Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dopo l'Unità Nazionale
Roma 2015
Copyright © 2015

Assemblea Costituente - vol. II


Autore: Francesco Bonini

Dal momento della fine del regime fascista tutta l’azione del complesso e articolato mondo cattolico si sviluppa, con crescente intensità, in una prospettiva costituente, per riassetto del sistema politico-istituzionale italiano. I radiomessaggi natalizi di Pio XII scandiscono questo tempo, a partire dall’appello lanciato nel 1942, l’anno in cui era stata fondata la Democrazia Cristiana: «Non lamento, ma azione è il precetto dell’ora; non lamento su ciò che è o che fu, ma ricostruzione di ciò che sorgerà e deve sorgere a bene della società».

Dal 18-23 luglio, pochi giorni prima della decisione del Gran Consiglio del Fascismo di sfiduciare Mussolini, si svolgeva a Camaldoli un convegno, promosso da mons. Bernareggi, cui partecipavano – su 90 inviti – 45 esperti dal vario mondo cattolico, che fanno il punto sui Principi dell’ordinamento sociale, portando poi in breve alla pubblicazione del cosiddetto Codice di Camaldoli. Parallelamente, nell’Italia del nord, all’Università cattolica un gruppo di “professorini” sviluppa le riflessioni sui radiomessaggi del Papa che porteranno ad accumulare altro importante materiale.

A questo dà forma politica de Gasperi, cosicché si può preparare un’ampia piattaforma per la discussione costituente. Essa non si identifica con la questione istituzionale, anche se la implica. Il grande consenso infatti che si esprime nel mondo cattolico per il riassetto costituente non si riproduce automaticamente sulla scelta repubblicana, anche se il leader politico era certamente pro-repubblicano e il Pontefice non vi era pregiudizialmente contrario.

Al consiglio dei ministri del 18 marzo 1944 De Gasperi afferma: «I democratici cristiani sono per la soluzione democratica, perché sanno che il popolo vuole la libertà, cioè vuol essere padrone in casa sua, ciò che gli può venir garantito in via pacifica con la Costituente, ove il rinnovamento deve avvenire per la forza interna di autodisciplina e di autogoverno».

L’attività di elaborazione, trasversale nel mondo cattolico, si coagula nella celebrazione della XIX settimana sociale, prima dopo l’interruzione durante il Regime, che si svolge a Firenze dal 22 al 28 ottobre 1945, sul tema Costituzione e costituente e viene rilanciata nel congresso della DC, che si tiene il 24-27 aprile 1946 alla vigilia delle elezioni del 2 giugno.

Si può dire dunque che i cattolici sono gli unici ad elaborare un compiuto progetto costituente, formalizzato nella relazione di Gonella delle cosiddette 27 libertà.

Sintetizza la Civiltà Cattolica la contiguità del percorso mondo cattolico-DC: «non bisogna dimenticare che non sarà la forma della monarchia o della repubblica che potrà assicurarci un costituzione cristiana, ma un solido partito che abbia una tale maggioranza da imposi a tutte le altre formazioni politiche».

Alla costituente il lavoro redazionale vede particolarmente impegnato Giuseppe Dossetti con i “professorini” La Pira, Fanfani e Moro, sotto l’attenta regia dello stesso De Gasperi e dei suoi più stretti collaboratori alla Costituente, come Umberto Tupini. La Santa Sede segue con grande attenzione il complesso lavoro costituzionale, d’intesa con gli esponenti della DC, ma anche in relazione con lo stesso Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75, cioè di fatto coordinatore del processo di elaborazione e di redazione, oltre che con gli esponenti dei partiti moderati (qualunquisti e monarchici). Il partito comunista dal canto suo aveva presente con particolare attenzione gli interessi della Chiesa. Le posizioni più spiccatamente laiche, anche se senza radicale contrapposizione, sono dei socialisti e di esponenti liberal-democratici.

Le indicazioni vaticane, espresse pubblicamente dalla Civiltà Cattolica e dall’Azione Cattolica, vertono su tre punti: i temi di architettura, relativi all’impostazione di fondo, ai diritti ed alle libertà, a partire dalla libertà religiosa; il rapporto Stato-Chiesa con la necessità di affermare la conferma costituzionale dei patti Lateranensi e le questioni relative ai grandi campi della dottrina sociale, famiglia, scuola, lavoro.

Il processo costituente italiano si caratterizza per essere stato lungo, con l’obiettivo di produrre consenso e di accompagnare il consenso costituente oltre una dialettica politica sempre più caratterizzata dalla frontiera della guerra fredda.

