Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
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Roma 2015
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Sportelli Francesco


Professore di Storia della Chiesa e Storia delle Istituzioni ecclesiastiche nell’Università degli Studi della Basilicata; ha insegnato nella Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli e nella Facoltà Teologica Pugliese. Gli interessi di ricerca privilegiano le tematiche riguardanti le istituzioni ecclesiastiche per la formazione del clero, le istituzioni collegiali dell’episcopato italiano, con riferimento alla Conferenza episcopale italiana e alle conferenze regionali; una specifica attenzione é rivolta allo studio del governo pastorale dei vescovi nell’Ottocento e nel Novecento. Ulteriori interessi di ricerca riguardano il cattolicesimo organizzato in Italia, gli ordini religiosi e i profili identitari del Mezzogiorno italiano fra storia religiosa e sviluppo civile. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche, è componente del collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in “Cities and landscapes: architecture, archaeology, cultural heritage, history and resources” e membro di diversi consigli scientifici e associazioni di ricerca.




Stati preunitari - vol. I


Autore: Massimo Mancini

Giurisdizionalismo dello Stato assoluto. L’assolutismo statale che caratterizza l’età moderna assume nei paesi cattolici i connotati di un potere monarchico sacrale, derivato direttamente da Dio (“re per grazia di Dio”), senza la mediazione della Chiesa e del papato. Diversi diritti in materia ecclesiastica che i sovrani medievali già esercitavano al fine della doverosa attuazione del Regno di Dio, nell’epoca moderna vengono considerati come poteri propri di ciascun sovrano, spettanti a chi è legittimato a governare il popolo in nome di Dio. Secondo questa visione, si riduce sempre più il potere della Chiesa sulla vita religiosa all’interno dello Stato, rivendicando come appartenente al potere temporale un sempre maggior numero di prerogative, prima invece riconosciute a chi deteneva il potere spirituale.

Anche sotto l’influenza di quanto avvenuto nei paesi passati al protestantesimo, i sovrani cattolici tendono a rivendicare per sé diritti sempre più ampi in materia ecclesiastica. Tra il XVI e il XVIII secolo si sviluppa ovunque un sistema politico-ecclesiastico che, con nomi differenti nei differenti paesi, afferma che la Chiesa, pur essendo una istituzione universale, in ciascuno Stato deve essere soggetta alla superiore autorità statale, la quale esercita sulla Chiesa determinati diritti, detti iura circa sacra.

Dal punto di vista politico ogni sovrano assoluto si ritiene indipendente da qualsiasi altro potere, mentre nei riguardi della religione il monarca si attribuisce il diritto e il dovere di tutelare la Chiesa; ma tale protezione tende spesso a trasformarla in instrumentum regni. I vescovi, in molti casi scelti proprio dal sovrano, di solito favoriscono l’intervento statale, anche perché ciò li aiuta a distanziarsi dal controllo del papa. Ma anche dove non vi un è un monarca assoluto, come nelle antiche Repubbliche italiane, nel rapporto con la Chiesa lo Stato cerca di orientarsi nello stesso modo.

Tale sistema viene diversamente denominato nei diversi paesi: gallicanesimo (in senso politico) in Francia e regalismo in Spagna e in Portogallo, là dove il forte potere monarchico, pur dichiarandosi devoto alla religione cattolica, in realtà ha il pieno controllo sulla vita ecclesiastica; giuseppinismo nell’Austria governata nel Settecento da Giuseppe II e negli altri paesi sotto la casa degli Asburgo-Lorena; febronianesimo in Germania, nome derivato da Febronio (pseudonimo del vescovo Nikolaus von Hontheim), autore del libro De statu ecclesiae (1763) in cui egli sostiene forti limiti al primato pontificio; giurisdizionalismo in vari Stati dell’Italia.

Durante il secolo XVIII, la S. Sede riscontra sempre più l’inefficacia dei tradizionali mezzi d’intervento verso gli stati: esortazioni, minacce e scomuniche non servono a cambiare l’indirizzo della politica statale verso la Chiesa. I numerosi concordati sottoscritti in quel secolo sono ormai il segno del diminuito prestigio del papato, perché essi concedono agli stati facoltà e spazi sempre più ampi a scapito dell’autorità ecclesiastica.

I diritti, mai riconosciuti dai pontefici, che lo Stato giurisdizionalista rivendica in campo ecclesiastico nell’Antico Regime, si possono riassumere come segue.

Per la difesa della Chiesa: ius advocatitiae o protectionis, con cui lo Stato protegge la Chiesa da eresie e scismi e quindi esclude i non cattolici dagli incarichi civili; ius reformandi, cioè diritto di imporre riforme per evitare abusi da parte della Chiesa, di ammettere o rifiutare nuove società religiose e di concedere o meno il culto privato o pubblico ai non cattolici.

Per difendere lo Stato dalle iniziative ecclesiastiche, lo ius cavendi si attua attraverso alcuni speciali istituti giuridici: placet ed exequatur, cioè l’assenso preventivo statale alla pubblicazione rispettivamente di atti pontifici o di autorità locali; e appellatio ab abusu, con cui clero e laici possono fare ricorso all’autorità statale contro gli atti ecclesiastici, che sono perciò annullabili dallo Stato. Vi sono inoltre altre prerogative con cui lo Stato si difende dall’azione della Chiesa: ius supremae inspectionis, cioè di limitare i rapporti tra gli enti ecclesiastici e la Sede romana, di controllare sinodi e missioni, di sopprimere gli enti considerati inutili, di controllare l’emissione delle professioni religiose e l’insegnamento in seminari e scuole ecclesiastiche, nonché l’acquisto e l’amministrazione dei beni della Chiesa; ius nominandi, cioè di presentare o nominare direttamente il candidato all’episcopato; ius exclusivae, diritto di veto o rifiuto del candidato sgradito; ius circa temporalia officia, che consente di sequestrare le rendite di uffici occupati da persone non gradite o incapaci; ius dominii eminentis, limitante il diritto di proprietà ecclesiastica, in modo da imporre imposte, distribuire diversamente le proprietà tra vari enti e appropriarsi dei frutti economici quando la sede è vacante; ius patronatus, diritto di nomina dei superiori di abbazie e conventi.

Stati italiani dell’Antico Regime. Stati Sabaudi. La dinastia dei Savoia fin dal Medio Evo è stata quasi sempre vicina all’autorità pontificia, ricevendo da essa numerosi privilegi e attribuendo spesso ad ecclesiastici importanti uffici nei propri Stati. Il più rilevante atto pontificio verso casa Savoia è l’indulto di Nicolò V del 1451: in cambio della rinuncia dell’antipapa Felice V (il duca Amedeo VIII), il papa concede che nei territori sabaudi si possa accedere alle più elevate cariche ecclesiastiche soltanto se ciò corrisponde alla volontà e al consenso espresso del duca di Savoia; nei secoli seguenti, l’interpretazione di quest’indulto sarà causa di forti tensioni tra Torino e Roma. Nel Cinquecento la dominazione francese sulle terre dei Savoia vi introduce gli usi gallicani, fra cui l’appel comme d’abus, cioè la possibilità di ricorrere ai tribunali statali contro provvedimenti ecclesiastici: Emanuele Filiberto, rientrato in possesso del suo territorio, conferma questo diritto a favore dello Stato. Gli usi gallicani rimarranno vivi in Valle d’Aosta fino al secolo XX.

Mentre si afferma l’uso del placet e dell’exequatur, nel Seicento la Chiesa cerca di contestare l’indulto di Niccolò V, accettandolo al massimo per la sola Savoia, ma senza ottenere cambiamenti significativi. Il re Vittorio Amedeo II conserva la legislazione spagnola per la Sardegna e cerca di estendere le prerogative statali in Piemonte. Soltanto a partire dal 1727 si riesce a trovare un accordo tra il papato e i Savoia: mentre altrove si afferma un giurisdizionalismo sempre più invasivo, da quell’anno fino all’invasione francese Stati Sabaudi e Chiesa instaurano fra loro un lungo rapporto di pacifica collaborazione (compreso l’arresto di Pietro Giannone), firmando in meno di settant’anni ben diciassette concordati. In Sardegna, già soggetta alla legislazione spagnola, i sovrani, in accordo con il papa, cercano di impedire l’abuso del regime di immunità dalla giurisdizione statale; Carlo Emanuele III vieta l’esecuzione degli ordini dell’Inquisizione spagnola e l’erezione di nuove case di religiosi e impone l’exequatur; ma tali misure vengono comunque attuate debolmente, evitando contrasti con Roma.

Repubblica di Genova. Fra gli Stati italiani, la Repubblica genovese è probabilmente quello che ha più facilmente gestito le relazioni con la Chiesa romana. Negli ultimi tre secoli della sua storia, lo Stato di Genova, che nel 1637 dichiara sua regina la Vergine Maria, generalmente senza difficoltà accoglie le iniziative dei pontefici e accetta al suo interno l’azione di vescovi e inquisitori. Nel Settecento Genova ottiene da Benedetto XIV la possibilità di tassare i beni del clero e di propria iniziativa proibisce la vendita e la locazione di immobili ad enti ecclesiastici, se non con il permesso degli organi statali. Unica occasione di conflitto, l’invio nel 1760, senza alcuna consultazione, di un visitatore apostolico da Roma nella Corsica genovese, già in piena ribellione: dura reazione del governo di Genova con conseguente arresto del prelato giunto in Corsica e lunga situazione di tensione tra la Repubblica e la Chiesa.

Milano. Dopo le tumultuose vicende dell’inizio del Cinquecento, con il passaggio dagli Sforza alla Francia e infine alla Spagna, Milano e il suo Ducato vedono instaurarsi un attento controllo statale sulla vita ecclesiastica, secondo l’orientamento generalmente attuato nei domini spagnoli. Carlo V decide nel 1540 di sottoporre a gravame i beni acquistati dal clero e vieta la vendita di immobili agli enti ecclesiastici. Con s. Carlo Borromeo come arcivescovo metropolita inizia un periodo in cui si applica efficacemente la riforma tridentina ma anche cominciano i contrasti con i governatori spagnoli: le autorità civili vedono infatti minacciata la giurisdizione statale dalle misure con cui il vescovo attua il suo programma di totale disciplinamento della società. Nel 1569 il governatore Albuquerque emana un editto per tutelare la giurisdizione dello Stato: seguono le scomuniche dei governatori che in poco tempo si succedono fino all’intervento di Filippo II re di Spagna, che infine accetta le richieste di s. Carlo. Con l’arcivescovo Federico Borromeo le tensioni continuano fino alla stipulazione di una “concordia giurisdizionale” nel 1615: è così possibile far convenire i laici presso il tribunale ecclesiastico, facendo eseguire le sentenze non solo dal braccio secolare ma anche dalle guardie dell’autorità episcopale.

Nel Settecento, terminato il dominio spagnolo, anche nella Lombardia austriaca si applica la riforma realizzata nell’Impero da Maria Teresa e da Giuseppe II. Un concordato con la S. Sede per il Ducato di Milano viene stipulato nel 1757. Alcune nuove norme speciali per Milano riguardano ancora il divieto di vendita di beni immobili a enti ecclesiastici, la cui dispensa viene ora riservata al sovrano, la censura dei libri ora sottratta all’Inquisizione romana, un più ampio uso dello strumento dell’exequatur. Decreti di Giuseppe II, confermati dal concordato del 1784, allargano la necessità del placet e soprattutto attribuiscono all’imperatore la nomina dei vescovi delle diocesi lombarde.

Valtellina sotto i Grigioni. Un’esperienza storica unica in Italia è quella della Valtellina e della Valchiavenna, dal 1512 sono sotto il dominio dei Grigioni, cioè della Repubblica delle Tre Leghe; tale dominio continua fino al 1797, quando i territori passano alla nuova Repubblica Cisalpina. Il governo dei Grigioni, la cui popolazione già nel Cinquecento è a maggioranza protestante, attua una forma di tolleranza religiosa che tuttavia non riesce ad evitare forti conflitti. La cattolica Valtellina è da molti secoli territorio della diocesi di Como, legata al patriarcato di Aquileia; ma i vescovi non possono svolgervi la visita pastorale fino al 1615, escluse tre eccezioni. Nel 1557 l’editto di Ilanz concede chiese cattoliche al culto protestante.

Dopo la tortura e l’uccisione dell’arciprete cattolico Nicolò Rusca, nel 1620 scoppia una ribellione guidata da nobili cattolici, sotto l’impulso della Spagna: i valtellinesi uccidono 400 protestanti nel cosiddetto “Sacro macello”. Dopo quasi vent’anni di guerra, pestilenze, uccisioni di streghe e l’intervento del papa, della Spagna e della Francia, nel 1639 il capitolato di Milano restituisce Valtellina e Valchiavenna ai Grigioni, ma vi ammette soltanto la confessione cattolica e vi proibisce la residenza stabile dei protestanti.

Repubblica di Venezia. La Repubblica Veneta attua costantemente per diversi secoli una politica di controllo della Chiesa e di limitazione della sua influenza; a questo scopo si costituisce il collegio dei Consultori in iure, teologi e canonisti di cui il governo richiede la consulenza. Il diritto ecclesiastico veneto risulta quindi particolarmente stabile e privo di grandi modificazioni nel corso dei secoli, fino alla caduta della Repubblica nel 1797. Per motivi di commercio, Venezia tollera la presenza di appartenti ad altre confessioni religiose, riconoscendo loro una limitata libertà di culto.

Quanto alle persone ecclesiastiche, già nel secolo XV esse sono escluse da qualsiasi incarico pubblico; mentre con una serie di leggi si vieta di ricevere dignità e benefici ecclesiastici ai familiari del doge, ai membri del governo veneziano, agli ambasciatori e ai loro rispettivi congiunti. La Serenissima Repubblica non concede alcun favore ai diversi pontefici di origine veneziana; anzi, dopo alcuni problemi con Gregorio XII, nel 1411 stabilisce che i “papalisti”, cioè i parenti dei membri della curia pontificia, siano espulsi dalle sedute degli organi costituzionali, allorché essi trattano materie ecclesiastiche e deliberano su di esse. Il divieto viene confermato ed esteso con altre leggi successive; inoltre i papalisti possono partecipare ai vari consigli solo in numero limitato e vengono esclusi per legge da alcuni incarichi pubblici, come dal 1574 quello di Savio all’Eresia.

Lo Stato veneto non riconosce in linea di principio privilegi di giurisdizione agli ecclesiastici, concedendo solo che ai processi contro di essi debba assistere il vicario del patriarca di Venezia. Il tribunale dell’Inquisizione può agire solo contro i cattolici e con il permesso dell’autorità statale, la quale controlla ogni seduta e vigila contro gli abusi per mezzo di tre magistrati statali: tre senatori detti Savi all’Eresia. Altre norme stabiliscono criteri severi per limitare l’attribuzione a vario titolo di proprietà di immobili agli enti ecclesiastici e per impedire la questua per indulgenze, se non con autorizzazione del governo. Un magistrato dello Stato, il Revisore dei Brevi, è addetto al controllo degli atti pontifici, che sono considerati inefficaci senza il placet governativo. Per diverse sedi vescovili, il governo si considera detentore del diritto di nomina del vescovo o almeno di proporre una terna di nomi.

Un periodo di speciale tensione fra Stato veneto e Chiesa è quello legato alla questione dell’interdetto: nel 1606 due sacerdoti, colpevoli di delitti comuni, secondo la legge veneta vengono arrestati e sottoposti al giudizio del tribunale statale. Il papa Paolo V chiede l’abolizione della norma che prevede tale disciplina, insieme al divieto di costruire chiese senza il permesso del governo. La Repubblica, guidata dal doge Leonardo Donà e influenzata dalle idee di Paolo Sarpi, frate servita e consultore in iure, rifiuta la richiesta pontificia: il papa risponde con la scomunica, l’interdetto e l’annullamento di propria autorità delle leggi contestate. I religiosi che, in obbedienza al pontefice, si rifiutano di celebrare e amministrare i sacramenti, vengono espulsi dallo Stato; ciò vale soprattutto per i Gesuiti, che potranno tornare solo dopo cinquant’anni, a seguito degli accordi con cui il papa favorirà Venezia nella guerra di Candia contro i Turchi. La controversia dell’interdetto si risolve nel 1607 soltanto grazie alla mediazione del re di Francia, senza che la Repubblica abbia rinunciato a far valere le proprie ragioni.

Altri motivi di tensione si hanno nel Settecento. Nel 1751, in seguito alle pressioni di Maria Teresa d’Austria, Benedetto XIV sopprime il patriarcato di Aquileia e attribuisce i suoi territori austriaci alla nuova arcidiocesi di Gorizia: ne deriva una difficile vertenza con ritorsioni tra Venezia e Roma, terminata solo nel 1758 con l’elezione del papa veneziano Clemente XIII.

Nel 1766 si istituisce la Deputazione ad pias causas, organo statale che interviene nell’organizzazione ecclesiastica, in particolare negli Ordini religiosi: forti limitazioni all’ingresso di nuovi candidati, soppressione dei conventi con meno di dodici religiosi o privi di rendite sufficienti per mantenerli, obbedienza solo a superiori che non risiedano fuori dello Stato. Questa politica provoca una rapida diminuzione del clero regolare, quasi dimezzato già nel 1790.

Ducati di Parma e di Modena. Nel Ducato di Parma e Piacenza il tradizionale favore verso l’autorità ecclesiastica che caratterizzava la dinastia dei Farnese si trasforma in politica giurisdizionalista sotto il governo dei Borboni. Guillaume du Tillot, dal 1759 primo ministro del duca Filippo di Borbone, realizza un piano di limitazione dei privilegi e dei diritti della Chiesa: fra l’altro, impedisce le ingerenze dei vescovi e la fondazione di nuovi conventi, e sottopone i provvedimenti ecclesiastici all’exequatur. Dopo la censura romana, il ministro espelle i Gesuiti e sopprime l’Inquisizione; ma tale politica termina nel 1771 con la deposizione di Guillaume du Tillot da parte dei duchi Ferdinando e Maria Amalia.

Anche nel Ducato di Modena e Reggio il duca Francesco III d’Este interviene energicamente in campo ecclesiastico: nel 1757 egli istituisce un Magistrato per difendere la giurisdizione statale; poi, suscitando le vane proteste di Roma, negli anni seguenti limita l’attribuzione di beni agli ecclesiastici che sottopone anche a tassazione, sopprime conventi e riduce notevolmente il potere del S. Uffizio. Il successore Ercole III regola nel dettaglio le celebrazioni liturgiche e ne disciplina il fasto.

