Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Autori
Roma 2015
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Soler Jaume


Dottorando della Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana




Soppressioni - vol. I


Autore: Emanuele Boaga †

Con il termine di s. (= s.) si intende la chiusura di un istituto religioso o case di esso attuata sia per intervento della legittima autorità ecclesiastica, sia per l’azione autoritaria e unilaterale del potere civile, dai signori feudali e dalle magistrature delle città medievali fino agli Stati moderni.

Le s. dovute a decisioni di autorità interne dello stesso istituto religioso o dalla Santa Sede presentano sempre come prima e fondamentale motivazione la decadenza e non osservanza della disciplina regolare, e la impossibilità di continuare o di una ripresa, nonché le circostanze particolari che conducono a sopprimere e unire o a fondere un istituto in un altro simile. Oltre ai motivi canonici e disciplinari a volte si registra, soprattutto in epoca moderna, anche un’influenza di elementi di indole sociale, politica ed economica.

Le s. invece attuate da singole autorità civili o dagli Stati moderni, che si esprimono in modo spesso assai più radicale di quelle ecclesiastiche, si basano su una complessità di motivazioni, da quelle di ordine economico a quelle sociali del rapporto della società civile con la Chiesa e la Religione, e in particolare nel periodo moderno dalla scarsa o nessuna stima per la vita religiosa – considerata inutile e dannosa e anche superflua e non controllabile – e infine dagli influssi del giansenismo e dell’anticlericalismo liberale.

La quantità di questi connesse con le s. religiose rende impossibile trattarle ed analizzarle tutte nel breve spazio loro riservato nel Dizionario. Per questo si sceglie di offrirne un’essenziale panoramica, rimandando alle opere generali e ai singoli studi specifici su di esse indicati nella bibliografia.

Soppressioni operate dalla S. Sede. Le s. effettuate per iniziativa esclusiva dalla S. Sede, o d’accordo con le autorità civili oppure su loro richiesta, sono numerose. Quando i tempi portarono la separazione tra Stato e Chiesa esse invece diminuirono assumendo sempre più il loro carattere disciplinare.

Gran parte delle s. nel medioevo vanno collocate nel contesto della preoccupazione della S. Sede nel frenare il proliferare di nuovi ordini con le chiare misure adottate dal Concilio Lateranense IV (1215) e da quello di Lione II (1274), per motivi non solo di ordine religioso, ma anche per problemi di ordine sociale e per l’emergenza di movimenti dottrinali che si sottraevano all’obbedienza della Chiesa. Per il noto caso della s. dei Templari (1312), che avevano case anche in Italia, entrano in gioco questioni più politiche che religiose, che mettono in rilievo la sudditanza di papa Clemente V a Filippo il Bello, re di Francia.

Si può anche brevemente accennare che nel medioevo e prima del Concilio di Trento non mancarono casi di s. di monasteri decretate da vescovi o signori feudali, spesso per motivi economici o per affermare ancor più la propria autorità sul territorio. Nel corso del secolo XVI i casi di s. vengono sempre più risolti e decretati dall’autorità della S. Sede, fino a divenire l’unica competente in materia. Ciò permette tutta una vasta azione nell’applicazione dei decreti tridentini per la riforma della vita regolare che si ispira ai criteri del diritto canonico, e al particolare concetto di vita religiosa (con identificazione della vita regolare con gli atti comuni) che guida la restaurazione e la chiusura di conventi maschili e femminili.

In questo contesto si nota che l’azione promossa dai papi per il rinnovamento della vita dei religiosi, porta a vari tipi di s.. Prima di tutto, riguardo alla vita monastica femminile, c’è l’intervento di Pio V che con la bolla Circa pastoralis del 1566 sopprime tutte i monasteri in cui le religiose non emettono voti solenni e non osservano la clausura tridentina. Vi è poi, per l’opposizione che facevano alla riforma promossa da san Carlo Borromeo e all’attentato fatto alla sua vita, la s. degli Umiliati decretata dallo stesso Pio V con due brevi del 1571. Nel novembre dell’anno seguente Gregorio XIII sopprimeva l’Ordine di San Lazzaro e, d’intesa con il duca Emanuele Filiberto, designava i beni dei suoi conventi soppressi in Savoia e Piemonte all’Ordine di S. Maurizio. Ancora per indisciplina, decadenza spirituale e resistenza alla S. Sede avveniva la s. dell’Ordine dei Santi Ambrogio e Barnaba nel 1643, mentre Innocenzo X, considerandone l’esiguità del numero dei membri e l’impossibilità di sviluppo, sopprimeva nel 1651 i Preti del Buon Gesù di Ravenna.

Nell’immediata fase post-tridentina vi furono inoltre numerose s. di istituti religiosi e la loro conseguente unione o fusione con altri istituti similari. Sono i casi del Terz’ordine regolare unito con beni e persone agli Osservanti (1568), dei Florensi uniti ai Cisterciensi (1570), dei Conventuali riformati uniti ai Conventuali o ai Cappuccini o ad altre famiglie francescane (1626). Tra questi casi il più noto è la s. della congregazione camaldolese di Fonte Avellana, decretata il 10 dicembre del 1569 da Pio V con la bolla Quantum animus noster. Però più che un provvedimento di riforma si tratta in sostanza dell’unione di Fonte Avellana con il resto dei Camaldolesi, coronando così i falliti tentativi precedenti di quest’ultimi nel 1517 e nel 1530. Inoltre nel provvedimento hanno giocato un ruolo notevole anche gli interessi nel difendere e tutelare il patrimonio della commenda e il liberarsi di alcuni obblighi verso l’Abbazia Avellanita da parte del Card. Giulio Della Rovere.

Vi è poi da segnalare nel 1579 la chiusura di alcuni conventi di Camaldolesi in Italia dato il loro numero esiguo di membri e l’eccessivo numero di abati titolari. Nelle decadi seguenti si ebbero altre chiusure di conventi di Carmelitani, Agostiniani e di altri Ordini Mendicanti iniziando tra Cinque e inizio Seicento a frenare il dilagante fenomeno dei piccoli conventi sparsi sul territorio italiano e delle isole adiacenti. Le motivazioni che sostenevano queste s. erano soprattutto di natura giuridica, le conseguenze del concetto tridentino sulla vita regolare dei religiosi, e le rimostranze contro i Mendicanti da parte dei vescovi di singole diocesi. Ciò giunse al culmine con l’esito drammatico della s., decretata da Innocenzo X nel 1652 e attuata dalla S. Congregazione Sopra lo Stato dei Regolari, dei piccoli conventi o conventini. In seguito da tale decisione venne attuata la chiusura di 1513 conventi maschili, cioè di un quarto di quelli allora esistenti.

L’ispirazione fondamentale di questo provvedimento è da riporre non tanto, come ritengono ancora alcuni storici, nell’accertamento diretto di una diffusa rilassatezza morale presso i religiosi, bensì, come ormai appare chiaramente dall’attento studio delle fonti, da una serie di motivazioni disciplinari e materiali, oltre che giuridiche e pastorali intese alla soluzione radicale dei problemi posti dalla situazione creatasi specialmente negli Stati italiani alla fine del secolo XVI e durante la prima metà del secolo XVII a causa dell’esistenza di numerosissimi piccoli conventi e la larga diffusione di grange nelle zone rurali. Tale situazione creava non pochi problemi nelle strutture interne degli Ordini religiosi e nelle loro relazioni con l’autorità diocesana, nonché poneva nuovi interrogativi circa il modo con cui era concepito l’ideale della vita religiosa in quel tempo e destava al tempo stesso preoccupazione.

Inoltre influenzarono non poco il provvedimento innocenziano anche cause sociali ed economiche legate all’incremento numerico dei religiosi e al largo diffondersi dei vari istituti religiosi antichi e moderni. Inoltre vi sono altre complicazioni, tra cui quelle derivanti da un diffondersi della diminuzione della considerazione dei religiosi in ambienti curiali e diocesani, ed anche da aspetti giurisdizionali legati all’avvertito bisogno nelle diocesi di rafforzare la figura del vescovo nei confronti di tutte le realtà esistenti nel rispettivo territorio e specialmente verso i religiosi esenti, e alla necessità di rafforzare o organizzare meglio la cura pastorale cittadina e rurale, con tutta una rete di cappellanie e parrocchie, unitamente al problema di come disporre dei mezzi adatti per erigere e sostenere i seminari per la formazione del proprio clero, cosa che si rendeva possibile applicando ad essi e ad altre opere pie i beni dei conventi soppressi. In definitiva, la s. innocenziana costituisce uno degli atti che, nel periodo post-tridentino, ha avuto notevole o determinante influsso non solo sulle condizioni degli Ordini religiosi ma anche riflessi nella vita religiosa, politica ed economica degli Stati italiani. Infatti non mancarono reazioni contrarie alle s. da parte della Serenissima Repubblica Veneta, del Granducato di Toscana e del Regno di Napoli.

Tra le altre s. decise dalla Santa Sede e avvenute nel Sei e Settecento, si possono infine ricordare quelle di conventi i cui beni vennero messi a disposizioni della Repubblica Veneta nella guerra contro i Turchi. É il caso delle due s. del 1656 e 1668, che coinvolse a Venezia i Crociferi e i Canonici Regolari di S. Spirito, i Gesuati, i Canonici Regolari di S. Giorgio in Alga, e gli Eremiti di S. Girolamo di Fiesole, nonché il via libero a completare in territorio veneto la s. dei conventini voluta da Innocenzo X nel 1652.

Nel 1751 su iniziativa della S. Sede si realizzò la s. degli Eremiti di S. Maria di Colloreto, anche se il nunzio non poté evitare l’intervento del governo del Regno di Napoli con un editto di soppressione parallelo a quello pontificio.

Nel 1772 avvenne la s. della piccola comunità degli Oratoriani di Spello (Perugia) e infine la notissima s. dei Gesuiti, decretata da papa Clemente V con il breve Dominus ac Redemptor del 12 luglio 1773.

Soppressioni decretate dalle autorità civili e dagli Stati italiani. Queste s. riflettono molto i poteri e i concetti giuridici che nelle varie epoche venivano applicate all’autorità e al governo civile. Senza entrare nell’esame delle varie dottrine che giustificavano gli interventi civili e statali (cf. ad es. Marsilio da Padova, U. Grosso con la teoria della comunità, il giurisdizionalismo, l’assolutismo, l’illuminismo, il liberalismo), si può ricordare al riguardo che soprattutto in epoca moderna le modalità di applicazione di queste teorie portava gli Stati a varie forme di legislazione con misure ristrettive sulla vita religiosa (divieto di accettare novizi, limitazione del numero di conventi, divieto di nuove fondazioni, espulsione dei religiosi esteri, limitazione delle attività dei religiosi concorrenziali allo Stato e limitazione della loro presenza al mero culto nelle chiese); vi era poi lo sviluppo di una legislazione fiscale che rendeva difficile l’esistenza delle case religiose, e obbligava per la loro esistenza l’autorizzazione civile, fino a giungere alla legislazione per la totale soppressione delle corporazioni religiose e dell’incameramento dei loro beni da parte dello Stato.

Nel medioevo le ingerenze di principi e sovrani nella vita religiosa furono numerose, spesso con secolarizzazione di singole abbazie formalmente approvata dalla Curia romana. Un aspetto, che andrebbe approfondito per le s. in epoca medievale, è in rapporto alla nascita dello spirito laico la politica dei magistrati cittadini verso le istituzioni ecclesiali. Inoltre, un esempio tipico di ingerenza in campo ecclesiale è il caso della ricordata s. dei Templari.

Nel passaggio dal medioevo agli sviluppi dell’epoca moderna nel Seicento, fatta eccezione per qualche caso particolare, le misure ristrettive per la vita consacrata e la s. di conventi o di Ordini e Congregazioni religiose risultano in pratica come applicazione di una politica giurisdizionalista finalizzata dai sovrani e dagli Stati moderni a un crescente controllo anche della vita interna della Chiesa. Esempi di ciò sono numerosi. Nel 1606 la Repubblica Veneta, colpita dall’interdetto di Paolo V, espulse i religiosi che osservavano detto interdetto, tra cui i Cappuccini e di Teatini, mentre calcò fortemente la mano sui Gesuiti che, espulsi dai territori veneti, vi poterono tornare solo nel 1657.

Nel Settecento l’azione dei governi degli Stati italiani – caratterizzati dall’assolutismo e anche per influenze illuministe e gianseniste – nel rapporto con la vita religiosa si concentrarono su varie forme di persecuzione, espulsione e scioglimento della Compagnia di Gesù, collaborando così con altre potenze straniere, nella lotta contro di essa fino ala sua formale soppressione da parte di papa Clemente XIV nel 1773.

Nel Regno di Napoli, oltre alle misure contro i Gesuiti, si ebbe decretata direttamente dal governo la s. dei Romiti si S. Nicola di Calabria, la cui Congregazione veniva giudicata nociva alla Religione e allo Stato. Inoltre, sotto il governo di Bernardo Tanucci, negli anni 1768-74 continuarono la s. per lo più di conventi ritenuti inutili e di poca utilità pubblica, destinandone i beni ad altre opere pie.

A Venezia, subordinando le istituzioni religiose all’utile del governo, si attuò una «riforma» dei religiosi che portò dopo il 1769 alla s. di oltre 300 conventi e all’espulsione dei religiosi esteri o stranieri.

Nel Gran Ducato di Toscana i governi di Leopoldo Giuseppe e di Pietro Leopoldo I emisero tra il 1750 e il 1785 varie misure per regolare la vita dei religiosi, tra cui anche la s. di alcuni conventi.

Anche negli altri Stati italiani nel periodo dell’illuminismo si ebbero s. religiose. Così nel Ducato di Milano nel 1769-80 si attuava la s. di comunità con meno di 12 membri, nonché di tutti gli ospizi e grange. Da parte loro gli Ordini religiosi aderirono all’invito del governo preparando piani di consistenza in vita della progettata riforma.

Con la diffusione delle idee della Rivoluzione Francese, la sua legislazione antimonastica ispirò nei territori occupati dai francesi in Italia una conseguente politica avversa ai religiosi. Ciò risulta molto evidente nelle misure prese in merito nella Repubblica Cisalpina, in quelle Romana e Napoletana. A Napoli, sotto il governo di Murat, il numero dei conventi esistenti fu ridotto a un terzo. E infine nel Regno d’Italia durante il periodo napoleonico si giunse alla s. generale dei religiosi con le leggi del 1810.

Caduto Napoleone e dopo il Congresso di Vienna, nella restaurazione attuata negli Stati Pontifici e in altri Stati italiani si ebbe un rifiorire della vita religiosa, anche se non mancarono problemi, come ad es. nella fase costituzionale degli Stati italiani del 1820-21, quando emergevano tendenze di ritorno alle idee della Rivoluzione Francese e quelle nazionaliste.

Mentre in Sicilia nel 1848 vennero aboliti Gesuiti e i Redentoristi, nel Regno di Sardegna, che seguiva una politica sempre più ristrettiva verso la vita consacrata, già nel primo decennio del secolo si ventilava la s. di alcuni conventi per sovvenire alle necessità finanziarie della monarchia sabauda, e allo scopo si ebbero trattative con la S. Sede sulla destinazione dei loro beni. Il tutto si concluse solo con la chiusura di una diecina di case religiose e con la proibizione per alcuni istituti religiosi di ricevere novizi. In seguito, dopo l’espulsione nel 1848 dei Gesuiti nonostante il favore da essi goduto presso tre re sabaudi, la legge del 1855 sulla s. delle corporazioni religiose, non dedite alla predicazione, all’istruzione e alla cura dei malati, privò di personalità giuridica ben 17 congregazioni maschili e 13 femminili, e portò alla chiusura di 235 case religiose, coinvolgendo un totale di 5.489 tra religiosi e religiose.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Soppressione, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VIII (Roma 1988), 1781-1865. Nel corso di questa voce viene indicata un’abbondante bibliografia a carattere generale sulle soppressioni, e gli studi specifici sulle singole soppressioni.


LEMMARIO




Soppressioni - vol. II


Autore: Emanuele Boaga †

Le soppressioni liberali postunitarie. Se per le corporazioni religiose era stato duro il colpo ricevuto dai governi del periodo illuministico, non meno duro fu quello abbattutosi nel periodo risorgimentale e negli anni immediati dopo la istituzione del regno d’Italia. Già nel corso del 1848 si ebbe nel Regno di Sardegna (che allora comprendeva Piemonte, Lombardia, Liguria e Sardegna) la polemica atroce contro i Gesuiti e la loro espulsione, e nel 1855 la legge di soppressione degli ordini e istituti religiosi, eccettuati quelli dediti in modo specifico alla predicazione, all’istruzione e all’assistenza dei malati. Questa legge, che trovava le sue motivazioni soprattutto in quelle ideologiche anticlericali e anche avverse alla vita religiosa, veniva seguita da una serie di disposizioni legislative, applicate variamente agli stati e territori che man mano che, con i plebisciti, venivano annessi al Regno di Sardegna. Dopo la proclamazione dell’unità d’Italia il 17 marzo 1861, per sopperire al grave e disastroso deficit economico in cui l’Italia si trovava a causa della terza guerra d’indipendenza intrapresa contro l’Austria conquistando ai suoi confini il Veneto e anche per uniformare la pluralità legislativa che riguardava la soppressione delle corporazioni religiose, il Parlamento senza il successivo esame del Senato proclamò la legge del 7 luglio 1866 di soppressione degli ordini e corporazioni religiose. A questa legge si aggiunse quella del 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’asse ecclesiastico. Seguirono poi i relativi regolamenti e decreti d’applicazione. Tutta questa legislazione venne anche estesa e applicata nel 1873 a Roma e alle province una volta formanti lo Stato Pontificio. Le case religiose colpite da queste leggi furono 4.474.

