tuttavia, rassicurato dal governo italiano, approva la scelta atlantica.

I pontificati di Giovanni XXIII (1958-1963) e Paolo VI (1963-1978) attraversano anni cruciali per la Chiesa italiana: il clima di ottimismo suscitato dal Concilio Vaticano II (1962-1965) si scontra con la realtà del progressivo allontanamento della popolazione dalla fede praticata e vissuta, e con l’insofferenza di settori non trascurabili del clero e del laicato per l’autorità della Santa Sede e il magistero pontificio (si pensi alle reazioni suscitate dall’enciclica Humanae vitae del 1968). Lo spirito di rinnovamento del Concilio investe la Curia, che viene profondamente riformata dalla costituzione Regimini Ecclesiae universae (1967) di papa Montini; con la soppressione della Cancelleria dei Brevi Apostolici e la trasformazione della prima sezione (Affari Ecclesiastici Straordinari) nel Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, la Segreteria di Stato viene unificata e diventa a tutti gli effetti “segreteria del Papa”: la pluralità dei soggetti con i quali essa è ora chiamata a intrattenere relazioni esprime la visione ecclesiologica conciliare. Nonostante la centralità che anche Paolo VI, come i suoi predecessori, attribuisce alla Segreteria di Stato – dove il sostituto Giovanni Benelli ha maggiormente il “polso” della situazione italiana rispetto al segretario di Stato, il cardinale francese Jean-Marie Villot – papa Montini non disdegna di servirsi di altri canali per intervenire nelle questioni italiane, di cui è spettatore attento e partecipe: quando i rapporti della Santa Sede con l’Italia sono messi a dura prova dall’introduzione della legge sul divorzio (con il successivo referendum abrogativo) e dalle prime discussioni sulla revisione del Concordato, un interlocutore privilegiato del pontefice è il segretario della CEI Enrico Bartoletti, insieme al quale l’ambasciatore italiano Gian Franco Pompei elabora la prima bozza del nuovo Concordato.

Il maggiore protagonismo della Conferenza Episcopale è peraltro un tratto distintivo del pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), per quanto riguarda l’Italia. Sebbene essa non venga coinvolta nelle fasi decisive dei negoziati per l’accordo-quadro del 1984, quest’ultimo ne fa il soggetto competente a trattare con le autorità civili in numerose e importanti materie, tra cui i beni culturali e il finanziamento pubblico alla Chiesa cattolica. Negli stessi anni la Segreteria di Stato viene ulteriormente riformata: la costituzione Pastor bonus (1988) la ripartisce in due sezioni (Affari Generali / Rapporti con gli Stati), coordinate rispettivamente da un sostituto e da un segretario; nella seconda sezione confluisce il Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Sul piano giuridico la riforma sottolinea il legame di tutta la Curia con il pontefice; per quanto riguarda l’Italia la Segreteria di Stato rinuncia alle sue prerogative nelle provviste episcopali a vantaggio della Congregazione dei Vescovi (ma la seconda sezione le mantiene per l’Europa dell’Est e la Russia).

Nel confuso quadro generato dalla “fine della Prima Repubblica”, con la diaspora politica dei cattolici che ne è conseguita, le istituzioni italiane hanno trovato nella CEI presieduta dal cardinale Ruini un interlocutore privilegiato, in sintonia con il magistero e le direttive pastorali di papa Wojtyla. Il quadro sembra essere parzialmente mutato con l’avvento al soglio pontificio di Benedetto XVI: in una lettera al presidente della CEI Angelo Bagnasco (25 marzo 2007), infatti, il segretario di Stato Tarcisio Bertone ha rivendicato implicitamente un ruolo più attivo per sé nei rapporti con le autorità civili. A questo riguardo, è lecito supporre che l’attuale situazione di crisi economica e politica, che ripropone in termini cogenti il problema del ruolo dei cattolici nell’arena pubblica (evidenziato dal cardinale Bagnasco in numerosi interventi), offrirà sicuramente nuove occasioni di confronto e spunti di riflessione.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Astorri, La Segreteria di Stato nelle riforme di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, MEFRIM 110 (1998), II, 501-518; G. Coco, L’“anno terribile” del cardinale Pacelli e il più segreto tra i concistori di Pio XI, Archivum Historiae Pontificiae, 47 (2009), 143-276; N. Del Re, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 19984; A.M. Diéguez, S. Pagano, Le carte del “Sacro tavolo”. Aspetti del pontificato di Pio X dai documenti del suo archivio privato, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2006; F. Engel-Janosi, Il Vaticano fra fascismo e nazismo, Le Monnier, Firenze 1973; G. Feliciani, La riforma della curia romana nella costituzione apostolica Sapienti consilio del 1908 e nel codice di diritto canonico del 1917, MEFRIM 116 (2004), I, 173-187; F. Jankowiak, La Curie Romaine de Pie IX à Pie X. Le gouvernement central de l’Église et la fin des États Pontificaux (1846-1914), École française de Rome, Rome 2007; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1963; F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla Grande Guerra alla Conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Laterza, Bari 1966; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Il Mulino, Bologna 2009; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato – III: La Questione Romana dalla Convenzione di Settembre alla caduta del Potere Temporale (1864-1870), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1961; G.F. Pompei, Un ambasciatore in Vaticano. Diario 1969-1977 (a cura di P. Scoppola con note di R. Morozzo Della Rocca), Il Mulino, Bologna 1994; R. Regoli, Il ruolo della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari durante il pontificato di Pio XI, in Cosimo Semeraro (ed), La sollecitudine ecclesiale di Pio XI alla luce delle nuove fonti archivistiche. Atti del Convegno Internazionale di Studio, Città del Vaticano, 26-28 febbraio 2009, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, 183-229; A. Riccardi, Il potere del Papa da Pio XII a Giovanni Paolo II, Laterza, Roma-Bari 1993; G. Sale, De Gasperi, gli USA e il Vaticano all’inizio della Guerra Fredda, Jaca Book, Milano 2005; A. Scottà (a cura di), «La conciliazione ufficiosa». Diario del barone Carlo Monti «incaricato d’affari» del governo italiano presso la Santa Sede (1914-1922), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997; L. Trincia, Il nucleo tedesco: Vaticano e Triplice Alleanza nei dispacci del nunzio a Vienna Luigi Galimberti, Morcelliana, Brescia 2001.


LEMMARIO




Seminari - vol. I


Autore: Maurilio Guasco

Il 5 luglio 1563 il Concilio di Trento avrebbe approvato un documento, noto come Cum adolescentium aetas dal suo incipit, con il quale invitava le varie diocesi ad aprire una casa in cui radunare i giovani che intendevano avviarsi al sacerdozio per fornire loro una formazione di carattere spirituale e culturale adatta ai tempi. Precisava che in presenza di difficoltà di carattere economico, o per delle diocesi particolarmente piccole, si poteva pensare a strutture interdiocesane. Tali case venivano indicate, utilizzando un termine già presente in alcuni paesi europei, come seminari.

Si pensava così di unificare dei modelli formativi diversi, in uso in varie diocesi, per preparare i futuri preti. Vi erano le scuole cattedrali, in certi casi dette anche canonicali, in quanto gestite dai canonici. In altri luoghi i corsi erano dettati da qualche maestro, la cui scuola avrebbe preso il nome di Studium Generale, premessa delle future università. In alcuni luoghi, grazie anche agli Ordini religiosi, tali Studi Generali avevano avuto uno sviluppo particolarmente significativo e quindi attiravano alunni da vari paesi. Si può pensare, ad esempio, a Parigi e Bologna.

In altri luoghi, dove già erano nate le università, diventava prassi seguire i corsi in tali istituzioni. Una prassi abituale per esempio in Germania, ma in molti casi anche a Roma, dove erano aperti alcuni collegi, quali il Capranica e il Nardini, in cui vivevano giovani che seguivano le lezioni nelle Università dove quasi sempre era presente la facoltà di teologia. Collegi analoghi per la vita comune dei futuri preti erano aperti in Spagna e in Francia. Qui i giovani seguivano le lezioni alla Sorbona, e nel corso del secolo XVII avrebbero avuto come esempio significativo la parrocchia di Saint-Sulpice, dove vivevano alcuni giovani sotto la responsabilità del parroco, seguendo i corsi nella vicina università. Era anzi questo un altro dei modelli formativi: la vita in comune con un parroco, che poi presentava il giovane al vescovo per l’ordinazione. In altri casi poi, era la stessa casa del vescovo ad accogliere i giovani che si preparavano al sacerdozio.

La prima vera modifica avviene a Roma con la fondazione da parte di Ignazio di Loyola del Collegio Romano (1551), che attirerà subito molti studenti e diventerà in seguito l’Università Gregoriana, e quindi del Collegio Germanico (1552), destinato soprattutto alla formazione “romana” di futuri preti tedeschi, che rischiavano nel loro paese d’origine di essere orientati in altro modo dal clima della Riforma. Possiamo aggiungere che l’esempio della Germania fu seguito da altri paesi, che aprirono a Roma dei Collegi nazionali per formarvi alcuni dei loro futuri pastori.

Il modello seguito dal Concilio di Trento, sia per gli studi che per i vari regolamenti, veniva dall’Inghilterra, dove il Cardinale Pole in occasione del Sinodo del 1555 aveva invitato le diocesi ad aprire delle scuole da dove, “tamquam ex seminario”, si potessero scegliere i candidati al sacerdozio.

I Padri conciliari avrebbero poi indicato le condizioni per l’ammissione nei seminari: giovani di almeno 12 anni, figli legittimi, capaci di leggere e scrivere e con un indole che lasciasse presagire la scelta dello stato sacerdotale. Nelle diocesi in cui non erano presenti facoltà teologiche all’interno delle università, il seminario era destinato a diventare una istituzione globale, dove cioè il giovane veniva formato con scarsi contatti esterni, dal momento che tutto veniva organizzato all’interno della struttura stessa, compresa la scuola. Per questa lo stesso Concilio indicava degli orientamenti culturali, insieme con quelli di natura spirituale e disciplinare. Si può anzi dire che il Concilio offriva un modello che prevedeva per la formazione al sacerdozio tre veri e propri pilastri, che sarebbero rimasti come elemento di riferimento fino al secolo XX: la pietà, lo studio e la disciplina, e per ognuno di tali pilastri offriva delle indicazioni pratiche.

Bisogna subito aggiungere che in diversi paesi europei non avvennero grandi cambiamenti, o per mancanza di docenti, o per ragioni economiche, o perché rimanevano in vigore i vecchi modelli formativi, in particolare quello che vedeva la separazione tra il luogo di vita, il Collegio, e il luogo di studio, l’Università. Inoltre, sarebbe rimasto a lungo in vigore un altro modello, quello del chiericato esterno: vi erano cioè giovani che restavano nelle loro case e si preparavano privatamente al sacerdozio oppure frequentavano, appunto da esterni, le scuole del seminario o delle Università.

In Italia, e anche in Spagna, molti vescovi applicarono il decreto, e poi ci fu l’opera indefessa di san Carlo Borromeo, che non solo si occupò di istituire il seminari nella sua diocesi milanese (1564), ma collaborò alla fondazione anche in altre diocesi, scrivendo poi quel regolamento, che teneva conto delle indicazioni del Concilio di Trento, in particolare nel riferimento a quelli che abbiamo definito i tre “pilastri”, che sarebbe stato utilizzato in molte diocesi italiane. Il giovane doveva acquisire una profonda vita spirituale, derivante soprattutto dalla sistematicità degli esercizi di pietà, una buona formazione culturale di carattere teologico, morale, giuridico e pastorale su base sopratutto umanistica, e infine una rigorosa disciplina di vita. Ad ogni settore era preposto un responsabile, che avrebbe fatto capo al responsabile generale, il rettore.