Questo vale anche per i rapporti con la Chiesa. «Non si può ottenere interamente — disse De Gasperi al Nunzio — tutto ciò che la Chiesa chiede in materia di religione».

L’articolo 5 del progetto, relativo alla definizione dei rapporti Stato-Chiesa ed alla costituzionalizzazione del principio (e non della lettera) dei Patti Lateranensi viene approvato senza sorprese, con il voto favorevole del PCI. Emblematico diventa anche il caso dell’articolo 23, sul matrimonio. Il vincolo dell’indissolubilità, introdotto nel progetto con una votazione che vede accanto alla DC le destre, viene espunto in sede di discussione generale, con la determinante assenza di ben 32 deputati democristiani, mentre un duttile atteggiamento comunista, fa comunque passare il concetto di “società naturale”.

Gli indubbi risultati ottenuti in termini sostanziali sui grandi temi di architettura avevano parimenti sconsigliato qualsiasi battaglia per inserire un riferimento o un appello a Dio, scegliendo così una via mediana tra la legge fondamentale tedesca, che lo contempla, e le due costituzioni successivamente approvate in Francia, che invece affermavano esplicitamente la “laicité” (anche) della (quarta) Repubblica.

In ogni caso il risultato del bargain costituente disegna il profilo di un sistema democratico fortemente caratterizzato dall’ispirazione e dalla presenza cristiana.

Fonti e Bibl. essenziale

Per l’inquadramento istituzionale: F. Bonini, Storia costituzionale della Repubblica, Roma, Carocci, 2077. Nel merito G. Sale, Il Vaticano e la Costituzione, Jaca Book, Milano 2008. Si veda anche E. Gavalotti, Il professorino. Don Giuseppe Dossetti tra crisi del fascismo e costruzione della democrazia 1940-1948, Bologna 2013.


LEMMARIO




Assistenza - vol. I


Autore: Marina Garbellotti

Sono così numerose le opere assistenziali promosse in seno alla Chiesa da renderne impossibile in questa sede un’esposizione esaustiva; pertanto si darà spazio prevalentemente alle iniziative più significative in materia di assistenza, intesa nello specifico quale soccorso nei confronti dei bisognosi, mentre si accennerà marginalmente alle pratiche sanitarie, affrontate più dettagliatamente nella voce ‘ospedali’.

Nella Chiesa delle origini i grandi promotori dell’assistenza furono i vescovi, considerati ‘padri dei poveri’, e i monasteri. Di particolare impulso per l’attività caritativa esercitata dai monasteri fu la regola di S. Benedetto che dettava precise norme sull’ospitalità: poveri e pellegrini dovevano essere accolti con estremo riguardo, «quia in ip­sis magis Christus suscipitur». Sebbene i capitoli benedettini non abbiano incontrato un’applicazione uni­forme, il messaggio trasmesso influenzò il movimento monastico me­dioevale e la cultura della carità. Il cristiano era invitato a portare soccorso ai poveri sia per alleviarne i patimenti sia per poter riscattare i propri peccati mediante l’elemosina. Consentendo ai credenti di redimersi, l’indigente assumeva un’importante funzione sociale.

I monasteri non erano le uniche istituzioni a offrire soccorso e rifugio ai bisognosi. A partire dal XII secolo, in concomitanza con l’intensificarsi dei commerci e della mobilità, si assistette alla nascita di molti ospizi, dove pellegrini, viandanti, mercanti, soldati, potevano riprendersi dalle fatiche del viaggio e ottenere assistenza materiale e spirituale. Alcuni si dovettero all’iniziativa degli ordini ospitalieri, sorti nei secoli XII e XIII in relazione ai pellegrinaggi e alle crociate; altri furono l’espressione di quel réveil évangelique, manifestatosi tra la fine del secolo XI e i primi decenni del secolo XIII, che si tradusse nella proliferazione di associazioni confraternali dedite alla cura delle frange più misere della popolazione. Intervenendo in un settore della società pressoché scoperto, l’azione di questi sodalizi permise alla Chiesa di irrobustire la propria funzione, guadagnando una posizione significativa e altra rispetto a quella della cura delle anime. Nel corso del Trecento, e con modalità più marcate nel Quattrocento, tale presenza nel campo assistenziale iniziò a risultare ingombrante agli occhi delle autorità civili, gradualmente orientate a intervenire e a controllare i vari ambiti della società; le associazioni caritative e le loro concrete pratiche di soccorso finirono per essere considerate strumenti irrinunciabili alle politiche sociali di contenimento della miseria.