Lo Stato con la suddetta legislazione, definita come “leggi eversive”, operava per la prima volta una forma d’intervento diretto nell’economia, togliendo il riconoscimento di ente morale a tutti gli ordini, corporazioni nonché congregazioni di carattere ecclesiastico, sicché il demanio dello Stato acquisì tutti i relativi beni ecclesiastici. I fabbricati conventuali che vennero incamerati dallo Stato furono poi concessi ai Comuni e alle Province, previa richiesta di utilizzo per pubblica utilità entro un anno dalla presa di possesso. Nelle leggi del 1866 e 1867 non furono previste forme particolari di tutela dei fabbricati monastici, provocando spesso la dispersione dei beni artistici di molte chiese conventuali, mentre biblioteche e archivi erano destinati a musei e biblioteche pubbliche. Per evitare gli effetti dell’art. 33 della legge del 1866, e cioè la chiusura e l’acquisizione al demanio, alcune chiese vennero allora indicate come “monumentali”. Così si salvarono tra le altre le grandi abbazie di Montecassino, Cava dei Tirreni, S. Martino della Scala a Palermo, la Certosa di Pavia.

L’intervento istituzionale di privatizzazione operato nel 1866-1867 non era isolato. Già nel 1861 il nuovo Stato italiano iniziava a incidere sull’assetto della proprietà con la cosiddetta quotizzazione dei demani comunali, e nel 1862 con una legge del demanio dello Stato. Azione che culminava nel 1866 e 1867 con le due leggi di eversione dell’asse ecclesiastico. Complessivamente furono immessi nel mercato oltre 3 milioni di ettari (di cui ben 2,5 nel Sud) con modalità che vennero criticate.

In base ai dati ormai acquisiti dalla storiografia uno studioso osserva: «L’obiettivo delle leggi di eversione era quello di attuare una generale privatizzazione: ma il modo come venne attuata l’eversione dei beni ecclesiastici non poteva raggiungere l’obiettivo – probabilmente mai realmente perseguito – di risollevare le classi più povere, che nella maggior parte dei casi non si trovavano nelle condizioni di accedere alle vendite e che, anzi, ne furono escluse poiché era previsti che i beni nazionali andavano venduti esclusivamente ai creditori dello Stato, in cambio della restituzione dei titoli del debito pubblico. Si ottenne così l’effetto di far finire le nuove proprietà nelle mani di pochi privilegiati: i vecchi nobili, gli appartenenti alla borghesia degli affari e gli alti funzionari dello Stato. Pochi privilegiati, dunque, riuscirono ad accaparrarsi le terre demaniali ed i possedimenti ecclesiastici, aggravando in maniera rilevante le condizioni delle plebi contadine, che videro soppressi i precedenti usi civici», ossia i secolari diritti di pascolo, legnatico e erbatico. Lo Stato pertanto non ricavò tutti quei benefici economici che si attendeva dall’ingente massa delle proprietà ecclesiastiche.

L’operazione svolta con le leggi del 1866 e 1867 oltre a tradursi in una paurosa liquidazione dei beni dei religiosi e alla chiusura di moltissime case religiose, colpiva indistintamente moltissimi ordini e istituti religiosi, maschili e femminili, provocando gravissimi disagi sia all’organizzazione delle famiglie religiose, private di beni, di luoghi e della possibilità di accogliere novizi, sia ai singoli religiosi costretti a uscire dal chiostro, secolarizzandosi, ritornando in famiglia e, soprattutto per le vocazioni meno solide, abbandonando l’abito.

Le leggi eversive vennero applicate in tutto il Regno in modo abbastanza rapido, seguendo una procedura formalmente cortese ma inflessibile sostanzialmente. Non vi furono manifestazioni radicali, ed anche le reazioni dei religiosi e delle popolazioni non ricorsero mai ad una resistenza ad oltranza. La soppressione dei conventi avveniva seguendo un rituale uniforme. Nel giorno stabilito dal governo e comunicato alla comunità religiosa, il commissario regio, incaricato della liquidazione dell’asse ecclesiastico, giungeva al convento, riuniva tutti i religiosi presenti in esso, consegnava loro i libretti della pensione governativa, e faceva procedere all’inventario dei locali e dei beni in esso presenti. A questo punto, il superiore della comunità, secondo le istruzioni date dalla Santa Sede, leggeva una dichiarazione con cui rivendicava i diritti del proprio Ordine, ritenendo illegittima la confisca e affermando di cedere alla violenza solo per evitare mali maggiori. Durante la minuziosa operazione dell’inventario, non mancavano discussioni e contestazioni sull’esatta portata della legge, per salvare dall’incameramento gli oggetti usati abitualmente dai singoli religiosi e non dalla comunità. Nei giorni seguenti avveniva la dispersione della comunità.

Naturalmente le conseguenze dell’applicazione delle leggi eversive furono diverse secondo gli istituti. Con la legge del 1866 vennero soppresse 1.794 case religiose ed espulsi da esse 22.213 membri, mentre si sottrassero 385 case con 5.390 religiosi/e. Con al legge del 1873 nella provincia di Roma le case soppresse furono 131 con 2.888 religiosi, mentre rimasero in vita 87 case, di cui 15 a beneficio di stranieri, per un numero non precisato di religiosi/e. Tuttavia nessun ordine religioso scomparve interamente in conseguenza delle leggi eversive.

Inoltre non va dimenticato che dopo una rigorosa attuazione iniziale delle leggi di soppressione, in molte parti d’Italia si ebbero fenomeni di “sopravvivenza illegale” di conventi, dovuta a una certa tolleranza da parte delle autorità governative, che occupato l’edificio conventuale utilizzava a volte solo parte di esso, permettendo ai religiosi di rimanere nei pochi locali rimasti liberi. Ciò avveniva soprattutto nei conventi annessi a chiese molto frequentate o sede di parrocchia. Anche il divieto di indossare l’abito religioso in pubblico, fu sovente violato, senza gravi conseguenze.

La Santa Sede, al di là del conflitto giuridico con lo Stato, tenendo conto del modo con cui venivano applicate le leggi e i relativi regolamenti sulla soppressione e sui religiosi costretti a lasciare il chiostro, emanò una serie di provvedimenti-guida. In particolare raccomandava ai religiosi/e di continuare, magari in piccoli gruppi di almeno tre religiosi, la vita in comune se possibile ancora nei propri conventi o in case appositamente acquistate o affittate, rimanendo il legame con i propri superiori. Confermava anche la loro soggezione ai rispettivi superiori, e per chi fosse costretto a vivere da solo, la sottomissione all’Ordinario diocesano. Più interventi furono rivolti dalla Sacra Penitenzieria Apostolica ai religiosi di voti solenni esclaustrati a motivo del voto di povertà, concedendo non solo la possibilità di ricevere la pensione stabilita dalle leggi statali, ma anche quella di acquistare beni immobili a proprio nome o per interposta persona, purché venissero devoluti a beneficio di rispettivi ordini, una volta tornata la normalità. Si suggeriva anche per dare legale esistenza alle comunità religiose, di ricorrere al sistema escogitato da Don Bosco, la società tontitaria. Per lo Stato italiano la questione della pensione divenne un problema, come dimostrano le non poche cause intentate da religiosi contro il governo per dimostrare il loro diritto a riceverla.

Il regime di soppressione si andò attenuandosi progressivamente in concomitanza della nuova fase dei rapporti tra Stato e Chiesa. dalla seconda metà della decade degli anni ‘80, il nuovo corso instaurato da Leone XIII, il timore dell’avanzante socialismo e l’attenuazione del bieco anticlericalismo degli anni precedenti, un diverso clima internazionale e il consolidamento delle alleanze di politica estera del Regno d’Italia, resero più fluida la situazione. Così le famiglie religiose soppresse ripresero lentamente a ricostruirsi e si aggiunse la nascita di nuove congregazioni religiose maschili e femminili, modellando diversamente la vita religiosa italiana. Sintomatico risulta un intervento alla Camera dei Deputati nel 1895, in cui si ammetteva che lo Stato aveva perduto la sua battaglia contro gli ordini religiosi.

Le questioni nei rapporti tra Chiesa e Stato per l’incameramento dei beni ecclesiastici e per altre materie furono alla fine superate con gli accordi del Concordato del 1929.

Le soppressioni decretate dalla S. Sede. Nel periodo che stiamo considerando su ebbe la soppressione e l’estinzione conseguente di alcuni istituti religiosi da parte della S. Sede.

Le Missionarie adoratrici e riparatrici del s. Cuore di Gesù, fondate poco prima del 1930, furono soppresse dal S. Uffizio il 2 luglio 1930 per la mancanza di elementi validi per vivere in comunità religiosa. Non ottemperando le prescrizioni ricevute la loro soppressione venne confermata il 1 febbraio 1933. Seguì il 12 gennaio del 1933 la soppressione degli Eremiti di S. Gerolamo del b. Pietro Gambacorta, che contava allora 7 conventi con un totale di soli 15 sacerdoti e 4 laici. A causa della degenerazione in cui si trovava l’Ordine della Penitenza di Gesù Nazareno, i cui membri popolarmente erano detti gli Scalzetti, dopo numerose visite apostoliche si giunse alla sua soppressione de estinzione con il breve apostolico “Romanorum Pontificum” di Pio XI in data 20 aprile 1935. Infine, per l’esiguo numero dei membri furono soppressi il 13 febbraio 2972 i Frati della Carità, più noti come Frati Bigi.

Anche, se non proprio di soppressioni se si può ricordare l’operazione delicata e non priva di difficoltà operata dopo il 1929 dalla S. Sede per una revisione della consistenza e distribuzione delle diocesi. Fino agli anni ’50 scomparsero attraverso l’accorpamento o unione di sede e titoli, una trentina di diocesi. Infine il processo iniziato negli anni ‘60 giunse alla sua realizzazione con la ristrutturazione del 30 settembre 1986 con l’eliminazione (fusione) di un centinaio di diocesi. Con questo nuovo assetto le diocesi italiane risultano attualmente in numero di 225.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Martina, Soppressioni: 1866 – Italia: s. liberali, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, VIII (Roma 1988), 1872-1876; G. Romanato, Le leggi antiecclesiastiche begli anni dell’unificazione italiana, in Studi storici dell’Ordine dei Servi di Maria, 56-57 (2006-2007), 1-120; G. Rocca, Riorganizzazione e sviluppo degli Istituti religiosi in Italia dalla soppressione del 1866 a Pio XII (1939-58), in Problemi di storia della Chiesa, dal Vaticano I al Vaticano II, Edizioni Dehoniane, Roma, 1998, 239-294; C. Mirabelli, I progetti parlamentari di soppressione degli enti regolari e di riforma dei patrimoni ecclesiastici (1864-1867), in Atti del congresso celebrativo delle leggi amministrative di unificazione, II, La legislazione ecclesiastica, a cura di P.A. D’Avack, Neri Pozza, Vicenza, 1967; R. Astorri, Leggi eversive, soppressione delle corporazioni religiose e beni culturali, in La memoria silenziosa (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi 62), Ministero per i beni e le attività culturali – Uffici centrale per i beni archivistici, Roma, 2000, 42-69; C.A. Jemolo, La questione della proprietà ecclesiastica nel Regno di Sardegna e nel Regno d’Italia, Il Mulino, Bologna, 1974; E. Boaga, Per la ricerca storica e archivistica sulle diocesi italiane, in Rivista di scienze religiose, 7 (1993), n. 1, 119-120.


LEMMARIO




Soppressioni, Beni culturali - vol. I


Autore: Paola Picardi

Il patrimonio artistico delle corporazioni religiose, che è parte rilevante dell’intero patrimonio artistico italiano, è stato sottoposto, nel corso dei secoli, a fenomeni di dispersione e di distruzione provocati da interventi di eliminazione, coercizione o limitazione di tali corporazioni. I fenomeni di questa specie sono risalenti: la loro origine è individuabile già nei primi secoli di vita della Chiesa.

In età moderna, anche se ancora non sufficientemente studiato sotto il profilo storico-artistico, uno dei più casi significativi è quello legato a papa Innocenzo X. Il Pontefice, nel 1652, decretò la soppressione dei piccoli conventi, il che comportò, negli Stati italiani, la chiusura di 1.513 conventi su un totale di 6.238, numero complessivo stimato in base ad un censimento di due anni anteriore. Le conseguenze del provvedimento dovettero riguardare anche il patrimonio storico ed artistico realizzato appositamente per tali edifici e lì stratificatosi per secoli. Indicativo in tal senso è, ad esempio, il fatto che i beni incamerati in seguito alla soppressione, incluse le opere d’arte, dovevano essere messe a disposizione del Pontefice, che li avrebbe usati, a sua discrezione, per scopi pii od altri fini. Ricordiamo, a titolo esemplificativo, la fortunata vicenda di quattro quadri di Tiziano presenti nella chiesa di Santo Spirito a Venezia, che il Papa decise di non vendere e di trasferire, insieme ad altri nove dipinti, nella chiesa della Salute, sempre a Venezia.

Nella seconda metà del Settecento, l’imperante ideologia “giurisdizionalistica”favorì numerosi provvedimenti soppressivi. A partire da quegli anni, inoltre, le soppressioni, che fino a quel momento avevano riguardato singole corporazioni religiose, obiettivi mirati, assumono carattere estensivo, rivolgendosi all’insieme della vita religiosa come tale. Queste soppressioni si verificarono, fra l’altro, nei territori italiani soggetti all’impero Austriaco, soprattutto ad opera di Giuseppe II, il quale ordinò non solo la chiusura dei monasteri contemplativi, ma stabilì i programmi di formazione del clero.

Ma l’epoca che potremmo definire classica per la soppressione delle corporazioni religiose, è rappresentata dalla rivoluzione francese e dal successivo periodo napoleonico. Già nel 1792 in Franciavennero soppresse congregazioni secolari e confraternite, ordinando la nazionalizzazione e parziale vendita dei beni artistici che ne formavano la dotazione, procedura che fu successivamente utilizzata da tutte le emanazioni repubblicane di marca francese nella penisola italica, con applicazioni diverse a seconda delle circostanze.Con l’arrivo delle truppe francesi, in generale, si possono infatti riscontrare le prime lacerazioni del quasi intatto tessuto artistico italiano delle corporazioni religiose, le prime asportazioni e decontestualizzazioni.

Interessante, ad esempio, è il caso della Repubblica cisalpina, dove, per far fronte alle contribuzioni forzose imposte dai francesi, tra il maggio ed il luglio del 1798, furono soppresse trecentotrenta corporazioni religiose, tutte le abbazie e tutte le confraternite. La globalitàdelle opere d’arte presenti negli immobili degli enti religiosi soppressi divennero di competenza del Demanio statale, che era incaricato di depositarle in musei, o di alienarle tramite aste pubbliche. In questo quadro, interessante è il ruolo svolto dall’Accademia Clementina che, già nel periodo della Repubblica cispadana, censì le opere presenti nei conventi soppressi che erano destinate alle aste e ne selezionò una parte, escludendola dalla vendita. Analogo ruolo, poi, fu successivamente svolto dall’Agenzia dipartimentale dei beni nazionali, che prescrisse ai vari agenti nei dipartimenti di stilare elenchi dei beni artistici presenti nei conventi soppressi o da sopprimere, per evitare il rischio di vendite illegittime.

Altro caso rappresentativo è quello della Repubblica Romana, dove, in base al proclama dell’11 maggio 1798, trentuno edifici conventuali vennero soppressi ed una parte dei loro beni mobili venne venduta all’incanto a profitto del tesoro pubblico. Gli oggetti d’arte che invece vennero ritenuti “preziosi” da un’apposita commissione d’esperti sarebbero stati trasferiti in un pubblico museo (le raccolte capitoline o, forse, quelle vaticane).

Successivamente Napoleone, con decreto imperiale del 25 aprile 1810,stabilì la soppressione di tutti gli stabilimenti, corporazioni, congregazioni, comunità ed associazioni ecclesiastiche di qualunque natura e denominazione. Si tratta del testo di legge fondamentale, applicato in tutto il Regno d’Italia, a cui si ispireranno le successive normative emanate dagli Stati preunitari.

Gli effetti sul patrimonio artistico della legge soppressiva napoleonica sono di non immediataquantificazione. Non è semplice determinare il numero delle sedi di corporazioni religiose che in pochi anni furono soppresse, vuotate degli arredi liturgici, vendute o distrutte. E’ indubbio, comunque, che l’intero patrimonio artistico ha subito una riduzione di smisurate proporzioni.

In questo contesto va ricordato, ad esempio, che dopo pochi anni dall’occupazione napoleonica – coerentemente con il progetto francese relativo alla riforma delle Accademie di Belle Arti che dovevano essere dotate di spazi per l’esposizione di opere d’arte con finalità didattiche – si assiste alla formazione della Pinacoteca di Bologna, della Galleria dell’Accademia di Venezia, e della Pinacoteca di Brera, tre grandi musei progettati per accogliere i dipinti provenienti dai conventi soppressi dei Dipartimenti. Gli studi recenti hanno messo in luce come le operazioni di prelievo di migliaia di dipinti sul territorio, siano state condotte, con differenze da valutare caso per caso, senza competenza, e che molte delle opere destinate ad essere accentrate nei musei, furono invece in parte lasciate in deposito alle municipalità, in attesa di essere distribuite sul territorio (sull’esempio francese iniziato nel 1790), in parte furono vendute ed in parte furono disperse, in quanto non considerate adeguate al disegno culturale affidato alle nuove pinacoteche.

Interessante, in particolare, è il caso della Pinacoteca milanese di Brera, per l’arricchimento delle cui collezioni, a partire dal 1802, Eugenio di Beauharnais si affidò alla consulenza artistica di Andrea Appiani, il quale procedette ad una vera e propria incetta di opere d’arte, prevalentemente provenienti dai conventi soppressi. Appiani stilò delle liste delle opere presenti nei territori che progressivamente venivano annessi al Regno Italico (per la maggior parte dipinti appartenenti alla scuola bolognese, romagnola e marchigiana), e fu seguito in questa opera, negli anni successivi, dal restauratore modenese Aurelio Boccolari e dal pittore bolognese Giuseppe Santi. Questi ultimi misero in atto una vera e propria organizzazione di prelievo ed asportazione, finalizzata all’inaugurazione della pinacoteca braidense che si sarebbe svolta il 15 agosto 1809, in occasione del compleanno di Napoleone. Le opere prelevate venivano selezionate in base a tre categorie. Alla prima appartenevano i dipinti che per qualità artistica sarebbero confluiti nella galleria milanese, alla seconda le opere da poter assegnare, tramite scambio, ad altre pinacoteche del Regno (Bologna, Venezia). Alla terza categoria appartenevano i dipinti da assegnarsi alla vendita o al deposito nelle chiese minori lombarde.