Quasi come esempio per le altre diocesi, Roma aprì nel 1565 il proprio seminario, che venne però affidato non a preti romani ma a membri della Compagnia di Gesù. Negli anni successivi al Concilio di Trento in Italia vennero aperti un centinaio di seminari, molti dei quali però avrebbero avuto vita difficile, soprattutto per mancanza di docenti e di mezzi economici, al punto che non furono pochi che avrebbero chiuso poco dopo la loro inaugurazione, in attesa di essere poi rifondati o ristrutturati in epoca successiva.

Nel corso del ’600 diversi seminari italiani subirono l’influsso della scuola francese, che faceva capo soprattutto a San Vincenzo de’ Paolo e a Jean Jacques Olier, e quindi a Jean Eudes. A monte vi era ancora il seminario-parrocchia, cioè alcuni giovani vivevano con il parroco e frequentavano le facoltà universitarie. L’aumento di tali presenze portò alla nascita di veri e propri seminari, con due novità: la distinzione, causa la difficoltà a far convivere e formare persone di età troppo diverse, tra il petit séminaire e il grand séminaire, che in Italia sarebbero diventati seminario minore, comprendente le medie e il ginnasio, e seminario maggiore, con il liceo (detto anche filosofia) e la teologia; e un modello formativo diverso, con la vita comune tra superiori ed alunni, e una forma di spiritualità fortemente legata alla cristologia. Ma in Italia sarebbe rimasto il modello carolino, con la netta separazione tra alunni e superiori, e il ruolo fondamentale affidato al rettore. Inoltre, in Italia e a differenza della Francia, il padre spirituale era una figura a parte, che non partecipava alle riunioni in cui gli stessi superiori prendevano le decisioni circa la vita degli alunni.

A partire dal Concilio di Trento, non saranno pochi i papi che interverranno, o con documenti o con indicazioni e norme, per rendere sempre più efficace la formazione sacerdotale. Nel 1725 verrà anche instituita da Benedetto XIII, con la Costituzione Credite nobis, una Congregazione dei Seminari, con il compito di vegliare alla applicazione dei decreti tridentini.

Il papa indicava anche come reperire i fondi necessari alla vita dei seminari, e quindi dava istruzioni sulle materie che vi dovevano essere insegnate: la grammatica, il canto gregoriano, il computo ecclesiastico, e quindi le Sacre Scritture, i catechismi e i vari manuali ecclesiastici, in particolare quelli concernenti i sacramenti e le sacre cerimonie.

Non era comunque scomparso il chiericato esteriore: numerosi candidati al sacerdozio continuavano a prepararsi restando nella loro casa e frequentando scuole pubbliche o private, oppure le stesse scuole del seminario: che tra l’altro in molti casi sono frequentate anche da giovani che non intendono avviarsi al sacerdozio, soprattutto per gli anni antecedenti la teologia. In altri termini, non sono pochi i seminari che svolgono anche la funzione di collegi, o luoghi di istruzione pubblica, frequentati da futuri preti ma anche da altri studenti. Vi è una ragione economica: spesso sono questi ultimi a pagare la retta, ma anche una ragione di carattere culturale. Si pensa che sia un fatto positivo che parte della futura classe dirigente abbia avuto una soda formazione religiosa. Ma altri pensano che tale convivenza tra candidati al sacerdozio e chi pensa ad altre carriere rischi di rendere più difficile la formazione dei primi. Per questo si svilupperanno ampie discussioni fra i fautori dei seminari solo per futuri preti, e i fautori del seminario chiamato misto, cioè con la presenza di futuri preti e altri che restano in seminario, o lo frequentano, solo perché spesso è l’unico luogo in cui sono organizzate delle scuole.

Non è quindi strano che nella ricordata Costituzione di Benedetto XIII si dessero anche delle indicazioni per il reperimento di fondi per la vita dei seminari, anche se gli esiti non sarebbero stati quelli che il pontefice aveva auspicato.

Nel corso del XVIII il potere civile cercò di avere voce nelle nomine dei rettori e dei professori, soprattutto in alcune zone, come nel lombardo-veneto, e successivamente anche nel Piemonte di casa Savoia. Il prete era spesso considerato alla stregua di un funzionario di stato civile, capace di esercitare un forte influsso sulla popolazione. Per questo diversi governanti pensavano che fosse indispensabile un vero e proprio controllo della formazione di tali futuri funzionari.

Fra i vari tentativi fatti in proposito, possiamo ricordare l’opera di Giuseppe II che, dopo aver soppresso diversi seminari lombardi, nel 1786 faceva aprire a Pavia un “Seminario generale per la Lombardia austriaca” in vista della formazione di un clero che fosse anche al servizio dello Stato. Qualcosa di analogo, ma di segno diverso, avrebbe fatto in Toscana Pietro Leopoldo, le cui riforme avrebbero avuto come esito nel 1786 il noto Sinodo di Pistoia. I decreti del Sinodo contengono elementi di forte novità. La formazione del clero, secondo il Sinodo, deve privilegiare la pastoralità, e quindi il giovane sarà ordinato non in vista di un beneficio da acquisire, ma in funzione di un servizio pastorale da svolgere. Il vescovo quindi ordinerà un numero di preti in vista del servizio pastorale richiesto, ponendo così fine alla presenza di una moltitudine di ecclesiastici inutili e privi di ogni formazione. Per questo si dovranno ordinare solo dei giovani che abbiano svolto in seminario la formazione richiesta. Questo avrebbe portato in alcune zone alla scomparsa dei seminari-collegi, dal momento che venivano esclusi dai seminari quanti non manifestavano l’esplicita volontà di avviarsi al sacerdozio.

Il breve periodo della dominazione napoleonica, con l’accentramento nella mani dello Stato di tutta la formazione scolastica, avrebbe lasciato scarsi influssi nelle zone asburgiche, più significativi in altre zone, accentuando anche una certa diversificazione culturale, dal momento che i seminari privilegiavano la formazione umanistica, mentre si andavano diffondendo modelli culturali segnati da altre scienze.

Un significativo ritorno alle pratiche religiose proprio del periodo della Restaurazione, che avrebbe visto un proliferare di fondazioni di Congregazioni religiose, avrebbe anche spinto molti vescovi a rifare o ingrandire i loro seminari. Questo tra l’altro avrebbe reso possibile l’ingresso in seminario di quegli alunni che non potevano essere ospitati. Il che avrebbe contribuito alla lenta diminuzione dei chierici esterni e a una modifica anche dei programmi scolastici.

La base di tale modifica sarebbe stata la Costituzione Quod divina sapientia, emanata da Leone XII nel 1824, che prevedeva la ristrutturazione degli studi teologici nelle facoltà pontificie, e che avrebbe portato, con altri provvedimenti pontifici, a una sempre più accentuata separatezza tra il clero e la società civile. Il seminario diventa sempre più un’istituzione globale, autosufficiente, che eviterà di subire influssi esterni. Tale tendenza verrà accentuata dal conflitto tra Chiesa e Stato che si aprirà in diversi paesi europei, Italia compresa, dove il conflitto sarà accentuato dalla decisione presa dal governo dell’Italia unita di nominare nel 1864 dei visitatori incaricati di ispezionare anche i seminari e di presentare una relazione sullo stato interno degli istituti di formazione. Tra le motivazioni, si adduceva anche il fatto che in molti seminari svolgevano di fatto il ruolo di una scuola pubblica, e il governo riteneva suo diritto vegliare sulla formazione di molti futuri cittadini. Tale indagine avrebbe portato tra l’altro alla chiusura di ben 82 seminari, ma avrebbe anche spinto i vescovi a migliorare le condizioni di vita dei seminari stessi e il livello di istruzione, aprendo anche il dibattito sulla opportunità di introdurre i programmi governativi nelle scuole del seminario.

Se questo valeva soprattutto per le scuole medie e liceali, un problema diverso si poneva per gli studi teologici. Il conflitto determinatosi in Italia dopo l’occupazione di Roma avrebbe portato alla scomparsa nelle università statali degli alunni delle facoltà di teologia, che di conseguenza verranno soppresse, nel 1873. Tali insegnamenti saranno da allora confinati esclusivamente nelle facoltà ecclesiastiche e nei seminari.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Brambilla, Società ecclesiastica e società civile: aspetti della formazione del clero dal Cinquecento alla Restaurazione, in “Società e Storia”, 1981, 299-366; C. Fantappiè, Istituzioni ecclesiastiche e istruzione secondaria nell’Italia moderna: i seminari-collegi vescovili, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, 1989, 189-240; M. Guasco, La formazione del clero: i seminari, in Storia d’Italia, Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino, Einaudi 1986, 629-715; G. Pelliccia, La preparazione ed ammissione dei chierici ai santi ordini nella Roma del secolo XVI, San Paolo, Roma 1946; J.A. O’Donohoe, Tridentine Seminary Legislation. Its Sources and its Formation, Université de Louvain 1957; Sacra Congregatio pro Institutione Catholica, Enchiridion Clericorum. Documenta Ecclesiae futuris sacerdotibus formandis, Typis Polyglottis Vaticanis 1975; Sacra Congregatio de Seminariis et Studiorum Universitatibus, Seminaria Ecclesiae Catholicae, Typis Polyglottis Vaticanis 1963: C. Sagliocco, L’Italia in seminario 1861-1907, Roma, Carocci 2008; L. Sala Balust – F.M. Hernandez, La formacion sacerdotal en la Iglesia, Juan Flors, Barcelona 1966; M. Sangalli (ed.), Chiesa chierici sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo, Herder, Roma 2000.


LEMMARIO




Seminari - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si ebbero nei seminari i primi cambiamenti significativi, introdotti da Leone XIII e Pio X. Il primo, già da arcivescovo di Perugia, aveva emanato un regolamento per i chierici esterni, cioè per quanti si preparavano al sacerdozio restando nelle loro case e frequentando, neanche sempre, le scuole del seminario. Diventato papa, fra i primi suoi atti vi sarebbe stata la pubblicazione dell’enciclica Aeterni Patris (1879) con la quale metteva ordine nei vari orientamenti filosofici presenti nei diversi seminari, imponendo a tutti la dottrina di san Tommaso come base dell’insegnamento della filosofia e premessa indispensabile per lo studio della teologia: si tornava così alla vecchia concezione della filosofia come ancilla della teologia.

Diversi altri provvedimenti emanati dal pontefice avrebbero potuto avere influssi significativi sulla vita del seminario: si pensi in particolare all’apertura degli archivi vaticani, all’insistenza del pontefice sulla necessità degli studi storici e biblici e la sua attenzione ai problemi sociali che avrebbe facilitato il diffondersi di quello che verrà definito “il prete sociale”, cioè il prete che non disdegna di occuparsi dei problemi della società civile.

In effetti, tutto questo non ebbe influssi di particolare rilievo nei seminari, che sempre più venivano considerati istituzioni chiuse e autosufficienti, dove il seminarista doveva essere tenuto al riparo dagli influssi del mondo esterno; anche se, logicamente, le grandi trasformazioni e i dibattiti che ne conseguivano non potevano non avere un’eco significativa anche nei seminari.