L’attività delle confraternite fu fortemente influenzata anche dalle proposte pastorali degli Ordini mendicanti, la cui presenza divenne capillare a partire dal secolo XIII. Pur non fondando direttamente istituti assistenziali, queste congregazioni furono determinanti nel promuoverne. Un esempio di questa influenza è la diretta partecipazione dei Minori Osservanti alla creazione dei Monti di pietà e dei Monti frumentari. Grazie alla predicazione dei frati, dalla seconda metà Quattrocento, i Monti sorsero in diversi centri e località con il duplice fine di aiutare i poveri, accordando loro prestiti in denaro o di grano, e di opporsi all’usura in chiave antiebraica: la lotta contro i tassi di interesse mirava, infatti, a ridurre la fiorente pratica feneratizia esercitata dai banchieri ebrei. Come è noto, però, progressivamente i Monti di Pietà snaturarono la valenza caritativa che ne aveva connotato la nascita e iniziarono a concedere prestiti su pegno dietro la corresponsione di un interesse, giustificato dalla spese gestionali, e a selezionare la clientela escludendo dal circuito creditizio le persone più indigenti.

Nel corso del Quattrocento cominciò a manifestarsi verso il povero un atteggiamento che condizionò profondamente il concetto di assistenza e i suoi destinatari. Accanto all’immagine tradizionale del povero, degno di carità e di aiuto, perché raffigurazione terrena delle sofferenze di Cristo, si profilò quella dell’indigente ozioso, misero perché ostile al lavoro e incline a comportamenti devianti. Divenne evidente che non tutti meritavano la carità. Essa doveva essere riservata solo ai veri indigenti, cioè a quanti erano inabili al lavoro per ragioni di età, per menomazioni fisiche o infermità; al contrario, i poveri abili, quindi in grado di procurarsi il sostentamento, erano esclusi dall’assistenza e soggetti a provvedimenti di espulsione.

La figura del mendicante ozioso, condannata tanto dalle autorità civili quanto da quelle ecclesiastiche, non fu un’invenzione di quest’epoca, essa affondava le sue radici nella patristica. Sin dalle origini il cristianesimo offrì una visione positiva del lavoro che, rimasta a lungo latente, aveva riacquistato vigore a partire dal XII secolo, quando all’ammirazione della vita contemplativa si era affiancato l’apprezzamento della vita operativa. Soprattutto i testi dell’apostolo Paolo – si pensi alla nota espressione contenuta nella lettera ai Tessalonicesi: «si quis non vult operari nec manducet […]» – furono ripresi per giustificare la necessità dell’uomo di lavorare. La progressiva valorizzazione della vita attiva non fu l’unico fattore a determinare la diversa visione del povero. A questo cambiamento culturale contribuì il preoccupante aumento del numero degli indigenti, registratosi tra i secoli XV e XVI e provocato, in estrema sintesi, da una serie concomitante di fattori, quali l’espansione demografica, il ristagno economico e il susseguirsi di carestie ed epidemie.

Di fronte al crescente fenomeno del pauperismo le autorità civili in collaborazione con quelle ecclesiastiche riorganizzarono il sistema assistenziale con l’intento di renderlo più efficiente e razionale: i piccoli ospizi medievali polifunzionali furono sostituiti da enti possibilmente specializzati nella cura di infermi e nell’assistenza di diverse categorie di indigenti. La mappa degli istituti assistenziali si arricchì di ospedali, intesi quali embrionali luoghi di cura, di brefotrofi, di istituti per l’educazione dei giovani, di Conservatori per la tutela delle fanciulle bisognose, e di alberghi per i mendicanti, presso i quali il soccorso materiale si intrecciava all’educazione e all’imposizione di precisi modelli di comportamento.

Con la riforma ospedaliera avvenuta alle soglie dell’età moderna le autorità civili conclusero il graduale processo avviato nel XIV secolo per amministrare i diversi ambiti della società e presero ad occuparsi in modo deciso dell’assistenza, assorbendo nella propria sfera di competenza gli istituti caritativi, compresi quelli amministrati dalle confraternite. Questo intervento, tuttavia, non comportò l’abbandono delle attività caritative da parte delle istituzioni religiose, che continuarono a fornire un contributo sostanziale. L’assistenza spirituale offerta dai religiosi rimase un servizio centrale all’interno degli ospedali anche in quelli gestiti da laici; i monasteri non rinunciarono a donare elemosine e a ospitare in strutture attigue mogli con problemi coniugali (malmaritate), prostitute pentite, donne compromesse nell’onore per aiutarle a recuperare la reputazione mediante un periodo di ritiro e di pentimento. Se infatti, come ebbe a chiarire tra gli altri l’arcivescovo di Firenze, Antonino Pierozzi (1389- 1459), la verginità corporale, indipendentemente dalle modalità con cui era stata compromessa, non poteva essere recuperata, era possibile riacquistare la verginità morale attraverso un periodo di vera penitenza. I luoghi deputati a tale scopo non avevano una significativa capacità ricettiva, essi però rivestivano un’importante funzione simbolica. La loro esistenza, infatti, testimoniava e ribadiva l’importanza del controllo sociale sul corpo femminile, nonché la necessità di tutelare la reputazione delle donne che doveva essere riscattata se macchiata.