Con la fine dell’epoca napoleonica immediata si presentò la questione della restituzione delle opere trasferite a Milano per effetto delle soppressioni. Già nel 1816 molte delle richieste vennero accolte. Altre rivendicazioni, invece, rimasero lettera morta come, ad esempio, quelle per la celebre Pala di San Bernardino di Piero delle Francesca che Appiani aveva sottratto al suo ambiente originario, sul colle urbinate, per collocarla nella pinacoteca milanese di Brera.

Altro caso rappresentativo è quello di Roma dove, ad esempio, le direttive del 7 e del 28 maggio 1810, decretarono la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento di centoquarantacinque conventi. I rispettivi beni furono venduti portando nuova liquidità alle casse dello Stato e gli edifici ex conventuali furono convertiti in caserme, scuole, ospedali, risolvendo in tempi rapidi l’istallazione sul territorio dei servizi di pubblica utilità. I problemi di ordine conservativo del ricchissimo e secolare patrimonio di arredi sacri, suppellettili e opere d’arte presente nei conventi destinati al riuso furono affrontati con provvedimenti, se non risolutivi, senz’altro consapevoli della straordinarietà del patrimonio interessato. Ad esempio vennero nominati quaranta commissari di nomina prefettizia, molti dei quali giudici di pace, coadiuvati dai superiori dei conventi, che procedettero all’incameramento dei beni compilando dettagliati inventari che, nella gran parte dei casi, si rivelarono utili a vincolare i beni artistici ed evitarne la dispersione. Il 25 febbraio 1811, peraltro, veniva decretata la formazione a Roma di un Tesoro della Corona, che avrebbe comportato il trasporto di capolavori presenti negli edifici di culto soppressi, sia romani che del dipartimento, nei Musei Vaticani e Capitolini. Il progetto, che rispondeva ad una volontà accentratrice delle opere d’arte, caratteristica dell’epoca napoleonica, prevedeva a Roma, come d’altra era già accaduto per altre grandi città, la riorganizzazione dell’Accademia di Belle Arti (Accademia di San Luca), accanto alla quale la Pinacoteca Capitolina avrebbe assolto il ruolo di luogo di raccolta e di selezione di exempla figurativi da offrire ai giovani artisti in formazione. In particolare, il suo conservatore, Agostino Tofanelli, al fine di incrementare le collezioni della Pinacoteca, selezionò cinquantuno dipinti delle corporazioni religiose umbre soppresse, raccolti a Perugia, che dovevano essere portati nella seconda Città dell’Impero, cioè Roma, dichiarata tale nel 1809. Il progetto, che vide l’aspra opposizione del maire di Perugia, fu portato a termine nel gennaio del 1814 con il trasporto a Roma di un gran numero di dipinti che, per la maggior parte, furono restituiti, non con poche difficoltà, qualche anno dopo.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Soppressioni, Beni culturali - vol. II


Autore: Paola Picardi

Negli anni immediatamente successivi alla costituzione dello Stato unitario italiano una parte di enorme rilievo del suo patrimonio artistico fu investita dal decisivo evento della soppressione delle corporazioni religiose. Per valore, storia, committenza e diffusione sul territorio, infatti, il loro patrimonio rappresenta parte rilevante della ricchezza artistica dell’intero territorio nazionale. Si trattò di un momento cruciale per la storia della gestione del patrimonio culturale che impegnò in modo incisivo le nuove strutture dello Stato ad essa preposte in un’articolata attività di conoscenza e tutela.

Aspetto prioritario acquistava, in questa epoca, la necessità di intervenire nel campo della legislazione ecclesiastica ed in particolare nel riordinamento delle sue vaste proprietà. La materia, infatti, presentava implicazioni economiche, politiche e sociali e dette origine a lunghi ed accesi dibattiti parlamentari. Alcune categorie di enti ecclesiastici erano reputate dallo Stato superflue per la funzionalità della Chiesa e dannose alla pubblica e privata economia per la sottrazione di molti beni, specie immobili, alla normale circolazione e ai tributi. Venne sancita, quindi, la soppressione di tali enti, vale a dire, fu tolta loro la personalità giuridica (cioè la capacità di acquistare e possedere) e fatto divieto che potessero riassumerla in avvenire. In questo quadro generale, il coinvolgimento del patrimonio artistico sembrava, all’epoca, assumere un’importanza limitata ma, in realtà, il nuovo Stato unitario dovette misurarsi con la complessità del lascito artistico e con l’inevitabile esigenza di tutelarlo.

L’origine della complessa vicenda può essere individuata nella legge 25 agosto 1848, n. 777, la quale sciolse le case e le congregazioni della Compagnia di Gesù in Piemonte, ai cui componenti fu vietato di continuare a vivere adunati. La successiva legge Cavour-Rattazzi sopprimeva, invece, gli enti ecclesiastici che «non attendevano alla predicazione, all’educazione o all’assistenza degli infermi» prevedendo la gestione dei loro beni da parte della “Cassa ecclesiastica”, ente autonomo appositamente istituito. Questa legge, con le annessioni dei nuovi territori, venne progressivamente estesa, una volta costituito il Regno d’Italia, all’Umbria (decreto Pepoli del dicembre 1860), alle Marche (decreto Valerio del gennaio 1861), alle Province napoletane (decreto Mancini del febbraio 1861) ed al Veneto (decreto del luglio 1866).

Il dibattito che si svolse in parlamento nel tentativo di formulare una legge nazionale su tale materia, denuncia la presenza di atteggiamenti di differenti matrici ideologiche. L’esame del progetto di legge portò all’approvazione del Regio Decreto 7 luglio 1866, n. 3036 che regolava, per tutto il territorio nazionale fino a quel momento annesso, la soppressione delle corporazioni religiose (cioè tutti gli enti regolari, pur conservando i religiosi, singolarmente considerati, il diritto di convivere sotto l’egida del diritto comune), non che molti enti secolari (capitoli collegiali, ricettizi ed enti analoghi, benefici semplici, legati pii perpetui autonomi e, nei capitoli cattedrali, i canonicati e cappellanie eccedenti rispettivamente il numero di dodici e sei). I loro beni, salvo alcune eccezioni, sarebbero stati incamerati dal demanio ed amministrati, nell’ambito del Ministero di Grazia, Giustizia e Culti, dall’amministrazione autonoma del Fondo per il Culto (art. 25). La legge 15 agosto 1867, n. 3848, infine, stabilì le disposizioni per la liquidazione dell’asse ecclesiastico.

Le questioni relative al patrimonio artistico, rimasero al margine del dibattito parlamentare il quale si limitò a chiarire che, tra i beni eccettuati dalla demaniazione, vi erano solo le chiese mantenute al culto, con il loro patrimonio artistico, e gli edifici, con le loro adiacenze, che rivestivano un carattere di monumentalità (art. 18, R.D. 7 luglio 1866, n. 3036). I «libri e i manoscritti, i documenti scientifici, gli archivi, i monumenti e gli oggetti d’arte o preziosi per antichità» che non erano nè esposti al culto né raccolti in collezioni erano considerati devolvibili ad istituti museali o a biblioteche, comunali o statali, ubicate nella provincia nella quale era situato il convento soppresso (art. 24, R.D. 7 luglio 1866, n. 3036). Il restante patrimonio era considerato alienabile.

Per comprendere, invece, la vastità della ripercussione sul patrimonio artistico, va ricordato che il numero di case religiose soppresse al 1877, ammonta a 4.000 e che, al 1874, ben 1.650 edifici claustrali furono indemaniati, vuotati degli arredi liturgici, destinati al riuso, venduti o distrutti. Il governo ebbe quindi a disposizione una massiccia massa architettonica per assolvere alle diverse necessità dell’amministrazione pubblica: finanziarie, militari, burocratiche…etc.

Nel 1873, poi, venne emanata la legge di soppressione speciale per Roma e provincia (legge 19 giugno 1873, n. 1402 2° serie), che ebbe un iter formativo particolarmente travagliato, a causa della necessità di salvaguardare le prerogative del pontefice e della particolare natura degli enti esistenti nel capoluogo del mondo cattolico. Delle 221 case religiose esistenti a Roma, 126 vennero soppresse ed i rispettivi fabbricati furono indemaniati. Di questi ultimi, sette furono chiusi al culto per esigenze di “pubblica utilità”. L’incameramento di questi beni avvenne tramite la Giunta liquidatrice dell’asse ecclesiastico, organo preposto alla gestione del patrimonio ex claustrale, costituito ad hoc per Roma.

Beni mobili. Di volta in volta venivano nominati commissioni o singoli commissari che provvedevano alla “presa di possesso” del convento redigendo un minuzioso verbale dei beni mobili presenti nell’edificio. Tali verbali erano composti da una serie di moduli nei quali dovevano essere elencate varie tipologie di oggetti. Particolare interesse riveste il quadro XI in quanto i beni che comparivano in questa parte del modulo, erano considerati devolvibili ad istituti museali o a biblioteche, dal momento che in essi era stato riconosciuto carattere di “artisticità” e non erano nè esposti al culto né raccolti in collezioni (art. 22 della normativa di soppressione per Roma).

Una volta incamerato dallo Stato con le prese di possesso delle case religiose, il relativo patrimonio mobile veniva quindi sottoposto ad una selezione. Le opere scelte (quelle registrate nel quadro XI) erano destinate, in accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione, a pubbliche istituzioni mentre, quelle non ritenute d’interesse, venivano alienate con la procedura di pubblici incanti. E’ importante evidenziare, dunque, il peso delle scelte dei delegati governativi ai quali, di volta in volta, veniva demandato il potere di stabilire il destino delle opere d’arte interessate dal fenomeno soppressivo. Le decisioni assunte rispecchiavano, non solo le rispettive culture, ma anche i pregiudizi valutativi o l’ideologia delle personalità intervenute nonché la loro moralità. Eloquente, in tal senso, è il caso di un delegato governativo alle “prese di possesso” degli edifici ex claustrali romani presente tra gli acquirenti delle aste dei beni provenienti dagli edifici soppressi. D’altra parte la vastità della dispersione del patrimonio artistico a causa della secolarizzazione è difficilmente ricostruibile e misurabile. E’ da presumersi che molti trafugamenti si siano verificati, infatti, in violazione delle leggi allora vigenti e, salvo i casi di eventuali indagini giudiziarie, le tracce documentarie sono rarefatte.

Nel caso di Roma, per la scelta degli istituti ai quali devolvere le opere, nacquero dissidi tra le autorità municipali e quelle governative. I beni selezionati, se ritenuti di pregio (prevalentemente le opere pittoriche), erano destinati all’Istituto di Belle Arti (attuale Accademia di Belle Arti), e non alla Galleria Capitolina o al Museo Artistico Industriale, entrambi comunali. Sebbene l’Istituto di Belle Arti fosse stato quindi istituzionalmente privilegiato, la maggior parte del patrimonio venne devoluto al Museo Artistico Industriale (le cui collezioni vennero poi smembrate) che, con le sue scuole di arte applicata poteva raccogliere oggetti di arte minore (sculture frammentarie, frammenti architettonici, ceramiche, mobili etc.), prevalente tipologia di beni rinvenuti negli ex conventi.

Per gestire la particolare situazione di Firenze che, come Roma, vedeva coinvolto un enorme patrimonio, fu emanato il decreto 8 agosto 1867 con il quale vennero devolute alle Gallerie fiorentine tutte le opere della provincia, ad eccezione di quelle del comune di Empoli, Prato e Pistoia. Come nel caso di Roma, però, la maggior parte degli oggetti d’arte minore vennero dirottati verso il Museo del Bargello, che intendeva svolgere un ruolo educativo ed esornativo.

Se, in generale, tutte le Accademie di Belle Arti (Bologna, Parma, Modena, Genova, Siena) incrementarono le loro raccolte con opere pittoriche, ai musei nazionali di Napoli e Palermo vennero ceduti non solo la quasi totalità di beni ex claustrali delle rispettive provincie ma anche delle due regioni. Sebbene il dettato normativo prevedesse la devoluzione dei beni artistici a pubblici istituti esistenti nella provincia nella quale era ubicato il convento soppresso, nella prassi vennero spesso accettate le richieste dei municipi che, per non essere privati di opere ritenute importanti per la propria identità, si dotarono di nuovi musei civici. Particolarmente interessante è, in questo senso, il caso nei musei civici umbri che, con loro distribuzione capillare sul territorio, garantirono una conservazione decentrata dei beni artistici.

Beni immobili. L’imponente patrimonio edilizio delle corporazioni religiose fu indemaniato e destinato al riuso. Fanno eccezione le chiese mantenute al culto e i conventi dichiarati monumentali, spesso unica forma di conservazione per il contenitore ed i suoi arredi. Per la stesura dell’elenco degli edifici monumentali nacquero dissidi tra il Ministero della Pubblica Istruzione, animato da preoccupazioni conservative, ed il Fondo per il Culto, che tendeva a ridurre al minimo gli edifici monumentali la cui manutenzione sarebbe stata interamente a suo carico.

La generalizzata riconversione dei beni immobili, soprattutto urbani, permise la diffusione dei servizi pubblici in tempi relativamente brevi. Il riutilizzo più diffuso e di maggior impatto sugli edifici, che generalmente erano storici e di notevole interesse artistico ed architettonico, fu quello militare. Indicativo, in tal senso, è l’epiteto «della demolizione» usato all’epoca per definire gli ingegneri impegnati nei lavori necessari per gli adattamenti dei conventi. Nell’impossibilità di contrastare questa massiccia riconversione, spesso gli addetti alla tutela si limitavano a ricorrere a misure, anche minime, di primo intervento. Per salvaguardare i dipinti murali talvolta li si ricopriva con tavolati, misura che, però, rese difficile lo studio ed il controllo dello stato di conservazione degli affreschi e, alle volte, fu anche causa di danni. Talvolta si procedeva allo stacco dei dipinti murali, non solo nei casi non rari di demolizione dell’edificio, ma anche nell’intento di assicurarne la visione al pubblico con la devoluzione a pubblici istituti museali.

Il quadro conservativo degli edifici ex claustrali si aggravò quando, terminate le cessioni agli enti locali, individuate le chiese da mantenere al culto ed in via di riconoscimento quelli monumentali, il rimanente patrimonio immobiliare cominciò ad essere alienato dal demanio. Il Ministero della Pubblica Istruzione, se non poteva impedirne la vendita, richiese spesso la sua sospensione per il tempo necessario a trasportare altrove i beni artistici mobili o inserì nell’atto di vendita alcune clausole a garanzia della salvaguardia del bene.

Uno dei casi più rappresentativi di questo delicato e problematico tornante della storia del patrimonio artistico italiano è l’insieme delle vicende che portarono alla demolizione ed alla dispersione degli arredi della residenza pontificia al Campidoglio, la così detta “torre di Paolo III Farnese”, di proprietà dei Minori Osservanti del convento di Santa Maria in Aracoeli, ai quali il fabbricato era stato donato da Sisto V con motu proprio del 1585. Le vicende dei suoi affreschi, fortuitamente sopravvissuti, insieme a quelle di altri dipinti e sculture coinvolti nelle soppressioni, notevoli per qualità, stile e provenienza, nel loro insieme contribuiscono a delineare una visione del fenomeno nella sua portata di buone intenzioni, ma anche di devastazione e dispersione.

Fonti e Bibl. essenziale

V. Carini Dainotti, La Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele al Collegio Romano, Firenze, L.S. Olschki, 1966; G. Dalla Torre, Il Fondo per il Culto. Ascesa e declino di un Istituto giurisdizionalistico. Dal prerisorgimento alle fasi concordatarie: evoluzione del quadro normativo nel clima storico, in Il Fondo Edifici di Culto. Chiese monumentali, storia, immagini, prospettive, Napoli, Elio De Rosa, 1997, 15-17; A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione. Inventario dei “Beni delle corporazioni religiose” 1860-1890, Roma, Ministero per i beni culturali ed ambientali, 1997; G. Manieri Elia, La nascita di un “sistema museale umbro” e la contrastata vicenda della salvaguardia del patrimonio nella regione dopo l’Unità d’Italia, in Piccoli musei d’arte in Umbria, a cura di E. Borsellino, con la collaborazione di B. Cirulli, Venezia, Marsilio, 2001, 21-30; F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna, Zanichelli, 2003; Nuove funzionalità per la città ottocentesca. Il riuso degli edifici ecclesiastici dopo le soppressioni del 1866-67, atti del convegno, Bologna 16 marzo 2001, a cura di Angelo Varni, Bologna, Bononia University Press, 2001; A. Gioli, Una chiesa all’asta: San Torpè a Pisa e le vendite dei beni del demanio, Pisa, ETS, 2006; P. Picardi, Il patrimonio artistico romano delle corporazioni religiose soppresse. Protagonisti e comprimari, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2008; B. Toscano, Appunti per una proposta di storia sociale della tutela dopo l’Unità, in Economia della cultura, XXI, 2011, 371-377; P. Picardi, Perino del Vaga, Michele Lucchese ed il palazzo di Paolo III al Campidoglio. Circolazione ed uso delle decorazioni farnesiane a Roma, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2012, 15-22.


LEMMARIO




Sostentamento del clero - vol. II


Autore: Francesco Bonini

Le politiche di secolarizzazione che hanno caratterizzato il passaggio dell’Unificazione hanno salvaguardato il ruolo sociale e pubblico della Chiesa e del suo tessuto istituzionale, attraverso una sorta di pratico agreement, che comporta di fatto il riconoscimento del principio dell’interesse pubblico al mantenimento della struttura ecclesiastica, anche nel momento in cui il conflitto interistituzionale assume forme di particolare durezza.