Nel frattempo, la diminuzione dei chierici esterni, i periodi di vacanza che vengono sistematicamente abbreviati, i regolamenti disciplinari sempre più severi preparano quella che sarà la svolta del XX secolo, con la scomparsa del chiericato esterno e l’obbligo di residenza in seminario per almeno un quadriennio prima dell’ordinazione sacerdotale.

Nel programma generale di riforme, messo in atto da Pio X, rientravano anche gli interventi dedicati al miglioramento degli studi nei seminari, da ottenersi, ove necessario, anche con la soppressione di seminari troppo piccoli, e quindi non in grado di adeguarsi alle nuove esigenze, e la conseguente nascita di nuovi istituti di carattere interdiocesano o regionale.

Il pontefice aveva nominato una commissione che, dopo un’accurata analisi della situazione, aveva preparato una serie di norme e programmi che il papa rendeva operativi. Contemporaneamente, una visita apostolica a tutte le diocesi offriva a Pio X ulteriori elementi per i suoi interventi riformatori, comprendenti anche i seminari.

Veniva quindi deciso che tutti i chierici erano obbligati alla residenza in seminario, possibilmente fin dalla prima media, ma comunque nel quadriennio degli studi teologici, un quadriennio che doveva essere svolto integralmente, senza che vi fossero deroghe alla sua durata né possibili anticipi per la recezione degli ordini maggiori. Diventava così impossibile compiere gli studi privatamente, e venivano anche abolite le varie scuole ecclesiastiche vescovili che erano ancora aperte presso alcuni capitoli delle cattedrali.

Il curriculum prevedeva la divisione in scuola media, ginnasio, liceo e teologia e la base degli studi dalla scuola media al liceo diventavano i programmi governativi, con qualche aggiustamento per gli anni del liceo, che prevedano un più alto numero di ore dedicate alla filosofia scolastica. Vi era stato un dibattito particolarmente vivace tra quanti ritenevano che l’introduzione dei programmi governativi nelle scuole dei seminari fosse un cedimento alla cultura laica e un incoraggiamento a quanti sarebbero entrati in seminario solo allo scopo di compiere gli studi umanistici, e quanti ritenevano che la scelta di quei programmi, senza modificare il cammino vocazionale, avrebbe lasciato maggiormente liberi i giovani nello scegliere il loro futuro, senza sentirsi costretti a restare in seminario anche alla vigilia della teologia causa la totale mancanza di qualsiasi titolo scolastico legalmente riconosciuto.

Pio X portava così a compimento l’opera del Concilio di Trento, che aveva suggerito di aprire in ogni diocesi un seminario; realizzando anche un altro dei suggerimenti del Tridentino, che prevedeva per quelle diocesi impossibilitate a fare da sole di aprire insieme seminari interdiocesani o regionali.

Di conseguenza, nel volgere di pochi anni sarebbero sorti vari seminari regionali, soprattutto nel Centro-Sud, affidati per l’insegnamento al clero secolare, con cinque eccezioni riguardanti i gesuiti. Le nomine dei preti secolari come docenti vennero in genere decise a Roma, data la difficoltà che insorse quando i vescovi locali dovettero provvedere alle scelte dei docenti e spesso anche delle località in cui collocare il seminario.

Nel 1908 nasceva così a Lecce il regionale pugliese, poi trasferito a Molfetta nel 1915. Nello stesso anno nasceva il regionale di Chieti, mentre nel 1909 quello di Fano diventava interdiocesano e iniziava la costruzione di quello di Bologna, inaugurato nel 1919. Nel 1914 venivano inaugurati i regionali di Catanzaro e di Napoli. Nel 1911 diventava regionale il seminario di Anagni e nel 1912 quello di Assisi. L’ondata di fondazioni sarebbe poi ripresa negli anni Venti e Trenta con i seminari di Cuglieri, Potenza, Benevento, Reggio Calabria, Salerno e Viterbo. Nel 1953 si sarebbe aggiunto anche quello di Siena.

Gli anni di Pio X sono però segnati anche dalla crisi modernista. Di fronte al clima di rinnovamento e anche di entusiasmi sollevati nei seminari dalle opere di coloro che venivano condannati per la loro eterodossia, l’enciclica Pascendi (1907) corse ai ripari prescrivendo anche per i seminari delle norme disciplinari particolarmente rigide. Sulla base delle relazioni preparate dai visitatori mandati da Roma nei diversi seminari, non pochi insegnanti vennero esautorati, furono censurati e proibiti manuali e testi in uso nei seminari considerati poco ortodossi, si impose una oculata vigilanza su superiori e professori, i quali poi furono tutti costretti al cosiddetto “giuramento antimodernista”, un testo preparato a Roma che condannava tutte quelle dottrine che contenessero anche un minimo sospetto di eresia modernista e che doveva essere prestato da tutti i preti che accedessero a qualche nuovo ufficio, ma doveva anche essere ripetuto ogni anno dai professori del seminario.

Nel frattempo, il seminario accentuava la sua immagine di istituzione globale, lontana da ogni eco mondana: veniva proibito ogni contatto con l’esterno, per esempio attraverso la lettura di quotidiani, quindi assolutamente proibita, e fortemente limitato l’uso di biblioteche e riviste, mentre il tempo delle vacanze in famiglia veniva ulteriormente limitato. Ne avrebbe tratto vantaggio la formazione spirituale, a scapito però di una formazione culturale diventata sempre più carente. Nasceva così l’immagine del prete non troppo colto ma ubbidiente, mentre si diffondeva ulteriormente il falso mito del curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, santo proprio perché poco colto.

Nel 1917 si concludevano anche i lavori di preparazione del nuovo codice di diritto canonico, durati diversi anni: venivano così ratificate molte norme entrate in vigore negli anni precedenti. Veniva soppresso il chiericato esterno, si consigliava la presenza in ogni diocesi di due sedi per il seminario, una riservata al seminario minore, una al maggiore. Veniva precisata l’età minima necessaria per accedere agli ordini: il suddiaconato al compimento del ventunesimo anno di età, e al termine del terzo anno di teologia; il diaconato a ventidue anni e all’inizio del quarto anno di teologia, il presbiterato dopo la metà del quarto anno di teologia e al compimento del ventiquattresimo anno (salvo dispense da Roma). Venivano anche precisate le materie che avrebbero dovuto costituire la base indispensabile per una buona preparazione al sacerdozio. L’attuazione delle varie norme veniva affidata alla Congregazione dei seminari e delle università degli studi, costituita nel novembre 1915 da Benedetto XV con la Lettera apostolica Seminaria clericorum.

Superate le difficoltà e le conseguenze della guerra, che avrebbe visto un numero molto alto di preti e seminaristi al fronte, un nuovo documento romano, l’Ordinamento dei seminari, pubblicato dalla neonata Congregazione il 26 aprile 1920, ribadiva le varie norme e direttive emanate negli anni precedenti.

Un ultimo segno della chiusura al mondo e della scelta di conservare i seminaristi, in Italia, immuni da rapporti con la società civile, veniva dato dalla firma dei Patti Lateranensi, del’11 febbraio 1929, che contenevano per i seminaristi l’esenzione dal servizio militare.

Una svolta significativa nella storia del clero italiano, e poi anche dei seminari, era costituita dalla fondazione, nel 1916 per opera del padre Paolo Manna, della Unione missionaria del clero, consigliata a tutte le diocesi dallo stesso pontefice. In un primo momento, tale opera veniva sconsigliata, per non dire proibita, nei seminari. Questi, secondo gli orientamenti del tempo, dovevano provvedere a formare i preti in vista dell’attività pastorale nelle loro diocesi di origine. Parlare di missione nei seminari poteva distogliere i seminaristi da tale orientamento. Chi avesse voluto dedicarsi alle missioni, doveva entrare in una Congregazione missionaria. E i rettori avevano qualche timore che il pensiero delle missioni potesse distogliere i seminaristi dal loro compito, o addirittura portarli ad abbandonare il seminario.

Ci vorranno anni prima che si riscopra da un lato il ruolo essenzialmente missionario della Chiesa, dall’altro la responsabilità di ogni cristiano nei confronti dell’annuncio missionario, oltre i compiti specifici che ognuno deve svolgere nella comunità dei credenti.

A partire dagli anni Trenta però gli orizzonti si sarebbero allargati, al punto che nel 1931 sarebbero stati introdotti nel piano di studi dei seminari, anche se non tra le discipline fondamentali, gli insegnamenti di Storia delle missioni e di Missiologia.

In quello stesso anno, 1931, un provvedimento di Pio XI era destinato a modificare profondamente la storia dei seminari e dei loro piani di studio. Con la Costituzione Deus scientiarum Dominus il pontefice presentava le condizioni richieste perché una facoltà teologica fosse abilitata a rilasciare titoli accademici. Il risultato sarebbe stato la pratica soppressione, con qualche piccola eccezione, di tutte le facoltà teologiche presenti in molte delle diocesi, non solo italiane. Rimanevano, e modificavano i loro piani di studio, soprattutto le facoltà teologiche romane, dove era ormai indispensabile recarsi per acquisire titoli accademici. Ne sarebbe derivato un evidente arricchimento della ricerca teologica anche per i seminari periferici, dal momento che veniva introdotta la necessità di una tesi di ricerca per conseguire il dottorato, e gradualmente gli insegnanti dei seminari, spesso improvvisati, venivano sostituiti da giovani formati nelle università ecclesiastiche romane. Questo avrebbe poi riaperto il dilemma tra il rischio di formare dei pastori con scarsa preparazione teologica, o dei bravi studiosi ma poco esperti di problematiche pastorali.

La seconda guerra mondiale non avrebbe visto, come era successo nel corso della prima, la partenza per il fronte di seminaristi e preti, esentati grazie ai Patti Lateranensi dal servizio miliare. Sarebbero però partiti diversi cappellani militari, mentre molti seminari rimanevano chiusi o perché in zone di guerra o perché utilizzati come base militare o come ospedali di campo. Ne avrebbe subito gravi danni la formazione soprattutto culturale, dal momento che i corsi si tenevano solo sporadicamente e spesso in luoghi improvvisati. Questo però non avrebbe impedito a molti giovani preti di occuparsi di problemi politici, connessi con la propaganda elettorale negli anni dell’immediato dopoguerra. E non furono pochi i seminaristi che furono anche coinvolti nella propaganda elettorale.

La società italiana però usciva profondamente modificata dagli anni della guerra, e anche nei seminari tornavano le vecchie discussioni sulla apertura al mondo, sulla opportunità di presentarsi agli esami di Stato, sulle materie nuove da inserire nei programmi di studio. Venivano quindi introdotte alcune nuove materie sia di carattere sociologico (anche se all’inizio tale termine indicava la dottrina sociale della Chiesa) che di carattere economico, mentre si dava maggiore importanza all’insegnamento della catechesi. Alcuni cambiamenti erano stati anche richiesti dallo stesso Pio XII nel settembre 1950 con l’esortazione apostolica Menti nostrae, nella quale tra l’altro si chiedeva una maggiore attenzione alla formazione umana dei futuri preti.

I cambiamenti più significativi avvenivano nell’ambito missionario. Erano stati i vescovi francesi ad aprire la strada con la fondazione della Mission de Paris, dedicata alla evangelizzazione del mondo operaio, ma soprattutto con la fondazione della Mission de France, che aveva alla base la constatazione della cattiva distribuzione del clero. Entrare nel seminario della Mission de France significava mettersi a disposizione della Chiesa francese che avrebbe destinato i giovani preti alle diocesi dove era maggiore la carenza di clero. Qualche vescovo italiano aveva applicato lo stesso criterio con paesi di missione, inviando alcuni preti della propria diocesi al servizio di diocesi dove stava iniziando l’annuncio del Vangelo.