Le confraternite proseguirono la loro opera assistenziale, per un verso soccorrendo altre tipologie di bisognosi quali i condannati a morte, i poveri cosiddetti vergognosi, cioè persone declassate socialmente, i poveri laboriosi, e le ragazze sprovviste di dote; per l’altro, conformandosi ai principi caritativi dominanti, regolarono l’elargizione degli aiuti secondo criteri selettivi. Tendenzialmente, infatti, i sussidi erano destinati ai poveri meritevoli (bambini, fanciulli, fanciulle, vedove, infermi, anziani), e ad adulti abili lavoro, purché questi potessero dimostrare di essere privi di un mestiere per ragioni indipendenti dalla loro volontà, di essere cittadini o residenti da molti anni, e di aver esercitato un lavoro. In sostanza, la carità era concessa a quanti rispettavano i valori costitutivi della società, riassumibili nel rispetto dell’etica del lavoro e dell’onore, o avevano contribuito alla crescita economica della stessa.

Mentre nel corso del Cinquecento le autorità civili rafforzarono gli interventi sulle strutture assistenziali riconducendole nella propria sfera di competenza, nuovi ordini religiosi si affacciarono sulla scena sociale potenziando le attività caritative. Alcuni si caratterizzarono per una spiccata vocazione assistenziale sanitaria, quali i Camilliani, i Fatebenefratelli, i Teatini (cfr. voce ospedali), pur non rinunciando ad altre forme di sostegno. I Teatini, ad esempio, conferirono ampio spazio al conforto dei condannati a morte; altri, quali i Gesuiti, i Barnabiti, i Somaschi, gli Oratoriani o Filippini, gli Scolopi, individuarono nel campo educativo il terreno primario della loro attività rivolgendosi a bambini e a giovani di diversa provenienza sociale. In particolare nei confronti dei molti fanciulli di umili condizioni, abbandonati a se stessi e inclini a comportamenti devianti, l’educazione divenne un importante strumento di disciplina. A tale scopo furono create strutture che all’aiuto materiale univano la persuasione ai costumi cristiani e l’attitudine al lavoro: gli orfanotrofi aperti negli anni Trenta del Cinquecento in varie città della Repubblica di Venezia, del Ducato di Milano e a Roma da Girolamo Miani, fondatore dei Somaschi, si orientarono in questa direzione.

Le mansioni educative assorbirono l’impegno anche di molte congregazioni femminili. Se sino ai primi decenni del Cinquecento l’accesso delle donne alla cultura era numericamente ristretto e avveniva prevalentemente in casa o presso i monasteri, dagli anni Trenta del secolo si possono cogliere elementi innovativi testimoniati dalla nascita di compagnie femminili, collegi e conservatori dediti all’insegnamento dei principi religiosi e dei primi rudimenti di lettura e scrittura. Rilevante in questo campo fu l’opera della Compagnia di Sant’Orsola, fondata nel 1535 a Brescia da Angela Merici. Inizialmente coadiutrici dei parroci nella catechesi, nella seconda metà del Cinquecento le Orsoline si qualificarono come maestre emergendo nel settore dell’istruzione primaria e di quella superiore fondando collegi con educandato interno e scuola esterna. Benché l’azione delle religiose risulti più circoscritta rispetto a quella messa in atto dai religiosi, a motivo dell’obbligo della clausura imposto a molte di loro, essa non si esauriva nell’insegnamento. La riabilitazione delle ex prostitute, l’assistenza degli ammalati a domicilio e negli ospedali, l’aiuto prestato alle giovani e ai poveri, completano il ventaglio dei loro interventi. Le Figlie della carità, sorte a Parigi nel 1633 per volontà di Vincenzo de’ Paoli grazie alla collaborazione di Luisa de Marillac, costituiscono l’esempio forse più illuminante appunto per l’ampio spettro delle forme assistenziali esercitate.