Repubblica di Lucca. Ufficialmente legata alla tradizione cattolica, Lucca si mantiene tuttavia piuttosto indipendente rispetto alle direttive della S. Sede. Nel Cinquecento, quando si diffondono a Lucca le idee della Riforma protestante, lo Stato lucchese, anche se non le favorisce, respinge tuttavia le richieste di intervento che giungono da Roma. Il governo non accetta mai di introdurre l’Inquisizione romana nel proprio Stato e continua ad affidare la repressione dell’eresia al vescovo locale e dal 1545 ad una magistratura statale appositamente istituita, l’Offizio sopra la Religione, mentre diversi cittadini scelgono l’esilio per aderire liberamente al protestantesimo fuori d’Italia. Per impedire intromissioni della Sede romana si crea nel 1562 l’Offizio sopra la Giurisdizione, con competenze sempre più ampie fino al Settecento. Nel 1605 gravi tensioni tra il governo e il vescovo Guidiccioni portano Paolo V a chiedere ancora l’introduzione del S. Uffizio, ma senza significativi risultati. È caratteristico anche il costante rifiuto di Lucca ad accettare la presenza della Compagnia di Gesù.

Toscana. Già nel Quattrocento Firenze aveva realizzato una legislazione molto favorevole alle richieste della Chiesa: orientamento confermato dalla dinastia dei Medici, che vede alcuni suoi membri al vertice della Chiesa, anzitutto il papa Leone X. Per trattare gli affari ecclesiastici, i Medici stabiliscono un apposito ufficio, detto Segreteria del Regio diritto. Se il granduca Cosimo I riesce ad esercitare una certa influenza, arrivando fino alla parziale tassazione del clero, i suoi successori sono più deboli e lasciano spazio all’intervento ecclesiastico, compresa l’istituzione della nunziatura apostolica di Firenze con un’ampia giurisdizione concorrente con quella statale. Il clero possiede gran parte delle proprietà immobiliari nel Granducato.

Con il passaggio della Toscana agli Asburgo-Lorena nel 1737, cambia la politica ecclesiastica. Tra il 1765 e il 1790 il granduca Pietro Leopoldo, come il fratello Giuseppe II nell’Impero, attua una serie di misure che mirano non solo ad affermare i diritti dello Stato, ma anche a riformare la Chiesa. Abolisce il tribunale della nunziatura e quello dell’Inquisizione, il diritto di asilo, il privilegio del foro e l’immunità per i beni ecclesastici; impone exequatur e placet e limita radicalmente la c.d. manomorta. Collaborando con Scipione de‘ Ricci, vescovo di Pistoia, Pietro Leopoldo porta al culmine il giurisdizionalismo cercando di sottrarre la vita della Chiesa al controllo dell’autorità pontificia, considerata straniera. Sono colpiti soprattutto gli Ordini religiosi, con soppressioni di conventi e con la sottomissione delle comunità residue alla giurisdizione del vescovo locale, facilmente controllato dallo Stato. Il culto viene regolato in modo rigoroso, secondo la tendenza giansenista. La Chiesa viene subordinata allo Stato.

L’evento più importante della politica leopoldina è il sinodo diocesano di Pistoia del 1786, presieduto dal Ricci e animato dal canonista Pietro Tamburini: secondo la volontà del granduca e in conformità alle idee gianseniste-febroniane, come anche a quelle del richerismo che esalta il ruolo dei parroci, tale assemblea dovrebbe preparare un’assemblea nazionale dei vescovi toscani; il progetto cade per la reazione negativa dei vescovi e poi per la partenza del granduca, divenuto imperatore e trasferitosi a Vienna. Pio VI condanna 85 proposizioni estratte dal sinodo pistoiese con la bolla Auctorem fidei del 1794: è la fine del giansenismo politico e disciplinare.

Napoli e Sicilia. All’antica dominazione dei Normanni risalgono due fatti che hanno conseguenze fino all’Ottocento. Il primo è l’investitura pontificia dei re di Sicilia e Napoli, i quali, come vassalli, debbono perciò pagare ogni anno un tributo al papa. A tale somma gli Angiò hanno poi aggiunto l’omaggio di un cavallo bianco, detto “chinea”. In età moderna, diversi sovrani cercano con difficoltà di liberarsi di questi obblighi, ritenuti ingiusti e umilianti: solo con Ferdinando II delle Due Sicilie, la S. Sede rinuncia al tributo e alla chinea (già in disuso) in cambio di un’offerta di denaro.

Il secondo fatto è il conferimento della Legazia Apostolica ai sovrani di Sicilia. Il re ha il titolo di legato del pontefice nel proprio Stato, quindi può impedire l’invio da Roma di qualsiasi altro legato: è giudice ecclesiastico in ultima istanza, può assolvere dalle censure e rilasciare dispense matrimoniali, e impedisce qualsiasi appello a Roma da parte dei sudditi. Questa prerogativa prende il nome di Monarchia Sicula e i sovrani esercitano le loro numerose facoltà in campo ecclesiastico mediante il magistrato detto Giudice della Monarchia. I pontefici tentano più volte di revocare la Legazia provocando la resistenza dei sovrani: solo nel 1871, dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie, si ha la definitiva rinuncia di Vittorio Emanuele II re d’Italia.

Durante il dominio spagnolo, lo Stato applica in Italia meridionale exequatur e placet, come pure accetta i ricorsi in materia ecclesiastica; tuttavia esercita debolmente tali diritti. Nel Settecento Vittorio Amedeo II di Savoia in Sicilia e gli Austriaci a Napoli si oppongono per anni alle pretese di Roma; ma con i Borboni si arriva presto alla firma del concordato del 1741. Nei decenni seguenti, sotto Carlo III e Ferdinando IV di Borbone, il ministro Bernardo Tanucci, ispirandosi alle idee di Pietro Giannone, conduce una politica giurisdizionalistica simile a quella delle altre monarchie borboniche: abolizione del S. Uffizio, autorizzazione statale richiesta alle associazioni religiose, abolizione del foro ecclesiastico. Espulsi i Gesuiti nel 1767, Clemente XIII reagisce con la scomunica; ma Tanucci fa occupare le città pontificie di Benevento e Pontecorvo, restituite al pontefice solo dopo la soppressione della Compagnia di Gesù.

Periodo napoleonico. Negli ultimi anni del Settecento, la Francia del Direttorio invade quasi tutti gli Stati italiani, sotto la guida di Napoleone Bonaparte; si estinguono antichi Stati e nascono nuove Repubbliche, tutte legate alla Francia: Cispadana e Transpadana (1796), che formano poi la Cisalpina, Ligure (1797), Romana (1798) e Partenopea (1799). La loro politica ecclesiastica non segue sempre il regime di radicale separazione tra Stato e Chiesa, proprio della Francia di quegli anni; anzi alcune di quelle nuove costituzioni dichiarano che il cattolicesimo è la religione della Repubblica, che se ne serve come uno strumento statale. Altre invece sono più fedeli al modello francese: separazione, ma sotto il controllo dello Stato. La successiva Repubblica Italiana, presieduta da Bonaparte, istituisce nel 1802 un nuovo Ministero per il Culto, affidato a Giovanni Bovara, e nel 1803 conclude con Pio VII un concordato che riconosce il cattolicesimo come religione dello Stato, ma attribuisce al governo la nomina dei vescovi, e impone il giuramento di fedeltà del clero. Mentre una notevole parte d’Italia entra nel nuovo Impero francese, il napoleonico Regno d’Italia eredita il concordato, più volte violato a danno della Chiesa: introdotto il codice civile che comprende il divorzio, imposto il catechismo imperiale, soppressi totalmente gli Ordini religiosi nel 1810.

Da Napoleone all’unificazione italiana. La restaurazione, attuata in base alle decisioni del congresso di Vienna, riporta in vigore i rapporti tra Chiesa e Stati secondo lo stile pre-napoleonico. Gli Ordini religiosi riescono con molte difficoltà a ricostituire solo alcune comunità, quasi mai negli spazi occupati prima delle soppressioni napoleoniche. Il Regno Lombardo-Veneto, soggetto all’Austria, continua il giuseppinismo fino al concordato tra Austria e S. Sede del 1855, che invece riconosce ampi diritti alla Chiesa e pone fine alla disciplina iniziata da Giuseppe II. Anche il Granducato di Toscana mantiene la precedente legislazione leopoldina, non toccata neppure dal concordato ottenuto da Leopoldo II nel 1851: esso conserva il controllo statale sui documenti pontifici ma garantisce la libertà delle diocesi; l’anno dopo la scuola assume carattere confessionale.

Il Regno delle Due Sicilie vede Ferdinando I di Borbone ripristinare subito il placet e concludere un concordato nel 1818: con esso la Chiesa rinuncia ai beni già venduti e viene mantenuto il foro ecclesiastico, mentre il re ottiene il diritto di nominare i vescovi, che devono anche giurargli fedeltà. Nelle scuole l’insegnamento deve conformarsi alla dottrina cattolica, mentre lo Stato contribuisce alle necessità economiche della Chiesa.

Il sabaudo Regno di Sardegna in una prima fase favorisce concretamente la S. Sede, che nel concordato del 1817 lascia al re la nomina dei vescovi. Lo statuto di Carlo Alberto del 1848 riconosce il cattolicesimo come sola religione dello Stato, ma garantisce la tolleranza degli altri culti. Gli anni seguenti portano però ad una netta svolta anticlericale, che tende al separatismo fra Chiesa e Stato, spesso in termini di vera ostilità: già nel 1848 si sopprime la Compagnia di Gesù poi, dopo le leggi Siccardi del 1850 che aboliscono il foro ecclesiastico e il diritto d’asilo e limitano gli acquisti degli enti ecclesiastici, viene incarcerato l’arcivescovo Fransoni di Torino e   l’arcivescovo Marongiu Nurra di Cagliari è costretto all’esilio.

Durante il governo di Cavour, la legge Rattazzi del 1855 sopprime nuovamente i conventi e toglie la personalità giuridica agli Ordini religiosi, i cui patrimoni vengono incamerati dallo Stato. In seguito a tali scelte legislative, il papa b. Pio IX interrompe le relazioni diplomatiche. Ma ancora nel 1859, un’altra legge, non votata a causa dei poteri di guerra, attribuisce al Consiglio di Stato il controllo statale sugli atti ecclesiastici e il giudizio sui ricorsi contro di essi.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Stato - vol. II


Autore: Lorenzo Mancini

portapiaIl principio «Libera Chiesa in libero Stato», di ascendenza giansenista, riconducibile al cattolico liberale francese Charles de Montalambert, al riformato svizzero Alexandre Vinet, fatto proprio da Cavour all’indomani dell’unità d’Italia, segna una tappa importante nelle relazioni tra Stato e Chiesa in quanto riassume il difficile decennio precedente e cerca di delineare le linee guida per quello successivo alla luce degli eventi che portarono alla costituzione del Regno d’Italia; quelle parole tuttavia, al di là della chiarezza e dell’efficacia, nascondevano una serie di problemi politici, giuridici ed ecclesiologici circa la realizzazione pratica di quel principio, sullo sfondo di un difficile contesto di relazioni internazionali con lo Stato della Chiesa, ormai privato di buona parte dei suoi territori, e con le altre nazioni europee. Dal punto di vista della Chiesa non si poneva tanto l’accento sulla libertà dei due soggetti, ma si temeva la possibile inclusione della Chiesa nella sfera di controllo dello Stato.

Pio IX intuiva tutte le difficoltà della mancanza di un territorio per la Chiesa che avrebbe dovuto realizzare la sua universalità attraverso una sovranazionalità non ancora ipotizzabile e tanto meno definibile; al tempo stesso però comprendeva che ipotesi come quella neoguelfa non erano praticabili e anche l’avvicendarsi della classe politica di governo con l’avvento della sinistra storica al potere sembrava confermare l’irreversibilità del processo unitario.

Fin dal 1861, tra i problemi della nuova realtà, spiccava la Questione romana, ovvero quale ruolo attribuire all’Urbe, capitale dello Stato Pontificio e simbolo del potere temporale dei papi che la Chiesa intendeva come garanzia della propria libertà di azione (cf. allocuzione di Pio IX Maxima quidem laetitia del 9 giugno 1862 e, dopo i fatti di Porta Pia, cf. l’enciclica Ubi nos del 15 maggio 1871).

Già in epoca cavouriana, in buona parte della classe politica di governo, si era consolidata l’idea che trasferire a Roma la capitale del Regno d’Italia fosse una soluzione non solo percorribile ma a tratti doverosa. Da una tale ipotesi scaturirono i primi progetti di regolamentazione della difficile possibile coabitazione nella città, cui aggiungere tentativi di accordo e conciliazione fra le parti sotto la vigilanza della Francia; le truppe di Napoleone III insieme a quelle di Pio IX, infatti, nel 1867 respinsero a Mentana l’attacco di Garibaldi allo Stato Pontificio, non abbandonando successivamente quei territori, contrariamente a quanto previsto dalla convenzione italo-francese del 1864 nella quale, tuttavia, l’Italia si impegnava a non attaccare i territori papali.

L’escalation politica e militare del 1870 sul fronte franco-prussiano con il conseguente abbandono francese della piazza di Roma e l’entrata delle truppe sabaude, portò, nell’anno successivo, alla proclamazione di Roma capitale del Regno d’Italia, comportando la definitiva rottura tra Stato e Chiesa i cui rapporti, nell’ultimo decennio, si erano via via irrigiditi. Le relazioni tra i due soggetti, le prerogative del papa e della Santa Sede, venivano regolate unilateralmente dallo Stato con la Legge 13 maggio 1871, n. 214 per le guarentigie delle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede per le relazioni della Chiesa con lo Stato e non già con un atto di natura pattizia: a fronte del venir meno della sovranità territoriale sullo Stato della Chiesa, venivano garantiti l’inviolabilità del papa, gli onori sovrani, alcune immunità ed esenzioni, il diritto di legazione attiva e passiva, la possibilità di mantenere i tradizionali corpi armati a guardia dei palazzi lasciati al papa e la possibilità di poter usufruire di un proprio ufficio postale e telegrafico. Veniva inoltre prevista un’indennità annua che non fu mai riscossa dal papa, ma che fu fra le questioni affrontate dalla Convenzione Finanziaria nell’ambito dei Patti Lateranensi del 1929. Sul piano delle relazioni Stato-Chiesa, il titolo secondo della Legge delle Guarentigie, che ben rispecchiava il confronto parlamentare tra posizioni separatiste e posizioni giurisdizionaliste, prevedeva una minore ingerenza dello Stato nella vita e nell’organizzazione della Chiesa, pur mantenendo, salvo che per la diocesi di Roma e le sedi suburbicarie, il placet e l’exequatur su questioni patrimoniali e sulle nomine che comportassero gestioni patrimoniali. Il papa e la Curia Romana ribadivano il Non expedit, ossia vietavano la partecipazione alla vita politica del neonato soggetto statuale, così come avevano già fatto in diverse occasioni a partire dal 1868, sulla scia di provvedimenti analoghi già utilizzati da Pio VII durante la dominazione napoleonica e dallo stesso Pio IX a partire dal 1849 (la lettera apostolica Cum Catholica Ecclesia del 26 marzo 1860,  promulgata da Pio IX dopo la perdita delle Romagne, per esempio, ribadiva la necessità del potere temporale e prevedeva la scomunica maggiore per chiunque avesse attentato all’integrità dello Stato Pontificio); lo scontro tra le parti finì col radicalizzarsi anche sul piano culturale.

Ma se la Questione romana continuò a dividere anche all’indomani della quasi contemporanea scomparsa nel 1878 di Pio IX e di Vittorio Emanuele II e all’avvicendarsi sul trono di Pietro di Leone XIII e su quello italiano di Umberto I, l’impegno sociale sembrava essere il nuovo fattore di coesione attraverso cui i cattolici italiani riuscirono a dare il loro apporto alla vita della nazione, contribuendo ad un lento e graduale mutamento del clima politico sul piano formale e su quello sostanziale. La capillare presenza dei cattolici a livello sociale, distribuiti nelle varie organizzazioni, fra cui spicca l’Opera dei Congressi, compensava la loro mancanza di partecipazione alla vita politica in senso stretto del Regno d’Italia; alla luce della Rerum Novarum anche la presenza dei cattolici a livello sindacale cominciò ad attestarsi. Si alternarono e si contrapposero idee di partecipazione alle elezioni e tentativi di conciliazione a posizioni intransigenti che rimarcarono l’insanabilità e l’irrimediabilità della frattura creatasi fra Regno d’Italia e Chiesa Cattolica.

Un interessante barometro del clima politico connesso alla Questione romana è rappresentato in tal senso dalle vicende legate ai tre giubilei ordinari (1875, 1900 e 1925) e a quello straordinario del 1933, così come, per altri aspetti ed in altro contesto lo sarà quello ordinario del 1950

Gli anni di governo della sinistra storica, caratterizzati sul piano culturale da un acceso scontro fra cattolici da una parte e correnti anticlericali di varia natura dall’altra (socialisti, massoni, positivisti, mazziniani), evidenziarono il progressivo allontanamento dal separatismo cavouriano di matrice liberale, facendo riaffiorare elementi di giurisdizionalismo che, già in occasione del dibattito parlamentare sulle «guarentigie», avevano preso posizione contro il principio stesso della concessione di garanzie, intese come privilegi, al pontefice e alla Santa Sede; tuttavia, ciò non si tradusse in una modifica della legge fondamentale che regolava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, limitandosi ad una serie di provvedimenti in materia amministrativa e patrimoniale, tra cui spicca la Legge 17 luglio 1890 n. 6972 sulle opere pie. L’evoluzione dello scenario politico italiano in senso ‘trasformista’ aveva comportato un rallentamento dell’offensiva anticlericale da parte del governo, individuando nel socialismo e nelle componenti radicali, avversari più temibili anche sul piano elettorale.