Tale criterio sarebbe stato ratificato e diffuso dall’enciclica Fidei donum di Pio XII, dell’aprile 1957; il papa invitava i vescovi occidentali a mettere alcuni loro preti a disposizione dei territori di missione, per periodi determinati e con l’accordo del vescovo che avrebbe accolto quei preti. Si trattava in un primo momento di aiutare le nuove diocesi africane a formare i loro pastori, per poter presto permettere la nascita di vere Chiese locali. A partire dagli anni Sessanta tale prassi si sarebbe estesa ad altri paesi e ad altri servizi pastorali, finendo per indicare quanti sceglievano quel servizio come “preti Fidei donum”.

Si trattava di una svolta significativa anche per la vita dei seminari, poiché permetteva di modificare gli orizzonti della formazione seminaristica, superando il cosiddetto egoismo diocesano: il seminarista entrava in un’ottica diversa, scopriva lentamente che si veniva ordinati al servizio della Chiesa universale, e non di una Chiesa particolare. Le necessità pastorali avrebbero indicato il luogo specifico in cui svolgere il ministero. Inoltre, si apriva ai giovani la possibilità di un servizio pastorale da svolgere, per alcuni anni, in terra di missione, senza bisogno di entrare in una Congregazione religiosa. Un clima nuovo che veniva facilitato dalla costituzione in molti seminari dei “circoli missionari”, dedicati all’animazione missionaria in seminario, mentre nel 1962 sarebbe stato fondato a Verona il CEIAL (Centro Ecclesiale Italiano per l’America Latina), seguito dall’apertura nel 1965, ancora Verona, di un seminario per formare i preti destinati all’America Latina.

In quegli stessi anni poi stava cambiando non solo la geografia vocazionale (aumentavano i seminaristi non occidentali) ma anche l’anagrafe nei seminari. La maggior parte dei seminaristi adulti proveniva ancora dai seminari minori. Giungevano però in seminario le cosiddette “vocazioni adulte”, giovani cioè che entravano nel seminario maggiore dopo una formazione culturale ed umana diversa: il che avrebbe portato a riflettere anche sui nuovi modelli formativi.

Cosa che in parte avrebbe fatto il Concilio Vaticano II, convocato da Giovanni XXIII nel gennaio 1959 e apertosi l’11 ottobre 1962. Il documento sulla formazione del clero, Optatam totius, sarebbe stato approvato il 28 ottobre 1965. Tra le novità del testo, da ricordare che i Padri insistevano sul fatto che il risveglio e la cura delle vocazioni non dovevano essere riservate agli addetti ai lavori, ma a tutta la comunità cristiana. Le singole Conferenze Episcopali venivano poi invitate a preparare un regolamento di formazione sacerdotale, da sottoporre alla Santa Sede, affinché le necessarie norme generali fossero adattate alle situazioni dei singoli paesi. Restava il richiamo a una formazione filosofica e teologica fondata sulla dottrina tomista, ma si chiedeva anche una maggiore attenzione alle diverse correnti filosofiche contemporanee, mentre si precisava che uno dei pilastri della formazione sacerdotale doveva essere la pastoralità. In altri termini, ai tre grandi riferimenti indicati dal Concilio di Trento, pietà-studio-disciplina, ora si affiancava la formazione pastorale, aggiungendo che era proprio questa che doveva fondare la vita spirituale del presbitero.

Il Italia la Ratio fundamentalis veniva presentata il 22 luglio 1972, in uno dei momenti più problematici della storia dei seminari. Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta si verificava la più grave e in parte inattesa crisi nella storia del clero: crollavano gli ingressi nei seminari, con la conseguente chiusura di non pochi di questi, mentre numerosi preti abbandonavano il ministero, facilitando una discutibile e troppo comoda analisi che vedeva nel Concilio e quindi nel cosiddetto Sessantotto le cause di tale situazione. Il numero dei seminaristi, che nel 1962 aveva raggiunto la cifra più alta del secondo dopoguerra con 30.595 unità, si riduceva a 25.570 nel 1968 per precipitare a 9.853 nel 1978. Nel 1970 vi erano aperti 375 seminari, ridotti a 259 nel 1978. In un decennio erano dunque stati chiusi 68 seminari minori e 48 maggiori.

Cambiava ulteriormente la geografia vocazionale, non solo a livello mondiale, ma anche locale, poiché il numero di seminaristi che non provenivano dal seminario minore era in continua crescita. Questo avrebbe portato alcune diocesi ad aprire dei seminari specifici per le vocazioni adulte, ma anche molti seminari a modificare i loro programmi di studio e di formazione spirituale. La scelta di aprire seminari destinati a categorie particolari si stava diffondendo anche tra i movimenti ecclesiali: non erano poche le vocazioni cresciute in quei movimenti, e i loro responsabili ritenevano che fosse giunto il momento di formare preti che avessero gli stessi orientamenti e la stessa spiritualità dei movimenti dai quali provenivano. Sceglievano tale orientamento, ad esempio, il Cammino neocatecumenale, il Rinnovamento dello Spirito, i Focolarini e altri. Il che naturalmente sollevava nuovi problemi e nuove prospettive, rendendo più problematica la scelta di una pastorale diocesana indicata dai vescovi, e non dai responsabili dei singoli movimenti.

I vescovi italiani preparavano intanto un decreto, presentato nel maggio 1980, che teneva presenti i cambiamenti avvenuti, a livello istituzionale, nel cammino di preparazione al sacerdozio. Venivamo modificati i cosiddetti “ordini minori” e soppresso il suddiaconato. L’ingresso nell’ordine clericale sarebbe avvenuto con il conferimento del diaconato, che restava come ultimo gradino verso il sacerdozio, ma veniva affiancato dal diaconato permanente, conferito a quanti ricevevano il diaconato solo come servizio da prestare alla comunità ecclesiale, senza però avviarsi al sacerdozio.

Le varie modifiche presentate anche per i piani di studio venivano poi recepite nella Ratio studiorum per i seminari maggiori italiani, pubblicata nel giugno 1984. Il tema della missionarietà sarebbe stato ripreso nel Sinodo dell’ottobre 1990, dedicato a La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, mentre sulle esigenze della formazione pastorale sarebbe tornato Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis, l’esortazione apostolica del 25 marzo 1992, anch’essa dedicata a La formazione dei sacerdoti.

Lo stesso Giovanni Paolo II aveva pubblicato nel 1979 la Sapientia christiana, con la quale modificava la Deus scientiarum Dominus, la Costituzione di Pio XI del 1931 che era rimasta sempre in vigore, solo con qualche parziale modifica suggerita nel maggio 1968 dalla Sacra Cogregatio pro Institutione Catholica. La Sapientia christiana indicava le nuove norme necessarie per il conseguimento dei titoli accademici nelle Università pontificie.

Anche in queste si stavano verificando in quegli anni cambiamenti significativi. La ricostituzione in alcune città italiane di facoltà teologiche finiva per fare diminuire il numero di seminaristi che si recavano a Roma per completare gli studi, determinando un ulteriore modifica delle presenze di giovani seminaristi o preti a Roma. Diminuivano cioè le presenze di giovani provenienti dai paesi europei, mentre aumentano le presenze di africani ed asiatici, con la conseguente necessità di nuovi adeguamenti nei piani di studio. Qualcosa di analogo avveniva nei seminari italiani, dove aumentavano le presenze di giovani non italiani, spesso venuti solo per completare gli studi e poi incardinati nelle diocesi che li avevano accolti.

In Italia veniva anche discussa la possibilità di introdurre nelle facoltà teologiche alcune modifiche che rispecchiassero le riforme in corso nelle diverse facoltà statali: tale possibilità sarebbe stata indicata come il “processo di Bologna”.

Sono le nuove sfide del futuro: anche il presbiterio e il seminario stanno diventando lo specchio dei una società multietnica e multiculturale. Si tratta di una nuova realtà con cui dovranno confrontarsi i seminari e le diocesi italiane.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., A venticinque anni dalla “Sapientia christiana”, in “Seminarium”, 44 (2004), n. 3, 333-568; AA.VV., Esperienze e forme di spiritualità vocazionale al ministero ordinato dei vari carismi ecclesiali, in “Seminarium”, 49 (2009), n. 1, 131-196; AA.VV., Le Facoltà ecclesiastiche e il “Processo di Bologna”: bilancio e prospettive, Atti del convegno, Roma 22-23 ottobre 2010, in “Seminarium”, 51 (2011), n. 1; AA.VV., 150 ans au coeur de Rome. Le Séminaire français 1853-2003, Karthala, Paris 2004; G. Bove, Indagine sulle vocazioni sacerdotali. Analisi qualitativa e quantitativa, Rogate, Roma 1976; A. Buocristiani, I seminari delle diocesi umbre all’inizio del secolo e la fondazione del Seminario regionale di Assisi (1912), in “Bollettino storico della città di Foligno”, 1986, 253-312; A. D’Urso, Le vocazioni sacerdotali in Italia. Studio teologico-pastorale con documentazione statistica (1946-1974), Dehoniane, Bologna 1975; C. Fantappiè, La riforma dei seminari tra Stato e Chiesa (1859-1917), in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, La Scuola, Brescia 1999, 595-627; M. Guasco, Fermenti nei seminari del primo ’900, Dehoniane, Bologna 1971; Id., Seminari e clero nel Novecento, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990; Id., La formazione del clero, Jaca Book, Milano 2002; G. Lefeuvre, La vocation sacerdotale dans le second Concile du Vatican,Tequi, Paris 1978; F. Marchisano, L’evoluzione storica della formazione del clero, in “Seminarium”, 1973, 219-319; G. Martil, I seminari oggi. Problemi di formazione sacerdotale, Ancora, Milano 1956; V. Merinas, Dossier sui seminari, Gribaudi, Torino 1970; I. Peri, I seminari. Le novità dal Vaticano II ad oggi nei documenti e nell’esperienza della Chiesa, Rogate, Roma 1985; S. Pintor, La formazione permanente del clero. Orientamenti e percorsi, Dehoniane. Bologna 2001; F. Rypar, Il cammino postconciliare dei seminari, in “Seminarium”, 1977, 308-437; Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi – Uffici di Segreteria, La nuova scuola media e i seminari. Testi, documenti, circolari, note illustrative, sussidi didattici, appendice, bibliografia, Roma 1963; M. Sangalli (ed.), Chiesa, chierici, sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo, Herder, Roma 2000; Id., Pastori pope preti rabbini. La formazione del ministro di culto in Europa (secoli XVI-XIX), Carocci, Roma 2005; A. Zambarbieri, Dibattiti sulla “cultura pastorale” nei seminari durante gli anni di Pio XII, in AA.VV., Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1958), La Scuola, Brescia 1988, 157-209.


LEMMARIO




Sessantotto - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Il 1968 rimane per molti una data simbolo, soprattutto per le contestazioni studentesche in vari paesi europei ed americani. Ma il 1968 è anche l’anno dell’uccisione di Martin Luther King (4 aprile) e di Robert Kennedy (5 giugno), della primavera di Praga, stroncata dalle truppe sovietiche nell’agosto successivo, e di analoghe speranze e delusioni in Polonia, del fallimento della “rivoluzione culturale” cinese organizzata dalle “Guardie rosse”, delle offensive dei Vietcong in Vietnam, che metteranno in grave imbarazzo, anche sul piano internazionale, le forze armate e il prestigio nel mondo degli Stati Uniti. Problemi in parte analoghi doveva affrontare anche l’Unione Sovietica, che vedeva aumentare la sua tensione con la Cina, alla quale si avvicinava l’Albania, che decideva di uscire dal patto di Varsavia.