La soppressione delle corporazioni religiose e di molti enti secolari, con conseguente incameramento dei beni ecclesiastici, prima nel Regno di Sardegna, con le leggi del 1855, e poi a livello nazionale, con le leggi del 1866-67, comporta la costituzione di una gestione pubblica autonoma affidata a vari enti (Cassa Ecclesiastica nel Regno di Sardegna divenuto Fondo per il Culto dal 1866; Fondo per gli usi di beneficenza e di religione nella città di Roma, creato dopo il 1870; Aziende speciali di Culto) Il Fondo conserva la proprietà degli edifici sacri aperti al culto ritenuti necessari alle esigenze spirituali della popolazione, con gli annessi ritenuti correlati alle esigenze pastorali, mentre il restante, ingentissimo patrimonio viene devoluto al demanio, per essere utilizzato da varie amministrazioni statali o locali o alienato attraverso aste pubbliche. Sopravvivono invece a gestione ecclesiastica diretta i benefici connessi alla cura delle anime.

Con l’articolo 18 della cosiddetta Legge delle guarentigie, si prevede il riordino, la conservazione e l’amministrazione delle proprietà ecclesiastiche nel Regno. In pratica viene determinato un livello minimo di reddito (limite di congrua) secondo le varie categorie dei benefici ecclesiastici e lo stato interviene ad integrare i redditi ove questi risultino inferiori ai livelli predeterminati. Il Fondo per il culto, incardinato fino al 1932 nel Ministero della Giustizia e dei Culti e poi in quello dell’Interno, sopperiva alle insufficienze di reddito prodotte dei benefici e con altri istituti che si riconducono all’amministrazione centrale, concorreva a soddisfare determinate esigenze ecclesiastiche, dai restauri degli edifici di culto ai sussidi al clero povero.

Tale sistema, che implica penetranti controlli statali in materia di gestione dei benefici congruati o congruabili, resta sostanzialmente invariato anche attraverso il Concordato del 1929, mentre il contributo statale si è venuto progressivamente modificando, in virtù della automaticità degli adeguamenti, in particolare a partire dalla curva inflattiva del primo dopoguerra.

Così come quella degli enti, anche la questione del sostentamento del clero viene evidentemente posta all’ordine del giorno della revisione del Concordato, che necessariamente si deve determinare dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana. Nelle successive bozze si comincia a delineare l’esigenza di una profonda revisione della materia.

La riforma del codice di diritto canonico del 1983 rappresenta un importante stimolo, contribuendo a creare i presupposti, nella struttura della Chiesa, di un nuovo assetto istituzionale. E’ anche il momento dell’accelerazione delle trattative per la revisione degli accordi concordatari.

Il 18 febbraio 1984 vengono firmati a Roma i protocolli di modificazione del Concordato lateranense, da Bettino Craxi e Agostino Casaroli. L’articolo 7, comma 6, istituisce una commissione paritetica per disciplinare la materia degli enti e dei beni ecclesiastici e per la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano. Essa viene immediatamente insediata il 23 febbraio. E’ co-presieduta dal vescovo mons. Attilio Nicora, giurista vescovo ausiliare di Milano, per parte vaticana e dal prof. Francesco Margiotta Broglio per la parte italiana. Nella relazione del 6 luglio la commissione, ribadita la necessità di «assicurare un decorso sostentamento del clero» sottolinea «l’indubbio interesse collettivo alla introduzione di forme moderne di finanziamento delle Chiesa attraverso le quali si agevoli la libera contribuzione dei cittadini per il perseguimento di finalità e il soddisfacimento di interessi religiosi». In concreto viene proposto «un meccanismo bilanciato e concorrente di finanziamento autonomo e orientato». Mons. Nicora affermerà che ai fini dell’accordo, oltre che la finestra di opportunità legata alla relativa stabilità politica garantita dal governo Craxi, «a risultare determinante fu il fattore generazionale», che permette di svincolarsi dai quadri di derivazione post-risorgimentale. L’accordo è formalizzato l’8 agosto e solennemente stipulato il 15 novembre, ancora con la firma di Craxi e Casaroli. E’ attuato con la Legge n. 222 del 20 maggio 1985, che reca Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi. (G.U. n. 129 del 3 giugno 1985). Seguiranno poi altre leggi che attuano le intese con altre confessioni religiose, ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione.

Viene realizzata di fatto una via originale tra i vari sistemi in vigore nelle democrazie europee (tassa ecclesiastica nei paesi germanici, esenzioni fiscali in quelli anglosassoni, mantenimento statale in quelli protestanti del nord). Si mette in opera un sistema che porta a superare ogni contributo finanziario diretto da parte dello stato, ponendo in atto un meccanismo basato su due canali: la deducibilità fiscale entro il tetto massimo piuttosto limitato, fissato a due milioni di lire, delle oblazioni fatte dai cittadini mediante versamento su unico conto corrente intestato alla Conferenza Episcopale Italiana e riserva da parte dello Stato di una quota dell’ 0,8% della massa Irpef dichiarato ciascun anno, che può essere destinato a scopi sociali ed umanitari dello Stato, a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica (sostentamento del clero, esigenze di culto della popolazione, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo) o di altre confessioni religiose interessate sulla base di intese con esse.

Il motivo per cui sono stati previsti due flussi finanziari ed è stata decisa la redistribuzione anche delle quote derivanti dalle scelte non espresse, è determinato dalla difficoltà di determinare con sufficiente certezza quale accoglienza il nuovo sistema avrebbe avuto da parte dei cittadini, per cui si è optato per la soluzione più garantista nei confronti delle confessioni religiose.

Sono previste puntuali rendicontazioni e un monitoraggio bilaterale periodico: ogni anno deve essere comunicato al governo e reso pubblico un rendiconto analitico circa l’utilizzazione delle somme e ogni tre anni una commissione paritetica, composta di membri nominati dal governo e dalla CEI è chiamata a valutare al rispondenza dei flussi finanziari così percepiti con i capisaldi del’accordo.

L’attuazione degli accordi accresce notevolmente il ruolo della CEI, cui è stato conferita personalità giuridica con l’art. 13 della già ricordata legge n. 222: nello specifico l’assemblea generale decide la ripartizione dei fondi assegnati alla Chiesa cattolica.

Per quanto riguarda in particolare il sostentamento del clero ad ogni sacerdote viene assegnato un determinato numero di punti, a seconda degli incarichi svolti, dell’età e di altri parametri, con una base minima per tutti di 80 punti. Il consiglio permanente della CEI aggiorna periodicamente il valore monetario del “punto” . La quota derivante dall’8 per mille si somma così, ai fini del fabbisogno complessivo alle remunerazioni proprie dei sacerdoti, all’apporto delle parrocchie e degli enti ecclesiastici, ai redditi degli Istituti per il sostentamento del clero.

Essa permetterà la realizzazione, da parte della Conferenza episcopale Italiana, della riforma del tradizionale sistema beneficiale, con l’erezione , a livello diocesano, di Istituti per il sostentamento del clero, che hanno una propria base patrimoniale costituita mediante trasferimento dei beni redditizi appartenenti agli ex benefici di tutta una serie di enti.

Gli istituti diocesani (o interdiocesani) di sostentamento del clero cono dotati di personalità giuridica canonica e civile quali enti ecclesiastici. Così, sulla base del nuovo codice di diritto canonico ed alle norme per la sua attuazione, hanno personalità giuridica canonica le diocesi, gli istituti per il sostentamento del clero e le parrocchie. Cessano di esistere come soggetti giuridici le mense vescovili, i benefici canonicali, parrocchiali, e vicariali curati, le chiese parrocchiali.

Viene rafforzato il sistema dei controlli canonici, per gli atti di straordinaria amministrazione occorre l’autorizzazione della Santa Sede, dopo avere acquisito il parere della Conferenza Episcopale Italiana.

Tra la fine del 1985 e il 1986 sono costituti l’Istituto centrale e gli istituti diocesani per il sotentamento del clero, il cui sistema permette di valorizzare il patrimonio precedentemente disperso. Il regime comincia ad entrare a regime il primo gennaio 1987: lo Stato non versa più le congrue, ma un anticipo, basato sullo storico (pari a 409 mld di lire). Dal primo gennaio sono possibili le offerte deducibili per il sostentamento del clero intestate all’Istituto Centrale Sostentamento Clero, che versa il 27 il primo assegno ai sacerdoti inseriti nel sistema. A maggio 1990 i contribuenti firmano per la prima volta per la destinazione dell’otto per mille del gettito complessivo dell’Irpef.

L’attuazione del nuovo sistema comporta la creazione, presso il Ministero dell’Interno, del Fondo Edifici di Culto, che subentra in tutti i rapporti attivi e passivi nel patrimonio dell’estinto Fondo Culto, con l’esclusivo compito di provvedere, mediante la gestione del suo patrimonio, alla conservazione, tutela e valorizzazione degli edifici di culto di proprietà statale.

La Conferenza episcopale italiana pubblica in data 14 novembre 1988 il documento Sovvenire alle necessità della Chiesa. Corresponsabilità e partecipazione dei fedeli. Nel ventesimo anniversario una Lettera dell’Episcopato del 30 maggio 2008, ribadisce il valore e l’attualità della scelta compiuta in occasione della revisione del Concordato Lateranense, abbandonando il sistema della congrua e del beneficio ecclesiastico, per affidarsi ai cittadini e ai fedeli e sottolinea il valore propositivo ed educativo del nuovo sistema in ordine ai valori

della corresponsabilità e della partecipazione ecclesiale.

L’attuazione del nuovo sistema, accompagnata da una certa preoccupazione ecclesiastica, conosce subito un significativo successo. In termini relativi modesta è la massa finanziaria, decrescente, derivante dalle offerte deducibili, arrivate nel 2007 a 16,8 mln di euro, che tuttavia risulta una delle raccolte fondo più cospicue in Italia. Rilevante è la percentuale delle scelte a favore della Chiesa cattolica e del complessivo gettito Irpef, che tocca il livello massimo con l’89,81% nel 2004, per un ammontare di circa 997 mln, per poi leggermente diminuire. La percentuale delle scelte espresse dai contribuenti è stabilmente sopra il 40%: escludendo dal computo coloro che non versano alcuna imposta la percentuale di partecipazione alla scelta di fatto si colloca almeno al 56%.

I principi della riforma hanno trovato attuazione, dispiegando gli effetti istituzionali anche in altre direzioni. Quelli delle altre confessioni religiose innanzi tutto, ma anche per una concezione della fiscalità come sistema, come servizio sociale, una leva che lo stato usa per un complesso di fini, che non sono necessariamente né soltanto quello del mero incasso di porzioni di reddito.

Fonti e Bibl. essenziale

Presidenza del Consiglio dei ministri, Un accordo di libertà. La revisione del Concordato, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1986; Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dall’accordo del 1984 al disegno di legge sulla libertà religiosa. Un quindicennio di politica e legislazione ecclesiastica, Roma, IPZS, 2000; U. Folena, L’avvio della promozione del nuovo sistema di sostegno economico alla Chiesa Cattolica. Libro intervista al Cardinale Attilio Nicora e a Pierluigi Bongiovanni, I quaderni del sovvenire, Roma, 2008; I. Bolgiani (ed.), Enti di culto e finanziamento delle confessioni religiose a c. di, Bologna, Il Mulino, 207, con un saggio sulla CEI di M. Rivella, 85-96.


LEMMARIO




Spiriti Andrea





Spiritualità - vol. I


Autore: Guglielmo Cazzulani

I primi secoli: vescovi, martiri e vergini. L’approdo del cristianesimo sulle rive della penisola fu pressoché istantaneo. Le principali città dell’Impero romano vantano il costituirsi di una comunità cristiana già in età apostolica. Roma non è la prima, ma è la più importante meta dei viaggi missionari descritti dagli Atti degli apostoli. Quando Paolo giunge nella città eterna, la narrazione si può arrestare. In quella casa presa a pigione, aperta a tutti, dove l’apostolo predica con franchezza e senza impedimento, c’è il primo seme cristiano gettato nel cuore dell’Impero (At 28, 30-31).

Per lungo tempo l’Occidente non resterà, nelle vicende della Chiesa, che una remota terra di missione. Il cristianesimo degli inizi è tutto sbilanciato verso est. La Siria, l’Egitto, l’Anatolia, la prefettura romana di Giudea sono le centrali umane, teologiche, catechistiche e monastiche della nuova religione. Se il poeta latino Giovenale poteva fustigare la Roma “ingrecata”, lamentandosi di come l’Oronte rovesciasse le sue acque nel Tevere, la stessa cosa si può ripetere per il nuovo mondo ecclesiale. Roma, da un punto di vista missionario, è figlia d’Antiochia e di Gerusalemme.

Sulle rive del Tevere si registrerà, però, uno dei più fruttuosi tentativi di sintesi della nuova fede. Perché, nella culla di Roma, il cristianesimo incontrerà il vero genio del civis romanus: il diritto. Il connubio non deve essere letto in termini puramente negativi, come se si trattasse di una profanazione. La Chiesa, incontrando il diritto, assume gli ampi orizzonti del mondo, la capacità di mediazione, il desiderio di rendere razionale la sua struttura. Non è un caso che, dei quattro dottori della Chiesa latina, il più occidentale di tutti sarà Ambrogio, buon funzionario romano, uomo intriso di cultura giuridica, battezzato poco prima di assurgere alla dignità episcopale, maestro, più d’ogni altro, nell’arte del governo.

Ma cerchiamo di fare sintesi sui primi passi della Chiesa nella penisola italica. L’avventura spirituale degli esordi cristiani è segnata soprattutto dalla esuberanza di tre figure, che qui andiamo a descrivere: il vescovo, il martire e l’asceta. Anzitutto il vescovo. In Occidente è lui a calcare la scena. Il vescovo è il responsabile della comunità cristiana, l’architrave della sua concordia, l’uomo depositario del carisma. Sbaglieremmo se attribuissimo a lui un ruolo solo burocratico, funzionale al buon andamento della macchina ecclesiale. Nei primi secoli della storia cristiana il vescovo è, per dirla con Hans Urs von Balthasar, una “personalità totale”. Non si è ancora aperta quella faglia tra contenuto di fede e devozione che sarà invece caratteristica della Chiesa del secondo millennio. Il vescovo predica il contenuto di fede, recepito dagli apostoli, e quello stesso contenuto è motivo della sua preghiera. In lui sono depositate, come in un’unica stratificazione, intelligenza, santità di vita, prudenza. In avvenire non sarà sempre così.

È in questo contesto che si collocano le vite dei primi papi e dei grandi vescovi dell’alba cristiana. L’Italia pullula di nomi ingombranti. Solo per citarne alcuni: Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Cromazio d’Aquileia, Ambrogio da Milano, Zeno di Verona. Le chiese venerano tuttora questi uomini avvolgendoli d’un alone di leggenda, e ponendoli a pietra angolare delle cattedrali che, di secolo in secolo, punteggeranno il suolo della penisola. I loro scritti lasciano intuire di quale stoffa fosse tessuta la loro santità. Al centro di tutto sta l’amore per Gesù Cristo, nucleo incandescente della vita cristiana. Questo legame col Nazareno è spesso vissuto come schermo all’arianesimo, eresia cui l’Occidente risulterà sempre un po’ incline. La predicazione morale non è argomento a sé stante: l’accrescimento delle virtù trae linfa dalla piena ortodossia.

A livello pastorale, i vescovi combattono l’ignoranza e la superstizione. Desiderano che il processo di conversione delle loro città non sia epidermico, ma interiore. Guardano con un po’ di angustia alle campagne, ai villaggi dove dimorano ancora numerosi i pagani. Organizzano una missione a corto raggio in loro favore, perché Cristo possa essere conosciuto da tutti. Quando i barbari, superato il limes settentrionale, calano verso sud, guardano a questi avvenimenti con tristezza, ma non precipitano nella disperazione. Confidano che anche in questi eventi ostili vi possa essere racchiuso qualche aspetto misterioso del grande disegno di Dio. Sarà questa speranza, insieme alla buona tenuta dell’organizzazione ecclesiale, a far sì che i nuovi popoli venuti dalle terre di là dal Reno e dal Danubio intraprendano il cammino che li condurrà al fonte battesimale.

La seconda figura ecclesiale dei primi secoli è quella del martire. In pochi decenni la parola greca “martyria”, che inizialmente vuol dire semplicemente “testimonianza”, conosce un’evoluzione semantica radicale, fino a diventare il termine tecnico per designare coloro che spargono il loro sangue per amore del vangelo. La diffusione del cristianesimo è trapuntata da eventi drammatici. Dell’esperienza del martirio Roma diventerà presto il grande epicentro. Paolo e Pietro abbracciano nella città eterna la morte. A Roma viene ucciso Ignazio di Antiochia: le sue lettere rimarranno nella memoria della Chiesa. La trafila dei martiri dei primi secoli è interminabile: Clemente, Giustino, Apollonio, Prudenziana, Prassede, Lorenzo, solo per citarne alcuni.

L’elemento interessante di queste vicende dei martiri è che esse, nel volgere di pochi anni, usciranno dai libri di storia per entrare trionfalmente in quelli di spiritualità. Sulla possibilità del martirio i cristiani costruiranno impegnativi itinerari di formazione. Intuendo che, all’orizzonte ultimo del proprio cammino, vi può essere la totale identificazione con la vicenda di Cristo, tutta la vita del cristiano ne esce fortificata. Si predica che l’esistenza è un combattimento, da portare avanti sino alla fine, senza cedimenti. Tertulliano identificherà la figura del martire con quella di Cristo. Ignazio di Antiochia supplica i suoi fedeli perché non lo trattengano, ed egli possa offrire se stesso come olocausto. Nei racconti di martirio si crea quella sottile sovrapposizione di trame, per cui il supplizio del Maestro diventa il canovaccio letterario per descrivere la morte del discepolo. Poche altre opere incontrarono fortuna, nella Chiesa antica, quanto gli atti dei martiri. Per il momento si tratta di libercoli, ma non faticheranno a mutarsi in costruzioni letterarie ridondanti e pompose. Dalle utopie della comunità cristiana antica sgorgano copioni che solo parzialmente hanno a che fare con la storia. Il ricordo di un martire si fonde con elementi immaginifici e soprattutto con le credenze della nuova comunità religiosa. Appartengono al genere delle storie “poietiche”, che tengono un occhio sul passato, ma che soprattutto guardano al futuro, offrendo ai fedeli della giovane religione nuovi calchi di comportamento a cui ispirare la propria vita.