Lungo tutta l’età moderna le autorità di governo tentarono di ridurre il numero dei mendicanti ricorrendo principalmente a due provvedimenti: l’uno consisteva nel disciplinare la questua, concedendo esclusivamente ai veri poveri la licenza di mendicità e bandendo quelli abili al lavoro; l’altro si proponeva di confinare i questuanti in istituti chiamati alberghi per i poveri, nei quali erano allestiti laboratori per obbligare gli indigenti al lavoro. Fu Bologna la prima città a fondare nel 1563 un istituto per mendicanti, i cui statuti servirono da modello ad altri centri urbani della penisola. Nel corso della seconda metà del Cinquecento l’iniziativa fu seguita da Cremona, Milano, Torino, Roma, Vicenza, Verona, Modena, Venezia, Padova, e nel Seicento da Firenze, Genova, Napoli. Una legittimazione ideologica al consolidamento di tali metodiche repressive contro la mendicità fu fornita dai Gesuiti, che divulgarono opuscoli sull’efficacia della segregazione e parteciparono attivamente all’elaborazione di programmi di reclusione. Le competenze dei gesuiti Honoré Chaurand e André Guevarre, distintisi per aver collaborato attivamente alle misure per reprimere la mendicità attuate dal re di Francia Luigi XIV, non tardarono a trovare apprezzamento anche nella penisola italiana. Papa Innocenzo XII, intenzionato ad elaborare un piano per arginare il fenomeno della mendicità, li chiamò a Roma per una consulenza. Toccò poi a Vittorio Amedeo II servirsi delle conoscenze tecniche di padre Guevarre per promuovere la reclusione dei mendicanti a Torino e in altre città sabaude e piemontesi. A Modena, per «piantare» l’ospedale dei mendicanti giunse nel 1695 il gesuita fiorentino Giovanni Maria Baldigiani. In questo contesto si colloca l’iniziativa promossa da don Filippo Franci, un sacerdote legato alla Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri, il quale nel 1653 fondò a Firenze un istituto conosciuto come Quarconia per accogliere e per istruire al lavoro fanciulli abbandonati. Al suo interno fu anche organizzato un carcere per recludervi giovani ribelli all’autorità familiare, garzoni indisciplinati e borsaioli. Diversamente da altri luoghi detentivi, il carcere della Quarconia, secondo il modello conventuale, era costruito a celle singole, atte a consentire al fanciullo un’isolata riflessione spirituale via obbligata per giungere al pentimento.

Occorrerà attendere il secolo successivo perché una voce altrettanto autorevole si levi a favore di provvedimenti alternativi a quelli reclusori. Pur non negandone l’utilità, il sacerdote e storico Ludovico Antonio Muratori insistette sulla necessità di trovare opportunità lavorative per gli indigenti, compito al quale avrebbe dovuto attendere la Compagnia di Carità, un’associazione da istituire in ogni parrocchia in luogo delle tradizionali confraternite. Oltre ad assorbire le opere assistenziali praticate da tali sodalizi, la Compagnia di Carità avrebbe dovuto promuovere attività produttive per avviare i poveri al lavoro. Il progetto muratoriano non incontrò largo consenso, ma la proposta fu comunque di grande importanza per l’apporto al secolare dibattito sulla ineluttabilità delle diseguaglianze sociali. Indicando misure concrete per rimuoverle, egli rifiutava la passiva accettazione dei bisognosi discostandosi dalle posizioni ecclesiastiche più tradizionaliste. La questione, non certo nuova, fu oggetto di ampie discussione nel corso del Settecento. Secondo gli illuministi, infatti, la Chiesa contribuiva a mantenere lo stato di precarietà dei marginali inserendo la divisione tra ricchi e poveri nel disegno provvidenziale.

Il tema della predeterminazione dei poveri e della loro utilità a quanti desideravano salvarsi l’anima mediante l’elemosina assunse toni più decisi nell’Ottocento. Nonostante non mancassero istanze di segno opposto, prevalse una posizione conservatrice che associava l’eliminazione dell’indigenza all’assunzione di atteggiamenti eversivi. Espressione di questa ideologia fu l’enciclica Nostis et nobiscum emanata nel 1849 da papa Pio IX. Pur ribadendo la necessità da parte della Chiesa di aiutare i più deboli, in essa si afferma che l’esistenza dei poveri appartiene «all’ordine naturale e immutabile delle cose» e che non è dato «agli uomini di stabilire nuove società e delle comunità opposte alla condizione naturale delle cose umane».