Francesco Crispi, siciliano come il segretario di Stato card. Mariano Rampolla del Tindaro e già consulente giuridico di Garibaldi, mitigò i toni anticlericali e giurisdizionalisti che avevano caratterizzato i suoi interventi nel dibattito parlamentare sulla Legge delle Guarentigie, facendo affiorare la sua anima mazziniana, risorgimentale e laicamente mistica, che non lo portò ad una totale chiusura in ambito religioso, ma lo condusse talvolta ad ipotizzare una soluzione ‘americana’ per comporre il conflitto con la Chiesa. Non va però dimenticato che fu Crispi a chiedere la destituzione del sindaco di Roma, colpevole di aver fatto giungere attraverso il cardinal vicario gli auguri a Leone XIII per il suo giubileo sacerdotale. I tempi non erano ancora maturi per una serena regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa che comportasse una qualsiasi forma di conciliazione, pur auspicata sia in ambienti cattolici (si pensi all’abate di Montecassino Luigi Tosti e al vescovo di Cremona Geremia Bonomelli) sia laici, e ancora nel 1886 venne ribadito il «Non expedit prohibitionem importat». Fra le parti nacque un’accesa dialettica nella quale i soggetti in causa sembravano chiedersi un passo indietro su argomenti che fino a quel momento erano stati motivo di separazione (beni e istituzioni sul versante ecclesiale e partecipazione alla vita politica del paese su quello statale). Un dato è certo: l’argomento stava a cuore e non era più oggetto di indifferenza o di silenzio, ma dal vivace dibattito intellettuale, parlamentare e anche ecclesiale non scaturirono soluzioni politiche ed istituzionali che risolvessero la Questione romana. Gli ultimi anni del XIX secolo furono un periodo ancora confuso ed inquieto che non offrì una soluzione pratica, ma che certamente si caratterizzò per l’abbondanza di contributi e di riflessioni.

patti_lateranensiPer la classe politica di governo non era praticabile un dialogo tra laici e cattolici che individuasse obiettivi comuni: l’autonomia etica doveva necessariamente comportare anche quella giuridica e non poteva dunque tradursi in nessuna forma di intesa tra lo Stato e la Chiesa. Era ancora lontana la “conciliazione conclamata” (A.C. Jemolo), ma cominciarono ad esserlo anche certi toni tipici dello scontro dei decenni precedenti, così come appare dal pensiero di Croce e dalla politica giolittiana di compromesso. L’individuazione di valori comuni tra laici e cattolici e la sua traduzione in una conseguente strategia elettorale, arriverà solo nel 1913 con il “Patto Gentiloni” con cui i cattolici non intransigenti, guidati dal presidente dell’Unione elettorale cattolica, Vincenzo Ottorino Gentiloni, fornirono appoggio elettorale alla compagine giolittiana in cambio della salvaguardia di valori ed interessi cattolici; il patto, che portò all’elezione di 79 deputati cattolici, si inserì in quel clima da tempo voluto da Pio X di attenuazione del non expedit. Giuseppe Sarto, che già da Patriarca di Venezia aveva lasciato intendere la sua visione delle relazioni Stato-Chiesa, eletto papa nel 1903, attuò un vivace processo di riforma della Chiesa in molti aspetti della sua vita, oltre alla nota opposizione al Modernismo, con cui non è tuttavia identificabile il suo pontificato. I rapporti con il Regno d’Italia si svilupparono all’insegna di un certo pragmatismo, grazie anche al ruolo dell’abile diplomatico e segretario di Stato card. Rafael Merry del Val y Zulueta, cercando soprattutto di consolidare il ruolo internazionale della Santa Sede. Nel 1905 l’enciclica Il fermo proposito, pur ribadendo la validità generale del non expedit, aveva di fatto concesso ai vescovi la facoltà, previa richiesta, di permettere ai cattolici di rappresentare «il popolo nelle aule legislative […] pel bene delle anime e dei supremi interessi delle vostre Chiese». Pio X, inoltre, identificava come un dovere dei cattolici quello di «prepararsi prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati».

Sul piano internazionale, l’intensificarsi dell’attività diplomatica fra le nazioni, precedente la Prima guerra mondiale, vedeva il paradosso di una Santa Sede molto impegnata in tal senso, in virtù anche di quanto concesso dalle Guarentigie in materia di legazione attiva e passiva, ma della sua esclusione dalle grandi conferenze internazionali per il fatto, non trascurabile, di non essere uno Stato; a ciò si aggiungano anche le pressioni esercitate dall’Italia sulle altre nazioni, specialmente quelle legate da trattati di alleanza, affinché la notorietà, il prestigio e l’impegno della Santa Sede non si traducessero in richieste, da parte di paesi terzi, di concessioni territoriali che l’Italia avrebbe dovuto elargire al nuovo ipotetico stato papale. In più la guerra fece emergere, come prevedibile, la contraddizione di un soggetto con dignità internazionale, vocazione sovranazionale, ma inserito, suo malgrado, in un complesso e mutevole sistema di alleanze nel quale doveva pur muoversi, ma non più come uno stato sovrano. La Santa Sede rimaneva così esclusa, almeno sul piano formale, dai grandi consessi internazionali nei quali, prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale, si discuteva il futuro dell’Europa e del mondo intero; in tale contesto si inseriscono i continui numerosi appelli alla pace di Benedetto XV, affiancati da un’intensa attività diplomatica e caritativa promossa dal Pontefice negli anni del conflitto. Il sistema degli equilibri fra le potenze giocava sia a favore sia a sfavore della Santa Sede per quanto riguardava la soluzione della questione territoriale, a seconda di quale potenza se ne faceva promotrice e di quali fossero le sue ragioni: il pontefice aveva intuito che una fase geopolitica si stava concludendo, una nuova se ne apriva e la Chiesa non poteva non inserirsi in questo nuovo scenario internazionale. Tuttavia, al di là della mancata soluzione sul piano del diritto internazionale, notevoli furono gli sviluppi sul piano politico che, a partire dalla Conferenza di Parigi del 1919, portarono ai Patti Lateranensi del 1929; il decennio in questione, infatti, vide consolidarsi su diversi fronti il ruolo dei cattolici italiani che contribuirono ad un vivace dibattito politico onnicomprensivo che non si limitò ad affrontare la sola questione territoriale, bensì tutti gli aspetti delle relazioni tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica. In tal senso, importante fu il contributo di Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, per l’Italia, e di monsignor Bonaventura Cerretti e del cardinal Pietro Gasparri per la Santa Sede. Anche Alfredo Rocco, giurista fra i principali teorici del fascismo e ministro della Giustizia e degli Affari di Culto, avvertiva la necessità di una soluzione del problema fra le parti: la commissione incaricata di studiare la riforma della legislazione ecclesiastica (cui prendevano parte anche tre prelati) concludeva i suoi lavori presentando un progetto di revisione, che non ebbe seguito, e che tuttavia si sarebbe tradotto in una serie di provvedimenti legislativi e non in un accordo fra le parti.

Il fervido lavoro della politica e della diplomazia, portarono alla soluzione del 1929, nel contesto di un disegno internazionale più ampio e diversificato definito “svolta concordataria”, con la firma dei Patti Lateranensi, comprendenti il Trattato del Laterano, con cui si chiudeva la Questione romana e si istituiva lo Stato della Città del Vaticano, l’annessa Convenzione finanziaria e il Concordato. Il Governo di Mussolini concludeva dunque la pagina risorgimentale forse più complessa per intensità, durata ed implicazioni politiche nazionali ed internazionali; erano certamente lontani i toni mussoliniani anticlericali di pochi anni prima, tipici del Fascismo delle origini. Ma la conciliazione sancita dalle firme di Mussolini e Gasparri e dalle parole di Pio XI era destinata, di lì a breve, a mostrare alcune crepe già presenti da tempo e fisiologicamente generate dal confronto tra la Chiesa e il regime: un primo segnale in tal senso fu il dibattito parlamentare sulla ratifica degli accordi. Il dato di fatto fu comunque la conclusione della fase separatista e l’inizio di quella concordataria che, in quel determinato contesto, assumeva il significato di un gioco fra le parti teso ad inglobare la controparte nella realizzazione del proprio progetto ideologico (quello fascista per il regime, quello di ‘cristianità’ per la Chiesa), ma i fatti del 1931, denunciati dall’enciclica Non abbiamo bisogno, scritta in difesa dell’attività e delle finalità dell’Azione Cattolica, fecero emergere in modo conclamato quei problemi già presenti in fase di preparazione degli accordi. Tuttavia, la portata dei Patti firmati solo due anni prima, con gli annessi vantaggi di varia natura per entrambe le parti, riportò la situazione ad una «pace di compromesso, senza vincitori né vinti» (A.C. Jemolo) che durò fino al definitivo mutarsi  dei rapporti, compromessi da nuovi scontri sul ruolo e l’attività dell’Azione Cattolica, dall’avvicinarsi alla Germania nazista,  della promulgazione delle leggi razziali nel 1938 e al definitivo fallimento del progetto di assorbimento ideologico portato avanti da entrambe le parti.

L’utilizzo della modalità pattizia sortiva dunque l’effetto di evidenziare la delicatezza dell’equilibrio che legava lo Stato fascista alla Chiesa Cattolica e ciò fu ancora più evidente durante il pontificato di Pio XII, già successore di Gasparri alla Segreteria di Stato, caratterizzato nella prima parte, dallo svolgimento della Seconda guerra mondiale. A differenza del primo conflitto, vi era ora lo Stato della Città del Vaticano, che, circondato dalla capitale dell’Italia fascista, doveva mantenere la sua neutralità e le relazioni con le potenze belligeranti: furono per la Santa Sede anni di intensa attività diplomatica ed umanitaria.

La fine del conflitto, gli sviluppi politici ed istituzionali italiani riaccesero inevitabilmente a tutti i livelli e in diversi contesti il dibattito sulla natura e le modalità dei nuovi rapporti tra lo Stato e la Chiesa Cattolica; in questo dibattito decisivo fu il ruolo della Democrazia Cristiana che, particolarmente negli anni di lavoro dell’Assemblea Costituente e con l’apporto di altre forze politiche, seppe farsi portavoce del ruolo che i cattolici avevano svolto fin dalla caduta del regime fascista nel processo di ricostruzione politica del paese. In merito al tema dei rapporti con la Chiesa Cattolica, oltre ai dibattiti più ampi sui principi fondamentali della Costituzione e sulle libertà e sulle formazioni sociali, la discussione si concretizzò negli artt. 7 e 8 che affrontavano rispettivamente il tema delle relazioni tra la Chiesa e la Repubblica Italiana e quello del pluralismo confessionale. Lo Stato affermava la sua neutralità in materia religiosa, garantendo «l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge» e in merito ai rapporti con la Chiesa, affermava che «Stato e Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» e che «i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi»; il dibattito, come immaginabile, fu acceso e si orientò in un compromesso fra chi voleva accentuare l’elemento della sovranità della Chiesa o quello della laicità. Il dato importante e non scontato in partenza fu comunque il riconoscimento a livello costituzionale dei Patti Lateranensi. Gli anni ’50 e ’60, infatti, videro lo sviluppo del “diritto concordatario” inteso come strumento di raccordo tra il diritto ecclesiastico e il diritto canonico (G. B. Varnier). L’analisi della fase concordataria repubblicana deve, ancor più delle precedenti, porre maggiore attenzione al concetto di “nazione cattolica” (A. Riccardi), da integrare con quelli di chiesa e di stato, rilevando continuità o discontinuità di modelli, ma soprattutto novità dovute ai profondi mutamenti culturali e sociali di quegli anni a livello planetario e nazionale. In questo contesto si inserì anche il Concilio Vaticano II che, pur non interessato direttamente agli aspetti tecnici delle relazioni tra gli stati e la Chiesa, tuttavia contribuì in modo profondo ad una nuova e più ampia visione dei rapporti tra comunità cristiana e comunità civile come poi sintetizzato nella costituzione conciliare Gaudium et spes.

IL CARDINALE AGOSTINO CASAROLI CON BETTINO CRAXI ALLA FIRMA DELL' ACCORDO DI REVISIONE DEL CONCORDATO D' ITALIA (Umberto Roazzi / Giacominofoto, ROMA - 1984-02-18) p.s. la foto e' utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e' stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate
IL CARDINALE AGOSTINO CASAROLI CON BETTINO CRAXI ALLA FIRMA DELL’ ACCORDO DI REVISIONE DEL CONCORDATO D’ ITALIA (Umberto Roazzi / Giacominofoto, ROMA – 1984-02-18) p.s. la foto e’ utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e’ stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

Sul piano politico e giuridico si cercò di declinare una nuova concezione di laicità, su quello culturale la secolarizzazione occupò uno spazio crescente e sul piano ecclesiale, l’istituzione della Conferenza Episcopale Italiana nel gennaio del 1952, introdusse un nuovo soggetto protagonista delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa che, come sarà evidente nell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense del 1984 (cf. art. 13 n. 2) affiancò la Santa Sede nella gestione dell’accordo e dei successivi atti connessi. Circa l’interesse e  il coinvolgimento degli italiani in merito al tema delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, vi è da rilevare come essi siano stati particolarmente intensi in concomitanza delle grandi battaglie politiche su temi etici come, per esempio, divorzio (1974), aborto (1981) e fecondazione assistita (2005), ma che invece si siano mantenuti su livelli piuttosto bassi in occasione dei momenti istituzionali in cui quei rapporti si traducevano in atti di portata storica; è il caso dei citati accordi di Villa Madama del febbraio 1984, in cui, per la seconda volta nella storia d’Italia, un non cattolico come il presidente del Consiglio dei Ministri Bettino Craxi, concludeva con il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli, il suddetto accordo di revisione del concordato, preceduto da un dibattito politico e giuridico ventennale sulla necessità e le eventuali modalità di procedere ad una revisione. Per rimarcare la portata non debitamente percepita di quegli accordi, si noti che al punto 1 del Protocollo addizionale veniva definitivamente sancita l’abolizione del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, di fatto già implicito nell’articolo 8 della Costituzione (cf. inoltre sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale sul principio supremo di laicità dello Stato). Diversi gli scenari storico-politici e ancor più diversa la loro velocità di cambiamento: le relazioni Stato-Chiesa, oggi più che mai, non possono essere comprese se non con uno sguardo multidisciplinare e comparatistico, per i nuovi scenari sociali, politici ed internazionali in cui sia la Chiesa, sia gli Stati sono oggi inseriti. In tal senso fonti interessanti si rivelano i diari dei protagonisti della storia delle relazioni Stato-Chiesa, attraverso cui cogliere sia la complessità degli eventi e del contesto, sia quella degli individui (G. F. Pompei)

L’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, poi, pone un inevitabile confronto fra il diritto ecclesiastico degli Stati membri e sulla più ampia tematica delle loro relazioni con la Chiesa Cattolica e/o con altre chiese. Le relazioni con gli altri Stati, l’inserimento in organizzazioni internazionali o la partecipazione a convenzioni, così come la missione universale della Chiesa Cattolica, specialmente alla luce del Concilio Vaticano II, non possono più essere considerati elementi secondari: questa fu la grande intuizione e l’impegno dei pontefici nella seconda metà del ‘900. In particolare, l’elezione di Karol Wojtyła nel 1978, in uno dei momenti più difficili  per il cattolicesimo italiano, fu un segno incontrovertibile di una tendenza a cui anche l’Italia non poteva sottrarsi: la “svolta concordataria” che aveva interessato anche l’Italia nel 1929, si riproponeva in un contesto totalmente diverso con Giovanni Paolo II e il già citato Accordo di revisione del Concordato del 1984, aveva la duplice valenza di inserirsi in una storia tutta italiana con le proprie radici nel Risorgimento, ma anche come uno dei 147 accordi firmati dalla Santa Sede tra il 1978 e il 2003.

Il decennio successivo, sullo sfondo della complessa ridefinizione del ruolo dei cattolici in politica (con particolare riferimento ai Convegni ecclesiali nazionali di Loreto 1985 e Palermo 1995), vide il declinarsi nel nuovo contesto di tematiche classiche del diritto concordatario legate ai rapporti finanziari tra Stato e Chiesa o agli interessi religiosi dei cittadini, ancora oggi oggetto di accesi dibattiti politici: si pensi, solo per citarne alcuni più noti, al finanziamento pubblico della Chiesa, al sostentamento del clero, all’assistenza spirituale nelle strutture obbliganti, alla condizione giuridica e fiscale degli edifici di culto che in Italia è resa ancora più particolare per l’elevato numero di quelli di valore storico, artistico e architettonico, al matrimonio concordatario. Una particolare menzione merita la questione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, terreno di vivo confronto sul tema della laicità dello Stato e ambito di interesse multidisciplinare (M. Madonna).

Anche in Italia le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sono interpellate e sfidate da nuove istanze culturali, politiche e religiose, ma anche da nuovi assetti geopolitici ed istituzionali. Si tratta allora di comprendere una relazione bilaterale, che tuttavia entra necessariamente sempre più in rapporto con un contesto globale, più conosciuto, ma anche profondamente diverso e mutevole rispetto a quello del 1861. In questo alveo si è mossa e si muove la storia delle relazioni tra la Chiesa e lo Stato, che ha assunto ed assume in Italia tratti assolutamente peculiari, per la millenaria presenza sul territorio della Santa Sede.

Fonti e Bibl. essenziale:

A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dall’Unificazione ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1981, G.F. Pompei, Un ambasciatore in vaticano: diario 1969-1977, Il Mulino, Bologna 1994; A. Acerbi (ed.), La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, Vita e Pensiero, Milano 2003; M. Mugnaini (ed.), Stato, Chiesa e relazioni internazionali, Franco Angeli, Milano 2003; G. Acquaviva (ed.), La grande riforma del Concordato, Marsilio, Venezia 2006; A. Giovagnoli, La Chiesa in Italia fra nazione e Stato, Vita e Pensiero, Milano 2004; M. Impagliazzo (ed.), La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, Guerini e Associati, Milano 2004; G.B. Varnier (ed.), Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2004; I. Bolgiani, Enti di culto e finanziamento delle confessioni religiose: l’esperienza di un ventennio (1985-2005), Il Mulino, Bologna 2007; A. Riccardi, Il «partito romano». Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Morcelliana, Brescia 2007; F. Traniello, Religione Cattolica e Stato Nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007; G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Jaca Book, Milano 2008; R. Astorri, I cattolici alla Costituente. Per una lettura del loro contributo sui rapporti fra Chiesa e Stato, in M. Bocci, Non lamento, ma azione. I cattolici e lo sviluppo italiano nei 150 anni di storia unitaria, Vita e Pensiero, Milano 2013, 347-359; L. Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2013; M. De Leonardis (ed.), Fede e diplomazia. Le relazioni internazionali della Santa Sede nell’età contemporanea, EduCatt, Milano 2014; C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea legislazione italiana, Torino, Giappichelli, 20154; F. Margiotta Broglio, L’origine giansenista della formula cavouriana “libera Chiesa in libero Stato, in «Jus. Rivista di scienze giuridiche», 3(2015), 245-250; D. Durisotto, Istituzioni europee e libertà religiosa. CEDU e UE tra processi di integrazione europea e rispetto delle specificità nazionali, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2016; M. Madonna, Lo status giuridico degli insegnanti di religione cattolica tra diritto della Chiesa e ordinamento dello Stato, Libellula, Tricase (LE) 2018.


LEMMARIO




Stato della Città del Vaticano - vol. II


Autore: Gianpaolo Romanato

Lo Stato della Città del Vaticano nacque nel 1929 quando la Santa Sede e l’Italia conclusero il Trattato del Laterano, firmato in data 11 febbraio e ratificato il 7 giugno. Il Trattato era il primo dei tre documenti costituenti i cosiddetti Patti Lateranensi (gli altri due erano il Concordato e la Convenzione finanziaria), che posero fine alla Questione Romana sorta in seguito ai fatti del 20 settembre 1870 e all’estinzione dello Stato pontificio. Con una superficie di circa 44 ettari, lo SCV è il più piccolo stato indipendente esistente al mondo, delimitato dalle mura vaticane e dalla fascia di travertino bianco che davanti alla basilica di S. Pietro unisce le due ali del colonnato berniniano. Pertinenti ad esso sono alcuni edifici e basiliche extraterritoriali esistenti a Roma e la villa di Castel Gandolfo. Dispone di due corpi armati addetti alla sicurezza interna e alla vigilanza sulla persona del Pontefice (Guardia Svizzera e Gendarmeria), emette francobolli ed è dotato di una propria bandiera. La ragion d’essere di questa singolare entità statuale, del tutto anomala nel panorama storico-giuridico degli Stati, fu precisata da Pio XI in un discorso pronunciato proprio l’11 febbraio: “Assicurare alla Santa Sede una vera e propria e reale sovranità territoriale (non conoscendosi nel mondo, almeno fino ad oggi, altra forma di sovranità vera e propria se non appunto territoriale) necessaria e dovuta a Chi, stante il divino mandato e la divina rappresentanza ond’è investito, non può essere suddito di alcuna sovranità terrena”. Il concetto fu ribadito con altre parole da Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite del 4.10.1965: “Avete davanti a voi un uomo come voi; rivestito lui pure, se così vi piace considerarci, d’una minuscola, quasi simbolica sovranità temporale, quanto gli basta per essere libero di esercitare la sua missione spirituale, e per assicurare chiunque tratta con lui che egli è indipendente da ogni sovranità di questo mondo”.