In Polonia le manifestazioni vedevano come protagonisti le organizzazione studentesche, come d’altronde stava avvenendo in altri paesi: a partire da marzo in Brasile e in Francia, in aprile nella Repubblica federale tedesca e in Turchia, tra aprile e maggio negli Stati Uniti (dove le manifestazioni studentesche erano già iniziate nel 1964) e poco dopo in Senegal e ancora in Francia, in settembre in Messico, represse duramente dalla polizia, in ottobre in Gran Bretagna, ma anche in Giappone, Jugoslavia, Svizzera, Spagna, Argentina.

In Europa divenne un vero e proprio riferimento mitologico il maggio francese, con l’occupazione della Sorbona e i tentativi degli studenti di organizzare una forma di democrazia diretta con “l’immaginazione al potere”. In Italia divenne quasi un simbolo l’università di Trento, con la Facoltà di Sociologia che parve presentarsi come fonte e promotrice di tutte le grandi contestazioni, mentre facevano particolare scalpore le agitazioni studentesche che si verificavano a Milano all’Università cattolica del sacro Cuore (novembre 1967) che avrebbero provocato l’espulsione di alcuni studenti e le severe reazioni delle autorità accademiche. Le occupazioni si susseguirono in molte altre sedi universitarie, raggiungendo il culmine il primo marzo quando a Roma si svolge la “battaglia di Valle Giulia”, causata dall’occupazione della facoltà di architettura, una vera e propria battaglia urbana che provocò centinaia di feriti tra i manifestanti e le forze dell’ordine.

Vi furono in seguito manifestazioni del dissenso cattolico, il cui primo convegno si tenne a Bologna il 27 febbraio 1968. Tra le manifestazioni ebbero particolare rilievo l’occupazione della cattedrale di Parma, nel settembre 1968, e il caso dell’Isolotto, la parrocchia fiorentina il cui parroco, don Enzo Mazzi, rimosso dal cardinale, continuò le celebrazioni liturgiche in locale improvvisati o sulla piazza. Altri gruppi entrarono in dissenso con l’autorità religiosa, e vennero indicati con il termine piuttosto ambiguo di “comunità di base”. L’uso delle categorie marxiane sembrava introdurre nelle comunità ecclesiali alcuni concetti base del marxismo, identificando il Regno di Dio con l’utopia marxista, spingendo i cristiani ad operare in vista della trasformazione della società e presentando la prassi sociale come criterio della stessa vita religiosa. Gli studenti avrebbero poi cercato di coinvolgere il movimento operaio, assumendone anche le rivendicazioni.

In ambito ecclesiale, si protestava contro la mancata realizzazione di molte delle istanze del Concilio Vaticano II, di cui anzi si temeva il ridimensionamento. Si voleva un’ecclesiologia dove non si parlasse solo di gerarchie e di potere, ma di servizio e di ruoli. Sarebbe stato uno dei temi preferiti del gruppo di preti francesi che avrebbe dato inizio al movimento Echanges et dialogue, che rivendicava una maggiore libertà per il clero nella scelta delle proprie condizioni di vita.

Sul tema della recezione del Concilio si pronunciò l’episcopato sudamericano nell’incontro di Medellin (26 agosto – 7 settembre 1968), un evento destinato a diventare un punto di riferimento per la storia della Chiesa in America Latina. Tre libri, tradotti o pubblicati nel 1968, si possono poi considerare momenti fondamentali nella storia della teologia: Resistenza e resa, di D. Bonhoeffer, Introduzione al cristianesimo, di J. Ratzinger e Sulla teologia del mondo di J. B. Metz.

In ambito studentesco, si accusava la scuola di essere ancora una scuola di classe, che non permetteva alle categorie più disagiate di accedere agli studi superiori. Le prove di tale situazione venivano fornite da un testo che a torto divenne quasi il simbolo della contestazione, la Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani.

Un altro segno di un certo dissenso cattolico furono le reazioni, spesso critiche, all’enciclica di Paolo VI, Humanae vitae, pubblicata il 25 luglio 1968, dedicata in particolare al problema del controllo delle nascite. Reazioni che addolorarono il pontefice, che da qualche anno sentiva la difficoltà a capire e farsi capire su certi temi, come aveva spesso l’occasione di ribadire nelle udienze generali, e che aveva poi ricordato i limiti oltre i quali il credente non poteva andare nel Credo pronunciato il 30 giugno 1968, concludendo l’anno della fede, inaugurato l’anno precedente.

Con il passare degli anni, il ’68 è diventato una specie di mito; indica per alcuni il tempo della libertà, della fantasia al potere, del sogno di una società di uguali, del rifiuto delle gerarchie e delle regole dell’economia di mercato; per altri sembra il simbolo del rifiuto di ogni gerarchia sociale, di una specie di delirio collettivo distruttore di ogni forma di tradizione, principio dei diversi mali sociali e soprattutto premessa del futuro terrorismo.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Agosti – L. Passerini – N. Tranfaglia (edd.), La cultura e i luoghi del 68, Angeli, Milano 1991; AA.VV., Echanges et dialogue ou la mort du clerc, Idoc, Paris 1975; AA.VV., Le radici del ’68,  Baldini & Castoldi, Milano 1998; R. Beretta, Il lungo autunno. Controstoria del Sessantotto cattolico, Rizzoli, Milano 1998; M. Brambilla, Dieci anni di illusioni. Storia del Sessantotto, Rizzoli, Milano 1994; M. Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia. 1965-1980, Rizzoli, Milano 1983; C. Falconi, La contestazione nella Chiesa. Storia e documenti, Feltrinelli, Milano 1969; M. Flores – A. De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, Bologna 2003; A. Giovagnoli (ed.), 1968: fra utopia e Vangelo. Contestazione e mondo cattolico, Ave, Roma 2000; Insegnamenti di Paolo VI, Città del Vaticano, Roma 1963 e ss.; G.C. Marino, Biografia del Sessantotto, Bompiani, Milano 2004; P. Ortoleva, I movimenti del 68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1998.


LEMMARIO




Sessualità - vol. I


Autore: Margherita Pelaja

Per tentare di dare ordine a una riflessione sul tema della sessualità possono essere usati due termini: “parità” e “gerarchia”. Solo apparentemente contrapposti e lontani dal tema specifico, essi si intrecciano sempre fra di loro secondo relazioni complesse, mentre l’uno o l’altro acquista intensità e occupa di volta in volta il centro della scena in epoche diverse, permettendo così di proporre periodizzazioni, di suggerire grumi di senso.

Non si tratta qui infatti di comporre una narrazione lineare, incapace per sua natura di rendere conto sia pure in estrema sintesi di un cammino lunghissimo e tortuoso, fatto di elaborazioni e di esperienze contrastanti disseminate su territori e contesti i più diversi tra di loro. Né si tratta di guardare alla sessualità come luogo teologico, puro oggetto di dispute dottrinali. Si tratta piuttosto di osservare la declinazione storica e politica che alcuni enunciati hanno avuto nel corso dei secoli nella storia della Chiesa ma anche nella quotidianità dei vissuti dei fedeli.

Il primo termine dunque è “parità”, e ha portato una rivoluzione culturale nelle concezioni del mondo antico. Parità tra anima e corpo, prima di tutto: culture e filosofie precristiane ascrivevano il corpo – e con esso l’istinto sessuale – alla sfera della natura; lo separavano in un dualismo irriducibile dalla dimensione spirituale e intellettuale per farne di volta in volta luogo immondo di pulsioni da soffocare o centro di forze cui abbandonarsi in tutta innocenza, perché parte di una fisiologia separata dalla morale e dalla religione. Il cristianesimo sovverte tutto: nelle lettere di Paolo il corpo risplende della stessa luce che aveva fatto risorgere il corpo di Cristo dalla tomba, è «tempio dello Spirito santo». Non più terreno neutrale della natura, con l’Incarnazione il corpo diventa parte integrante della persona umana, inscindibile dallo spirito.

Il dualismo così limpidamente abolito torna tuttavia, e subito, in una nuova antitesi: impulsi e desideri capaci di trascinare ognuno nel peccato e nella perdizione risiedono infatti, nella visione paolina e poi in tutti i testi cristiani, non nel corpo ma nella “carne”. La carne è una forza possente, ribelle a Dio attraverso mollezze e tentazioni ben più pericolose degli istinti naturali del corpo; quella che Agostino chiamerà concupiscenza è il vizio della carne che desidera “contro” lo spirito, alla ricerca di un piacere fine a sé stesso e attratto dal peccato. La lotta tra spirito e carne trasforma così il corpo in uno strumento di salvezza, e dunque in luogo d’ordine e di esercizio della volontà e della disciplina: la parità tra anima e corpo ha implicazioni profonde nella vita di ogni cristiano e ancor più profondamente ambigue nella sua percezione della sessualità. L’enfasi posta sul dominio di sé e sul controllo degli impulsi sessuali propone subito infatti slittamenti di senso, suggerisce scelte economiche convenienti: «con l’astinenza – scrive Tertulliano nel De Anima (9, 4) – si può acquisire moltissima santità: risparmiando nella carne si può investire nello spirito». La scelta e l’esercizio della castità come vittoria definitiva sulla concupiscenza sarà letta nel corso dei secoli come la via più nobile e certa verso la salvezza, fino ad accreditare una visione che denigra anche la sessualità più continente e apre la strada all’affermazione del binomio cristianesimo/sessuofobia.

C’è un’altra parità, altrettanto controversa, alle fondamenta del cristianesimo: quella tra uomo e donna. «Ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie verso il marito», scrive Paolo nella Prima lettera ai Corinzi. Uguaglianza e reciprocità sono posti alla base dell’unione coniugale cristiana lungo un percorso che dalle coppie che nei primi secoli vivevano in ascesi nei Luoghi Santi, passa a porre la copula come condizione indispensabile all’esistenza stessa del legame coniugale; poi a elaborare tecniche amatorie efficaci perché entrambi i coniugi raggiungano il piacere, giungendo infine a tollerare la sessualità prematrimoniale come strumento per raggiungere le nozze.

Questo percorso è lungo e tortuoso: i teologi dell’antichità e del medioevo accettavano l’unione coniugale esclusivamente come remedium concupiscientiae e discutevano se la copula tra moglie e marito fosse da considerare almeno peccato veniale, dato che il piacere fisico ha la capacità di obnubilare, sia pure per pochi istanti, la vigilanza della coscienza cristiana. Dopo la codificazione del matrimonio varata dal Concilio di Trento invece si diffondono trattati che rovesciano questo punto di vista: rifacendosi alle teorie ippocratiche che ritenevano l’orgasmo sia maschile che femminile indispensabile alla procreazione, i più autorevoli teologi morali seicenteschi raccomandano eccitazioni, fantasie, toccamenti affinché moglie e marito godano pienamente e legittimamente dei piaceri dell’amplesso. Ogni preliminare e ogni posizione sono esaminati con tolleranza per garantire ai coniugi la reciprocità della soddisfazione e del possesso.