Per quanto concerne le pratiche assistenziali, nella prima dell’Ottocento esse si espressero secondo modalità tradizionali a conferma del ritardo con cui in Italia si realizzò lo Stato sociale. Nonostante durante la Restaurazione i governi approvarono misure repressive nei confronti delle famiglie religiose essenzialmente allo scopo di incamerarne i consistenti beni, esse riuscirono a proseguire l’opera avviata nei secoli precedenti, anzi alcune ampliarono il raggio di azione dedicandosi all’attività missionaria in altri continenti. È opportuno precisare che le soppressioni attuate dalle autorità di governo colpirono prevalentemente gli ordini contemplativi, giudicati poco utili, e non quelli dediti all’assistenza e all’istruzione della popolazione considerati socialmente importanti.

Tratto distintivo del secolo fu la straordinaria fioritura di congregazioni religiose femminili, che si affiancarono a quelle più antiche. Per queste famiglie l’educazione femminile, seppure con modalità innovative, continuò a costituire un impegno prioritario. Del resto, fu proprio nel periodo della Restaurazione che in molti paesi europei si avvertì la necessità di istruire le fanciulle di umili condizioni. Il ruolo assegnato dalla società alla donna prevedeva la sua completa dedizione alla famiglia rendendo il lavoro di insegnante incompatibile con quello di moglie e di madre. Per questa ragione le nubili, e meglio ancora, le religiose per i valori che le animavano, formavano il corpo insegnante ideale. Tra le congregazioni religiose impegnate nell’ambito educativo si possono annoverare le Figlie della Carità, ovvero le canossiane, le Figlie della Santa Fede, le Maestre di Santa Dorotea, le Suore della Provvidenza. Un forte impegno in ambito educativo fu tenacemente perseguito anche dalle contemporanee famiglie religiose maschili, basti pensare all’opera svolta dall’Istituto della carità, meglio noto come rosminiani dal nome del fondatore, e dalla congregazione dei Salesiani. Per ottenere l’approvazione della Santa Sede, almeno sino al 1860 e con eccezioni per gli asili e gli orfanotrofi, gli istituti educativi erano distinti per genere. La co-educazione, infatti, sollevava riprovazioni di natura etica e non si adattava ai programmi scolastici, elaborati con finalità educative e formative differenti per fanciulli e fanciulle in linea con quanto avveniva nelle istituzionali scolastiche laiche.

Molte congregazioni femminili privilegiarono l’assistenza a domicilio e prestarono servizio in ospedale svolgendo molteplici funzioni dall’aiuto nei reparti al servizio in cucina. Portarono il loro soccorso negli ospedali le Suore di Carità, dette di Maria Bambina, occupate anche nell’istruzione delle fanciulle e nell’assistenza agli orfani, e le Figlie di Carità. Come accennato, questa congregazione si qualificava per un’articolata opera caritativa conferendo concretezza al quarto voto che emettevano, cioè il “servizio dei poveri”. Le regole delle Figlie di Carità furono prese a modello da parecchie congregazioni femminili che ne mutuarono le finalità, come le Suore di carità dell’Immacolata concezione fondate da Maria Antonia Verna agli inizi dell’Ottocento per assistere gli ammalati a domicilio. Dagli anni Trenta del secolo, la presenza delle religiose e dei religiosi divenne una costante negli orfanotrofi e nei conservatori, trasformando questi istituti in case religiose, nelle quali, secondo un modello secolare, l’accudimento dei giovani e delle giovani ospiti – effettuato con metodi anche assai severi – si fondeva con l’educazione alla fede e con l’insegnamento di un mestiere, nell’intento di formare adulti devoti e preparati a ricoprire i ruoli di genere assegnati dalla società.