Lo SCV – che non trova giustificazione in se stesso ma in funzione di un altro ente, la Santa Sede che lo governa – non è dunque una reviviscenza del vecchio Stato pontificio ma solo un presidio territoriale a garanzia dell’indipendenza della sede apostolica, intesa come massimo organo di governo della Chiesa Cattolica sparsa nel mondo, rispetto ad ogni altra potestà civile e politica. Anche la cittadinanza vaticana, che non è originaria ma legata alla residenza o alla funzione ricoperta nello Stato (attualmente compete ad un migliaio di persone), è peculiare e anomala, come eterogenea rispetto agli stati moderni è la sua forma di governo costituzionale, trattandosi di una monarchia elettiva nella quale il Sovrano, cioè il Sommo Pontefice, assomma in sé “la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario” (nel periodo di sede vacante la sovranità è esercitata dal Collegio cardinalizio per i soli casi di urgenza e salvo ratifica del nuovo pontefice). L’organizzazione giuridica e la struttura interna dello SCV furono definite dal giurista ebreo Federico Cammeo, che operò su incarico di Pio XI, attraverso sei leggi (legge fondamentale, sulle fonti del diritto, su cittadinanza e soggiorno, sull’ordinamento amministrativo, sull’ordinamento economico, commerciale e professionale, sulla pubblica sicurezza) emanate nel 1929, contestualmente all’entrata in vigore dello Stato. La prima di tali leggi, denominata legge fondamentale, è stata successivamente modificata da Giovanni Paolo II nella versione promulgata il 26.11.2000 ed entrata in vigore il 22.2.2001. Essa prevede che il Pontefice eserciti la rappresentanza internazionale attraverso la Segreteria di Stato, il potere legislativo tramite una Commissione cardinalizia in carica per un quinquennio, quello esecutivo per mezzo del Presidente della Commissione coadiuvato dal Segretario generale e dal Vice Segretario generale, il potere giudiziario mediante i tribunali ecclesiastici. Ma va anche aggiunto che dal 1984 Giovanni Paolo II ha conferito alto e speciale mandato al cardinale Segretario di Stato di rappresentare il pontefice nel governo civile dello Stato, compresi i poteri inerenti alla sovranità temporale.

Lo SCV gode di personalità giuridica internazionalmente riconosciuta, è membro a vario titolo delle organizzazioni internazionali, partecipa alle conferenze fra gli Stati, dispone di una vasta rete di relazioni diplomatiche con i governi, costituita da poco meno di duecento nunziature. In ragione della duplice natura della Santa Sede, che al contempo è a capo di uno Stato e del cattolicesimo, i nunzi hanno una doppia funzione: rappresentare il Pontefice presso i rispettivi Stati e presso le Chiese locali. Trattandosi di un enclave interno al territorio italiano, lo SCV è dotato di tutti i servizi necessari al suo funzionamento (poste, telegrafi, telefoni, ferrovia e altri), garantiti da accordi bilaterali via via stipulati con l’Italia e raccordati agli analoghi servizi italiani.

Al suo interno, oltre ai Palazzi apostolici, alla sede del Governatorato e di altri uffici e servizi, si trovano l’Archivio Segreto, la Biblioteca Apostolica e i Musei Vaticani, tra le istituzioni culturali più importanti del mondo per la ricchezza, l’importanza e l’antichità del patrimonio conservato, frequentate da studiosi e visitatori provenienti da ogni paese; la Tipografia Vaticana, affidata ai salesiani; il giornale L’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede; la Libreria Editrice Vaticana e altre istituzioni legate alle necessità della Santa Sede. Dal 1984 l’intero territorio dello SCV è stato incluso fra i siti dichiarati patrimonio dell’intera umanità per la sua importanza storica, culturale, artistica e architettonica.

Fonti e Bibl. essenziale

F. Cammeo, Ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1932 (riedizione anastatica, Lev, 2005); W. Schulz, Leggi e disposizioni usuali dello Stato della Città del Vaticano, 2 voll., Pontificia Università lateranense, Roma, 1981; P.A. d’Avack, Vaticano e Santa Sede, a cura di C. Cardia, Bologna 1994; G. Barberini, Chiesa e Santa Sede nell’ordinamento internazionale. Esame delle norme canoniche, Giappichelli, Torino, 2003; Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, 1929-2009. Ottanta anni dello Stato della Città del Vaticano, Città del Vaticano-Biblioteca Apostolica Vaticana, 2009; Id., Lo Stato della Città del Vaticano. Atti del Convegno sugli 80 anni (12-14 febbraio 2009), Lev, 2010; N. Picardi, Lo Stato Vaticano e la sua giustizia, Cacucci, Bari, 2009; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino, 1971; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia dalla Grande Guerra al nuovo Concordato (1914-1984), il Mulino, Bologna, 2009.


LEMMARIO




Storia della Pietà (Giuseppe de Luca) - vol. II


Autore: Luigi Michele de Palma

 

L’idea di una Storia della pietà ebbe una lunga gestazione nella mente e nel cuore di Giuseppe De Luca (1898-1962), geniale ed erudito sacerdote di origini lucane, naturalizzato romano. Insoddisfatto dei suoi studi giovanili di carattere filologico e letterario, De Luca provava insofferenza per la condizione d’immobilità in cui versavano la cultura cattolica italiana e gli studi ecclesiastici, entrambi stretti nella morsa dell’antimodernismo e in dipendenza dalla cultura straniera mitteleuropea. Era suo desiderio riscattare la storiografia italiana dalla soggezione estera ed emanciparla dalla cappa imposta dall’idealismo di G. Gentile e dallo storicismo di B. Croce. Nello stesso tempo egli criticava l’impostazione classica della storiografia ecclesiastica, incentrata sulla storia dei papi, dei vescovi, degli ordini religiosi e sulle grandi vicende che avevano pervaso ogni epoca, insomma una storia di vertici e delle istituzioni, poco attenta alla dimensione religiosa della vita degli uomini, così com’era, in generale, la storiografia politica, economica, militare e culturale. De Luca, invece, nutriva simpatia per l’approccio storico, concentrato sul vissuto religioso, suggerito da Lucien Febvre. E molto gli valsero le frequentazioni con André Wilmart, Henri Bremond e Joseph de Guibert per definire i contorni di una storia della pietà, lontana dalla storia delle dottrine teologiche quanto dalla storia delle religioni e del sentimento religioso.

Sul finire degli anni ’20 del Novecento, De Luca programmava la pubblicazione di una Storia della pietà italiana di carattere letterario – storia più nota e apprezzata all’estero – quindi, a seguito di una riflessione durata oltre un ventennio, giunse ad elaborare il progetto più ampio di un Archivio Italiano per la Storia della Pietà, concepito come uno spazio editoriale – parallelo alle Edizioni di Storia e Letteratura da lui fondate nel 1943 – entro cui comparisse la ricca documentazione relativa alla Pietà, rimasta per lungo tempo inesplorata.

Nel 1951 apparve il primo volume della serie, con una densa introduzione curata da De Luca, in cui egli illustrava il progetto e si soffermava a descriverne l’idea, i fini e il metodo. Innanzitutto egli spiegava la nozione di Pietà: non un concetto, non un vago sentimento, non la vaga religiosità e neppure il «solo vertice supremo ed esatto dell’unione mistica» (Introduzione, p. 7), ma lo stato in cui l’uomo avverte nella sua vita presente Dio sul piano del rapporto d’amore. Non una condizione momentanea e transitoria, bensì continua e duratura, anche «se non ininterrottamente in atto» (ibidem, p. 8), nonché onnicomprensiva dell’esistenza umana. Perciò – continuava De Luca – «si è pii come si è vivi» ed in ogni uomo è presente la pietà, anche se essa non è avvertita o viene espressamente negata, poiché, amata o odiata, la presenza di Dio viene parimenti percepita. Lo studio della Pietà – per don Giuseppe – comprende pertanto l’indagine sul suo contrario, cioè sull’empietà, perché anch’essa ha la medesima origine: la presenza di Dio nella vita dell’uomo.

Sebbene De Luca non abbia voluto tessere nessuna teoria o dottrina sistematica intorno alla Pietà, l’apparente indeterminatezza della nozione comporta la qualità dell’universalità. Qualunque uomo, di qualunque religione, seppure erronea, può essere pio e qualsiasi espressione della sua pietà può essere oggetto di studio. Tuttavia, De Luca era persuaso che l’unica vera religione fosse il Cristianesimo, nel cui seno la Pietà non coincide con l’ascetica, né con la spiritualità e neppure con la devozione, ma supera tutte perché si identifica con la carità. Il possesso di questa virtù consente al fedele più ignorante di superare, in forza della sua pietà, il teologo più acuto, per giungere a penetrare il supremo “mistero di pietà” (1Tim 3,16) compiuto in Cristo, nel quale la pietà divina e umana si sono perfettamente congiunte.

A De Luca la Pietà appariva come «un elemento nella vita, e dunque nella storia dell’uomo, che se non sorpassa e sovrasta, certo eguaglia tutti gli altri» (Introduzione, p. 31). La sua nozione, apparentemente indeterminata, consentiva di estendere senza limiti la ricerca a qualsiasi testimonianza che fosse espressione, in ogni tempo, luogo e religione, di una dimensione fra le più alte e segrete della vita degli uomini, e in essa di cogliere e scoprire la presenza di Dio nelle realtà più minute e sperdute dell’esistenza umana.

La nuova scienza fondata da De Luca colmava una lacuna presente nella storiografia contemporanea – specialmente italiana – dimentica di un tema dalla valenza incomparabile per l’indagine storica. Più che fissare principi ermeneutici, la Storia della pietà doveva fornire agli studiosi un repertorio variegato di fonti e di documentazione, facendo proprio il metodo storico-filologico e la ricerca erudita: entrambi sarebbero stati in grado di coinvolgere senza limiti qualunque ricercatore.

Secondo questa prospettiva – non senza difficoltà di vario genere, non ultime quelle economiche – si sviluppò la produzione pubblicistica delle Edizioni di Storia e Letteratura e la pubblicazione dell’Archivio. Numerosi furono gli studiosi e gli amici che collaborarono alle iniziative di De Luca, condivisero il suo progetto storiografico ed ereditarono il suo programma editoriale. I primi tre volumi dell’Archivio (apparsi nel 1951, 1959 e 1962) furono curati da De Luca, mentre, a seguito della sua prematura scomparsa (1962), la direzione dell’Archivio fu assunta da Romana Guarnieri – discepola e continuatrice di De Luca – la quale editò i vol. IV-VIII fra il 1965 e il 1980. Dal 1996, sotto la direzione di Paolo Prodi, fu avviata una nuova serie, curata da un Comitato direttivo e con periodicità annuale.

Nel frattempo lo studio della Storia della pietà ha suscitato larga risonanza nella compagine degli studi storici e così pure l’approfondimento del pensiero, della vita e della personalità del suo ideatore. Nel 1984 si svolse a Vicenza, presso l’Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, un seminario sul tema “Giuseppe De Luca la storia della spiritualità”, mentre un convegno, tenuto a Roma nel 1994, fu dedicato a “La Pietà e la sua storia”, durante il quale, alla ripresa delle pubblicazioni dell’Archivio, gli studiosi trassero un bilancio dello sviluppo di questo filone storiografico ed indicarono le ulteriori piste di indagine in attesa di essere percorse. Se per un certo tempo le intuizioni di De Luca hanno dato origine ad un particolare interesse, dovuto alla novità della proposta insieme al desiderio sotteso di provocare l’attenzione della storiografia laica per il tema religioso, in seguito esse sono rimaste alquanto appannate dinanzi allo sguardo degli studiosi. Ciononostante, il sommesso prosieguo delle indagini ispirate da De Luca ha allargato i confini delle ricerche, recuperando una massa insospettabile di testimonianze inerenti una storia ignorata dalla storiografia ufficiale, anche ecclesiastica. Gli studi sulla storia della pietà, invece, hanno rivelato ambiti rimasti a lungo sconosciuti perché ritenuti marginali, e tuttavia continuano a interrogare gli storici circa una dimensione della vita umana per nulla trascurabile. Se negli ultimi decenni il mercato italiano della pubblicistica ha corrisposto ad un’esigenza religiosa (o pseudo tale) piuttosto diffusa, dovuta almeno in parte al vuoto culturale e all’incertezza sociale, la serietà della proposta delucana consente tuttora di riprendere e di approfondire un campo di studio e di ricerca rimasto non del tutto dissodato.

In proposito, si deve ricordare la recente attenzione riservata alla pietas delucana da parte di alcuni teologi, impegnati prevalentemente nell’alveo della teologia fondamentale. La riflessione teologica sta tentando di tematizzare, intorno alla Pietà, l’indagine sui fenomeni religiosi contemporanei per sviluppare «una fenomenologia convincente della presenza amata di Dio in ogni afflato di pietas interumano, [e] farsi essa stessa umano motivo e ritmo di pietà, senza ridursi a solo umanesimo».

Fonti e Bibl. essenziale

G. De Luca, Introduzione alla Storia della Pietà, Roma 1961; G. Antonazzi, Don Giuseppe De Luca e una nuova scienza la Storia della Pietà, «Studi Cattolici», XII (1968), 606-617; R. Guarnieri, La pietà, storia e chiesa nella vita e negli scritti di don Giuseppe De Luca, «Communio», IV (1975), n. 20, 3-27; Atti del Seminario di studio su “Don Giuseppe De Luca e la storia della spiritualità” (Vicenza, 23-24 novembre 1984), «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa», XIV (1985), n. 28, 6-220; Atti del convegno “La Pietà e la sua storia” (Roma, Palazzo Lancellotti, 9-10 dicembre 1994), «Archivio Italiano per la Storia della Pietà», IX (1996), p. 3-29, 319-411; G. de Candia, Don Giuseppe De Luca. La ragione erudita e l’afflato dell’amore, ibidem, XXIII (2010), 135-164; M. Sensi, Per scrivere una pagina di “storia della pietà”. Approccio con due tipologie di fonti: santuari ed edicole, in «Fede e storia. IRC e ricerca storica», a cura di F. Morlacchi, Roma 2008, 26-60; M. Sensi, Preti, tra erudizione e pietà. «Dedicati alla lettura, allesortazione e allinsegnamento» (1Tm 4,14), in «La missione del prete nella missione della Chiesa. “Noi, infatti, non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore” (2Cor 4,5)», a cura di M. Graulich – J. Pudumai Doss, Città del Vaticano 2010, 95-120.


LEMMARIO




Storiografia (età antica) - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Il termine ‘storiografia’ esprime due differenti nozioni: da una parte l’elaborazione e la stesura di opere storiche scientificamente e criticamente fondate e dall’altra il complesso delle opere storiche consegnataci da una data epoca. Come è evidente interessa qui attenerci alla seconda nozione con l’intento di mettere in luce il patrimonio degli scritti di carattere storico dell’età patristica senza trascurare il lascito che viene dalla storiografia pagana di quel medesimo tempo.

Può essere utile indicare quale sia la visione della storia da parte del cristianesimo, in modo da meglio comprenderne i caratteri e le varie forme che assume. Con un immagine chiara, il teologo e storico Oscar Cullmann (cf. Cristo e il tempo, 74 ss.) ha osservato che per l’ellenismo l’espressione simbolica del tempo è il circolo, mentre per il cristianesimo, come per il giudaismo, è la linea: un’immagine efficace, che tuttavia non è esauriente, essendo la gamma di posizioni degli storici classici più ricca e variata. Alcuni non concepiscono la storia in termini di cicli, ma fondano il discorso sulla base dell’ordine necessario dell’universo a cui l’uomo è legato, altri sulla base di una visione razionale della realtà, altri ancora, e mi riferisco in special modo agli storici romani, applicano all’esposizione i canoni della retorica, abbellendo la narrazione, con il rischio di non più tenere nel conto dovuto la “verità” proposta dai documenti; donde il timbro moralistico della composizione che diventa opus oratorium maxime, secondo l’espressione di Cicerone.

Diversamente la concezione ebraica e cristiana ha propria base nella Scrittura: essa costituisce una rottura radicale rispetto all’orizzonte delle culture contemporanee e reca in sé tre nozioni (cf. R. Niebuhr, Fede e storia, 129 ss.). La prima consiste nella credenza che il Dio che si rivela nella Bibbia non è fatto a immagine dell’uomo, ma è totalmente ‘Altro’, non è il possesso di alcun popolo né l’estensione di alcun potere terreno. Di qui scaturisce la possibilità di concepire la storia come una e universale. La seconda nozione concerne la convinzione – verificata nei fatti – che la storia è piena dell’orgoglio dell’uomo, il quale tende costantemente a sfidare la sovranità divina; una possibilità che gli deriva dalla libertà di cui gode e che spiega come egli possa essere protagonista nel fare il bene o il male. La terza nozione riguarda quello che è stato definito lo scandalo dell’“unicità”: eventi significativi e determinati, che accadono una sola volta ne segnano il percorso; unicità che si oppone totalmente all’idea dell’eterno ritorno propria delle società arcaiche. Da tutto ciò deriva la dimensione della teologia della storia presente nella storiografia che ci interessa.

Non a torto, Eusebio di Cesarea, con la sua Historia ecclesiastica, scritta all’inizio del IV, secolo è considerato come il padre della nuova storiografia. Non di meno, in proposito, occorre fare qualche precisazione. Egli infatti si fa interprete di una tradizione che risale alle origini stesse del messaggio evangelico. I fatti raccontati da Nuovo Testamento – penso in special modo ai Vangeli e agli Atti degli Apostoli – pur avendo altra finalità e altri caratteri sono significativi: si tratta di narrationes historicae che hanno una fisionomia particolare. Non riguardano episodi locali (non i grandi accadimenti e neppure le ‘vite’ di personaggi famosi), ma narrano episodi pressoché ignoti a tutti fuorché a coloro che vi hanno partecipato. Eppure tali documenti sono redatti con la massima cura dei particolari e la serietà di chi ha consapevolezza che la loro conoscenza e la loro memoria diventerà decisiva per chi li conoscerà.