La terza figura spirituale degli inizi è l’asceta. Molto prima della grande espansione monastica dei secoli V e VI, l’Occidente vede sorgere, per gemmazione spontanea, diversi cenobi, soprattutto femminili. Già nel II secolo le cronache attestano l’esistenza in Roma di circoli di vergini consacrate, che vivono un intenso legame spirituale con Gesù Cristo, e adottano uno stile di vita austero. Il loro numero doveva essere ragguardevole. Centinaia, forse migliaia.

Solo a partire dal IV secolo questi gruppi di vergini consacrate entrano in più diretto contatto con le intuizioni del monachesimo egiziano, e ne subiscono l’influenza. Ma per lungo tempo sono una realtà sostanzialmente autonoma. Le corrispondenze di San Girolamo ci restituiscono uno spaccato di questo mondo. Roma concepisce una generazione di matrone, spesso provenienti da famiglie aristocratiche, che desiderano porre se stesse al servizio di Dio. La loro giornata è scandita dalla preghiera e dallo studio. Vivono sobriamente e aprono le loro case ai bisogni di tutti. Qualcosa di simile avviene, più o meno negli stessi anni, anche a Verona dove si costituiscono cenacoli di vergini. Ma si può citare anche l’esempio di Eusebio da Vercelli che riunì il clero della sua diocesi in piccoli focolari. Questi gruppi di cristiani ferventi saranno un faro per le loro chiese locali: si trasformeranno in centri d’irraggiamento spirituale. Chi entra in contatto con essi, ne esce fortificato. Queste forme, nella storia dell’osservanza religiosa, sono anche un esempio originale ed interessante: manifestano la possibilità di una consacrazione senza clausura, che porta ad un’immersione nel mondo e ad una condivisione della fatica di tutti gli uomini. Prime cellule attive nell’assistenza dei poveri, spesso diventeranno il supporto umano e spirituale della struttura pastorale della Chiesa.

Ma sono esperienze di vita breve. Un nuovo mondo bussa alla porta. Di lì a poco il collasso dell’Impero romano metterà in crisi la struttura sociale che si era da lungo tempo sedimentata. E soprattutto dall’Oriente sta per arrivare una forza propulsiva del tutto nuova, animata da un dinamismo sconvolgente, che in breve farà terra bruciata, da un punto di vista spirituale, di tutte le forme religiose che gli si avvicinano. Si tratta del monachesimo.

L’alto medioevo: l’affermazione del monachesimo. Il medioevo nasce dal difficoltoso connubio di due mondi che si erano a lungo combattuti: i latini, da una parte, creatori di quello sbalorditivo strumento amministrativo che fu l’Impero romano, e le popolazioni germaniche dall’altro, che da secoli stanziavano oltre i corsi dei grandi fiumi centroeuropei: il Reno, l’Elba, il Danubio. A partire dal V secolo, non senza preavvisi, qualcosa ruppe irrimediabilmente l’equilibrio tra questi due mondi ostili. È l’epoca delle invasioni barbariche, dapprima semplici incursioni di confine, poi migrazioni d’intere popolazioni, che calarono fin nel cuore dell’Impero, provocandone il crollo.

L’incontro si rivelò presto essere uno scontro. Solo raramente i nuovi popoli invasori mirarono a un’assimilazione delle istituzioni e delle forme culturali presenti sul suolo italico. Il più delle volte agirono per annientamento. Normalmente gli storici dipingono a tinte fosche quest’epoca. Per l’Occidente è un tempo di vuoto istituzionale, di calo demografico, le città si spengono. La stessa Roma finisce con l’essere ridotta a un grumo di case.

In questa situazione di crisi la Chiesa si trovò, suo malgrado, a essere l’unica erede della sapienza antica. Salvò il salvabile di quel mondo che fino a pochi decenni prima le procurava sofferenze, e abbracciò l’affascinante sfida rappresentata dai nuovi popoli entrati sullo scacchiere occidentale. Era destino che i due universi lontani dovessero pazientemente avvicinarsi, parlarsi, fino a concepire una nuova forma di integrazione. Sotto le ceneri dell’Impero romano, calda come la brace, covava l’idea d’Europa.

Il grande anello di congiunzione tra i due mondi, capace di produrre una nuova civilizzazione dell’Italia e di tutto il continente, sarà un’istituzione che affonda le sue radici a Oriente e che troverà un’entusiastica accoglienza nelle terre dell’ovest: il monachesimo. La sua rilevanza è talmente evidente che qualche commentatore parla di “monasticizzazione” della Chiesa medievale. Intendiamoci: non mancano in quest’epoca figure di vescovi capaci di illuminare con il loro carisma la vita spirituale della Chiesa. Ma si ha l’impressione che il loro contributo sia solo un affluente secondario rispetto a quella che è la grande corrente del primo millennio: il monastero. Il grosso delle acque, anche da un punto di vista spirituale, passa tutto di lì.

La mappatura del fenomeno monastico non è semplice, anche perché, nonostante le apparenze, esso non è per nulla monolitico. Dietro la parola “monachesimo” si celano infatti intuizioni ed esperienze diverse. È, poi, un fenomeno mutevole. L’istituzione monastica ha dimostrato, lungo i secoli, una vitalità eccezionale: ha mutato forme, ha operato continue correzioni di rotta, ha integrato nuove intuizioni. Data per morta, è continuamente risorta dalle sue ceneri, riformulando la radicalità degli inizi in contesti del tutto nuovi. Di questa vicenda citiamo solo gli episodi più significativi.

Il primo nome da citare è Giovanni Cassiano. Uomo vagabondo, nato in Dacia, compie, nel corso della sua esistenza, un buon periplo del Mediterraneo, tramandando alla fine, nelle terre di Provenza, il fuoco monastico che aveva conosciuto nelle regioni d’Oriente. Le sue opere traducono per i latini le intuizioni e le imprese dei padri del deserto. Rappresenteranno la base ideologica di cui l’ascetismo nostrano avvertiva prepotente il bisogno. I monasteri italiani cominciano così a rimasticare di psicologia, di introspezione, di discernimento degli spiriti. Questo patrimonio si accrescerà, anche se non di molto, sotto la penna nei monaci latini. Si ha infatti l’impressione che il monachesimo occidentale, in queste dottrine così impegnative, non riesca a spingersi molto oltre quel limite cui erano giunti i monaci d’Oriente. Vi aggiungerà le poche cose di cui era veramente esperto: un po’ di moderazione, e un acuto senso pratico.

L’unico virgulto pienamente occidentale del nuovo cammino ascetico avvizzì, ahimè, poco dopo il suo nascere. Episodio storico breve, ma denso di contenuti, val la pena essere richiamato. Il suo ispiratore fu un uomo capace di rappresentare da solo un’intera generazione: Flavio Magno Aurelio Cassiodoro. Fu lui a fondare, nell’odierna Calabria, il celebre Vivarium. Distante dalla scena del mondo, estraneo alla politica, Vivarium sarà una delle istituzioni che meglio immagineranno la fisionomia del nuovo mondo. Cassiodoro raccoglie attorno a sé un gruppo di monaci provenienti da paesi diversi, con loro prega, attingendo parole dal Salterio. Si adopera perché non vada disperso l’immenso patrimonio della cultura classica. Il suo monastero è votato a un lavoro di natura soprattutto intellettuale. Si trascrivono manoscritti antichi, religiosi o pagani che siano. È sorretto dalla convinzione che nessun fremito d’intelligenza, per quanto profano, sia lontano dalla fede. Animo riconciliatore, come buona parte del monachesimo occidentale, Cassiodoro crede che la fede in Gesù non annienti nulla, ma inveri ogni autentica ricerca dell’uomo.

Tralasciando le esperienze basiliane del sud Italia, veniamo al grande protagonista del monachesimo medievale: Benedetto da Norcia. Le tappe salienti della sua vita sono descritte nei Dialoghi di Gregorio Magno. Vissuto a cavallo tra il V e VI secolo, ha regalato alla Chiesa uno strumento di formidabile importanza: la Regola. Come risaputo, tale strumento non è del tutto nuovo. Nei primi secoli monastici molti si erano cimentati nell’impresa di offrire un trattato giuridico e spirituale che facesse da riferimento. Molti di questi testi erano più che apprezzabili. Benedetto legge e sperimenta gli strumenti fino ad allora in uso, e partendo dalla sua vicenda personale cerca di fare sintesi. Ne uscirà un testo breve, sobrio, improntato a moderazione, che diventerà fondamentale per il futuro del monachesimo.

La Regola di Benedetto brilla per alcune semplici scelte. Il monastero viene presentato come una scuola dove si apprende il servizio di Dio. La vita spirituale del cristiano è scandita dalle due fonti insostituibili della fede: la liturgia e la Parola. C’è un primato dell’oggettività cristiana che si manifesta fin dall’incipit della Regola: “Ascolta, figlio mio!”. Nutrito da questi alimenti, il monaco intraprende il suo cammino di ricerca e di adesione a Dio. Tutto è pervaso da un forte afflato spirituale, e Cristo è la ragione ultima di ogni ascesi. Il monastero diventa così luogo di crescita interiore e di solidarietà. All’abate è affidato il compito di vigilare sulla vita comunitaria, di rincuorare i pusillanimi, di correggere gli indisciplinati, di accostare tutti con tenerezza. Nella vita spirituale rientra anche la pratica del lavoro. Se la preghiera del monaco è fervente, il lavoro quotidiano non lo avvilirà. Benedetto raccomanda di affaticarsi sotto la potente mano di Dio, e non per una forma di compensazione interiore. L’ora et labora insegnerà alla civiltà occidentale a mettere un freno all’inquietudine, a cercare un equilibrio interiore che possa far da base a ogni impresa. La diffusione della Regola non è immediata, ma sarà comunque totale. Riuscirà a scalzare, per esempio, la regola dei monaci irlandesi che erano allignati a Bobbio, sulle montagne del piacentino, sostituendola in toto. Eppure si trattava di una delle più importanti normative dei primi secoli, un testo d’avanguardia che aveva sorretto la ri-evangelizzazione dell’Occidente.

L’epoca carolingia, in quest’opera d’unificazione normativa della legislazione monastica, sarà la più propizia. Anche se sopravvivono altri ordini religiosi, distinti da quello benedettino, la Regola diventa il riferimento insostituibile della tradizione monastica occidentale. È come se s’imponesse un unico pentagramma, su cui poi ritmare qualsiasi nuova melodia. E di nuove melodie, dalla fantasia degli uomini e dello Spirito, ne sgorgheranno presto copiose. Esse, però, non metteranno più in discussione la Regola, che sembra ormai intoccabile nella sua autorevolezza, ma cercheranno di applicarla in modulazioni differenti, a seconda dei diversi contesti sociali in cui il fenomeno monastico si trova a sbocciare.

La nazione che, in quest’ottica, manifesterà la più grande vitalità è senza dubbio la Gallia. Da lì prorompono i due grandi movimenti che caratterizzeranno l’Occidente posteriore: Cluny e Cîteaux. Le loro novità si spanderanno in Italia contribuendo a quella rinascita collettiva che si può riscontrare già a partire dal secolo XI. Cluny, con la sua difesa della libertà ecclesiale, sarà la grande ispiratrice della riforma gregoriana. Il movimento cistercense, con la sua attenzione alla persona, con la sua insistenza sul dovere lavorativo, con il suo nucleo mistico sempre palpitante, diventerà la forza capace di ri-colonizzare, sia da un punto di vista spirituale che economico, l’Europa.

In Italia i centri protagonisti di quest’epopea sono numerosi: Novalesa, San Pietro in Civate, Fonte Avellana, Vallombrosa, Montevergine, Camaldoli, Serra san Bruno. Ma più che per le abbazie madri il rinnovamento religioso passa per quel pulviscolo di piccoli monasteri e di eremitaggi che copre per intero il territorio della penisola. Il monachesimo medievale ebbe una capillarità assimilabile a quella delle pievi. Le abbazie divengono così centri spirituali, economici e politici. Questa rilevanza sociale qualche volta produsse i suoi grattacapi e le sue crisi. Nati per inseguire l’ideale del deserto, i monasteri si trovarono spesso a dover fare i conti con quel vecchio mondo che li tallonava da vicino, e che qualche volta li marcava un po’ troppo stretti. Le riforme monastiche, frequentissime per tutto il corso del medioevo, nascono dall’esigenza di spogliarsi di troppi involucri, ormai ritenuti paralizzanti, e di riconquistare la grazia e l’agilità degli inizi.

Sulla spiritualità altomedievale, fuori dalla saga dei monasteri, poco resta da dire. La cura spirituale nei confronti dei laici e del clero è minima. Permane l’idea che all’esterno del recinto monastico vi sia solo una umbra christianitatis. Probabilmente è anche vero. La gente semplice è divorata più dalla fregola del meraviglioso che dalla fede autentica. In tutto l’altomedioevo non s’incontrano laici devoti che reggano il paragone con i monaci. Bernardo di Chiaravalle, Pier Damiani sono scrittori assoluti, querce che non lasciano trapassare luce né respiro agli sparuti alberelli che crescono ai loro piedi. Tutti ne sono consapevoli, e perfino i vescovi, quando vogliono mettere mano alla decadenza umana e spirituale delle loro genti, non fanno altro che tentarne, in forme più o meno velate, una monasticizzazione.

Ma c’è nostalgia d’altro, di un tempo migliore. Gioachino da Fiore, monaco dell’Italia meridionale, intuisce che il vecchio mondo sta ormai scricchiolando. Lo dirà in termini che rasentano l’eresia, e che qualche problema incontreranno con l’autorità ecclesiastica. Dal suo eremo, Gioachino sogna l’avvento non di una nuova obbedienza religiosa, più cristallina delle precedenti, l’utopia di un mondo totalmente retto dagli spirituali. Le sue previsioni non si avverarono, ma qualcosa di nuovo effettivamente di lì a poco vedrà la luce.

La rinascita del secolo undicesimo. Dopo secoli di crisi, il basso medioevo vede una fiorentissima rinascita urbana. La superficie dell’Europa si ricopre di nuovi insediamenti umani. Tra le mura dei costituendi agglomerati la gente s’incontra, s’aggrega, discute, s’imbarca nella costruzione di ambiziosi edifici religiosi come le cattedrali. Nasce anche una nuova classe sociale, la borghesia, ben distinta dal clero e dagli aristocratici, abile e intraprendente, capace di accumulare in poco tempo enormi ricchezze. Di questo rinnovamento l’Italia sarà l’avanguardia.

In questo contesto s’impone una nuova domanda spirituale. Se fino ad ora l’ideale di perfezione era appannaggio esclusivo di monaci, si registra ora una fioritura della radicalità evangelica che parte soprattutto dal basso, dal mondo dei laici. I segnali di risveglio sono più di uno. La gente comincia ad utilizzare nuovi strumenti di preghiera, diversi da quelli canonici. Sono le laudi, forme di orazione che rifiutano il linguaggio clericale per adottare il vernacolo. Ormai si sta frantumando in identità nazionali, anche da un punto di vista spirituale, un mondo che fino ad allora aveva percorso un sentiero comune. Ci sono poi le confraternite, aggregazioni laicali che testimoniano un modo di vivere la fede profondamente comunitario. Presto vi sarà il primo esempio di santità che nasce a margine del chiostro e dell’episcopio: si tratta di sant’Omobono, di professione mercante, patrono della città di Cremona.

Questo risveglio evangelico, spesso vissuto in opposizione al ruolo del clero, prenderà un doppio binario, a seconda dell’esito che vorrà perseguire. Da una parte abbiamo la corrente contestataria, che sognerà l’edificazione di una Chiesa graniticamente pura. In questo filone possono essere annoverati diversi fenomeni, più o meno legati allo stesso progetto: la pataria, Arnaldo da Brescia, il catarismo… Il filo conduttore di questi movimenti è la lotta alla mondanità della curia, la predicazione popolaresca, lo spiritualismo, il rifiuto d’ogni seduzione secolare. Si tratta di una schiera di uomini integri, fautori di una Chiesa “popolo di eletti”, che però correrà sempre il rischio di distruggere le mediazioni della fede, in primis l’apparato sacramentale. Dall’altra parte avremo un cammino di riforma più prudente, meno illuministico, che si sposa con i passi lenti della Chiesa, che non coltiva forme di messianismo tanto pericolose quanto illusorie. Sarà la strada intrapresa soprattutto dal francescanesimo.

Rampollo di una famiglia borghese, figlio dell’Italia dei comuni, Francesco d’Assisi è il genio spirituale che interpreta un’epoca. Al centro della sua spiritualità si asside “madonna Povertà”. Già i cistercensi seguivano poveri il Cristo povero, ma si ha l’impressione che sulle labbra di Francesco il programma assuma una coloritura prima sconosciuta. Nel nuovo contesto sociale, il pauperismo va di pari passo con il rifiuto di un mondo di avidi, consacrati all’altare del guadagno. Scegliere di perdere, anziché di lucrare, è la nuova forma della carità. Preghiera intensa, affezione spirituale, cristocentrismo, gioia e semplicità saranno i cardini del movimento francescano. Il genio del Poverello travalicherà il contesto religioso per lasciarci le prime composizioni in lingua italiana. Su tutte, campeggia il Cantico delle creature, preghiera sgorgata da un fervore profondo, che, da sola, terrà testa al pessimismo dei catari, capaci di leggere solo in modo negativo il mistero della creazione.

Nasce così una forma monastica totalmente nuova. La stessa ubicazione dei conventi francescani apparirà singolare. Fuori dalla città, ma non troppo: il tempo sufficiente per raggiungerla con un breve tratto di cammino, e predicare in essa. La fuga mundi arretra di parecchi chilometri e bada a non recidere il legame con la società. Come argutamente ha osservato qualche studioso, dopo un monachesimo impegnato ad edificare un mondo parallelo, e dopo un’orda di focosi predicatori tesi a raddrizzare le storture della società, c’è finalmente una vita religiosa che ama il mondo. Qualche nome di frate particolarmente indicativo per i destini della penisola? Antonio da Padova, Bonaventura da Bagnoregio, Ubertino da Casale, Giacomo della Marca, Jacopone da Todi, Bernardino da Siena. Interessante sarebbe seguire anche la linea della mistica francescana, soprattutto femminile: qui svettano le figure di Angela da Foligno e di Margherita da Cortona. Anche Chiara di Montefalco, benché appartenente all’ordine agostiniano, può essere inclusa nella discendenza spirituale del Poverello.