Fonti e Bibl. essenziale

M.P. Alberzoni – O. Grassi (edd.), La carità a Milano nei secoli XII-XV (Atti del convegno di studi Milano, 6-7 novembre 1987), Jaca Book, Milano 1989; G. Belotti – X. Toscani (edd.), La sponsalità dai monasteri al secolo. La diffusione del carisma di Sant’Angela Merici nel mondo, Centro Mericiano, Brescia 2009; S. Cohen, The Evolution of Women’s Asylum Since 1500. From Refuges for Ex-Prostitutes to Shelters for Battered Women, Oxford University Press, New York – Oxford 1992; G. Cassiani, I visitatori dei poveri. Storia della società di S. Vincenzo de’ Paoli a Roma. I. L’epoca pontificia (1836-1870), il Mulino, Bologna 2003; M. Fatica, Il problema della mendicità nell’Europa moderna, Liguori, Napoli 1992; L. Ferrante, L’onore ritrovato. Donne nella casa del soccorso di S. Paolo a Bologna (sec. XVI-XVII), in “Quaderni Storici”, 53 (1983), 499-527; F. Fineschi, I «Monellini» della Quarconia. Controllo pubblico e disciplinamento dei fanciulli in un istituto fiorentino del Seicento, in O. Niccoli (ed.), Infanzie. Funzioni di un gruppo liminale dal mondo classico all’età moderna, Ponte alle Grazie, Firenze 1993, 252-286; M. Garbellotti, Per carità. Poveri e politiche assistenziali nell’Italia moderna, Carocci, Roma 2013; M. Gazzini (ed.), Studi confraternali. Orientamenti, problemi, testimonianze, Firenze University Press, Firenze 2009 (Reti Medievali E-Book; 12); B. Geremek, La pietà e la forca: storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, Roma – Bari 1986; A. Groppi, Il Welfare prima del Welfare. Assistenza alla vecchiaia e solidarietà tra generazioni a Roma in età moderna, Viella, Roma 2010; D. Lombardi, Povertà maschile, povertà femminile. L’ospedale dei Mendicanti nella Firenze dei Medici, il Mulino, Bologna 1988; D. Menozzi, Li avrete sempre con voi. Profilo storico del rapporto tra Chiesa e poveri, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995; M. Mollat, I poveri nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2001 (ed. or. 1978); M.G. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di Pietà, il Mulino, Bologna 2001; A.G. de Pinto, Il Real Albergo dei poveri di Napoli. Dall’emarginazione all’assistenza (secc. XVIII-XIX), Cacucci, Bari 2013; G. Politi – M. Rosa – F. Della Peruta (edd.), Timore e carità: i poveri nell’Italia moderna, Biblioteca Statale e Libreria Civica di Cremona, Cremona 1982; G. Ricci, Povertà, vergogna, superbia. I declassati fra Medioevo e Età moderna, il Mulino, Bologna 1996; G. Rocca, Donne religiose. Contributo a una storia della condizione femminile in Italia nei secoli XIX-XX, Edizioni Paoline, Roma 1992; G. Rocca, Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in Clero e società nell’Italia contemporanea, in M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992, 207-256; F. Rurale, Monaci, frati, chierici. Gli ordini religiosi in età moderna, Carocci, Roma 2008; M. Sangalli, Le congregazioni religiose insegnanti in Italia in età moderna: nuove acquisizioni e piste di ricerca, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1 (2005), 25-47; R. Sani, “Ad Maiorem Dei Gloriam”. Istituti religiosi, educazione e scuola nell’Italia moderna e contemporanea, EUM, Macerata 2009; G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, il Mulino, Bologna 2007; V. Zamagni (ed.), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, il Mulino, Bologna 2000; D. Zardin (ed.), La città e i poveri. Milano e le terre lombarde dal Rinascimento all’età spagnola, Jaca Book, Milano 1995; G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, il Mulino, Bologna 2000.


LEMMARIO




Assistenza - vol. II


Autore: Tiziano Civiero

Premessa. Già annunciata dai rivolgimenti dei secoli precedenti, dopo l’Unità d’Italia, giunta a realizzazione piena solo nel 1870, con la presa di Roma e la sua proclamazione a capitale del neonato Regno d’ Italia, l’attività assistenziale della Chiesa subisce una svolta epocale, poiché le nuove forze politiche, economiche e sociali convergono nel favorire l’assunzione di tale attività da parte dello Stato, facendo così cessare il predominio degli Ordini religiosi in questo campo, da loro monopolizzato, se non altro per mancanza di sensibilità assistenziale da parte di soggetti civili interessati, soprattutto a partire dalla fondazione degli Ordini ospedalieri, educatori e assistenziali in genere.

Il passaggio è graduale e non senza resistenze, a volte perché ancora legati a un modello assistenziale del passato, fondamentato esclusivamente su motivazioni religiose; ma è comunque inevitabile, mano a mano che matura, da parte della società civile, la coscienza che il benessere, la salute, l’istruzione, l’assistenza in genere, ricadono nell’ambito dei così detti diritti della persona, che devono essere garantiti dalla società tutta e assicurati dall’amministrazione pubblica dello Stato, senza discriminazione alcuna per nessuno.