Il cristianesimo, infatti, è un movimento che si fonda sulla storia, giacché nella storia si rivela e si compie l’opera di Dio. Ogni avvenimento – lo si diceva – ha una importanza unica, a cominciare dall’evento centrale e decisivo che è la venuta di Gesù Cristo, la sua vita, la sua passione, la sua morte, la sua resurrezione. Si comprende dunque ciò che scrive Paolo (cf. 1 Cor 15, 3 ss.): «Vi ho trasmesso prima di tutto quanto anch’io ho ricevuto, che Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture, che fu sepolto e risuscitò il terzo giorno…». E Luca, all’inizio del suo Vangelo (1, 1-4), rivolgendosi a Teofilo scrive :«Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari, così anche io ho deciso di fare accurate ricerche su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato (…) in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto».

Qualche decennio più tardi, nella prima decade del II secolo, Ignazio vescovo di Antiochia, mentre era condotto a Roma sotto scorta per essere martirizzato, sottolinea, rivolgendosi alla comunità cristiana di Tralli (vd. pure lettere agli Smirnei 1, 1 s. e agli Efesini 7, 2; 18, 2; 20, 2), che Gesù fu realmente perseguitato sotto Ponzio Pilato, fu realmente crocifisso e morì e realmente risuscitò dai morti, egli che è uomo e Dio. Indubbiamente, quelli citati, sono testi che hanno un carattere e uno scopi precisi: nascono dalla fede, sono a servizio della fede delle comunità più antiche.

Ciò che qui si vuole mettere in evidenza è l’intento di rendere certo chi legge che i fatti di cui si parla hanno un fondamento storico preciso. Non stupisce quindi che una delle forme più antiche della storiografia cristiana sia costituita dalla cronografia, la quale registra gli accadimenti storici (o liste di re, di consoli, di imperatori, di vescovi, ecc.) nella loro successione cronologica, in modo estremamente sintetico e essenziale. Alcune “cronache” hanno carattere universale e, basandosi sui dati biblici, tratteggiano la storia dell’umanità fino al tempo in cui sono composte o, ancora, fino alla fine del mondo (per cui, in questo caso cronologia e escatologia costituiscono un tutto unico).

Già nel II-III secolo Teofilo di Antiochia, Sesto Giulio Africano, Ippolito e Clemente di Alessandria offrono composizioni di tale genere. Esse intendono mettere in luce l’antichità del messaggio cristiano (che affonda le proprie radici nella storia ebraica) e insieme la sua novità e, non di rado, correlano i fatti secolari con quelli della Historia salutis. Le “Cronache” più note e diffuse sono nel IV secolo quelle di Eusebio e di Girolamo, che traspone in latino la prima e la aggiorna. A questa seguono molte altre. fino all’Alto Medioevo e oltre. Un altro genere che ha grandissima fortuna è l’agiografia, ossia i documenti relativi ai martiri (Acta e Passiones martyrum) e, più tardi, ai santi. Molti di questi testi muovono da un nucleo storico fondato, soprattutto gli Acta più antichi, anche se il loro carattere “vivo”, in quanto documenti talvolta letti nelle assemblee liturgiche, ha consentito l’intervento di ‘mani’ successive, in tempi diversi. Da parte loro, le Historiae ecclesiasticae raccolgono numerose e preziose notizie per conoscere le vicende delle comunità antiche; esse sono ispirate da un intento apologetico o celebrativo. Tuttavia presentano una fisionomia del tutto nuova, giacché non vogliono essere un’opera retorica, con molti discorsi inventati, ma, al contrario riportano alla lettera documenti per provare la veridicità dei fatti narrati. Una metodologia di cui la storiografia moderna terrà conto, attraverso la ricerca, e l’interpretazione delle fonti. La prima e la più famosa, cui già si è fatto cenno, è la Historia ecclesiastica Eusebio di Cesarea. A suo proposito è utile notare come, seguendo il filo delle più antiche vicende del movimento nato nel nome di Gesù, nel II secondo libro, l’autore ponga in rilievo la predicazione che Pietro, fa a Roma lui che è “il più forte, e grande degli apostoli, dei quali per sua virtù era capo”(II, 14, 6). Di lui parla come martire della persecuzione di Nerone e come primo reggitore della Chiesa dell’Urbs e, dopo di lui, si premura nei libri successivi di dare l’elenco dei vescovi che hanno retto la Chiesa di Roma.

Notevole è l’influsso che la Historia ecclesiastica eusebiana esercita in particolare nell’ambiente orientale di lingua greca, e numerosissimi sono i suoi continuatori. Per nominarne alcuni tra la fine del IV e il V nel secolo: Gelasio di Cesarea, Filippo di Side, Filostorgio, Socrate di Costantinopoli, Sozomeno, Teodoreto di Cirro, Esichio di Gerusalemme, Gelasio di Cizico; nel VI secolo, Giovani Diacrinomeno, Teodoro il Lettore, Giovanni di Efeso, Evagrio Scolastico, per non dire di altri scritti andati perduti.

Il nuovo genere letterario inaugurato da Eusebio trova dunque una conferma nella imponente sequela di scritti che seguono secondo una prospettiva centrata, per lo più, sulla pars Orientis. La storiografia di lingua latina segue la greca con Rufino di Aquileia che alla fine del IV secolo traduce, aggiornandola, l’opera eusebiana, facendola così conoscere in Occidente. Più tardi, nel VI secolo, Epifanio Scolastico (anche se non si è del tutto certi della sua paternità) compone una Historia ecclesiastica Tripartita, scegliendo passi dagli scritti greci di Socrate, Sozomeno e Teodoreto. In vero gli autori latini preferiscono un altro tipo di composizioni, quello concernente gli uomini illustri, sul modello di scritti pagani. Girolamo ne è il capofila con il De viris illustribus che risale al 392. Si tratta di una galleria di ritratti di personaggi illustri della letteratura latina cristiana – a cui è affiancato qualche pagano e qualche eretico – la cui vita e le cui opere sono degne di essere ricordaste. Lo scopo è quello di smantellare le accuse di ignoranza rivolte dai pagani ai suoi correligionari. Dopo Girolamo, uno stuolo di scrittori prosegue e aggiorna, attraverso i tempi, la sua opera (da Gennaio di Marsiglia a Isidoro di Siviglia, da Ildefonso di Toledo fino ai medievali come Onorio di Autun o l’Anonimo Mellicensis).

La storiografia latina ha pure tenuto vivo l’indirizzo ecumenico e universale. Basti pensare ad opere come il De civitate Dei di Agostino o alle Historiae adversus paganos di Orosio. Dopo di lui nasce un nuovo tipo di storiografia che, senza escludere, per lo meno in certi autori, la visione universale, si interessa con particolare attenzione alla storia di singoli popoli. Q. Aurelio Memmio Simmaco scrive una Historia romana, come poi faranno anche Iordanes, Paolo Diacono e Landolfo Sagace. Cassiodoro redigerà una “Storia dei Goti”, Gregorio di Tours una “Storia dei Franchi”, Isidoro di Siviglia una “Storia dei Vandali e degli Svevi”, Secondo di Trento, come Paolo Diacono, una “Storia dei Longobardi” e infine Beda, ritornando in certo modo al modello eusebiano, compone una storia degli Angli o, più precisamente una Historia ecclesiastica gentis anglorum. È l’alba di una nuova epoca che vede l’ascesa di popoli nuovi. È la nascita dell’Europa, di cui siamo gli eredi.

Non vi è dubbio dunque che la storiografia cristiana antica, sia in Oriente che in Occidente, ha avuto forme molteplici, ma soprattutto uno sviluppo straordinario per le ragioni che si sono dette. Non si può dimenticare che il cristianesimo è l’unica religione che tiene a scrivere fin dal suo sorgere la propria storia, il cui rapporto si può ben dire che sia dovuto ad uno dei elementi centrali proposti dalla fede, l’Incarnazione, percepita come compimento dei tempi, che è insieme conclusione di una successione di eventi e apertura verso il futuro escatologico.

A questo punto mi pare sia opportuno fare un cenno a un altro genere di documenti che non hanno a fare con la storiografia vera e propria, ma che non di meno forniscono una serie di notizie, di spunti e di particolari utili per delineare la storia, in particolare la storia della sede romana. Alludo ai calendari, ai martirologi, ai sinassari, ai sacramentari e ai cataloghi topografici. Il Cronografo del 354 è una compilazione che riunisce documenti differenti, tra i quali, particolarmente importanti sono la Depositio episcoporum che registra la ‘deposizione’ dei vescovi di Roma dal 254 al 352 e la depositio dei martiri più venerati dalla prima metà del III secolo all’inizio del IV. I due documenti si completano a vicenda e molto hanno giovato alle celebrazioni della comunità di Roma. Tra i sacramentari sono da ricordare il Leoniano, il Gelasiano e il Gregoriano che presentano dai nuclei primitivi redatti a Roma tra il VI e il VII secolo, che talvolta sono poi stati integrati in aree geografiche diverse per venire incontro a esigenze locali. A sua volta il Liber Pontificalis, che raccoglie una serie di notizie sui vescovi di Roma, è un altro documento significativo, anche se va considerato con cautela, data la tradizione testuale assai complessa che presenta. Infine gli Itinerari della città di Roma, che non risultano anteriori al VII secolo, ono compilazioni a servizio dei pellegrini che si recavano a Roma, non di rado redatti da pellegrini stessi. Testimonianze tutte preziose per l’archeologi che vi trovano elementi utili per identificare e illustrare la storia dei monumenti, le vie percorse per raggiungerli, pongono insomma in evidenza una serie di elementi che risultano utili per conoscere la vita, anche quotidiana della città di Roma. Un genere di guide che avrà un seguito fortunato nel Medioevo.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Niebuhr, Fede e storia, Studio comparato della concezione cristiana e della concezione moderna della storia, trad.ital., Il Mulino Bologna, 1966; O. Cullmann, Cristo e il tempo, trad. ital., Il Mulino, Bologna, 1965; A. Momigliano, “Storiografia pagana e cristiana nel IV secolo”, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo, A. Momigliano (ed.), trad. ital., Einaudi, Torino, 1968, 89-110; AA.VV., La storiografia ecclesiastica nella tarda antichità, Atti del Convegno di Erice (3-8 dicembre 1978), Centro di studi Umanistici Umanistici, Messina, 1980; H.-I. Marrou, Teologia della storia, trad. ital. Jaca Book, Milano 1969; AA.VV., L’historiographie de l’Église des premiers siècles, B. Pouderon – Y.M. Duval (edd.), Beauchesne, Paris 2001, 207-235; P. Siniscalco. Il senso della storia. Studi sulla storiografia cristiana antica, Soveria Mannelli, Rubbetino Editore, 2003; Id., “Due tradizioni storiografiche a confronto: le Historiae ecclesiasticae e i De viris illustribus”, in Venti secoli di storiografia ecclesiastica. Bilancio e prospettive L. Martínez Ferrer (ed.), Pontificia Università della Santa Croce, Edusc, Roma 2006, 11-32; M. Manca – F. Rohr Vio, Introduzione alla storiografia romana, Roma, Carocci, 2010, Roma; AA.VV., Eusebio e le origini della storiografia cristiana, in AA.VV., Adamantius 16, Brescia, Morcelliana, 2010. Per quanto riguarda le fonti relative al culto dei vescovi e dei martiri a Roma e i cataloghi topografici, rimando alla sempre utile disamina fatta da P. Testini, all’inizio della sua opera, Archeologia cristiana, Edipuglia, Bari 1980.


LEMMARIO




Storiografia (età contemporanea) - vol. II


Autore: Saverio Xeres

Lo sdoppiamento dell’identità di Roma – divenuta, con l’Unità d’Italia, capitale di uno Stato nazionale oltre che centro della cattolicità – può ben rappresentare quel profondo divaricamento fra la storiografia assunta a disciplina scientifica autonoma, con metodi e strumenti propri, e la tradizionale storiografia ecclesiastica, ancora collocata in ruolo dipendente rispetto alla teologia e al Magistero. La nascente storiografia critica in Italia – sia quella protesa verso il massimo rigore documentario, sia quella attenta anche a ricuperare il valore attuale delle vicende passate – si attesta comunque prevalentemente su posizioni anticlericali. Più ancora che di ostilità, si deve parlare di indifferenza, secondo un atteggiamento imposto soprattutto dalla influente personalità di Benedetto Croce (1866-1952). D’altra parte, la ricerca storica in ambito ecclesiastico rimane a lungo renitente ad assumere i metodi di una storiografia “scientifica” che sembrava dovesse andare solo a discapito della Tradizione cristiana. L’iniziativa di Leone XIII che, nel 1883, con la lettera Saepenumero considerantes, comunicava l’avvenuta apertura dell’Archivio Vaticano alle indagini degli storici, se da un lato esprimeva ancora un intento difensivo nei confronti della storiografia “laica”, dall’altro riconosceva di fatto alla ricerca storica, anche in ambito ecclesiastico, un ruolo positivo e fecondo. Ora, però, significativamente, negli anni stessi in cui Roma – a seguito dell’iniziativa di Leone XIII – diventava sede dei diversi Istituti storici promossi dalle principali nazioni europee appunto al fine di sfruttare la formidabile miniera documentaria dell’archivio vaticano, il neo costituito Istituto storico italiano si distinse nel perseguire come scopo primario il ricupero delle fonti della storia “italiana” (con la collana Fonti per la storia d’Italia), oltre che il coordinamento delle diverse deputazioni locali di “storia patria”, in modo da fornire un fondamento storico e documentario all’identità nazionale. Con l’inizio del nuovo secolo, fu soprattutto all’interno del più ampio fenomeno denominato “modernismo” che si tentò di aprire anche le ricerche sul passato della Chiesa alle nuove metodologie storiche. Peraltro, proprio per tutelare i dati della tradizione rispetto alla critica storica, si giunse ad una nuova divaricazione tra “storia della Chiesa”, intesa come conferma nella vicenda storica di affermazioni di origine teologica, e “storia del cristianesimo”, limitata alla ricostruzione operabile sulla base dei soli dati razionalmente verificabili. Di fatto, i primi tentativi di attuare, in ambito ecclesiastico, una ricerca storica fondata sulla verifica rigorosa della tradizione, soprattutto di quella antica, incontrarono sospetti e condanne: emblematico il caso di uno storico molto legato all’ambiente romano, Louis Duchesne (1843-1922), la cui Histoire ancienne de l’Eglise venne condannata nel 1912.

Anche dopo l’avvenuta conciliazione tra Chiesa e Stato, con i Patti lateranensi del 1929, sopravvisse a lungo, in Italia, l’atteggiamento di scarsa considerazione nei confronti dell’apporto culturale cattolico, da parte degli ambienti ufficiali, dominati dal magistero di Croce oppure allineati alle esigenze del regime fascista. D’altro canto, ancora precoce, soprattutto per la vicinanza cronologica e la ancora insufficiente decantazione dei fatti, risultava la riproposizione storica dei tormentati rapporti fra l’iniziativa risorgimentale, la Chiesa romana e i cattolici italiani. Benché la repressione antimodernista avesse sostanzialmente congelato ogni pur timido germoglio di storiografia critica, qualche apertura si ebbe, negli anni successivi, ad esempio con la chiamata alla cattedra del Seminario Romano, da parte dello stesso papa Pio X, di Pio Paschini (1878-1962), ammiratore e seguace del già citato Duchesne o con l’opera del gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861-1956). Prevaleva comunque l’interesse per la ricerca erudita, soprattutto orientata all’epoca antica – come nell’opera di Francesco Lanzoni (1862-1929) sull’origine delle diocesi italiane -, e di ambito locale, mentre l’insegnamento della storia della Chiesa continuava a restare confinata nell’ambito clericale: insegnata da preti (spesso impegnati in più discipline diverse) a seminaristi.

È solo nel secondo dopoguerra che prende inizio una vera e propria storiografia sulle vicende ecclesiastiche di epoca contemporanea in Italia. Di riflesso del nuovo protagonismo politico di socialisti e cattolici nella Resistenza e nella ricostruzione del Paese, si ricupera la consapevolezza del contributo offerto alla causa nazionale da parte di tali componenti sociali rimaste ai margini del movimento risorgimentale. Nasce, in quest’ottica, il fecondo filone di studio sul “movimento cattolico” (ossia sulla presenza e sulle iniziative dei cattolici nella società italiana), oggetto delle ricerche, oltre che di Fausto Fonzi, Pietro Scoppola (1926-2007), Angelo Gambasin (1926-1990), anche di storici marxisti (Giorgio Candeloro, 1909-1988) e liberali (Giovanni Spadolini, 1925-1994); sempre a partire dal contributo offerto alla causa nazionale, inizia anche un ricupero storico della presenza dei movimenti cristiani non cattolici in Italia. I nuovi studi sul “movimento cattolico” favoriscono anche l’ingresso di laici, professionalmente qualificati, nell’ambito della storiografia di area ecclesiastica. Intanto, iniziano a farsi sentire gli influssi della storiografia francese che sta portando anche in ambito religioso-ecclesiastico, con Gabriel Le Bras (1891-1970), quella nuova linea di storia “sociale” già iniziata con la rivista «Les annales» (1929-), orientando la ricerca storica – più che su personaggi e avvenimenti – alla ricostruzione della vita quotidiana e della “mentalità” dei gruppi sociali. In verità, in Italia, al di là di qualche sporadica inchiesta sociologica (peraltro preoccupata dell’aspetto pastorale, piuttosto che all’indagine storica), tale influsso si concretizza soltanto, negli anni ’50, nell’opera di Giuseppe De Luca (1898-1962) con il suo «Archivio italiano per la storia della pietà» (1951-), compresa quella dei semplici fedeli; le ricerche di storia locale continuano, invece, a procedere su una linea prevalentemente istituzionale. E’, di nuovo, nel secondo dopoguerra che, compiendo un desiderio a lungo coltivato, nasce la «Rivista di Storia della Chiesa in Italia» (1947-), dotata di un prezioso repertorio bibliografico in ogni fascicolo. Esplicitamente indirizzata, fin dal titolo, ad una storiografia di interesse soprattutto istituzionale ed ecclesiastico (non storia del cristianesimo, né storia religiosa), essa la apre comunque definitivamente alle istanze del metodo critico.