A lato del grande fiume francescano si devono annoverare diversi fenomeni interessanti. L’inquietudine del nuovo mondo trova il patronato di vivaci direttori spirituali ed è all’origine di diverse istituzioni. Ci sono fenomeni fugaci, movimenti incapaci di darsi un profilo istituzionale, come i flagellanti e i disciplinati. Ma ci sono anche nuove famiglie religiose, con una fisionomia riconosciuta, come gli Umiliati e l’Ordine dei servi di Maria.

Un discorso a parte va fatto per i domenicani. Nati oltralpe, molto attivi nella lotta all’eresia catara, trovarono in Italia un terreno fertile di crescita, e alcune figure capaci d’illuminare con la loro personalità l’intera Chiesa. Citiamo Jacopo da Varagine, autore della Legenda aurea, lo scritto agiografico più diffuso per tutto il medioevo; Caterina da Siena, che coniuga la sua esperienza mistica con una partecipazione politica alle vicende del tempo; Girolamo Savonarola, guida dei piagnoni di Firenze; Tommaso d’Aquino, autore di quella sintesi monumentale di pensiero che è la Summa. A tal proposito, non si deve tacere un’importante novità di quest’epoca. Nel 1088 viene creata l’università di Bologna. A questa fondazione ne seguiranno rapidamente diverse altre. In breve, l’intero territorio europeo verrà punteggiato da centri intellettuali. Grande protagonista di quest’epoca pioneristica sarà la teologia scolastica. Nelle accademie s’impone un modo di ragionare e di pensare rigoroso, asciutto, anaffettivo. Nel bene e nel male, la scelta sarà gravida d’importanti conseguenze. Il chiostro e l’episcopio erano stati, fino ad ora, il grande utero d’ogni riflessione su Dio. La patristica e la teologia monastica avevano consegnato alla Chiesa delle opere capaci di integrare strettamente la speculazione teologica con l’afflato spirituale e la preoccupazione pastorale. Negli emicicli delle università, questo non avverrà più. La solidità di una costruzione scolastica si accompagnerà con la spoliazione delle sue pareti e con il poco spazio accordato all’emotività. Per gli spirituali sarà uno shock. Nelle quaestiones disputate dai dottori, troveranno sempre più difficilmente acqua per estinguere la loro sete. Per il momento non s’incrina quell’unità tra soggetto e oggetto di ricerca che è la base di ogni buona teologia. Ma le premesse sono poste. Di lì a poco si aprirà quella tensione tra teologia e mistica che caratterizza la Chiesa dei secoli successivi, fino a quando – ma la storia è recente – qualche autore contemporaneo cercherà di porvi rimedio.

Umanesimo devoto. Dalla seconda metà del secolo XIV, cominciando da Firenze, e poi in tutta la penisola, s’impone un movimento di vita e di pensiero che desidera pervenire a una nuova sintesi. L’Italia è la terra natale del Rinascimento. In cosa consista questo movimento, e che finalità abbia, è difficile sintetizzarlo in poche battute. Normalmente lo si identifica con una nuova attenzione per l’uomo. Alla comunità si sostituisce il singolo; alla trascendenza, l’immanenza; all’escatologia, la storia. È un tempo in cui si riscopre, al di là della scolastica e della patristica, l’eredità greca e latina. Si torna ai classici: s’intravvede in essi una sapienza profonda, che chiede di essere integrata in un’ottica evangelica. Sbaglieremmo se interpretassimo questo fenomeno come una sorta di secolarizzazione ante litteram. L’umanesimo paganeggiante è, tutto sommato, una corrente minoritaria del grande Rinascimento italiano: laicismo radicale e ateismo sono fenomeni significativi solo a partire dal XVIII secolo. Ciò che si chiede, in quest’alba dell’epoca moderna, è di approdare a un nuovo schema, più vitale, diverso da quello elaborato dalla scolastica decadente.

Il fenomeno ebbe i suoi riflessi nella spiritualità. Francesco Petrarca, Coluccio Salutati, Leon Battista Alberti, Lorenzo Valla, Maffeo Vegio, Vittorino da Feltre non furono uomini di settore, interessati solo alle lettere, o all’architettura, o alla filologia. Rappresentarono per l’Italia ciò che Erasmo da Rotterdam fu per l’intera Europa: dei geni completi. È in quest’epoca che si sogna l’avvento di una litterata devotio. Questi uomini di fede – qualche volta travagliata, ma il più delle volte serena – ascendono dalla sapienza antica per trasfigurare tutta la loro erudizione nell’universo evangelico. La filosofia morale dei greci e dei romani diventa la base su cui costruire il cristiano. Il vir bonus è la grande premessa per veder sbocciare il fidelis. Il progetto era già stato accarezzato dai grandi della scolastica, e verrà riproposto ancora infinite volte nel secolare travaglio del pensiero cristiano, ma qui, nel mondo degli umanisti, più che un’elucubrazione speculativa sembra essere un progetto pastorale, una vera missione. L’educazione dei giovani e l’impegno sociale diventano così doveri religiosi.

Forse la loro fu una spiritualità più d’elite che di massa. La religiosità del popolo e del popolino aveva attraversato il medioevo senza subire grossi scossoni. Benché la storia recente avesse registrato il grande ingresso dei laici nel mondo delle passioni ecclesiali, il modo di pregare del volgo rimaneva, tutto sommato, immutato, da secoli a questa parte. Tra superstizione e religione il confine è labile. La fede è più viscerale che razionale; il numinoso avvolge l’essenza di ogni realtà; l’uomo avverte un profondo bisogno di stupore. Spesso non illuminate da una teologia equilibrata, tutte le pratiche di pietà dell’uomo medievale (pellegrinaggi, culto delle reliquie, devozione eucaristica) risentono dell’interferenza di un sottofondo distorto.

Nei loro progetti di riforma gli umanisti devoti rimasero così isolati: una punta troppo avanzata rispetto al grosso della truppa; ma erano destinati ad aprire la breccia. Non si capirebbe il Barocco, la chiesa della Riforma e della Controriforma, senza questo trasalimento innovatore.

La spiritualità della riforma cattolica. La riforma cattolica nasce molto prima del Concilio di Trento. Già sul finire del Quattrocento, attecchiscono sul suolo della penisola istituzioni profetiche, desiderose di provvedere a una riforma della vita ecclesiale. Queste istituzioni si moltiplicheranno di anno in anno, per autogenesi, e incontreranno nei decreti del Concilio un’entusiastica approvazione. Dall’assise tridentina uscirà una Chiesa dal volto rinnovato, zelante nel progetto di evangelizzazione delle masse, impegnata nell’apostolato e nella missione.

Vescovi e preti saranno i grandi protagonisti di questa conversione. A pensarci, è una novità. Leggendo globalmente la storia della Chiesa, si ha infatti l’impressione che, dopo la grazia dei primi secoli, la strada maestra della spiritualità sia stata percorsa soprattutto da monaci e laici. Nella letteratura del basso medioevo non è difficile imbattersi in rampogne, spesso sarcastiche, indirizzate a vescovi e preti secolari. I primi troppo occupati da beghe terrene per assurgere a fari di vita spirituale; i secondi talmente impreparati al loro ministero da venir esclusi – nella Summa di san Tommaso – dal novero degli “stati di perfezione”. Una situazione drammatica e contraddittoria che venne affrontata con ritardo. A partire dal XV secolo qualcosa comunque cambiò: nasce la “Chiesa tridentina”.

Nell’arco di pochi decenni Roma diventa il covo di una vasta famiglia di chierici regolari. Si tratta di preti che, con l’aiuto di un’istituzione riconosciuta, si sottopongono a una rigida regola di vita spirituale. Teatini, barnabiti, somaschi, camilliani, oratoriani, scolopi… per finire con i grandi protagonisti della Chiesa tridentina: i gesuiti. Le loro innovazioni disciplinari e spirituali diventeranno presto patrimonio di tutta la Chiesa. Nell’arco di qualche decennio esse si propagheranno soprattutto al gigante addormentato dell’organismo ecclesiale: il clero diocesano.

Tenere un registro delle novità introdotte dai chierici regolari è impervio, vista la loro eterogeneità. Alcune caratteristiche comuni balzano però agli occhi. Si tratta di sacerdoti desiderosi di fede profonda; essa viene alimentata specialmente attraverso l’orazione mentale. Se è vero che la devotio moderna non riverbera in Italia gli stessi influssi che ebbe nel nord Europa, qualcosa della sua sensibilità s’irradia comunque anche al di qua delle Alpi. La preghiera si trasforma in meditazione, ahimè allentando di un poco il suo radicamento biblico. Al contrario, è tenacemente custodito il legame con l’eucaristia, che diventa la grande architrave su cui poggiare tutta la spiritualità cattolica. Le chiese barocche innalzano nel loro centro tabernacoli sublimi, come mai la cristianità ne ebbe avuti. In questi decenni nasce e si afferma la pratica delle quarantore.

Si completa un percorso che s’era inaugurato con l’affermazione degli ordini mendicati: l’unione con Dio, più che essere il fine ultimo della vita cristiana, ne è il grande motore. Dal cuore che trabocca d’amore, nasce lo zelo per le anime. I libri di ascetica propagandano l’abnegazione quale virtù cristiana. Gli esiti di questo sommovimento spirituale diventeranno presto visibilissimi: premura per gli ammalati, fondazione di scuole, difesa dei poveri, protezione degli orfani, formazione del laicato, sostegno del clero. La santità si misura sulla scala di un apostolato generoso. Qualche nome degli artefici di quest’audace impresa? Filippo Neri, Gerolamo Emiliani, Luigi Gonzaga, Roberto Bellarmino, Antonia Maria Zaccaria, Camillo de Lellis, Giuseppe Calasanzio. Alcuni di questi giganti non sono di culla italiana, ma in Italia, e soprattutto a Roma, lasciano un segno indelebile del loro passaggio. Il Cinquecento ha regalato allo Stivale un’inattesa primavera di santi.

Il Tridentino, come detto, trasmetterà le intuizioni di questi pionieri al clero secolare. Il protagonista di quest’operazione sarà Carlo Borromeo. È lui a plasmare la fisionomia del sacerdote dei secoli successivi e a imporla in larghi strati della penisola. La pagina del buon pastore diventa la linea guida della riforma ecclesiale. Dalla fucina dei seminari fuoriescono preti ansiosi, che si sentono sempre in difetto con se stessi, e soprattutto con il grande ideale che hanno accarezzato negli anni di formazione. Il buon parroco trema al pensiero della dannazione eterna. Sente il dovere di trascinare ogni anima a lui affidata alla salvezza. Predica, fonda scuole di dottrina cristiana, corregge i costumi deformi, sprona tutti a inginocchiarsi nel confessionale per chiedere perdono dei propri peccati. L’accompagnamento spirituale è curato meticolosamente. Tutti vengono edotti nella pratica del combattimento degli spiriti: l’autorità, in questo campo, è il sacerdote teatino Lorenzo Scupoli. C’è poi la grande frontiera della carità e dell’apostolato: poche altre istituzioni, come le parrocchie, si sono dimostrate nei secoli più pronte nel venire incontro ai bisogni dei poveri. Forse mancherà in Italia una scuola di spiritualità sacerdotale paragonabile a quella del Seicento francese. I riformatori cismontani hanno un’indole più pragmatica, meno avvezza a speculazioni. Nella formazione delle coscienze e nella pratica della pietà cristiana non faranno altro che appoggiarsi ai libri pii dell’età moderna, in primis agli Esercizi di Ignazio di Loyola.

In quest’opera di rinnovamento spirituale i laici non rimasero esclusi. Anzi, si può leggere in diversi capitoli della storia moderna un certo loro protagonismo. È il caso della mistica Caterina da Genova e di Ettore Vernazza, fondatori e animatori dell’Oratorio del Divino Amore. Nelle loro vicende si può leggere una costante del secolo sedicesimo: l’esperienza mistica non vive racchiusa in una torre d’avorio, ma si sposa con l’impegno apostolico, spesso spinto fino al suo limite estremo. Lo stesso schema si replicherà, con le dovute proporzioni, in quel grande universo delle confraternite che, come il pulviscolo, occuperà tutti gli interstizi del mondo ecclesiale. La partecipazione dei laici alla vita della Chiesa è mediata da queste associazioni di fedeli, dove i partecipanti si obbligano ad alcune pratiche di pietà e all’assunzione di un servizio ecclesiale.

Intanto la devozione dei cristiani prosegue lungo un sentiero ormai famigliare, con qualche piccola novità. La via crucis, il rosario, la devozione al Sacro Cuore, le già citate quarantore appartengono al panorama spirituale di tutte le parrocchie. Altre devozioni sono rilanciate: pellegrinaggi, culto dei martiri, di san Giuseppe, degli angeli. Spesso le comunità cristiane intraprendono un cammino collettivo di conversione attraverso le missioni al popolo. Leonardo da Porto Maurizio ne sarà, di lì a poco, il grande apostolo. S’impongono, poi, grazie alla recente invenzione della stampa, libretti pratici di devozione. Essi aiuteranno i fedeli più devoti a sostenere la meditazione. Una pietà intima e fervida riempie di bisbigli la penombra delle chiese, qualche volta rischiando di recidere il suo collegamento con la Parola e la liturgia. Di lì a qualche decennio, qualcuno lo lamenterà.

Poco si è detto di alcune figure interessanti dell’epoca tridentina, della fondazione dei cappuccini e dell’opera del monaco Ludovico Barbo, dell’esperienza mistica di Caterina de’ Ricci e di Maddalena de’ Pazzi, ma il quadro è ormai completo. Il Cinquecento ha donato alla Chiesa una cornice spirituale e pastorale solida, che resisterà a lungo, e che non verrà cambiata nella sua sostanza se non con il concilio Vaticano II.

Tra quietismo e giansenismo. Ne è prova un fatto. Il Seicento e il Settecento regaleranno all’Italia una schiera di ottimi scrittori e predicatori, ma ormai privi di originalità. Lorenzo da Brindisi, Tommaso da Olera, Carlo da Sezze, Paolo Segneri, Gregorio Barbarigo, Giovan Battista Scaramelli si muovono in un campo dai confini ben tracciati. Pochi si avventurano fuori di esso. Tra i pochi che tentano la sortita, citiamo il solo nome di un eruditissimo sacerdote modenese: Ludovico Antonio Muratori. Ma il suo è un caso isolato. Solo radi fenomeni riusciranno a turbare la tranquillità della Chiesa nei due secoli che conducono all’incendio della rivoluzione francese. Uno di questi sarà un’eresia tipicamente spirituale: il quietismo.

Nato dalla predicazione di Miguel de Molinos, prete aragonese trapiantato a Roma, il quietismo incontrerà un terreno fertile soprattutto nei paesi di lingua latina. Forse perché bisognosi di una vita spirituale meno contorta, più attenta alla dimensione contemplativa che a quella ascetica, molti ne resteranno affascinati. In Italia circoli di simpatia quietista sono segnalati a Milano, in Valcamonica, in Piemonte, nelle Marche, in Umbria, in Sicilia. Nella schiera dei sostenitori segnaliamo figure di spicco, il paladino è il cardinal Pier Matteo Petrucci. Non entriamo nella questione storica della condanna del quietismo. Ciò che interessa è qui rilevare le conseguenze della censura imposta dall’autorità ecclesiastica su quest’ambiguo fenomeno. Lo scacco a questa corrente di pensiero allungò un’ombra sinistra sulle manifestazioni mistiche, soprattutto se spagnoleggianti. Comincia quello che H. Bremond e L. Cognet definirono come il crépuscule des mystiques. Dell’entusiasmo di questi uomini non ci si fida più. Nei decenni successivi la storia ne registrerà ancora qualche voce (per l’Italia citiamo almeno i nomi di Veronica Giuliani e di Paolo della Croce), ma, generalmente, essi sono guardati con sospetto. Il lato più festivo della vita cristiana è così represso. Si dovrà attendere la fine dell’Ottocento perché la mistica torni a essere liberata da lacci e sospetti. Se il quietismo verrà estirpato in tempi brevi, non altrettanto si può ripetere per un movimento che vide la luce nel Seicento e che perdurò per almeno due secoli: il giansenismo. Benché condannato dall’autorità ecclesiastica, esso rivelò una vitalità sorprendente. L’Europa si popola di crocifissi inquietanti, con le braccia strette e tese verso l’alto, quasi a rappresentare una visione tragica di Dio e dell’uomo. La centrale teologica del nuovo movimento è da collocarsi in Francia e nei Paesi Bassi. In Italia esso avrà una diffusione capillare. Più che una setta fu una tendenza, spesso accolta dagli uomini migliori. Il simpatizzante giansenista brama un ritorno della Chiesa alla purezza evangelica, abbraccia una morale austera, sorretta da una pietà intima. Aborrisce il formalismo. In Italia desiderò una riforma globale della Chiesa, una riforma destinata a transitare più dalla pastorale e dalla spiritualità che dal dogma. Gli editti del sinodo di Pistoia, in questo, sono eloquenti.