Naturalmente, in questa come in altre teorizzazioni, non si tratta soltanto di elaborare norme morali sulla sessualità coniugale: si tratta piuttosto di accentuare la distinzione tra la castità del clero e la quotidianità sessuata dei laici, e soprattutto di frastagliare i confini tra lecito e illecito, di sfumare l’assoluto delle norme universali per consegnare ogni esperienza alla responsabilità del singolo e all’autorità dei confessori.

La copula acquista così luci e qualità inedite rispetto al rigore della Chiesa medievale: l’unione della carne e la commistione del sangue generano un vincolo indissolubile che nell’ordine del popolo dei fedeli post-tridentini “deve” diventare matrimonio. In nome di questo obiettivo prioritario i prelati che amministrano la giustizia ecclesiastica sono pronti allora ad accantonare canoni e castighi per privilegiare l’opportunità di sanare singoli e scandalosi disordini. Comincia a configurarsi così una delle gerarchie che ispirano il governo delle anime per tutta l’età moderna: in cima alla scala degli eventi desiderabili nella vita dei fedeli c’è il matrimonio, mentre alla sommità di quella delle situazioni esecrabili per la comunità cattolica c’è lo scandalo. «A retto fine di matrimonio» e per evitare scandali maggiori saranno concesse dispense matrimoniali anche da impedimenti dirimenti – disparità di ceto sociale o di culto, adulterio con promessa di sposarsi alla morte del coniuge, parentela – purché forzati dalla consumazione di un amplesso più potente delle leggi canoniche. Dopo alcuni decenni di rigore – necessari a far penetrare nella coscienza collettiva l’obbligo di seguire i dettati tridentini nella celebrazione delle nozze – verranno aiutati i concubini che saranno stati capaci di convincere parenti e vicinato di essere davvero marito e moglie: la pena loro comminata sarà fino a tutto l’Ottocento nozze rapide ed economiche, celebrate a spese del Tribunale ecclesiastico risparmiando sui costi dei certificati necessari e ottenendo l’esonero da quelli difficili da reperire. Quanto poi alla seduzione, a quegli amplessi strappati con lusinghe o concessi con lucido calcolo, basterà dichiarare concordemente che gli impulsi della carne hanno solo preceduto gli onesti intenti nuziali, oppure denunciare al parroco un seduttore riottoso per ottenere una “condanna” che imponga il bene supremo del matrimonio ed eviti il male contagioso dello scandalo.

Altre gerarchie vengono poi a disporsi lungo la scala del lecito e dell’illecito nel governo delle anime e dei corpi dei fedeli: sono le gerarchie che riguardano gli impulsi irrefrenabili, le inclinazioni perverse, le resistenze poste dalla carne alla disciplina che ogni cristiano deve esercitare sul desiderio sessuale. Perché i peccati, anche all’interno del vizio capitale della lussuria, non sono tutti uguali: ognuno occupa un suo spazio specifico, ognuno è al centro di valutazioni e negoziazioni che declinano di volta in volta gli enunciati universali del bene e del male.

Alla sommità della graduatoria della colpa c’è il peccato più inatteso, quello cui nessun cristiano – neanche il monaco più santo – riesce a sfuggire: la dissipazione del seme. Lo sperma possiede la potenza generativa, che fa dell’uomo lo strumento del divino nel donare la vita: assicura quindi la legittimità dell’ordine paterno ma al tempo stesso è associato al disordine di emissioni involontarie e incontrollate, legandosi strettamente alla grande questione teologica del libero arbitrio e dei suoi confini. Per tutto il medioevo la polluzione fu ritenuta rischio e tentazione del clero, impegnato in battaglie feroci contro fantasie e abbandoni notturni; con il passare dei secoli poi nella riflessione di monaci e teologi fu progressivamente estesa a tutti i celibi; infine, a partire dal Quattrocento, a tutti gli uomini e a tutte le donne, stabilendo una sorta di identificazione con la masturbazione. Così nei manuali dei confessori post-tridentini è proprio la labilità del confine tra masturbazione e polluzione a consentire di scomporre il peccato secondo prospettive variabili, di ricondurlo di volta in volta a un fallimento episodico e veniale del controllo sugli istinti oppure a un esecrando crimine contro natura, a un vizio innominabile generatore di altrettanto innominabili perversioni.

Il “peccato nefando” che ne discende direttamente è infatti quello di sodomia. Peggiori degli omicidi (Giovanni Crisostomo), colpevoli di aver cacciato lo Spirito Santo dal tempio dell’anima (Pier Damiani), tanto abominevoli da suscitare disgusto perfino nei diavoli (Caterina da Siena), destinati alla corruzione del corpo prima che alla morte (Bernardino da Siena), i sodomiti hanno posto la Chiesa di fronte a contraddizioni paralizzanti: perché un rapporto carnale consapevolmente infecondo evidenzia un altrettanto consapevole abbandono alla lussuria ed esige dunque una punizione definitiva ed esemplare. Ma è qui che cominciano i problemi. Affinché sia comminata l’esclusione perenne dalla comunità dei cristiani, o sia addirittura richiesta – con due Costituzioni nel corso del Cinquecento – la collaborazione delle magistrature laiche per imporre supplizi e impiccagioni, è infatti necessario che la colpa sia accertata in tutta la sua pienezza: occorre provare la coscienza del peccato, la sua reiterazione perché non si tratti di una caduta occasionale, la sua consumazione completa e consenziente, il ruolo attivo o passivo sostenuto nella consumazione stessa, dato che solo per il dominante è prevista la consapevole emissione del seme. Magistrati, inquisitori e confessori rimangono in balia di denunce, ritrattazioni, sottigliezze giuridiche: così – in una visione che privilegiando la colpa dell’infertilità pone sullo stesso piano rapporti fra uomini, fra uomini e donne, fra uomini e fanciulli – proprio l’orrore del peccato nefando rende quasi impossibile il suo castigo.

È insomma un misericordioso pragmatismo a ispirare nel lungo periodo la politica della Chiesa verso i fedeli colpevoli di comportamenti sessuali irregolari: gli assoluti delle condanne sono stemperati in valutazioni e negoziazioni su casi particolari e su specifiche attenuanti, per giungere infine a proporre pene miti, perdoni condizionati. Perché l’obiettivo perseguito non è tanto la difesa dell’ordine morale e familiare, quanto la penetrazione nelle coscienze del senso del peccato e della colpa come vissuto perenne del cristiano, premessa irrinunciabile alla sottomissione e all’obbedienza.

Fonti e Bibl. essenziale

W. de Boer, La conquista dell’anima: fede, disciplina e ordine pubblico nella Milano della Controriforma, Einaudi, Torino 2004; J. Bossy, L’Occidente cristiano, 1400-1700, Einaudi, Torino 1990; P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Einaudi, Torino 1992; C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000; A. D’Avack, Omosessualità (diritto canonico), in Enciclopedia del diritto, Vol. XXX, Giuffré, Milano 1980; J. Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, Il Mulino, Bologna 1987; T. Laqueur, L’identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza, Roma-Bari 1992; T.W. Laqueur, Sesso solitario. Storia culturale della masturbazione, a cura di V. Lingiardi e M. Luci, Il Saggiatore, Milano 2007; V. Lavenia, L’infamia e il perdono. Tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 2004; M. Pelaja, L. Scaraffia, Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Laterza, Roma-Bari 2008; P. Prodi (ed.), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 1994; A. Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età cristiana, Laterza, Roma-Bari 1985; G. Ruggiero, I confini dell’eros. Crimini sessuali e sessualità nella Venezia del Rinascimento, Marsilio, Venezia 1988; R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 2002; J. Verdon, Il piacere nel Medioevo, Baldini & Castoldi, Milano 1999.


LEMMARIO




Silva Cesare





Sindacati - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Con l’affermarsi della rivoluzione industriale si diffondono tra le classi lavoratrici nuove organizzazioni di rappresentanza collettiva: il sorgente associazionismo sindacale è una risposta alle difficoltà di vita e di lavoro connesse al rapporto di subordinazione del lavoro salariato, ai mutamenti introdotti nel processo produttivo e al diffondersi della condizione proletaria del moderno capitalismo. Quando, infatti, l’esigenza di difesa individuale della persona che lavora si proietta in un’azione solidale di tutela collettiva prendono forma i sindacati, associazioni permanenti di lavoratori dipendenti, salariati, che hanno per finalità di mantenere e di migliorare le condizioni di lavoro (sulla base di motivazioni immediate di natura economica, ma anche di principi politici e morali), in grado di darsi autonome e democratiche leadership. Ricevendo dall’iscritto il mandato a rappresentare i propri interessi in forma collettiva, col moltiplicarsi delle adesioni personali i sindacati realizzano un’alterazione nel senso del controllo associativo dell’offerta di lavoro rispetto al disequilibrio del potere sociale presente nell’impresa. Attraverso il dispiegamento dell’azione contrattuale e negoziale, responsabile verso il mandato associativo, e l’organizzazione confederale, che consente agli attori sociali di contribuire al generale sviluppo socio-economico, i sindacati affermano nuovi diritti attraverso una rappresentanza sociale che si distingue per natura, finalità e metodo d’azione dalla rappresentanza politica.

Nel corso del tempo e nei molteplici ambienti culturali, sociali e politici, il movimento sindacale si è articolato in una pluralità di forme organizzative ed orientamenti culturali. Così, è accaduto anche nel Regno d’Italia, durante il lento processo di industrializzazione del Paese. Il cambiamento di status dei lavoratori, in particolare nel settore tipografico e della seta, fece emergere l’esigenza di superare le esperienze del mutuo soccorso, che in alcuni casi avevano radici nelle corporazioni di mestiere, verso prime forme di federazioni sindacali e leghe di “resistenza”. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, segnato dall’imporsi della questione sociale e dal moltiplicarsi degli scioperi, si diffuse una sindacalizzazione instabile negli ambienti industriali e nelle campagne; in alcune città, si costituirono le Camere del lavoro, presto collegate al nascente movimento socialista. Dopo il 1900, unioni professionali di soli operai sorte con una matrice confessionale arricchirono la diffusa presenza del movimento sociale cattolico italiano, contrastato dall’anticlericalismo e dai diversi riflessi politici di una questione romana ancora aperta.

La tolleranza dei sindacati nell’Italia giolittiana, che consente dopo il 1901 il costituirsi di permanenti federazioni sindacali nazionali e nel 1906 la nascita della socialista e riformatrice Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), era finalizzata a un progetto politico e riformatore che favorì una certa marginalizzazione del sindacalismo cattolico. Nel 1906 le unioni professionali cattoliche esistenti raccoglievano circa 70.000 soci; tre anni dopo, sviluppatosi sul piano organizzativo, il sindacalismo “bianco” poteva vantare due federazioni nazionali, il Sindacato italiano tessili e il Sindacato nazionale ferrovieri. Solo nel marzo 1918, grazie all’opera di Giovan Battista Valente, i sindacati cattolici ormai diffusi anche nel settore agricolo, metallurgico e dell’impiego pubblico si raccoglievano nella Confederazione Italiana dei Lavoratori (CIL). Diretta prima da Giovanni Gronchi e poi da Achille Grandi, la CIL accompagna il sorgere del Partito Popolare Italiano e condivide il suo declino politico durante l’avvento violento del regime fascista. Il richiamo al carattere confessionale della CIL non le consentì alcuna protezione durante il periodo che va dal Patto di Palazzo Vidoni del 1925, che segnò la fine della libertà contrattuale, alla legge Rocco del 1926, che instaurò un sindacato unico obbligatorio giuridicamente riconosciuto.