Gli anni ’60/’70 rappresentano un periodo assai vivace, in Italia, per il lavoro storiografico, con provocazioni e influssi positivi anche in ambito ecclesiastico. Se l’apporto della storiografia di ispirazione marxista, ad esempio – rappresentata in Italia dalla riflessione di Antonio Gramsci (1891-1937) – provoca la neonata storiografia sul movimento cattolico ad una maggiore attenzione per gli aspetti socio-economici (Sergio Zaninelli), il successivo decadere dalle grandi ideologie propizia, invece, il ricupero del valore religioso e, dunque, la ricerca sui retroterra ecclesiali di iniziative certo non riducibili alla sola sfera economica e politica. E’ soprattutto la preparazione e la celebrazione del concilio Vaticano II, nella prima metà degli anni Sessanta, ad offrire nuove visuali di Chiesa e, di conseguenza, a dare impulso anche alla ricostruzione della sua storia. Proprio in quanto frutto maturo di una nuova consapevolezza lentamente cresciuta lungo la prima metà del ‘900, anche in Italia, il concilio favorisce indubbiamente l’interesse per un passato recente non ancora indagato in profondità: la complessa vicenda del modernismo, ad esempio – avviata a migliore conoscenza anche grazie all’istituzione del Centro studi per la storia del modernismo, costituito da Lorenzo Bedeschi (1915-2006) presso l’Università di Urbino all’inizio degli anni ’70 -, la problematica relazione tra Chiesa e fascismo, la partecipazione dei cattolici e del clero alla Resistenza e alla ricostruzione economica e politica del Paese. E’ soprattutto il valore stesso della storia, riconosciuta nel suo pieno, autonomo spessore, che trapela da tutto l’insegnamento conciliare: una storia da discernere attentamente per cogliervi i “segni dei tempi”. Di qui un notevole impulso ad ampliare la ricerca sul passato, soprattutto quello recente, in un clima di grande libertà. Possono così venire a frutto i germogli apparsi negli anni ’50, orientando la ricerca verso temi inediti, attinenti la spiritualità e la devozione, pur senza arrivare ad una effettiva, sistematica messa in opera dei metodi della sociologia storica di origine francese. Nuova e più approfondita attenzione si pone alla conoscenza della storia del clero (in particolare con le ricerche di Xenio Toscani e Maurilio Guasco), indagando la sua formazione, i suoi legami sociali, le sue concrete condizioni di vita. Viene assunta esplicitamente nella considerazione storiografica anche la componente laicale della Chiesa in Italia, con le sue associazioni (l’Azione Cattolica in primo luogo) e i diversi movimenti, e anche con una nuova, specifica attenzione alla componente femminile (Paola Gaiotti de Biase). Si consolida l’indagine storica sulle comunità non cattoliche, con l’avvio di una collana di Storia del Movimento evangelico in Italia (1971-), e vi sono alcune prime indagini sulle comunità ebraiche e i loro rapporti con la Chiesa. Tale slancio storiografico ad ampio raggio è, ad un tempo, causa ed effetto di nuove iniziative di ricerca. La primogenitura, in tal senso, spetta indiscutibilmente al “Centro di documentazione”, poi “Istituto per le scienze religiose”, avviato a Bologna da Giuseppe Dossetti, fin dagli anni ’50, con la costituzione di una biblioteca aperta ad un orizzonte internazionale. Nel decennio successivo nascono i due Centri studi di Vicenza e di Salerno, rispettivamente «per le fonti della storia della Chiesa nel Veneto» e «per la storia del Mezzogiorno», guidati entrambi da Gabriele De Rosa (1917-2009). Sia pure con obiettivi e metodi diversi, gli intenti comuni sono la salvaguardia e l’utilizzo delle fonti archivistiche locali (le visite pastorali, innanzitutto) per giungere a quella conoscenza approfondita della mentalità e del vissuto di fede e devozione delle popolazioni rurali da tempo annunciata come la nuova frontiera della storiografia ecclesiastica in Italia, come già in Francia. Frutto di tali ricerche, oltre ad alcuni importanti convegni (tra cui, nel 1979, quello su La parrocchia in Italia nell’età contemporanea), sono la pubblicazione di un periodico («Ricerche di storia sociale e religiosa, 1972-), di una «Biblioteca di storia sociale» (1973-) e di una collana di regesti di visite pastorali (Thesaurus Ecclesiarum Italiae recentioris aevi, saecc. XVIII-XX). Un’iniziativa simile si registra anche in Piemonte, dove Franco Bolgiani, con alcuni colleghi dell’Università di Torino, fonda un «Centro studi sulla storia e sociologia religiosa del Piemonte» (1970) che concentra la propria attenzione specificamente sulle fonti ecclesiastiche locali di età contemporanea; per iniziativa dello stesso Bolgiani era nata, nel 1965, la «Rivista di storia e letteratura religiosa». Anche il nuovo e specifico settore di studio sul movimento cattolico può giovarsi, dal 1966, di una rivista specializzata, nella forma di “Bollettino” dell’Archivio del Movimento sociale cattolico in Italia, fondato nel 1962 da Mario Romani, economista dell’Università Cattolica di Milano. Sono sempre questi anni fecondi che vedono sorgere l’Associazione italiana dei professori di Storia della Chiesa (1967), prezioso strumento di coordinamento di un lavoro in crescita.

Negli ultimi due decenni del secolo XX, insieme ad una prevalente linea di continuità o, per meglio dire, di rinnovata insistenza sugli aspetti istituzionali o su singoli personaggi, si conferma e si approfondisce, in Italia, l’interesse della storiografia ecclesiastica – parallelamente a quanto avviene in quella generale – ai nuovi ambiti tematici e metodologici, di ordine spirituale (ad esempio, l’evolversi dei “modelli” di santità), culturale e sociale (la scuola, il sindacato, la riflessione politica), in ambito sia cattolico sia di altre confessioni cristiane, soprattutto quella valdese, con Valdo Vinay (1906-1990) e Giorgio Tourn. L’apertura di orizzonti vasti, quanto a metodo e a contenuti, caratterizza programmaticamente anche il nuovo periodico «Cristianesimo nella storia» che nasce a Bologna, all’aprirsi degli anni ’80, come emanazione del già citato Istituto di scienze religiose. A fronte di un ritardo piuttosto pesante, in Italia, nel predisporre repertori ed edizioni di fonti, vanno ricordate alcune iniziative notevoli. Tra i repertori, la Guida degli Archivi diocesani d’Italia (1990-1998) appare significativamente in una collana del Ministero dei beni culturali; per le edizioni di fonti, si segnalano i regesti delle lettere pastorali dei vescovi (1986-), a cura di Daniele Menozzi, e la pubblicazione, diretta da Silvio Ferrari, dei sinodi diocesani celebrati nell’Italia post-unitaria (1987-). Con il Dizionario storico del movimento cattolico in Italia – pubblicato tra il 1980 da F. Traniello e G. Campanini tra il 1981 e il 1984, arricchito, nel 1997, da un volume di Aggiornamento -, questo filone di studi avviato nel secondo dopoguerra giunge, non soltanto ad un punto significativo di sintesi, bensì anche alla piena assunzione di quell’ampio orizzonte tematico che si era andato progressivamente aprendo, così da mantenere e approfondire il collegamento con la storia della Chiesa in generale, da un lato, e con le vicende italiane, dall’altro. Nuove ricerche si avviano a riguardo di fenomeni caratterizzanti il cattolicesimo italiano del Novecento, quali l’Azione Cattolica e la Democrazia cristiana (Malgeri), o di alcune problematiche vicende, come le due guerre mondiali. Oggetto di un discreto interesse risultano anche le nuove iniziative monastiche di epoca contemporanea e le vicende degli Istituti religiosi la cui conoscenza, peraltro, è grandemente favorita dall’ampio Dizionario degli Istituti di perfezione (1974-2003), diretto da Giancarlo Rocca. Una certa distanza cronologica ormai raggiunta rispetto al concilio Vaticano II, avvenimento centrale per la Chiesa contemporanea, con stretti legami alla specifica situazione italiana, favorisce l’avvio di una intensa stagione di ricerche sul concilio, culminata, allo spirare del secolo, nell’imponente Storia in cinque volumi (1995-2001) prodotta nell’ambito dell’Istituto, poi Fondazione per le scienze religiose di Bologna, frutto di un ampio lavoro collettivo di reperimento delle fonti nonché di intensi confronti e collaborazioni internazionali, guidato con tenacia e lungimiranza da Giuseppe Alberigo (1926-2007); alle ricerche sul concilio si intrecciano quelle sui due papi che ne furono protagonisti: Giovanni XXIII e Paolo VI, per il quale va ricordato anche l’omonimo Istituto di Brescia, attivo dalla fine degli anni ‘70. Ravvivata dalla nuova consapevolezza offerta dal Vaticano II alle Chiese locali, la storia delle diocesi, dopo qualche tentativo a livello regionale – quale la Storia religiosa della Lombardia (1986-), o quella del Veneto (1991-) sembra incamminarsi, finalmente, ad una visione d’insieme, sia con i primi studi sulle conferenze episcopali (regionali e nazionale), sia con il dizionario de Le diocesi d’Italia (2008). I positivi sviluppi storiografici degli ultimi decenni si intrecciano, peraltro, con una produzione fin troppo ampia e dispersiva, spesso ripetitiva, con un eccesso, soprattutto, di pubblicazioni di carattere celebrativo (per fatti e personaggi del passato, ma anche per autori del presente).

Nel suo complesso, il lavoro storiografico sulla Chiesa in Italia dall’Unità ad oggi risulta intenso e fecondo, soprattutto se si tiene conto dell’arco cronologico ancora relativamente breve. Rimangono in atto, d’altra parte, limiti notevoli: una persistente separatezza, rispetto al panorama storiografico generale, delle ricerche di ambito ecclesiastico, a cui corrisponde specularmente una condizione di marginalità della dimensione religiosa ed ecclesiastica nelle stesse opere di sintesi sulla storia di un paese, come l’Italia, di così vasta e determinante presenza cattolica (o forse proprio in reazione a questo fatto). Ancora desiderata è una sistematica e continuativa pubblicazione di repertori e di fonti, così come un’efficace coordinazione nazionale del lavoro storico-ecclesiastico.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Battelli, La recente storiografia sulla Chiesa Italiana nell’età contemporanea, «Rivista di storia della Chiesa in Italiaۚ», 61 (2007), 461-500; A. Canavero, La storia religiosa contemporanea in Italia (1980-1993), «Anuario de historia de la Iglesia», 4 (1995), 307-330; A. Canavero, Cinquant’anni di storiografia sul “movimento cattolico” italiano, in E. Fumasi (ed.), Mezzo secolo di ricerca storiografica sul movimento cattolico in Italia dal 1861 al 1945. Contributo a una bibliografia, La scuola, Brescia 1995, 7-72; F. Chiarini – L. Giorni (edd.), Movimenti evangelici in Italia dall’Unità ad oggi. Studi e ricerche, Claudiana, Torino 1990; F. de Giorgi, La storia locale in Italia, Morcelliana, Brescia 1999; L. de Rosa (ed.), La storiografia italiana degli ultimi vent’anni. Atti del convegno della Società degli storici italiani (Arezzo, 2-6 giugno 1986), III, Età contemporanea, Laterza, Roma- Bari 1989; La storiografia italiana negli ultimi vent’anni. Atti del I congresso nazionale di scienze storiche (Perugia. 1967), Marzorati, Milano 1970; G. Martina, Storia della storiografia ecclesiastica nell’Otto e Novecento (parte prima), Pontificia università gregoriana, Roma 1990, ristampa 2008; G. Martina, La storiografia italiana sulla Chiesa dal Vaticano I al Vaticano II, in Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa (ed.), Problemi di storia della Chiesa dal Vaticano I al Vaticano II, Dehoniane, Roma 1998, 15-105; G. Penco, Gli studi italiani di storia della Chiesa nel secondo dopoguerra, «Renovatio», 14 (1979), 237-247; 373-383; G. Penco, La storiografia ecclesiastica italiana nel periodo fra le due guerre, «La scuola cattolica», 106 (1978), 461-477; S. Xeres, Storia della Chiesa, in G. Canobbio – P. Coda (edd.). La teologia del XX secolo. Un bilancio, I, Prospettive storiche, Città nuova, Roma 2003, 204-247.


LEMMARIO




Storiografia (età medievale) - vol. I


Autore: Mariano Dell’Omo

Sec. VI. Il primo esempio di letteratura storiografica originata dall’interno della Chiesa in Italia dopo la grande stagione dell’antichità è offerto da Cassiodoro (ca. 490-ca. 583) ‒ magister officiorum di Teodorico e infine monaco in Calabria a Vivarium ‒, con un’opera perduta, l’Historia Gothorum, composta in 12 libri per lo stesso re Teodorico, che si inserisce nel filone delle “storie nazionali” dei popoli di stirpe germanica, e di cui resta solo il riassunto nei Getica di Giordane risalenti al 551.

Sec. VII. Un caso di cronaca locale e contemporanea è quello di Secondo di Non (†612), personalità religiosa di una certa importanza alla corte di Agilulfo e specialmente consigliere spirituale della regina Teodolinda, la cui opera, che doveva estendersi dalla fine del regno ostrogoto all’inizio della dominazione longobarda, di tipo annalistico e rispecchiante in ogni caso una concezione storiografica latina ed ecclesiastica, è più volte utilizzata e citata nella Historia Langobardorum da Paolo Diacono.

Sec. VIII. Quest’ultimo educato alla retorica nella corte di Pavia, fattosi monaco a Montecassino intorno al 774 dopo la caduta del regno longobardo, pervenuto quindi alla corte di Carlo re dei Franchi (e dei Longobardi) nel 782, ebbe modo di arricchire ampiamente il suo già poderoso bagaglio culturale, e una volta ritornato al monastero cassinese nel 786 attese alla composizione della storia del popolo al quale apparteneva, delineandola dalle origini nordiche fino alla morte del re Liutprando (744). Paolo, pur appartenendo alla Chiesa e alla vita religiosa, tramanda fino a noi una memoria positiva dei Longobardi in Italia così come Gregorio di Tours aveva fatto per i Franchi, opponendo con successo l’immagine dei Longobardi culturalmente umani, civili nonché disponibili al contatto con i Romani, al luogo comune dei barbari feroci, avidi e irrazionali divulgato dal Liber Pontificalis della Chiesa di Roma. Quest’ultima d’altra parte anche quando accettò con i Longobardi (antibizantini) un’alleanza limitata nel tempo, lo fece in modo tale da evitare un cambiamento dell’assetto politico che fosse contrario ai suoi interessi, e perciò ‒ com’era sua convinzione ‒ a quelli dell’Italia. Sotto questo profilo il Liber Pontificalis, opera complessa in forma di biografie dei vescovi di Roma, prodotta in ambiente papale sebbene non ufficiale a partire dal sec. V fino al IX, e ripresa dal sec. XII, rappresenta una fonte storiografica ineludibile per tentare di comprendere come nella Chiesa romana siano stati vissuti e intesi gli eventi nel corso del tempo, particolarmente in quel sec. VIII in cui i nuovi dominatori Franchi soppiantavano i Longobardi.

Secc. IX-X. Se Paolo Diacono con la sua storia dei Longobardi aveva narrato il dominio e il trionfo di questi ultimi, la Ystoriola Langobardorum Beneventum degentium di Erchemperto, monaco cassinese intorno alla metà del sec. IX, ricostruisce ‒ unica fonte per la storia dell’Italia meridionale ‒ le vicende del principato di Benevento dalla difesa di Arechi e Grimoaldo contro Carlo Magno e Pipino fino alla divisione e all’affermarsi di Atenolfo di Capua e della dinastia capuana (dal 787 all’889). Terzo momento di una triade longobarda, i cui primi due sono i già menzionati Paolo Diacono ed Erchemperto, è l’anonimo Chronicon Salernitanum, scritto una sessantina d’anni dopo Erchemperto, dal quale l’ignoto estensore attinge interessandosi soprattutto alle vicende riguardanti Salerno e Benevento, ma senza possederne l’acuta visione storica e l’originalità autobiografica sia pure parziale. Meno variegata è nell’Italia settentrionale la continuazione dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che trova un solo epigono nel presbitero Andrea da Bergamo, la cui Historia si interrompe dopo la morte di Carlo il Calvo (6 ott. 877). Nell’Italia non occupata dai Longobardi, dove il legame con la tradizione antica è più immediato, come a Ravenna, antica sede dell’esarcato, e a Napoli, centro del ducato bizantino, si annoverano rispettivamente storie dei vescovi cittadini che rispecchiano da vicino la coscienza identitaria di quelle due città: il Liber pontificalis ecclesie Ravennatis di Agnello Ravennate (tra la fine dell’VIII e gli inizi del sec. IX), da s. Apollinare a Giorgio (837-846), escluse le vite di Valerio (788-802 ca.) e Petronace (817-835); il Chronicon o Gesta episcoporum, il più antico testo che illustri la storia di Napoli, con una prima parte anonima, dipendente dal Liber Pontificalis della Chiesa romana, che dalle origini si estende fino al 763, e una seconda parte con biografie più ampie che vanno da Paolo II (763-768) ad Atanasio I (849-872), dovuta a Giovanni Diacono (tra la seconda metà del sec. IX e gli inizi del X). Tra IX e X sec. nel contesto del tardo Impero carolingio e delle lotte tra Bizantini e Longobardi, i Chronica Sancti Benedicti Casinensis (sec. IX, prima dell’883) costituiscono una raccolta non sistematica di notizie circa il monastero cassinese e il proprio tempo, con citazioni da Paolo Diacono e altri brani di natura cronachistica che non superano l’871.

Sec. X. Nel sec. X oltre al Chronicon del monaco Benedetto di S. Andrea del Monte Soratte (da Giuliano l’Apostata al 972), debole tentativo di cronaca universale in cui è presente il ricordo della grandezza dell’antica Roma, nonché il senso dell’unità spirituale d’Italia rappresentato proprio da Roma, si segnala l’opera ben più poderosa di Liutprando di Cremona (ca. 920-971), nato a Pavia, diacono, poi nel 961 vescovo di Cremona. Tra i frutti della sua attività letteraria è utile qui menzionare: l’Antapodosis (Ritorsione), in 6 libri, opera storiografica e memorialistica, che va dalla morte di Carlo il Grosso (888) fino alla presa del potere da parte di Berengario II (l’ultimo evento narrato è l’ambasceria costantinopolitana dello stesso Liutprando del 949-950); e l’Historia Ottonis (o Gesta Ottonis), nella quale l’autore sostiene la politica dell’imperatore Ottone I nei confronti del papato fra il dicembre 963 e l’estate 964, allorché contro le stesse procedure canoniche fu deposto papa Giovanni XII e sostituito con Leone VIII, soluzione ritenuta da Liutprando inevitabile di fronte alla gravità del momento. Nel vescovo di Cremona emerge una visione della storia basata su un provvidenzialismo radicale, sul modello di Agostino e Gregorio Magno, che tuttavia non gli impedisce di descrivere con acuta lucidità, tuttora valida, il dramma di un papato in balia di alcune grandi famiglie romane.