A far da contraltare a questa tendenza si trovarono in Italia anzitutto i gesuiti e poi un mite vescovo del sud Italia: Alfonso Maria de’ Liguori. Soprattutto quest’ultimo preparò il mondo spirituale italiano a entrare nell’Ottocento. Al rigore e al pessimismo del pensiero giansenista Alfonso non contrappose il lassismo, ma una pietà semplice e luminosa, non angosciata, capace di spandere attorno a sé un’imperturbabile serenità. All’incirca metà della sua sterminata produzione letteraria riguarda tematiche di spiritualità. Saranno libri letti per almeno due secoli. La preghiera è collocata al centro dell’esperienza cristiana: attraverso di essa il cristiano ama Dio. Se l’uomo, a causa della sua natura creaturale, è un mendicante, non per questo deve disperare: Dio gli dona tutto ciò che chiede con umiltà. Alfonso insegna ad avere una cordialità quasi ingenua con i misteri della fede. Componendo il “Tu scendi dalle stelle” riscatta la pietà affettuosa e creativa delle anime semplici.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., Storia dei santi e della santità cristiana, I-XI, Grolier, Milano 1991; AA.VV., «Italie», DSp, VII, 2141-2311; AA.VV., Storia della spiritualità, I-VII, Borla, Roma 1985-2002; AA.VV., Storia della spiritualità, I-X, EDB, Bologna 1970-; G. De Luca, «Introduzione», Archivio Italiano per la Storia della Pietà, 1 (1951) XIII-LXXVI; G. Dumeige, «Storia della spiritualità», NDS, 1543-1571; P. Crespi – G.F. Poli, Lineamenti di storia della spiritualità e della vita cristiana, I-III, Edizioni Dehoniane, Roma 1998-2000; G. Filoramo (ed.), Storia della direzione spirituale, I-III, Morcelliana, Brescia 2006-2010; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, SEI, Torino 1996; P.L. Guiducci, Mihi vivere Christus est. Storia della spiritualità cristiana orientale e occidentale in età moderna e contemporanea, LAS, Roma 2011; G. Pozzi, Grammatica e retorica dei santi, Vita e Pensiero, Milano 1997; P. Zovatto (ed.), Storia della spiritualità italiana, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2002.


LEMMARIO




Spiritualità - vol. II


Autore: Guglielmo Cazzulani

Tracciare, in poche righe, un quadro sulla spiritualità italiana degli ultimi centocinquant’anni è praticamente impossibile. Ci limitiamo pertanto a stendere qualche veloce pennellata. Tentando una sintesi, dovremmo probabilmente concludere che l’avvenimento macroscopico di questi decenni consiste nel progressivo manifestarsi del fenomeno dell’incredulità. Fino al secolo dei lumi – vuoi per convenzione, vuoi per intima persuasione di coscienza – era abbastanza naturale per l’uomo europeo professarsi religioso. Dalla fine del Settecento in avanti questo non capita più. Per i cristiani il problema non è più l’eresia, cioè il rapporto con altri credenti possessori di una differente visione di Dio, ma l’ateismo. Inizialmente questo confronto sarà, da una parte e dall’altra, aggressivo e bellicoso. Poi s’appianerà. La notte mistica di Teresa di Lisieux assume tonalità inedite per tutta la tradizione del Carmelo: “il velo della fede non è più un velo per me, è un muro che si alza fino ai cieli e copre le stelle”. Da lei il cristiano imparerà, se questo non offende Dio, a stare alla tavola dei peccatori, e a cibarsi del loro stesso pane di angoscia. Ma lasciando da parte questo scenario, cerchiamo di osservare i tratti salienti della spiritualità italiana, cominciando, più o meno, dal cammino che ha portato alla sua unità per arrivare fino ai giorni nostri.

Una carità profondamente religiosa. Ad inizio Ottocento nulla pareggia la vivacità del cattolicesimo piemontese. Torino è la locomotiva industriale, politica e religiosa di tutta l’Italia. Non si fatica a cogliere qualche nome giustamente famoso di questo cristianesimo d’avanguardia: Giuseppe Cafasso, Pio Brunone Lanteri, Giuseppe Cottolengo, Leonardo Murialdo, Francesco Faà di Bruno, Giovanni Bosco. Benché le loro vicende siano diverse, si può facilmente indovinare l’elemento comune che le interseca. La vita di fede di questi precursori, alimentata da intenso fervore, produce un cristianesimo militante, fortemente sbilanciato sul lato sociale e caritativo. Diventare santi vuol dire trasformare la società: di qui il programma spirituale dell’opera salesiana, tesa a formare tanto il buon cristiano quanto l’onesto cittadino. Guai però a confondere questi giganti dell’azione con generici uomini altruisti. C’è una radice di grazia che irrora le loro intuizioni. Se ci s’impegna in favore dei carcerati, per la gioventù difficile o per i fratelli deformi è perché prima si è nutrita la propria anima. La fiducia del Cottolengo nei confronti della Provvidenza è cieca; Giovanni Bosco intesse con la Madonna Ausiliatrice un legame di totale abbandono; Leonardo Murialdo indica nella preghiera la forza più potente del mondo. È la religiosità a far da tonico e ad irrobustire le molte opere che sorgono all’ombra del campanile.

Questo filone, che fonde armoniosamente l’orazione ardente con l’impegno sociale, diventerà presto caratteristica del cattolicesimo di tutta la penisola. L’Ottocento, e poi anche il Novecento, vede fiorire un’immensa distesa di esperienze caritative, contraddistinte da un valore “religioso”. La lista rischia di essere interminabile: Maddalena di Canossa, fondatrice delle Figlie della Carità; Gaspare Bertoni, padre degli Stimmatini; Lodovico Pavoni, uno dei più interessanti preti educatori dell’Ottocento; Gaspare del Bufalo; Vincenzo Pallotti, fondatore della Congregazione dell’Apostolato cattolico; Vincenza Gerosa e Bartolomea Capitanio, iniziatrici delle suore di Maria Bambina; Annibale di Francia; Giacomo Cusmano; Luigi Guanella, apostolo dei poveri più abbandonati; Luigi Orione; Carlo Gnocchi, uno dei preti-simbolo dell’Italia in guerra; Giovanni Calabria; Giovanni Piamarta; Giacomo Alberione, primo apostolo dei “mass media”. Si tratta di figure trascinanti, capaci di generare posterità, che rivestono anche un importante ruolo sociale. Difficile pensare alla storia dell’Italia senza passare per la loro testimonianza. Normalmente uomini e donne che hanno vissuto la consacrazione a Dio come un passo inappellabile, irrevocabile, definitivo. Da lì in avanti la loro esistenza è tessuta da una dedizione sempre più estrema a Dio e al prossimo. I settori d’apostolato frequentati da questi uomini dello Spirito sono praticamente sconfinati: poveri, infanzia abbandonata, devianza sociale, sanità, educazione… Le famiglie religiose nate da queste forti personalità imboccheranno due strade distinte. Alcune opteranno per una specializzazione di ambiti, prediligendo un particolare campo dove rendere la propria testimonianza. Altre preferiranno mantenere una fisionomia indistinta: il vero tesoro di un istituto non è l’opera che si svolge, ma il genio spirituale che l’ha motivata.

Poche sono le novità, da un punto di vista più propriamente religioso, introdotte da questi pionieri della carità: è ancora lontana l’alba del concilio Vaticano II. La semplicità della preghiera cristiana è strozzata dal riferimento quasi anarchico a un numero di devozioni che risultano essere pressoché ingovernabili. C’è spazio per tutto: i santi sono venerati, e sono percepiti come compagni fedeli sia dei giorni felici che di quelli amari. La pietà mariana riveste per tutti un ruolo primario. Con questo non rimane offuscato il carattere cristocentrico della vita cristiana; l’amore per Gesù, contemplato nel crocifisso e adorato nell’eucaristia, è la base di ogni apostolato. Si tratta di uomini laboriosi: l’orazione funziona come pungolo per prendersi cura del prossimo. Raramente saranno religiosi fautori di restaurazione: ciò che a loro preme non è un particolare modello sociale o politico, ma il bene di chi soffre. Sposeranno per questo un’ascesi dura, che non correrà il rischio di scadere nel volontarismo. Il lavoro, l’infaticabilità, la resistenza alle avversità sono segnali di una fede genuina. Protagonisti della scena sociale italiana, ma anche capaci di combattere la propria superbia, qualcuno sospetterà si tratti di folli: il confine tra pazzia e santità a volte è proprio sottile.

La stessa radice spirituale si può ravvedere anche nei grandi istituti missionari sorti nell’Ottocento. I nomi da ricordare, in questo caso, sono soprattutto Daniele Comboni, moderno missionario dell’Africa sub-sahariana; Giuseppe Allamano, fondatore della Consolata; Guido Maria Conforti, padre dei Saveriani; il cardinal Guglielmo Massaia, pioniere della missione in Etiopia; Angelo Ramazzotti, fondatore del P.I.M.E.; Giovanni Battista Scalabrini; e infine la santa dei migranti, degli italiani costretti a cercare fortuna in altre terre, e che diventeranno numerosissimi tra Otto e Novecento: Francesca Saverio Cabrini.

La riflessione spirituale e l’esperienza mistica. Se nel campo dell’azione, l’Ottocento, e poi il Novecento, saranno secoli laboriosi come pochi, lo stesso discorso non si può ripetere a proposito della riflessione spirituale. Qui abbiamo molto poco, quasi nulla. Sembra che la spiritualità italiana viva di poche scontatissime novità e si limiti a ripetere un canovaccio consolidato, ritenuto ormai affidabile. Difficilmente s’incontrano autori che tentano un giudizio sul presente, e l’elaborazione di una nuova proposta spirituale. Tra i pochi possiamo forse sbalzare due soli nomi.

Il primo è il sacerdote genovese Giuseppe Frassinetti: ad un’intensa azione pastorale, unì una solerte riflessione spirituale. Scrittore facondo, ci ha lasciato un’opera imponente, tesa a richiamare i principi della devozione cristiana. Si caratterizza per una spiritualità antirigorista, ben incanalata nel solco tracciato da sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Simpatizza per l’uomo, non lo sacrifica all’altare dei principi, cerca di illustrare la lentezza e la progressione del cammino che conduce al bene. La stessa eucaristia non verrà mai presentata come un premio riservati ai migliori, ma come il pane del cammino, che sostiene i propositi di santità di tutti, anche delle persone più fragili.

Molto più importante è soffermarsi sul secondo nome che caratterizza l’Ottocento italiano: Antonio Rosmini. Amico di Alessandro Manzoni, in lui riconosciamo un genio assoluto del pensiero cristiano. La sua bibliografia sterminata impedisce di ricomporre in poche righe un profilo completo. Contrariamente a ciò che registriamo in tanti altri autori spirituali, nei suoi scritti non c’è la riconferma, abbastanza scialba, dei principi fondamentali della vita cristiana, ma un nuovo tentativo di incarnazione degli stessi. La fine dell’assolutismo, le nuove filosofie che s’affacciano sullo scacchiere culturale europeo, i germi di una politica che desidera la ricomposizione di un’unità per la penisola, non chiedono tanto un cammino di santità che passi solo per dei propositi più fermi di ascesi, ma un’interrogazione sui compiti che spettano al cristiano oggi, nel tempo attuale. Di quest’opera di invenzione e di utopia “Delle cinque piaghe della santa Chiesa” rimarrà il manifesto più famoso. La santità del cristiano e dell’intera Chiesa è sempre opera di riforma e chiede non solo la presenza di uomini volenterosi, ma anche di uomini illuminati, che sappiano cogliere la chiamate dello Spirito per la stagione presente.

L’Ottocento non è un secolo fortunato nemmeno per l’esperienza mistica. In Italia (ma il fenomeno è più diffusamente europeo) non ci sono fatti significativi da segnalare. Probabilmente la situazione è impaludata, ancora incombe il pregiudizio anti-quietista; così tutto ciò che s’apparenta o solo s’avvicina all’esperienza mistica, specialmente se di natura spagnoleggiante, viene squadrato con sospetto. La vita cristiana ha più a che fare con il senso del dovere che con le grazie eminenti dell’orazione. Dalla sostanziale nebbia che avvolge per intero la penisola, emergono solo un paio di figure significative. Anzitutto Teresa Eustochio Verzeri, fondatrice dell’Istituto delle Figlie del Sacratissimo Cuore di Gesù, contemplativa sconosciuta ai più, ma che rappresenta uno dei pochi casi italiani catalogabili tra le “mistiche dell’assenza”, dove l’aspetto di oscurità nella relazione con Dio sopravanza la gioia della sponsalità. Molto più conosciuta è invece Gemma Galgani, laica toscana, prossima alla spiritualità dei passionisti. Conobbe una vita breve, molto travagliata, sia da un punto di vista umano che spirituale. Si contraddistingue per una pietà fortemente cristocentrica, segnata da sfumature emotive: la sua relazione con il mistero centrale della fede si manifesta in maniera vivida, a volte assumendo un linguaggio veemente. Nel suo cammino spirituale s’impone, poco per volta, una comprensione inedita dello scandalo dell’umanità peccatrice, meno caratterizzata dal giudizio e più dall’intercessione. Anche l’esperienza della sofferenza, così drammaticamente presente nella sua vita, riceverà poco alla volta una lettura positiva.

Nel campo del vissuto mistico siamo però alla vigilia d’una rinascita. Ad inizio Novecento, proprio nel bel mezzo del deserto positivista, prende inaspettatamente vigore l’interesse per il lato “grazioso” e meno ascetico della vita cristiana. L’uomo si riconcilia con il suo desiderio d’infinito. Il fenomeno è dilagante e tocca buona parte dell’Europa: di lì a poco saranno fondate le prime cattedre di “teologia ascetica e mistica”. Anche l’Italia farà la sua parte: istituzioni, riviste, associazioni, centri di formazione sono il volano di questo nuovo “sentire”, che sarà caratteristico di tutto il Novecento. Molti i fatti che si potrebbero citare per delineare questo nuovo clima, ma forse ne basta solo uno. Il secolo breve registrerà un fenomeno sconvolgente, capace di incidere profondamente e in maniera duratura sulla pietà popolare: la vicenda di padre Pio da Pietralcina. La sua figura finirà al centro di aspre dispute, qualcuno ne mette in dubbio la veridicità, ma – in fondo – poco importa, il risultato da un punto di vista sociale non cambia: “vir Dei”, nell’abisso della sua persona molti avvertono un’eco della vertigine di Dio. Pochi altri avvenimenti carismatici saranno capaci di generare un movimento di preghiera e di devozione come questo.

La santità laicale. Interessante è recensire il progressivo credito, concesso nel corso di questi ultimi decenni, alla santità laicale. Qui abbiamo a che fare con un fiume che ingrossa rapidamente le sue acque. Se ancora nell’Ottocento il cammino verso la santità è concepito come itinerario di consacrazione religiosa, che richiede una certa separatezza nei confronti del mondo, la cosa non si replicherà più negli anni successivi. I laici si muteranno in avanguardie, capaci di inoltrarsi là dove la Chiesa (o almeno la gerarchia ecclesiastica), per tanti motivi, è stata a lungo latitante. La vita sacramentale e l’orazione mentale sono la sorgente che sostiene la militanza cristiana nei confronti del mondo. Forse non c’è parola più azzeccata: militanza. I laici sono spronati a percorrere il loro cammino di sequela a Cristo, in obbedienza alla Chiesa. L’intensità della fede va di pari passo con un impegno sempre più viscerale nella propria professione, nella politica, nella docenza universitaria, nell’umile dedizione alle opere parrocchiali.

Anche qui, innumerevoli i nomi che si potrebbero citare. Alcuni di questi saranno capaci di formulare delle vere e proprie sintesi spirituali, che contengono al loro interno la speranza di un cristianesimo migliore. Altri assurgeranno a simboli: figure mitiche capaci di rappresentare un ideale cui tutti sono chiamati. Qualche nome: Contardo Ferrini; Giuseppe Moscati, il medico santo dei poveri di Napoli; Giuseppe Toniolo, fondatore delle Settimane sociali; Piergiorgio Frassati, la cui vita diventerà un modello per tutti i giovani italiani; Giuseppe Lazzati, per lunghi anni rettore dell’università cattolica; Giorgio La Pira, sindaco di Firenze; Alcide De Gasperi, Armida Barelli, Elena da Persico. Alcuni di questi daranno vita ad istituti secolari: una novità nel panorama della consacrazione cristiana. Si cerca una via, anche giuridica, per esprimere una santità assoluta che non strappi però un credente dalle ingarbugliate vicende del mondo.

Una parola a parte va spesa a proposito dell’Azione cattolica. Per lunghi anni essa sarà non solo lo strumento per canalizzare l’impegno sociale dei credenti, ma anche il luogo della loro formazione morale e spirituale. Preghiera, azione, sacrificio: intorno a questa triade si coaguleranno programmi di formazione laicale; brilleranno per metodo e capillarità, e saranno presenti pressoché in tutte le parrocchie della penisola. È soprattutto in questo esercito anonimo di persone che dedicano a Dio e al prossimo tutto se stessi, che si tocca la vitalità del laicato cattolico, capace di offrire allo Stato italiano, che non pochi traumi dovrà vivere nel Novecento, un’ossatura di persone integre, dedite al proprio dovere quotidiano.

Infine riserviamo almeno un cenno alla spiritualità famigliare e coniugale. Probabilmente si tratta di un fatto inedito nella storia della Chiesa, almeno per la forma e la cura che riceve in questi ultimi decenni. Tutti i grandi movimenti laicali sorti nel Novecento destinano una forza di pensiero e di azione in favore delle famiglie. Ma è un dovere avvertito anche dalle chiese particolari: la pastorale ordinaria di diocesi e parrocchie riserva uno spazio stabile per la spiritualità famigliare. C’è anche una pletora di fatti isolati, che segnala l’affermazione di questa nuova mentalità. In Italia trova accoglienza l’Equipes Notre Dame, fondata dall’abbè Cafferel: ma è solo uno dei tanti movimenti di spiritualità famigliare che attecchiscono facilmente sul suolo della penisola. In più ci sarebbe da citare la canonizzazione dei coniugi Beltrame Quattrocchi: anche la coppia, e non solo la somma dei singoli, viene riconosciuta come capace di un itinerario di santità.