L’impostazione politica e l’ordinamento giuridico degli anni tra le due guerre, orientato da suggestioni corporative, esercitarono il loro fascino anche nel dopoguerra, quando si avviò la ricostruzione sindacale nel quadro delle libertà democratiche. In tale contesto, i rappresentanti sindacali antifascisti del Partito socialista, della Democrazia cristiana e del Partito comunista firmarono nel giugno 1944 la costituzione di un sindacato unitario, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL). Nel mondo cattolico italiano, che influì nel dibattito che portò alla formulazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione, si svilupparono diversi orientamenti tra coloro che volevano un sindacato giuridicamente regolato, strutturato in organizzazione professionali confessionali, e coloro che vedevano nella libertà associativa la chiave di volta per una rappresentanza responsabile dei lavoratori, in grado di partecipare alla formazione delle decisioni del processo d’industrializzazione che si doveva sviluppare nel Paese. Nel luglio 1948, dopo la proclamazione dello sciopero politico seguito all’attentato a Togliatti, la Corrente sindacale cristiana si separò da una CGIL ormai egemonizzata dalla maggioranza comunista, decidendo di dar vita alla Libera CGIL, sindacato che abbandonava la caratterizzazione confessionale: da allora in Italia non vi è stato più una confederazione sindacale “cristiana”.

Collegandosi al sindacalismo internazionale “libero” e democratico, col proposito di coinvolgere tutti i lavoratori in una rappresentanza sociale indipendente dai partiti, Giulio Pastore condusse la Libera CGIL in un processo di unificazione che approdò, nell’aprile 1950, alla costituzione della Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori (CISL). Grazie alla riflessione scientifica del maggiore studioso del movimento sindacale contemporaneo, Mario Romani, la CISL introdusse in Italia i presupposti di una nuova soggettività sociale, promuovendo la formazione sindacale, rivendicando il sindacato in azienda e la contrattazione articolata, negoziando la produttività, invitando le parti sociali e le istituzioni alla concertazione e al dialogo sociale. Tra i cattolici italiani, in gran parte aderenti alla CISL, questo sindacato ha messo in discussione le tentazioni del collateralismo al partito democristiano e ha rinnovato la cultura delle loro associazioni. La CISL svolse così un ruolo decisivo in quel processo di emancipazione morale e materiale del mondo del lavoro che venne riconosciuto nel 1969. Dal 1972 la CISL partecipò all’esperienza rivendicativa della Federazione unitaria CGIL, CISL, UIL, conclusa nei primi anni Ottanta per la dipendenza del sindacato comunista dalle decisioni del partito. Dopo aver sostenuto gli accordi di concertazione dei primi anni Novanta, in un momento di grave crisi politica, la CISL ha spinto gli altri sindacati ad introdurre patti sociali e riforme nel sistema di relazioni industriali coerenti alle dinamiche socio-economiche della società industriale. La sua scelta europeista e di partecipazione sociale ai processi di unificazione internazionale dei mercati si è riflessa nella costituzione della Confederazione europea dei sindacati (CES), nel biennio 1973-1974, e della Confederazione internazionale dei sindacati (CIS) nel 2006, organizzazioni sorte grazie all’unificazione del sindacalismo laburista e del sindacalismo cristiano.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Carera, L’azione sindacale in Italia, voll. 1-2, Editrice la Scuola, Brescia, 1979; V. Saba, Il problema storico della Cisl. La cittadinanza sindacale in Italia nella società civile e nella società politica (1950-1993), Edizioni Lavoro, Roma, 2000; V. Saba, Il sindacato come associazione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001; A. Ciampani, Giancarlo Pellegrini (a cura di), La storia del movimento sindacale nella società italiana. Vent’anni di dibattiti e di storiografia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; A. Ciampani (a cura di), Mario Romani, Sindacalismo libero e società democratica, Edizioni Lavoro, Roma 2007; A. Ciampani, Emilio Gabaglio, L’Europa sociale e la Confederazione Europea dei Sindacati, Bologna, Il Mulino 2010; A. Ciampani, Giancarlo Pellegrini (a cura di), L’autunno sindacale del 1969, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013.


LEMMARIO




Siniscalco Paolo


Vita e Opere ….




Socialismo - vol. II


Autore: Gennaro Cassiani

Complesso di ideologie, movimenti e dottrine definitesi nel corso della prima metà del XIX secolo, di concerto all’esplosione della questione sociale coniugata al prepotente sviluppo tecnologico, industriale e commerciale dell’Europa occidentale. Promosso dall’intento di dare risposta al desiderio di giustizia delle masse dei nuovi diseredati, il socialismo tende alla conquista di un regime di convivenza fondato sull’uguaglianza non solo giuridica ma anche socioeconomica di tutti cittadini, attraverso il superamento delle classi sociali e l’abolizione, in tutto o in parte, della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio.

Al Manifesto del partito comunista (1848) di Marx ed Engels si lega la formulazione della distinzione tra socialismo «utopistico», qualificato come ottativo e velleitario, e socialismo «scientifico», sorretto da rigorosa indagine dello sfruttamento della forza-lavoro operaia. Karl Marx ne condurrà l’analisi ne Il Capitale (1867), cogliendo proprio nello sfruttamento della manodopera il presupposto oggettivo della nascita e dello sviluppo del capitalismo.

La logica della legge del plusvalore – la legge fondamentale della produzione capitalistica – è ineluttabile, obiettiva, scientifica. In questa luce, le lotte dei salariati di fabbrica per il miglioramento del loro tenore di vita appaiono decisive per ridurre lo sfruttamento e contenere l’espropriazione del plusvalore perseguito dal capitalista. L’obiettivo politico è poi quello di distruggere il sistema capitalistico e sostituirlo con un sistema socioeconomico nel quale il plusvalore non venga meno, ma appartenga all’intera collettività.

Socialismo e comunismo, nel pensiero marxista, rinviano, in un primo momento, a due diverse fasi del medesimo processo rivoluzionario: quella della lotta in vista della collettivizzazione dei mezzi di produzione e dell’instaurazione della «dittatura del proletariato»; quella tesa all’abolizione della società di classe e al congedo dello Stato borghese con i suoi postulati economici. Parimenti di matrice socialista, per quanto in aperta polemica con gli estremi del marxismo, è la dottrina anarchica di Pierre-Joseph Proudhon che ispirò, tra il 1871 e il 1872, una prima scissione in seno all’Associazione internazionale dei lavoratori (1864).

La definitiva distinzione fra la prospettiva socialista e quella comunista si ebbe con la rivoluzione bolscevica (1917) e la costituzione della Terza internazionale (1910), allorché l’ala massimalista del movimento, si andò organizzando nei partiti comunisti, mentre le formazioni orientate in senso riformista e inserite nei sistemi democratico-borghesi presero progressivamente le distanze dal marxismo, specie leninista, recuperando le istanze liberali del socialismo pre-marxista e definendo le linee programmatiche del socialismo democratico e del socialismo liberale.

In Italia, nell’agosto del 1872, nacque la Federazione dell’Associazione internazionale dei lavoratori, articolata in sezioni regionali attive specie in Emilia-Romagna e in Toscana, nelle Marche e nell’Umbria. L’internazionalismo italiano ebbe essenzialmente un carattere anarchico e libertario. Per tutto l’Ottocento, mancando ancora una classe operaia omogenea e cosciente, le tesi di Marx ed Engels registrarono uno scarso successo. A riscuotere consensi furono soprattutto le tesi del rivoluzionario anarchico russo Michail Alexandrovič Bakunin, di formazione ideologica hegeliana e assai influenzato dal pensiero di Proudhon.

Bakunin puntò sull’esasperazione del sottoproletariato urbano e sul latente ribellismo dei contadini meridionali già messo in luce dal fenomeno del brigantaggio. Il nuovo soggetto associativo raccolse esponenti del sottoproletariato, ma anche artigiani, salariati, ex mazziniani ed ex garibaldini animati da spirito di rivolta contro l’iniquità, da sentimenti solidaristici e da ardente fede nei propri ideali. Ingenuità, vistose carenze di coordinamento e di pianificazione politica saranno alla base degli insuccessi dell’organizzazione, presto oggetto delle aspre critiche di Marx ed Engels.

Il fallimento dei moti di Imola (1874) e del Matese (1877), gli arresti e gli esili, la messa fuori legge dell’Internazionale italiana spinsero il movimento ad accantonare il metodo insurrezionale a favore di una complessiva revisione critica delle strategie di lotta e dell’impegno a sottrarre la classe operaia dall’influenza delle vecchie società mutualistiche e cooperativistiche mazziniane e radicali.

Nel 1881, Andrea Costa fondò il Partito socialista rivoluzionario delle Romagne. Un anno più tardi, Osvaldo Gnocchi Viani dette vita, a Milano, al Partito operaio italiano, il quale, disinteressandosi della politica elettorale, si impegnò esclusivamente a favore delle rivendicazioni economiche e per la libertà di sciopero.

Il Partito operaio – persuaso che la politica fosse tutta nelle mani dei padroni – fu antiparlamentarista, antiborghese e anche contrario ad ogni sorta di socialismo autoritario. Le sue iniziative, in numerose occasioni, incontrarono le censure delle autorità e, sovente, i suoi militanti subirono arresti e condanne.

Il quinto congresso del Partito operaio (1890) segnò il suo avvicinamento al socialismo della Seconda internazionale (1889); il settimo congresso (1891) decretò invece la sua eclissi. L’anno successivo, la formazione politica, con il supporto esterno di intellettuali provenienti dalla Prima internazionale e di esponenti di matrice democratica radicale, quali Filippo Turati, fautore dell’abbandono della linea operaista, si trasformò in Partito dei lavoratori italiani, quindi, nel 1893, in Partito socialista dei lavoratori italiani e, nel 1895, in Partito socialista italiano.

L’organismo politico aveva base eterogenea: raccoglieva lavoratori di varia estrazione, provenienti dalle società di mutuo soccorso e dalle leghe democratiche, dalle cooperative, dalle organizzazioni contadine e dalle Camere del lavoro. Merito di Turati e con lui di Claudio Treves e di Anna Kuliscioff – la compagna e consigliera di Turati, la quale aveva contribuito alla sua evoluzione politica verso il socialismo scientifico – fu di creare un centro di unificazione delle varie esperienze socialiste italiane e di inserire il movimento nella realtà dei problemi sollevati dal processo di industrializzazione in atto nel Paese.

Malgrado i controlli e le repressioni poliziesche subite negli ultimi anni del secolo, il Partito socialista italiano – criticato dal filosofo napoletano Antonio Labriola in quanto ideologicamente immaturo e più positivista e umanitario che marxista – ebbe largo successo fra le masse lavoratrici. Si sviluppò però assai più nell’Italia settentrionale, fra gli operai e i contadini padani, che non nel Mezzogiorno.

Il Partito uscì trasformato dalla fine del primo conflitto mondiale. Nel 1912, aveva 30 mila iscritti; nel 1920-21, ne raggiunse 216 mila. In parlamento, nel 1913, contava su 52 deputati; nel 1919, ne ebbe 156. Ma ciò che più cambiò in seno alla formazione politica, profondamente divisa al suo interno, fu il suo orientamento ideologico. Nel 1919, durante il congresso di Bologna, si affermò la corrente massimalista, favorevole alla presa violenta del potere: l’esperienza russa e quella ungherese induceva a ritenere che anche l’Italia si trovasse ormai in una situazione rivoluzionaria. Il destino della borghesia era ritenuto segnato: la sua incapacità a fare fronte ai problemi del dopoguerra appariva l’indice del suo prossimo collasso. In questa prospettiva, qualunque gesto di collaborazione con il governo era considerato un tradimento della classe operaia. Ma i programmi dei massimalisti non si accompagnarono a un’effettiva analisi della situazione socioeconomica italiana, né l’organizzazione del Partito mutò in un senso anche solo vagamente somigliante a quello dell’organizzazione bolscevica.