Secc. XI-XII. Tra XI e XII sec., nel momento in cui ai Longobardi si sono ormai sostituiti i Normanni nel sud dell’Italia, le cronache di origine benedettina, derivanti rispettivamente da Montecassino (Chronica monasterii Casinensis di Leone Ostiense), S. Vincenzo al Volturno (Chronicon Vulturnense di Giovanni), S. Sofia di Benevento (Chronicon S. Sophiae), S. Clemente di Casauria (Chronicon Casauriense di Giovanni di Berardo), rivestono un particolare significato per cogliere certi passaggi epocali nella Chiesa stessa, insieme al bisogno di salvaguardare i grandi patrimoni di terre e chiese da parte delle grandi signorie monastiche meridionali nei confronti delle crescenti pretese episcopali. Per l’importante monastero di Farfa in Sabina oltre alla Constructio Farfensis (sec. IX), utile per la sua storia dalla fine del sec. VIII fino a ca. l’857, occorre segnalare il grande contributo di Gregorio di Catino, monaco e vera personalità di storico nato intorno al 1060, al quale si devono il Regestum Farfense, il Liber Largitorius, il Chronicon, infine verso il 1130 il Liber Floriger cartarum coenobii Farfensis, opere tra l’altro fondamentali per la storia economico-politica del ducato romano tra VIII e XII sec. Per il nord dell’Italia si distinguono il Chronicon Novaliciense (prima metà del sec. XI), composto da un monaco della Novalesa, fonte rilevante per la storia del Piemonte medievale, e il Chronicon di S. Michele della Chiusa (fine del sec. XI). In questo stesso periodo acquista vigore la storiografia cittadina che si identifica con quella ecclesiastica locale, come nel caso dei Gesta archiepiscoporum Mediolanensium o più esattamente Liber gestorum recentium di Arnolfo di Milano (ca. 1000-ca. 1077) laico, pronipote del fratello dell’arcivescovo di Milano Arnolfo (I) di Arzago (970-974): non un racconto di imprese episcopali ma cronaca cittadina di eventi che in gran parte coinvolsero direttamente l’autore (i primi 3 libri dal 925 al 1072, il quarto e il quinto dal 1075 al 1077), impegnato a difendere la Chiesa milanese sia dagli attacchi degli ambienti della Pataria cittadina che da quelli della Sede Apostolica, rivendicando privilegi e tradizione ambrosiani, oltre che sostenendo il clero milanese rispetto all’accusa di simonia e alienazione dei beni a vantaggio delle classi alte del laicato. Nondimeno più tardi Arnolfo, dopo aver fatto parte nel 1077 di una delegazione di cittadini milanesi recatisi a Roma per domandare a papa Gregorio VII il perdono dei precedenti atteggiamenti filoimperiali, modifica anche lo spirito con il quale aveva redatto fino ad allora il suo Liber gestorum, ammettendo negli ultimi 2 libri la supremazia di Roma, alla quale aveva prima anteposto la grandezza della tradizione ambrosiana. Nel Mezzogiorno normanno-svevo occorre in primo luogo registrare la stretta connessione tra Chiesa e storiografia normanna, a cominciare dalla Historia Normannorum di Amato di Montecassino († prima del 1105) relativa agli anni 1016-1078, non a caso dedicata all’abate Desiderio poi papa Vittore III (1086-87), la cui amicizia con gli intraprendenti e sagaci cavalieri venuti dal nord contribuì a renderli determinanti per l’equilibrio politico e per i rapporti stessi del papato con le altre potenze. Concentrati su un singolo principe normanno sono invece i Gesta Roberti Wiscardi di Guglielmo Appulo († dopo il 1099), dedicati a papa Urbano II, opera in 5 libri per un totale di 2819 esametri: nel quarto libro in particolare si sottolinea la fedeltà da parte di Roberto il Guiscardo alla Chiesa di Roma, con conseguenze di lunga durata sulla riorganizzazione della Chiesa latina meridionale. Ancora ai Normanni, alla formazione del Regnum Siciliae con il primo sovrano Ruggero II, nonché al suo atteggiamento di fronte al papato, sono dedicate due opere entrambe di estrazione monastica, il De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis e Roberti Guiscardi ducis, fratris eius di Goffredo Malaterra e il De rebus gestis Rogerii Siciliae regis libri IV di Alessandro di Telese. Più a nord in Toscana con l’intento di celebrare la stirpe dei Canossa più che per un fine strettamente biografico, tra il 1111 e il 1115 fu composta in versi la Vita Mathildis (o anche De principibus Canusinis) da Donizone monaco di S. Apollonio a Canossa. Nel sec. XII si distinguono inoltre le storie legate all’identità di singole città italiane e alle loro comunità ecclesiali, in primis Genova con i monumentali Annales Januenses: avviati dal genovese Caffaro, a cominciare dai Genovesi alla I Crociata (dal 1100 fino al 1163), essi furono continuati nel corso del tempo giungendo fino al tardo sec. XV. Cronisti contemporanei dell’Italia meridionale furono Falcone di Benevento (Chronicon), nato verso la fine del sec. XI, insieme con Caffaro il più antico autore laico di una cronaca cittadina (fino al 1140); Pietro da Eboli (Liber ad honorem Augusti o Carmen de rebus Siculis), fautore di Enrico VI di cui narra nel 1195 la conquista della Sicilia contro il normanno Tancredi di Lecce; l’arcivescovo Romualdo Guarna di Salerno (ca. 1115-1181), autore di un Chronicon, storia del Regnum Siciliae che è pure una delle poche cronache universali prodotte in Italia; Ugo Falcando, che nel Liber de regno Siciliae narra gli eventi succedutisi nel regno di Guglielmo I d’Altavilla (1154-66) e nei primi anni del governo del figlio e successore Guglielmo II sotto la reggenza della madre Margherita di Navarra (1166-69).

Sec. XIII. Nel sec. XIII la storiografia subisce un’evoluzione positiva sia per la quantità dei contributi che per l’intervento sempre più marcato di laici e in particolare per la qualità dei testi, che rivelano la capacità degli autori di far convergere i molteplici fatti e di interpretarli. Si sviluppa specialmente in questo secolo una storiografia mendicante che offre modelli e scopi variegati: gli annali contemporanei, con Tolomeo da Lucca (Bartolomeo Fiadoni, ca. 1236-1327), domenicano (Annales Lucenses, dal 1061 al 1303); la storia urbana e la collezione agiografica, con Iacopo da Varazze (ca. 1228-1298), anch’egli domenicano, autore della Legenda aurea articolata in racconti dedicati alle vite dei santi e alle feste liturgiche , e di una Chronica civitatis Ianuensis ab origine urbis usque ad annum 1297, nella quale è esaltato il ruolo del vescovo nella storia di Genova, talché storia cittadina e azione vescovile costituiscono un tutt’uno, sullo sfondo di una concezione storica di matrice agostiniana; e ancora la storia intesa come exemplum morale e ausilio per la predicazione, con Tommaso di Pavia (ca. 1212-ca. 1280), autore dei Gesta imperatorum et pontificum (fino al 1278); non manca infine il capolavoro che fonde insieme i vari schemi e filtra gli avvenimenti attraverso una spiccata componente autobiografica, come la Cronica del francescano Salimbene de Adam da Parma (1221-dopo il 1288), dove la storia d’Italia (dalla metà del sec. XII a quella del sec. XIII) è letta in parallelo a quella d’Europa, sullo sfondo di un orizzonte escatologico che proviene dal gioachimismo dell’autore. Al centro della storiografia duecentesca è spesso la figura dell’imperatore e sovrano di Sicilia Federico II, che proprio a metà del ‘200 chiude la sua vita così controversa per i suoi rapporti con la Chiesa in Italia, in special modo con il papato. Verso l’ultimo quarto del secolo, allorché le passioni andavano ormai decantandosi, le fonti trasmettono su di lui un giudizio senza dubbio di parte ma finalmente di più ampio respiro, come nei due esempi emblematici del Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae, l’opera politica più valida prodotta dalla pars ecclesiae, e del Chronicon Placentinum (Annales Placentini Gibellini), rappresentativo della pars imperii, con una narrazione che comincia da Federico Barbarossa e che tende ad illustrare l’azione dell’altro Federico nell’Italia dei Comuni. Validi esempi contemporanei della storiografia del Regno meridionale sono Riccardo di S. Germano (ca. 1165-ca. 1244) e la cronaca cistercense di S. Maria di Ferraria (Ignoti monachi cisterciensis S. Mariae de Ferraria chronica) presso Vairano (Caserta), quest’ultimo uno dei rari esempi italiani di cronaca universale. Infine per i fatti del Regno di Sicilia dopo la morte di Federico II (1250) e per quelli del Regno di Napoli fino alla morte di Carlo d’Angiò (1285), si segnala una Rerum Sicularum Historia (Liber gestorum regum Sicilie) scritta dal calabrese Saba Malaspina, canonico e decano della Chiesa di Mileto intorno al 1274, e scriptor di Martino IV (1281-1285), strenuo difensore dell’autorità pontificia nei confronti di quella regia.

Sec. XIV. Per il ‘300 tre sono i nomi più illustri della storiografia in Italia: i primi due fiorentini, Dino Compagni (ca. 1246-1324), primo grande scrittore di storia in lingua volgare, la cui Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi è fonte primaria della storia due-trecentesca di Firenze (la Firenze di Dante), e Giovanni Villani (ca. 1270/80-1348), autore di una cronaca dei propri tempi e insieme della storia ciclica della città di Firenze, alla quale rivendicava come erede di Roma un destino imperiale; l’ultimo, Albertino Mussato (1261-1329), padovano, precorre gli umanisti nello svincolarsi dal modello cronachistico per affermare una concezione della storia che si ispira a Livio, nella quale le libertà comunali si accordano con gli ideali universalistici dell’Impero e della Chiesa (De gestis Henrici VII Caesaris, detta poi Historia Augusta, in 16 libri; De gestis Italicorum post Henricum VII Caesarem, in 14 libri comprendenti gli avvenimenti fino al luglio del 1321). Del tutto originale in quanto produzione storiografica di cancelleria, è infine quella del doge-cronista Andrea Dandolo (1306-1354), autore di una Chronica brevis dalle origini di Venezia al 1342, e di una Chronica per extensum descripta dal 48 al 1280 d.C., fino agli ultimi anni del sec. XIX ritenuta la principale fonte per la storia di Venezia, poi dalla critica ampiamente ridimensionata.

Sec. XV. Nel ’400 allorché si rinnova totalmente la conoscenza spirituale e storica nel recupero dei valori più intrinseci della cultura classica e della stessa fede cristiana, tra i tanti nomi si può con sicurezza attribuire al forlivese Flavio Biondo (1393-1463), segretario apostolico di papa Eugenio IV, il ruolo di scopritore e cronista della civiltà italiana, rivalutata non solo nei suoi profili politici, civili, spirituali, ma anche nella sua topografia e nella monumentalità dei suoi siti, la maggior parte dei quali espressione della plurisecolare fede cristiana (Historiarum ab inclinato Romano imperio decades tres, Romae instauratae libri tres, Italia illustrata, De Roma triumphante libri decem). A testimoniare infine il rilevante significato che il papato continua a rivestire nelle vicende italiane, è la stessa storiografia pontificia di quegli anni, sospesa tra storia, biografia e propaganda.

Fonti e Bibl. essenziale

U. Balzani, Le cronache italiane nel Medioevo, U. Hoepli, Milano 1909; La storiografia altomedioevale, 10-16 aprile 1969, I-II, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1970 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo 17); M. Miglio, Storiografia pontificia del Quattrocento, Patron, Bologna 1975; Fonti medioevali e problematica storiografica. Atti del congresso internazionale tenuto in occasione del 90° anniversario della fondazione dell’Istituto Storico Italiano (1883-1973), Roma 22-27 ottobre 1973, I. Relazioni, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1976; G. Arnaldi, I cronisti di Venezia e della Marca trevigiana, in Storia della cultura veneta, 2. Il Trecento, N. Pozza, Vicenza 1976, 272-337; G. Arnaldi – L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana dalle origini alla fine del secolo XIII, in Storia della cultura veneta, 1. Dalle origini al Trecento, N. Pozza, Vicenza 1976, 387-423; N. Cilento, La storiografia nell’età barbarica. Fonti occidentali sui Barbari in Italia, in Magistra Barbaritas. I Barbari in Italia, Scheiwiller, Milano 1984, 317-350; A. Di Stefano (ed.), La storiografia umanistica. Convegno internazionale di studi (Messina, 22-25 ottobre 1987), I-II, Sicania, Messina 1992; J.W. Busch, Die mailänder Geschichtsschreibung zwischen Arnulf und Galvaneus Flamma. Die Beschäftigung mit der Vergangenheit im Umfeld einer oberitalienischen Kommune vom späten 11. bis zum frühen 14. Jahrhunderts, Fink, München 1997 (Münstersche Mittelalter-Schriften 72); M. Zabbia, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1999 (Nuovi studi storici 49); L. Capo, La cronachistica italiana dell’età di Federico II, Rivista Storica Italiana, 114 (2002), 380-430; E. D’Angelo, Storiografi e cronologi latini del Mezzogiorno normanno-svevo, Liguori, Napoli 2003 (Nuovo medioevo 69); L. Capo, Il Liber Pontificalis, i Longobardi e la nascita del dominio territoriale della Chiesa romana, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2009 (Istituzioni e società 12); E. D’Angelo, La letteratura latina medievale. Una storia per generi, Viella, Roma 2009, 175-215 e passim; S. Defraia, Fonti storiche in epoca medievale: memorie, ombre e tracce, Chiesa e Storia. Rivista dell’Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa, 2 (2012), 29-107 (specialmente 35-82, passim).


LEMMARIO




Storiografia (età moderna) - vol. I


Autore: Stefano Tessaglia

L’umanesimo. L’affacciarsi nel XIV-XV secolo della cultura umanistica porta anche nell’ambito storiografico il germe di cambiamenti epocali e duraturi. La riscoperta della classicità greca e latina, in particolare nello studio delle lingue originali, riconduce al contatto diretto con le fonti; nasce un’attenzione nuova di tipo eminentemente critico, impostata sull’indagine filologica e linguistica dei documenti, volta a verificare l’autenticità delle fonti. Vengono così realizzate in questo periodo importanti edizioni critiche, con l’ausilio straordinario della stampa a caratteri mobili.

Tra gli studiosi italiani è significativa la figura di L. Valla, maturo interprete della cultura umanistica, che coniuga l’amore per le humanae litterae con l’impegno nella vita civile, la fede cristiana con la ragione filosofica. Valla si distingue tuttavia soprattutto per la ricerca linguistica e filologica, eletta a strumento critico e storico per eccellenza. Di qui l’importanza delle sue Annotazioni sul testo del Nuovo Testamento (1444; pubblicate nel 1505 da E. da Rotterdam) e soprattutto del De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio (1440), che dimostra la non autenticità (già sostenuta da N. Cusano) del documento sulla donazione di territori fatta da Costantino alla Chiesa. Si tratta di un approfondito e complesso trattato in cui la falsità del Constitutum è dimostrata con argomentazioni filologiche e storiche, mettendo in evidenza anacronismi stilistici e contraddizioni di contenuto, soprattutto in rapporto alla fonti antiche (Eusebio e poi Rufino e il Liber pontificalis).

Accanto a Valla è da ricordare in questo periodo B. Sacchi, detto il Platina, Prefetto della Biblioteca vaticana, la cui fama è legata al Liber de vita Christi ac omnium Pontificum (o Vitae Pontificum, 1479), una silloge di biografie di papi sulla scia delle raccolte di uomini illustri, basata sul Liber pontificalis, su Damaso, Paolo Orosio e altri scritti antichi. La sua opera sarà in seguito continuata dall’agostiniano O. Panvinio, grande conoscitore delle antichità romane.

Storiografia controversistica. Negli anni della Riforma protestante e di quella cattolica anche la storiografia segue i destini delle diverse confessioni cristiane, con scritti dai presupposti spesso più teologici e apologetici che storici. La ricostruzione storica è utilizzata strumentalmente per dimostrare e fondare l’apostolicità della Chiesa, la continuità della propria tradizione e del magistero, l’antichità delle istituzioni.

È ripresa in questi anni, da parte protestante e con accenti a tratti fortemente escatologici, la teoria della decadenza e dell’allontanamento dall’ideale dei primi secoli: basti qui ricordare il De captivitate babylonica Ecclesiae (1520) in cui M. Lutero tratteggia la figura di una Chiesa decaduta, prigioniera del papato e della curia romana. Proprio quest’idea di una Chiesa che si è andata pervertendo e allontanando dalle origini apostoliche, porta a ricostruire e studiare la storia delle comunità dei primi secoli per arrivare a conoscere il volto della Chiesa primitiva.

Dello stesso periodo sono le Vitae Romanorum Pontificum (1536) di R. Barnes, agostiniano convertito al luteranesimo, che nelle biografie dei papi elaborate sulla scorta del Platina, inserisce medaglioni di commento con critiche protestanti.

L’opera più emblematica di questa temperie, è però senza dubbio l’Ecclesiastica historia…secundum singulas centurias (o Centurie di Magdeburgo, dalla città tedesca in cui sono redatte), opera in 13 libri diretta dal riformatore M. Flacio Illirico con l’ausilio di molti collaboratori e pubblicata a Basilea (1559-1574). I Centuriatori, ripercorrendo la storia del cristianesimo dalle origini al Duecento, si propongono di scardinare la legittimità della Chiesa romana, mostrandone i tradimenti, a fronte della persistenza di una minoranza ininterrotta di testimoni fedeli alla verità delle origini, dai Padri della Chiesa ai movimenti medievali, fino agli albori della Riforma protestante. Lo stesso Flacio aveva preparato questo lavoro con il Catalogus testium veritatis qui ante nostram aetatem reclamarunt papae (1556), un’imponente raccolta di circa quattrocento testimonianze storiche antipapali, che entrando in altri scritti diventeranno poi ricorrenti.

Le Centurie non utilizzano la classificazione cronologica per gli eventi ma, fedeli al titolo, dividono la materia all’interno di ogni secolo per tematiche e argomenti: principalmente di tipo storico, sono affiancati dalle diverse dottrine e contenuti teologici, liturgici, giuridici, politici, e dalle vite delle personalità più importanti. Le fonti principali, studiate con un metodo critico a volte non pienamente scientifico, sono costituite dalla Scrittura e dagli antichi storici cristiani, Eusebio in specie, cronache e opere di tipo giuridico (decretali).

Tentativi di risposta da parte cattolica non tardano a giungere: così l’opera di P. Canisio, condotta con argomenti storici e dottrinali; allo stesso modo R. Bellarmino, che, da teologo, utilizza le acquisizioni storiche per esporre i dati della fede cattolica.

Solo alla fine del secolo, dopo questi tentativi di “catechismi storici”, giunge con C. Baronio la risposta storiografica adeguata, nella monumentale Historia ecclesiastica controversa, comunemente nota con il nome di Annales ecclesiastici (1588-1607), impresa a lui affidata sotto gli auspici di papa Sisto V, con l’esplicitazione, nella dedica del primo volume, del fine perseguito: “eccitare gli animi alla virtù…e contro i novatores di questo tempo”. I dodici volumi, che giungono fino al 1198, costituiscono probabilmente una risposta ai Centuriatori, tuttavia mai menzionati, ma anche il desiderio di mostrare la continuità della Chiesa del tempo con quella delle origini.