Il grande crinale: il concilio Vaticano II. Di questa travagliata epoca, ricca di fermenti, il concilio Vaticano II sarà il grande crinale. Fino alla vigilia della sua celebrazione il rapporto del cristiano con il mondo è segnato da categorie quali la riparazione, o l’espiazione. Anche se si tratta di categorie che vanno interpretate, e non sono portatrici di un senso forzatamente negativo, esse lasciano sospettare un rapporto tra cristiano e società civile da intendersi in termini ostili. Nell’Ottocento le congregazioni religiose non hanno occhi che per i misteri del venerdì santo: ci si consacra al costato aperto, al preziosissimo sangue, alla passione di nostro Signore. Del mistero pasquale si lascia in secondo piano l’evento di risurrezione. La stessa “mistica del papato”, così caratteristica di questi ultimi secoli, sembra talora assumere un valore di contrapposizione, se non di vittimismo. Il concilio ha profondamente mutato questo quadro interpretativo. Ovviamente non l’ha fatto da solo: l’assise ecumenica, infatti, non ha che raccolto e potenziato alcuni germi che erano già presenti in ambito ecclesiale. Ne nascerà una visione più ottimistica dei rapporti del cristiano con il mondo.

A livello spirituale si recupera quel segmento di tradizione posto più in là dell’epoca moderna. Si riscopre il mondo dei Padri; le conquiste del movimento liturgico divengono patrimonio di tutto il popolo di Dio; le comunità cristiane, dopo secoli di assenteismo, prendono nuovamente in mano il testo delle Scritture. Per la spiritualità è una rivoluzione. Si apre così la possibilità di una nuova sintesi. Se la modernità ha ornato la letteratura spirituale con un evidente timbro psicologico, ora si tratta di ricreare quel nesso tra oggetto e soggetto della fede, che è buona base di ogni sintesi cristiana. Si cerca una spiritualità non costruita a lato delle grandi mediazioni del cristianesimo, ma innervata in esse, e, nel contempo, capace di non smarrire quel tono soggettivo che è vecchio quanto la devozione stessa.

La storia della ricezione del Vaticano II è la nostra storia. È abbastanza agevole catalogare gli avvenimenti più rilevanti di questi ultimi decenni. Guardando solamente il panorama italiano, possiamo osservare la sorprendente nascita di nuovi movimenti ecclesiali, capaci di unire laici e religiosi in uno stesso sentire: Comunione e Liberazione, Movimento dei Focolari, Cammino neocatecumenale, Comunità di S. Egidio, Rinnovamento nello Spirito, Associazione Papa Giovanni XXIII. Ognuno di essi presenta caratteristiche singolari, che non possono essere abbreviate “ad modum unius”, fuorché per qualche nota del tutto esteriore. Ciascuno di essi è latore, per la Chiesa intera, di un carisma singolare che, vista la tenacia che questi movimenti dimostrano, pare resistere nel tempo.

Il concilio ci ha regalato anche inedite esperienze monastiche, nel solco della tradizione, ma anche capaci di sviluppare nuovi germogli. Ricordiamo soprattutto: Comunità di Bose, Piccola Famiglia dell’Annunziata, Comunità dei Figli di Dio. È forse a queste esperienze, che spesso figurano come avanguardie, che dobbiamo guardare per trovare i tentativi di sintesi più compiuti, almeno per l’Italia, del nuovo clima spirituale postconciliare.

Una parola va spesa anche sulla spiritualità sacerdotale. Se è vero che il concilio ha consegnato alla Chiesa una più compiuta teologia del sacerdozio, è anche vero che nessun’altra figura cristiana, quanto il pastore d’anime, ha conosciuto in questi decenni una drammatica crisi e un nuovo tempo di gestazione. Per diversi anni è stato quasi un refrain, nella letteratura specialistica, discettare sulla “crisi di identità” del prete. Probabilmente non si tratta di una crisi teologica, ma spirituale: legata al definitivo tramonto, dovuto all’avvento di un nuovo mondo secolare, del modello borromaico di sacerdote e di formazione presbiterale. Ma la crisi di un modello, non è la crisi di un’istituzione. Il postconcilio italiano ha regalato alla Chiesa intera una significativa schiera di sacerdoti capaci di adoperare la sapienza dello scriba, quella che cerca di fare sintesi, quella che cerca di interpretare i segni dei tempi, e di estrarre dal suo tesoro “cose antiche e cose nuove”.

Fonti e Bibl. essenziale

AA.VV., «Italie», DSp, VII, 2141-2311; AA.VV., Storia della spiritualità, I-VII, Roma 1985-2002; AA.VV., Storia della spiritualità, I-X, Bologna 1970-; A. Favale, Segni di vitalità nella Chiesa. Movimenti e nuove comunità, Roma 2009; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, Bari 1997; P. Guiducci, Mihi vivere Christus est. Storia della spiritualità cristiana orientale e occidentale in età moderna e contemporanea, Roma, 2011; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, Torino 1996; B. Secondin – T. Goffi, ed., Corso di Spiritualità. Esperienza – Proiezioni – Sistematica, Brescia 1989; P. Zovatto, ed., Storia della spiritualità italiana, Roma 2002.


LEMMARIO




Sport - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

Uno sguardo immediato e superficiale al fenomeno sportivo in Italia nei secoli XIX e XX mostra che la realtà ecclesiale è una delle protagoniste della diffusione popolare degli sport moderni. Ma dietro questa prima constatazione è necessario per lo meno affrontare due problemi di tipo storico: anzitutto il significato dello sport nella cultura italiana e più generalmente occidentale in questi due secoli, in secondo luogo il rapporto tra questo, che si può definire “sport moderno” e la comunità cristiana. Lo sport moderno, a differenza delle gare dell’antica Grecia, dei tornei medievali o di altre forme analoghe, si può empiricamente definire come “l’insieme delle attività fisico-motorie che per essere svolte richiedono un livello minimo di abilità o competenza intellettuale, quale si manifesta nella conoscenza e nell’assimilazione delle relative tecniche di gioco; hanno modalità di esecuzione che non dipendono dal volere dei partecipanti e non possono quindi essere modificate a piacere, ma al contrario si inscrivono in un reticolo di regole; hanno il loro scopo in un esito finale di carattere formale: vittoria o sconfitta; sono parte integrante di apposite istituzioni sociali che le hanno inserite nelle loro strutture di produzione e consumo” (Roversi 1998, 305). Già questa definizione apre ad alcune questioni che il cattolicesimo italiano si troverà ad affrontare nel suo approccio allo sport: è moralmente lecito e pedagogicamente utile proporre passatempi che si basano su “vittoria o sconfitta”, ossia sulla competizione? E’ necessario difendere fino in fondo uno sport essenziale e francescanamente alieno dal denaro, oppure ci si deve incrociare con finanziamenti, premi, ricompense? Fino a che punto gruppi e squadre nate in ambito confessionale devono entrare in organizzazioni aconfessionali quando non, più o meno velatamente, anticlericali, e comunque collegate istituzionalmente a quel Regno d’Italia che, almeno dal 1870 al 1929, era vissuto in maniera conflittuale dal mondo cattolico? Ma continuando a confrontarsi con gli approfondimenti storico-sociologici della realtà dello sport moderno, ci si trova ad avere a che fare con altre due questioni: la sua crescente secolarizzazione o de-sacralizzazione, e il suo contatto, diminuito rispetto alle competizioni antiche, ma sempre latente, con la violenza (Roversi 305.307-308).

Sarebbe interessante scrivere la storia, anche ecclesiale, del barbarismo “sport”, della sua irruzione nel vocabolario, ancora legato alla tradizione purista del cattolicesimo italiano, progressivamente sostituendo i termini più nostrani quali “ginnastica” e apparentati, o “diporto”. Un drappello di educatori, per lo più pratici e non teorizzatori, del XIX secolo, accolgono con attenzione quando non con entusiasmo le moderne manifestazioni, allora per lo più di tipo atletico-militare, nelle istituzioni da loro fondate e dirette: si pensi a don Giovanni Bosco che aveva inserito la “ginnastica” nei programmi educativi degli oratori salesiani. Dunque il primo impatto dello sport moderno, forse in quel momento ancora legato a modelli aristocratici o militari, sul cattolicesimo italiano sembra positivo, o per lo meno realistico.

Il momento di svolta va collocato nei primissimi anni del XX secolo: nel 1905 Pio X accoglie in Vaticano una delegazione di sportivi che stavano partecipando al primo convegno delle Società Cattoliche Sportive, nel 1906 nasce la Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (FASCI), che in pochi anni raggiunge oltre duecento associazioni, ma anche la fondazione, ad opera di Giuseppe Micheli, dell’associazione “Giovane Montagna” nel 1899, come associazione che promuoveva l’escursionismo ma anche la promozione del territorio montano, bacino elettorale del fondatore, che nel 1909 sarà uno dei primi “cattolici deputati”, in cosciente contrapposizione al Club Alpino Italiano, nato nel 1863 ad opera di Quintino Sella, con chiara matrice liberale e massonica. Per valutare il significato di quel periodo vanno tenuti in considerazione altri due aspetti. Il primo è di tipo sportivo: la diffusione in Italia di sport destinati a diventare popolari, quali il ciclismo (nel 1890 nasce la prima società ciclistica a Milano) e il football (nel 1898 si ha la fondazione della federazione). L’altro fatto è invece l’esplodere di un’ondata anticlericale tra il 1900 e il 1910, sulla scorta del movimento francese che porterà alle leggi transalpine di secolarizzazione, e vedendo, in certo senso, per la prima volta come protagonisti di denunce, campagne di stampa, accuse di immoralità proprio in ambito educativo verso i cattolici i gruppi del socialismo, fino a quel punto spesso reticenti da un punto di vista religioso, insieme peraltro agli anticlericali “storici”. Dunque il movimento cattolico, che in quel momento era sostanzialmente privo di uno guida unitaria quale fu l’Opera dei Congressi, accolse la vera popolarizzazione dello sport in Italia, soprattutto nelle giovani generazioni, dando una struttura associativa e quindi “burocratica”, secondo le linee dello sport moderno. Ma a questo punto si pose il problema: sport confessionale o aconfessionale? Nel 1903 la Federazione Ginnastica Nazionale rifiutava la richiesta di affiliazione di due società cattoliche, di Bologna e Milano, proprio perché infrangevano il principio di “aconfessionalità”. Il successivo irrigidirsi delle posizioni della FGNI condusse nel 1906-1907 alla già citata fondazione, ad opera della Società della Gioventù Cattolica, della FASCI, una vera organizzazione sportiva di stampo confessionale.

Inoltre non mancarono immediate voci di scontento e dissenso proprio sul versante dell’utilità pedagogica dello sport: vescovi locali, come il Magani di Parma, cioè il vescovo della città di Micheli, grande fautore dell’escursionismo e del pedale; il Magani, in una sua pastorale del 1899, vedeva queste forme del movimento giovanile cattolico come cedimenti alla modernità: “… in questi ultimi anni s’aggiunsero società sportive, come le chiamano all’inglese, ciclistiche, alpinistiche, filodrammatiche, musicali e via via di questo passo ora si va sempre innanzi e a gran corsa. Siffatto movimento però è tale che sembra lasciare un ragionevole dubbio se l’accessorio, lungi dal giovare, non abbia invece a nuocere al principale… se la modernità, della quale tanto s’amplifica la importanza e quasi la necessità non abbia a degenerare in mondanità” (corsivi originali). Anche la tematica della competizione destava problemi, ed è significativo che ancora nel 1933 Luigi Civardi, sacerdote pavese (1886-1971) autore di un diffusissimo manuale dell’Azione Cattolica, affermava che lo sport ideale era la ginnastica ritmica, che sviluppava lo “spirito di obbedienza” ed evitava la competizione e la dimensione individuale dello sport.

Come spesso avviene, la realtà con le sue dinamiche finisce per superare le riserve teoriche. Lo sport si diffonde negli oratori e dei circoli giovanili. Si potrebbe dire che questi mondi da una parte si strutturano secondo la burocratizzazione tipica degli sport moderni, e quindi con società sportive, tra cui, ad esempio, la SPAL, ovvero “Società Polispostiva Ars et Labor”, fondata dal salesiano Pietro Acerbis, tutt’ora squadra di calcio cittadina di Ferrara, con una storia di partecipazioni alle serie A e B dei campionato italiano; federazioni, campionati. Dall’altra nel mondo ecclesiale c’è uno spazio tenuto aperto per l’informale, il non competitivo, quasi valvola di sfogo e giustificazione morale e pedagogica dell’esercizio fisico: la montagna dei campeggi e dei “campi-scuola”, con la figura esemplare di Piergiorgio Frassati, la bicicletta come escursione e record di grandi imprese di gruppo, come i percorsi fino a Lourdes. Tra l’altro questo movimento contribuì al tacito cadere dei draconiani decreti d’inizio secolo che vietavano ai sacerdoti l’uso del “velocipede”. Aggiungerei, come fenomeno storico non documentabile ma evidente, che nei cortili degli oratori e delle “parrocchie” il football continuava ad essere vissuto in analogia ai folk games del medioevo e dell’età moderna, dove la distinzione tra pubblico e giocatori cade completamente e dove i limiti di tempo, di ruoli, di uso della forza fisica prescritti dalle regole ufficiali vengono superati dalla spontaneità. Anche questi sono tratti trasgressivi e informali dello sport nel mondo cattolico rispetto alla fenomenologia moderna.

Un secondo momento critico fu affrontato dal movimento sportivo cattolico con l’avvento del fascismo, che, come è noto, puntò a fare dello sport uno degli elementi della propaganda ideologica del regime e a instaurare un vero monopolio educativo. Nel 1927, le leggi fasciste che restringevano la possibilità dell’associazionismo giovanile a favore dell’Opera Nazionale Balilla, dopo aver liquidato lo scoutismo cattolico posero fine anche alla FASCI, anche se negli oratori e nei centri giovanili cattolici lo sport continuava ad essere praticato informalmente. Lo scontro col regime mise in luce un’altra questione che attraversò i dibattiti della comunità cristiana italiana in questo ambito, ossia lo sport femminile. Se padre Agostino Gemelli teorizzava l’utilità dello sport per le ragazze nel 1923, e Armida Barelli inseriva nella Gioventù Femminile di AC dal 1924 al 1928 il movimento “Forza e Grazia” fondato l’anno precedente, non pochi vescovi e sacerdoti intervenivano pubblicamente su fenomeni quali una certa promiscuità, abiti succinti, movimenti “mascolini” che sembravano la degenerazione della femminilità modesta e devota della tradizione, e che però, per certi aspetti, mostravano anche il volto maschilistico, ideologico e moralmente ambiguo del fascismo. Al mondo cattolico dal 1931 al 1944 rimase l’aspetto informale dello sport, pur con qualche tolleranza di associazioni e pratiche di campionati all’interno dell’AC.

Con la fine del regime fascista e la nascita dell’Italia repubblicana riprese in pieno l’associazionismo sportivo cattolico, con il Centro Sportivo Italiano (1944), il Centro Turistico Giovanile (1949), dapprima appartenenti a quell’insieme articolatissimo di realtà che era l’AC di Luigi Gedda, più tardi indipendenti. Ma la scena fu occupata anche da altri movimenti di ispirazione o di legame cattolico: la “Libertas” collegata alla Democrazia Cristiana (1945), l’Unione Sportiva ACLI (1963), le Polisportive Giovanili Salesiane (1967) e altri. La frammentazione, quasi una “decomposizione del mondo cattolico”, si manifesta in anticipo nella realtà sportiva, che da una parte è accolta pienamente nella visione pedagogica di scuole, oratori, associazioni giovanili, dall’altra continua a sollevare problemi di aconfessionalità, competitività, sport femminile. Né mancano le voci critiche, quale ad esempio fu don Lorenzo Milani “Al terz’anno la situazione precipitò. In una memorabile scenata gli arnesi del ping-pong (ricomprati nuovi da alcuni giovani) volarono in fondo al pozzo. Il dado era tratto…” Esperienze pastorali, Firenze (LEF) 1957, 128 (cfr. 127-161)

. Intanto emergono figure di una mitologia dello sport cattolico, il già citato Frassati cui si intitolano centinaia di squadre in tutta Italia, Luigi (detto Gino) Bartali, campione del ciclismo, e altri più recenti come Gaetano Scirea e Giacinto Facchetti. Per certi aspetti anche la figura di Giovanni Paolo II, in Italia come altrove, ha dato origine a una sorta di paradigma dello sport.

Il post-concilio e la contestazione non scalfiscono questa sorta di parete osmotica tra cultura popolare e mondo cattolico che è lo sport, che continua a essere presente nel mondo ecclesiale, con la costituzione dell’ Ufficio pastorale del tempo libero, turismo e sport CEI (1987)

della Conferenza Episcopale*, dibattiti e approfondimenti, ma che continua a creare tensione tra i cattolici italiani, in particolare sulla forma di commercializzazione e spettacolarizzazione di massa assunta ormai pienamente dal fenomeno sportivo e anzi in piena evoluzione, ma capace di raggiungere anche le realtà di base degli oratori, con esempi di compravendita di atleti, contestazioni violente, fanatismo dei genitori. La tensione spinge al continuo recupero della dimensione educativa dello sport e del suo aspetto informale, in qualche modo incarnato del detto, ormai tipico del commento sportivo: “giocare alla viva-il-parroco”.

Fonti e Bibl. essenziale

L. Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia unita, Brescia (La Scuola) 2006; F. Fabrizio, Storia dello sport in Italia. Dalle Società ginnastiche all’associazionismo di massa, Rimini-Firenze (Guaraldi) 1977; St. Pivato, Clericalismo e laicismo nella cultura popolare italiana, Milano (Angeli) 1990; St. Pivato, Movimento cattolico e questione dello sport, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia (1860-1980), I/2, Torino (Marietti) 1981, 142-145; St. Pivato, Sia lodato Bartali. Ideologia, cultura e miti dello sport, Roma (Ediz. Lavoro) 1996; E. Preziosi, Educare il popolo. Azione cattolica e cultura popolare tra ‘800 e ‘900, Roma 2003, 169-176; A. Roversi, Sport, in Enciclopedia delle scienze sociali, 8, Roma (Ist. dell’Enciclopedia Italiana) 1998, 303-311; G. Semeria, Sport cristiano, a cura di St. Pivato, Città del Vaticano (Libreria Ed. Vaticana) 2011; Vivere da campione. Giovanni Paolo II parla allo sport, a cura di A. Albertini, Milano (In dialogo) 2011.


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