La direzione socialista, mentre prometteva l’imminenza della rivoluzione e prefigurava l’erezione delle barricate e la vittoria sui nemici del popolo, si limitò appena a registrare i sintomi della supposta decomposizione della società borghese, la quale, in realtà, non era affatto alle porte come, due anni più tardi, con la compiacenza di tanta parte della vecchia classe dirigente moderata, la reazione alle giornate del settembre del 1920 avrebbe dimostrato.

Tutto sommato, quella socialista seguitava ad essere una specie di confederazione di circoli culturali e di astratta agitazione politica, mentre i sindacati, controllati da operaisti e riformisti, sottraendosi sostanzialmente agli indirizzi del Partito, facevano repubblica a sé e continuavano a sostenere programmi di strette rivendicazioni economiche. Anche il rapporto fra i vertici del Partito e il gruppo parlamentare era un rapporto carente e il fitto schieramento dei deputati socialisti impegnato ben al di sotto delle sue potenzialità. Il parlamento stesso era visto come uno strumento borghese. Di conseguenza, l’azione parlamentare socialista non si esprimeva con quella energia ed incisività che pure avrebbe potuto avere, mentre – naturalmente – difettava la forza per rovesciare l’istituzione e dare vita a un’assemblea rivoluzionaria, come avevano fatto i comunisti russi.

Il massimalismo si risolse appena nell’attesa un po’ messianica di una rivoluzione che non sarebbe venuta. Nel frattempo, mentre la formazione socialista, che pure raccoglieva la fiducia di grandi masse operaie e contadine, si dilaniava nelle lotte interne, nasceva un altro movimento destinato segnare profondamente la vita politica italiana del primo dopoguerra: il fascismo, guidato da Benito Mussolini.

La difficile convivenza in seno al Partito socialista italiano tra le prospettive programmatiche riformista e massimalista sfociò, durante il congresso di Livorno (1921), in una drammatica scissione. Una parte dei fuoriusciti daranno vita al Partito comunista italiano; un’altra, riformista, una volta espulsa, fonderà il Partito socialista unitario.

Dopo l’esperienza della clandestinità vissuta durante il ventennio fascista, nel 1943, nacque il Partito socialista italiano di unità proletaria che, nel 1947, riprenderà il nome di Partito socialista italiano. Sin dal 1846, il magistero pontificio espresse ferma condanna del socialismo. Presupposta l’ineluttabilità delle leggi economiche e la fatalità della povertà che accompagna la storia dell’umanità, la prospettiva dell’egualitarismo socioeconomico è ritenuta utopica e la minaccia alla proprietà privata inaccettabile. La radice dell’errore è nelle libertà moderne che ispirano l’individualismo, relegano la fede nella sfera privata e propugnano la separazione tra Chiesa e Stato. Il liberalismo discende dalla riforma protestante, dal principio del libero esame, dall’affermazione di immanenza, dalla rivoluzione del 1789. Il socialismo altro non è se non l’ultimo nefasto corollario di un’antica deriva.

La censura del socialismo e del comunismo echeggia nella Qui pluribus (1846), nella Nostis et nobiscum (1849), nella Quanta cura e nel Sillabo (1864). Nella Qui pluribus, Pio IX definisce il socialismo come un’ideologia sovvertitrice dei diritti e della proprietà e dissolutrice della società umana. Nella Nostis et nobiscum, gli ascrive l’intento di rovesciare ogni principio di autorità; nella Quanta cura, qualifica come esiziale una dottrina secondo la quale la famiglia riceve ogni ragione di esistenza dal solo diritto civile.

L’appena eletto Leone XIII si mosse sulla linea del predecessore. Nell’enciclica Quod apostolici muneris (1878), influenzata dal Sillabo e dalle inquietanti risonanze della Comune di Parigi (1871), esecra il socialismo e il nichilismo; riafferma il diritto di proprietà; raccomanda ai ricchi di concedere ai poveri i loro beni superflui ed esorta i bisognosi a dare prova di mansuetudine e di devota accettazione dell’ordine sociale stabilito. Nella Auspicato concessum (1882), papa Pecci tornò sul tema della composizione delle ragioni dei poveri e dei ricchi; sul valore della povertà; sulla fede come balsamo delle sofferenze dei lavoratori. I vigenti mali sociali avevano origine negli errori del laicismo e nell’ateismo; nell’illimitata libertà di coscienza e di culto; nell’ampiezza della libertà di pensiero e di stampa (Immortale Dei, 1885). Tutto ciò, a sua volta, rinviava alla pretesa sovranità della ragione umana, la quale aveva fatto di sé medesima l’unica fonte e criterio di giudizio (Libertas, 1888), quando la libertà non ha altro senso se non nella soggezione alla Verità che viene da Dio per mezzo della Chiesa.

Nel 1891, al termine di una lunga elaborazione, Leone XIII pubblicò la Rerum (1891), enciclica decisiva nella definizione del pensiero sociale cattolico. Il testo papale affronta con inedita profondità il tema della giustizia sociale ed economica. Ribadisce l’inviolabilità della proprietà privata; condanna la lotta di classe; definisce il socialismo una dottrina fuorviante e inaccettabile e, respinta l’idea del superamento delle classi sociali e l’utopia dell’uguaglianza, invita gli operai a rispettare i loro doveri nei confronti degli imprenditori e a rifiutare la violenza e lo sciopero come strumento di difesa dei loro diritti. Al tempo stesso, incoraggiando la fondazione di un nuovo corso cristiano nei rapporti tra capitale e lavoro, la Rerum novarum stigmatizza gli eccessi del capitalismo e la cinica visione economicista del profitto, pronta a fare torto alla dignità umana. Ugualmente, censura la sempre maggiore concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi a fronte di un inarrestabile processo di proletarizzazione. Leone XIII si pronuncia altresì a favore dell’equa retribuzione del lavoro operaio e approva gli intenti associativi dei salariati in difesa dei propri diritti.

Filo rosso della Rerum novarum è il richiamo agli inalienabili diritti materiali e morali garanti dello sviluppo integrale dell’individuo. Al tempo stesso, connotato eminente dell’enciclica è la ferma condanna del socialismo, ritenuto falso e pericoloso in quanto negatore del diritto di proprietà sancito dal diritto naturale e conforme alla tradizione della Chiesa. La via prospettata dalla Rerum novarum è la riconciliazione fra le classi sociali mediante l’armonizzazione dei loro reciproci diritti e doveri; l’istituzione di organizzazioni professionali miste di imprenditori e di operai; l’intervento arbitrale dello Stato nell’economia a tutela della comunità, delle sue parti e del bene comune.

Mentre formulava la propria dottrina sociale e proscriveva il socialismo, la Chiesa intensificava la propria opera assistenziale nei confronti delle fasce di popolazione in stato di più acuto disagio, ricorrendo ad organismi associativi anche concorrenziali con quelli socialisti. L’insidia del socialismo, composta alle sue energiche strategie di attivazione del consenso, appariva del più alto grado. Tanto più che quella propaganda si avvantaggiava di stilemi religiosi ed ecclesiali: le «preghiere» e i «catechismi degli operai»; l’identificazione del primo maggio nella “Pasqua dei lavoratori”; le osterie e le case del popolo proposte come ritrovi domenicali alternativi alla parrocchia. Il movimento – il quale si spingeva addirittura a profilare la figura di Cristo come quella del “vero socialista”, nemico implacabile dei ricchi e dei loro alleati – affidava le sue strategie proselitistiche a un repertorio di parole d’ordine e di immagini simboliche che facevano della sua proposta un’opzione totalizzante, in grado di conferire senso all’esistenza intera mediante la dedizione alla causa del raggiungimento di una comunitaria felicità terrena. Siffatta speranza di redenzione materiale e morale si connetteva al supposto nucleo originario e più autentico di un cristianesimo tradito dalla degenerazione della Chiesa e dalle sue compromissioni con il potere politico ed economico.

L’incondizionata difesa del diritto alla proprietà privata e la ferma condanna del socialismo formulato dalla Rerum novarum costituirà un riferimento costante per tutta l’elaborazione cattolica successiva.

Lo stesso Paolo VI, quattro anni dopo la ferma denuncia dei guasti del colonialismo e delle responsabilità dei popoli opulenti nel sottosviluppo del Terzo mondo affidata alla Populorum progressio (1967) congiuntamente all’affermazione che il sottosviluppo non è un dato di natura di per sé scontato e immodificabile – argomento, quest’ultimo, che sollevò nei confronti dell’enciclica montiniana reazioni anche fortemente critiche (il «Wall Street Journal» giunse a bollarla come «warmed up marxism») –, nella lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), nell’ottantesimo anniversario dell’enciclica leoniana, riaffermò con forza le errate concezioni del socialismo.

Giovanni Paolo II, il quale aveva vissuto in prima persona l’esperienza del totalitarismo comunista, nella Laborem exercens (1981), magistrale meditazione sulla natura dell’uomo, sulle umane attività produttive e sulla libertà, nella ricorrenza del novantesimo anniversario della Rerum novarum, ribadì le vive premure della Chiesa per la salvaguardia della dignità del lavoro. E, nella Centesimus Annus (1991), nel centenario dell’enciclica leoniana, dopo aver definito il socialismo un male, sottopose ad analisi l’eclissi del totalitarismo comunista; riaffermò l’ascendenza naturale del diritto alla proprietà e condusse un’acuta disamina comparativa del capitalismo tardo-ottocentesco e del moderno capitalismo di mercato, al quale concesse una sfumata approvazione. Karol Wojtyła, invoca infine la democrazia, la ricerca della verità nella libertà, la salvaguardia dei diritti umani, l’applicazione del principio di sussidiarietà.

Cinque anni prima, consapevole delle critiche subite dalla Populorum progressio, Giovanni Paolo II, nella Sollicitudo rei socialis (1987) ricondusse contenuti e verve dell’enciclica montinana alla cornice storica nella quale essa, un ventennio addietro, era maturata come evento scrittorio. Il papa polacco negò che Paolo VI avesse concepito quella sua enciclica come uno sprone all’azione politica. La Chiesa non desidera minimamente intromettersi nella politica degli Stati. Essa non prospetta alcuna terza via tra capitalismo e socialismo. La sua dottrina sociale trascende qualunque ideologia.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Sodi Stefano


Nato a Pisa nel 1955, ha conseguito la laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pisa ed il baccalaureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. È docente di Filosofia e Storia nel Liceo Classico “Galileo Galilei” di Pisa e dal 1986 di Storia della Chiesa antica e altomedievale nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Niccolò Stenone”. Membro del Comitato Scientifico del Centro per la didattica della storia della Provincia di Pisa, dal 1999 al 2009 è stato supervisore e professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SSIS) della Toscana e dal 2013 è tutor coordinatore nel TFA dell’Università di Pisa. Ha tenuto e tiene lezioni, seminari e laboratori anche presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento “Sant’Anna” di Pisa e l’Università di Firenze. Ha pubblicato in volume e su riviste scientifiche oltre 80 saggi relativi prevalentemente alla storia e alla didattica della storia. È coautore di manuali per i licei per la casa editrice D’Anna e curatore di 13 volumi collettanei.