Baronio, che aveva già lavorato sulle fonti antiche per la revisione del Martirologio romano (1583) e insegnato storia su incarico di F. Neri e della Congregazione degli oratoriani, cui apparteneva, analizza sistematicamente il prezioso materiale di biblioteche e archivi romani, citando testimonianze inedite e prendendo posizione riguardo all’autenticità di alcuni documenti.

Il procedere degli Annales è sempre cronologico, non più per secoli ma per anni, dalla nascita di Cristo e secondo l’imperatore e il papa regnante. A differenza delle Centurie che procedono per argomenti, seguendo un metodo più innovativo, l’opera di Baronio è più tradizionale e, con minuziosa ansia di precisione, dipana la narrazione secondo la tipologia della cronache medievali, ma con procedimento critico umanistico. La raccolta, ricco insieme di apologetica, controversia ed erudizione, è certamente il frutto più compiuto dell’epoca controriformistica, il distillato dell’impegno della generazione che si sentiva chiamata ad arginare le nuove tendenze religiose e insieme ad applicare e completare le misure del Concilio di Trento. Gli Annales ebbero certamente anche critici (I. Casaubon, S. Basnage), ma anche compendi, commenti e continuatori, tra cui gli oratoriani O. Rinaldi, che portò l’opera fino all’anno 1565 e G. Laderchi, fino al pontificato di Pio V. In ambito italiano sono poi da ricordare gli eruditi C. Sigonio, A. Possevino e A. Rocca.

Concilio di Trento. Nell’alveo della storiografia controversistica la polemica sull’interpretazione del Concilio di Trento occupa senza dubbio un posto di rilievo e giova ricordare almeno le due opere più significative.

Sarpi, servita simpatizzante per le idee protestanti, teologo ufficiale della Repubblica di Venezia, è autore dell’Historia del concilio tridentino, iniziata nel 1608 e pubblicata a Londra nel 1619 sotto lo pseudonimo di P. Soave Polano, condannata e posta all’Indice nello stesso anno. Egli, servendosi di ottimo materiale storico (relazioni degli ambasciatori veneti al Concilio, testimonianze orali) e con prosa agevole, imposta una critica feroce del Concilio, ritenuto soltanto uno strumento nelle mani della curia papale. Secondo Sarpi, a Trento, si sarebbe affermata la più dura politica accentratrice romana mentre sarebbe stato eluso l’unico vero scopo del Concilio, la riforma della Chiesa a partire dal suo vertice; a scapito degli interessi religiosi e spirituali avrebbero prevalso quelli temporali e politici. L’Historia, composta da un teologo e con intenti polemici antiromani, non coglie in pieno l’importanza storica del Concilio, un indubbio passo avanti nell’opera di riforma, e, configurandosi come un trattato politico, pone invece in primo piano le carenze della curia romana.

Sul versante opposto si pone l’Istoria del concilio di Trento (1656-1657) del gesuita P. Sforza Pallavicino. Servendosi della vasta mole di materiale già raccolta da T. Alciati e F. Contelori, e per ordine di papa Innocenzo X e della Compagnia di Gesù, egli compone una vera e propria arringa contro Sarpi, con intento apertamente apologetico e dal conseguente stile a volte minuzioso e pedante. L’opera si fonda su fonti romane di grande valore e l’accurata interpretazione dei documenti e degli avvenimenti la pone ad un livello di ricerca superiore, pur soffermandosi a tratti su particolari marginali e sorvolando su quelli più rilevanti ma problematici. Come Sarpi, neanche Pallavicino, di formazione prevalentemente giuridica, riflette sul valore del Concilio né problematizza l’importanza delle opere di riforma da esso scaturite.

Storiografia critico-erudita. Nei decenni successivi, sopite almeno in parte le polemiche più accese, la produzione storiografica riprende il proprio corso nel solco tracciato dagli umanisti. È questo il periodo in cui la fioritura della filologia porta a edizioni critiche di molti scritti, senza il condizionamento d’intenti polemici o di difesa, ma pur sempre sotto lo sguardo vigile delle autorità ecclesiastiche, preoccupate che la messa in discussione di ingenti certezze storiche potesse indebolire il fragile equilibrio ad intra e ad extra.

È questa l’epoca di monumentali pubblicazioni di fonti antiche e, superando i confini confessionali, studiosi delle diverse chiese ritornano documenti delle origini. Sono così da ricordare almeno gli studi del pastore calvinista D. Blondel, che dimostrano la falsità delle decretali.

Nella seconda metà del ‘500 soprattutto in Francia si approntano diverse edizioni: fra gli studiosi cattolici, M. de la Bigne compone la Sacra Bibliotheca Sanctorum Patrum (1575-1579); D. Pétau (lat. Petavius) con altri gesuiti lavora alle traduzioni di Padri greci in latino, già sullo sfondo della polemica giansenista.

Sono tuttavia i benedettini parigini della congregazione di S. Mauro (maurini) a realizzare una delle imprese più significative della seconda metà del XVII secolo. Con l’intento di dare nuova linfa agli ideali culturali del monachesimo e seguendo un grandioso programma, essi portano a termine grandi edizioni, spesso insuperate, dei Padri della Chiesa, prima fra tutte quella di Agostino, quanto mai fondamentale in epoca di scontri sull’interpretazione della grazia. Tra le opere, redatte sotto la guida di J. Mabillon, si ricordano gli Acta Sanctorum Ordinis Sancti Benedicti (9 voll., 1668-1701), gli Annales Ordinis Sancti Benedicti (6 voll., 1703-1709), la Gallia cristiana (13 voll., 1715-1785). Soprattutto però nelle discipline “ausiliarie” i maurini lasciano una traccia profonda, fondativa: con il suo trattato De re diplomatica libri sex del 1681 Mabillon pone le basi della moderna ricerca storica basata sulla critica diplomatica e paleografica dei documenti.

Anche nel campo dell’agiografia si assiste alla nascita di grandi opere, nel tentativo di far chiarezza sull’antichità dei documenti e sulla presenza di elementi fantasiosi e non veritieri: sono riprese in esame le passioni dei martiri e le vite dei confessori, anche in funzione di difesa del culto dei santi, minato dai riformati.

Si hanno così due raccolte: le Sanctorum priscorum patrum vitae (8 voll., 1551-1560) di L. Lippomano, di non pieno valore scientifico, che costituisce la base per le De probatis sanctorum historiis (7 voll., 1576-1581) del tedesco L. Surio.

Queste opere ebbero larga diffusione, ma ancora non vi è in esse la precisione critica che si riscontra negli Acta sanctorum dei gesuiti belgi, impresa corale divenuta simbolo della produzione erudita del tempo. Il progetto iniziale di H. Rosweyde, autore dei Fasti sanctorum (1607), prevedeva un piano di ricerca complessivo, confluito poi nei lavori di J. Bolland – dal suo nome l’appellativo di bollandisti per questi studiosi gesuiti. Dal 1643 iniziano ad uscire i primi volumi degli Acta, e fino al 1794 si contano cinquantatre volumi cui lavorano con severo metodo critico gli assistenti e successori di Bolland, G. Henschen e sopratutto D. Papebroch, compilatore di diciannove volumi, autore dell’importante Propylaeum antiquarium circa veri ac falsi discrimen in vetustis membranis (1675), nel quale è esplicato il metodo scientifico per lo studio delle documenti medievali. Ciascun volume degli Acta procede secondo rigorosi criteri programmatici: ordine dei santi secondo il calendario romano, introduzione critica dei documenti, pubblicazione dei testi più attendibili posti come base per poi discutere gli altri, come varianti da recepire o ricusare. La severità, a volte eccessiva di questi studiosi nel vagliare le fonti, causò in qualche occasione le reazioni delle gerarchie ecclesiastiche e la messa all’Indice di volumi degli Acta.

Un simile metodo storico-critico viene applicato anche ai testi dei Concili, con le revisioni delle raccolte medievali e la ricerca di interpolazioni o di falsi. L’opera più importante in questo senso, riedita e ampliata fino al XX secolo, è la Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio (31 voll., 1759-1798) di G. D. Mansi, contenente Concili generali ed ecumenici ma anche Sinodi provinciali.

Nell’ambito della storia delle diocesi si hanno alcune importanti raccolte, tra cui i volumi dell’Italia sacra (9 voll., 1642-1662) del cistercense F. Ughelli, prima storia completa delle diocesi italiane divise secondo le province ecclesiastiche, con l’indicazione della serie completa dei vescovi, notizie biografiche, cenni storici dei luoghi di culto più importanti, tradizioni locali e documenti inediti. L’opera, pur non propriamente critica, apre la strada a raccolte simili: Gallia christiana (dal 1715, a cura dei maurini) ed España sagrada (dal 1747). Un’impresa ancora più ambiziosa, rimasta incompiuta e mai pubblicata è l’Orbis christianus di G. Garampi, Prefetto dell’Archivio vaticano, che avrebbe dovuto comprendere più di venti volumi e abbracciare le diocesi e la gerarchia di tutto il mondo, utilizzando l’immensa mole di documenti vaticani.

Nascono in questi decenni e sulla stessa scia anche raccolte e bullaria dei vari ordini religiosi. Primi sono i francescani, con gli Annales Ordinis Minorum di L. Wadding, pubblicati a partire dal 1625; seguono poi i già citati Annales Ordinis Sancti Benedicti redatti dai maurini e altri.

Sviluppi successivi. Nel contesto della storiografia critica sono significativi anche gli scritti influenzati dal gallicanesimo e molti degli studiosi francesi sono espressione delle idee gallicane o gianseniste, sensibili dunque al tema del primato papale e del centralismo romano. Ricordamo L.S. Le Nain de Tillemont, giansenista studioso dei primi sei secoli, non molto critico; N. Alexandre, domenicano moderatamente giansenista e di tendenze gallicane e conciliariste; C. Fleury, che pur difendendo idee gallicane, compie notevoli sforzi di imparzialità e compone un catechismo storico per la divulgazione ad un pubblico più vasto (Catéchisme historique, 1679), vero esempio di narrazione storica moderna. Sia Alexandre sia Fleury sono messi all’Indice e tradotti in diverse lingue dopo esser stati purgati, rimanendo alla base di molti studi fino al XIX secolo.

Esponente significativo delle tendenze gallicane e personalità influente è J. B. Bossuet, autore del Discours sur l’histoire universelle (1681), scritto in prospettiva provvidenzialistica. A questo si affianca l’Histoire des variations des églises protestantes (1688), opera innovatrice che utilizza fonti protestanti per dimostrare gli errori e l’allontanamento dei riformati dalla Chiesa delle origini.

Tra i vari tentativi di risposta e confutazione da parte romana ricordiamo la Storia ecclesiastica (21 voll., 1747-1762) del domenicano G. A. Orsi e il più modesto Breviarium historiae ecclesiasticae usibus academicis accomodatum (1760) dell’agostiniano G. L. Berti, significativo perché nato per l’insegnamento.

Nello stesso periodo in Italia si hanno varie esperienze di erudizione, spesso locale. Spicca in questo contesto L.A. Muratori, che si considera discepolo di Mabillon, rispetto al quale compie il passo decisivo di indagare non soltanto l’autenticità delle fonti, ma anche l’attendibilità/veridicità di esse. Egli, sacerdote e parroco, non si dedica a studi specifici di storia ecclesiastica, ma i suoi sono scritti di storia generale, in cui le radici culturali italiane sono ricercate piuttosto nelle fonti medievali che nell’antichità: su tutto le Antiquitates italicae medii aevi (6 voll., 1738-42), vera miniera di nozioni sulle istituzioni, la politica, l’economia, il costume, la religione della penisola. I suoi Annali della storia d’Italia (12 voll., 1744-49) sono particolarmente apprezzati nell’epoca del Risorgimento, per il tentativo di ricostruire una storia unitaria del Paese al di là delle frammentazioni contingenti; mentre riferimento ancora fondamentale rimane la monumentale Rerum Italicarum Scriptores (25 voll., 1723-1751), contenente le sue ricerche sulla storia d’Italia dal 500 al 1500, considerata a ragione la prima vera grande raccolta di fonti medievali della storiografia moderna.

Significativi editori e studiosi di testi furono anche B. Bacchini, maestro a Modena di Muratori e i fratelli P. e G. Ballerini.

I decenni successivi, con l’insorgere dell’Illuminismo, non vedono studiosi di rilievo dedicarsi esplicitamente alla storia del cristianesimo, limitandosi piuttosto ad utilizzare il materiale messo a disposizione degli eruditi per fini polemici e senza una vera rielaborazione in senso storico. L’approccio degli illuministi, nel tentativo di sottolineare l’oscurantismo e l’arretratezza della Chiesa, in specie nel medioevo (Voltaire), suscita un filone di storia apologetica e controversistica simile al passato, tesa a confutare filosofi e rivoluzionari, sostituitisi ora ai riformati. Nell’ambito più specificamente storiografico il fine per cui nasce uno scritto viene così a prevalere nuovamente sul valore storico dei documenti in sé, in una prospettiva ultramontana e intransigente.

Espressione moderata di questa tendenza è il breve trattato polemico Il trionfo della S. Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori respinti e confutati colle loro stesse armi (1799) di B.A. Cappellari, futuro papa Gregorio XVI, argomentazione storica in difesa della natura monarchica della Chiesa (identificata ipso facto col papato), del primato e dell’infallibilità pontificia, della piena indipendenza della Sede apostolica dall’autorità temporale.

Fonti e Bibl. essenziale

H. Jedin, Introduzione alla storia della Chiesa, Morcelliana, Brescia 1996; M. Heim, Introduzione alla storia della Chiesa, Einaudi, Torino, 2002; P. Brezzi, La storiografia ecclesiastica, Libreria scientifica editrice, Napoli 1959; S. I. Camporeale, Umanesimo e teologia tra ’400 e ’500, in Problemi di storia della Chiesa nei secoli XV-XVII, Dehoniane, Napoli 1979, 137-164; M. Pellegrini, La storia della Chiesa nella prospettiva degli umanisti (secc. XV-XVI), in L. Martínez Ferrer (ed.), Venti secoli di storiografia ecclesiastica. Bilancio e prospettive, Edusc, Roma 2010, 73-130; M. Bendiscioli, La riforma cattolica nelle nuove testimonianze e nella nuova storiografia, introduzione a M. Marcocchi, La riforma cattolica. Documenti e testimonianze, I, Morcelliana, Brescia 1967, 7-31; H. Jedin, Il cardinale Cesare Baronio. L’inizio della storiografia ecclesiastica cattolica nel sedicesimo secolo, Morcelliana, Brescia 1982; R. De Maio – L. Gulia – A. Mazzacane (edd.), Baronio storico e la Controriforma, Centro di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, Sora 1982 (da segnalare alcuni dei contributi: E. Norelli, L’autorità della Chiesa antica nelle Centurie di Magdeburgo e negli Annales del Baronio, 253-307; A. Ferrarini, Socrates Novatianus homo: giudizio storico e metodologia storiografica in Cesare Baronio, 309-346; A. Burlini Calapaj, Accademie e storiografia ecclesiastica alla fine del ‘600, 659-671; D. Menozzi, Il dibattito sul “Baronio storico” nella Chiesa italiana del Settecento, 693-734); L. Gulia (ed.), Baronio e le sue fonti, Centro di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, Sora 2009; W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione. Un discorso storiografico, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento), Il Mulino, Bologna 1994, 101-123; H. Schilling, Chiese confessionali e disciplinamento. Un bilancio provvisorio della ricerca storica, in Disciplina dell’anima, cit., 125-160; A. Prandi, La “storia della Chiesa” tra Sei-Settecento. Apologetica ed erudizione, in Problemi di storia della Chiesa in Italia nei secoli XVII-XVIII, Dehoniane, Napoli 1982, 13-38.


LEMMARIO




Tanner Norman


Born: Woking, England, 26 February 1943, son of John Basil and Agnes Emily (née Tolhurst) Tanner. Lived in Esher (1943-8) and Limpsfield (1948-61) Surrey, England. Schools: Sacred Heart Convent, Woldingham, Surrey, 1948-51; Avisford School, Arundel, Sussex, 1951-6; Ampleforth College, Yorkshire, 1956-61. 1961- member of the Society of Jesus (Jesuits). Novice 1961-3. 1963-6 studied Philosophy at Heythrop College, Oxfordshire; Licentiate awarded 1966. 1966-72 studied History and Medieval Church History at Oxford University: BA in History 1969; MA 1974; DPhil 1974 (thesis: “Popular religion in Norwich, with special reference to the evidence of wills, 1370-1532″). 1973-6 studied Theology at the Gregorian University, Rome; BTh awarded 1976. 1976 ordained Roman Catholic priest. 1977-8 assistant priest, Farm Street parish, London W1.

1978 onwards: Oxford University 1978-2003: member of History Faculty 1986-2003, member of Theology Faculty 1989-2003, University Research Lecturer 1997-2003. Appointments at Campion Hall (Hall of Oxford University): Tutor in Church History 1978-2003, Prefect of Studies / Senior Tutor 1981-97, Librarian 1981-2003. Heythrop College, London University: Lecturer (part-time) in Church History 1982-2003. Gregorian University, Rome, 2003-: Professor (Ordinarius), Faculty of Theology 2003-07, Faculty of Church History 2007-, Dean, Faculty of Church History (Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa) 2009-. Visiting Lecturer / Professor (Church Councils and/or Church History) at the following: Hekima College (Catholic University of East Africa), Nairobi, Kenya, 1991, 1996, 1999, 2001, 2003, 2005, 2007, 2009; Chishawasha National Seminary, Harare, Zimbabwe, 1991, 1996, 2000, 2003; Cedara College, near Pietermaritzburg, South Africa, 1991; Vidyajyoti Theological College, Delhi, India, 1996, 1999; St Augustine College, Johannesburg, South Africa, 1999; St John Vianney Seminary, Pretoria, South Africa, 1999; Jnana Deepa Vidyapeeth, Pune, India, 1999, 2001, 2003, 2006; Centre Sèvres, Paris, France, 2000; Gregorian University, Rome, Italy, 2000 and 2002; College General, Penang, Malaysia, 2001; Sanata Dharma University, Yogyakarta, Indonesia, 2001; Institut de Théologie de la Compagnie de Jesus (ITCJ), Côte d’Ivoire, 2008. Fellow of Royal Historical Society 1988-. Member of Ecclesiastical History Society. Member of Catholic Theological Association of Great Britain. Various work in parishes, giving retreats and other pastoral work during this time. In short, academically: (1) leading authority on the ecumenical/general councils of the Church (Nicea I, 325, to Vatican II, 1962-5); (2) scholar of the medieval Church; (3) scholar in various other topics, mainly in Church History. Editor, Archivum Historicum Societatis Iesu, and responsible for publications within Archivum Romanum Societatis Iesu, Rome, 2012-. D.Litt (Honoris Causa), Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto, 2013