Tutto ciò si affermerà in maniera definitiva solo dopo la seconda guerra mondiale e fino agli anni ’90 del Novecento, quando inizierà una fase nuova anche per l’assistenza pubblica, dovuta in parte al trasferimento dell’industria manifatturiera europea in Asia, in Latino-America o in Paesi est-europei appena usciti dal comunismo, e in parte alla crescente denatalità e all’ingresso, sempre più ritardato, dei giovani nel mercato del lavoro, che porterà a rivedere tutto il sistema pensionistico per anziani e lavoratori, non più rivitalizzato dal flusso dei contributi di nuovi assunti al lavoro. Pur con feroci opposizioni non resterà che innalzare l’età della pensione, per evitare di aggravare ancora di più il deficit dello Stato. Per effetto domino, dopo le pensioni, stesso ridimensionamento toccherà a scuola, sanità e posti di lavoro in genere, con una sempre maggiore delega ai “privati” in questi campi: al momento di scrivere la tendenza è di “privatizzare” tutti i così detti servizi sociali, con il conseguente riflusso di percentuali sempre più elevate di fasce di popolazione verso la mensa vescovile, alias Caritas diocesana, e verso le opere di assistenza gestite dagli Istituti religiosi. La crisi del sistema assistenziale pubblico, dunque, sta dando maggiori responsabilità e carichi alle opere caritative della Chiesa.

Il secolo del Liberalismo. Ma, per non rimanere nel vago, ecco qualche dato, riferito alle iniziative più conosciute, che vedono impegnati anche i papi, in particolare Pio VII (1800-1823), che, nel 1821, conferma ufficialmente la fondazione dell’ospedale “Tata Giovanni”; mentre Leone XII (1823-1829) istituisce, nel 1826, la così detta “Commissione dei sussidi”, continuata anche da Gregorio XVI (1831-1846), per soccorrere i bisognosi. Altre iniziative sorgono a Genova, dove la “Scuola di carità” di don Lorenzo Garaventa (†1783), operante nel campo della rieducazione, sarà rilevata, nel 1837, dai Fratelli delle Scuole Cristiane; a Verona, dove sono attivi il p. C. C. Bresciani, il B. Carlo Steeb e la Fratellanza, fondata dal Servo di Dio, don Pietro Leonardo; a Torino, dove il Lanteri avvia la Pia Unione di S. Paolo Apostolo con finalità caritative e apostoliche, mentre S. Giuseppe B. Cottolengo, S. Giuseppe Cafasso, S. Giovanni Bosco e la marchesa Giulia di Barolo incarnano l’animo caritativo cattolico, soccorrendo le fasce più emarginate con ospedali per i reietti umani e assistenza ai condannati a morte; con scuole, oratori e avviamento al lavoro per i giovani disadattati della società piemontese; con aiuto alle ragazze di strada ed educazione delle fanciulle. A Genova lo scolopio G.B. Assarotti (†1829) avvia l’assistenza ai sordomuti, imitato anche fuori dell’Italia, a Siena, a Milano, a Modena e a Cuneo; mentre il prete mantovano Ferrante Apporti (†1858) istituisce, nel 1827, i primi asili infantili, dando nuovo impulso alla pedagogia, allora ai primi passi. Dal canto suo, Maddalena di Canossa (1774-1835) brilla di luce propria, assolutamente originale e innovativa, con un’attività multiforme, che va dall’educazione delle bambine povere all’assistenza ai vecchi e agli ecclesiastici, alla formazione delle maestre di campagna, tratte dalla campagna e destinate a ritornarvi per svolgere la loro opera educatrice, e, infine, all’istituzione di corsi di esercizi spirituali per donne, affiancati da corsi annuali per donne di ogni ceto sociale. Senza parlare dei veneziani fratelli Cavanis e di altre innumerevoli Congregazioni femminili, fondate allo scopo, occupandoci dell’assistenza cattolica nell’800, non si possono tralasciare le celebri Società (dette anche Conferenze) S. Vincenzo De Paoli: fondate a Parigi da F. Ozanam, e dai suoi sette volontari, nel 1835, allo scopo di formare “gruppi di credenti desiderosi di aiutare il prossimo”, e introdotte a Roma negli anni 1836-1842, si diffusero abbastanza rapidamente in parecchi Stati italiani preunitari, distribuendo aiuti materiali tramite la visita alle famiglie bisognose, l’avviamento dei giovani alla istruzione e alla professione, e con l’istituzione della Cassa degli affitti, che aiutava i più indigenti a pagare l’affitto, e il Pane di Sant’Antonio, che assicurava ai più miserevoli una dignitosa sopravvivenza; propagando inoltre il catechismo e la buona stampa. “Il forte richiamo che il progetto suscitava in tanti cristiani stava tutto nel fatto che l’esercizio della carità ne costituiva la ragione essenziale”. Ritenute politicamente innocue, perché composte in maggioranza da aristocratici, esse riuscirono, anche dopo il 1870, a non confondersi con le altre organizzazioni del mondo assistenziale cattolico italiano, mantenendo una loro autonomia e differenziazione che le avrebbero caratterizzate anche nei decenni a venire.

Il Novecento. Il nuovo secolo si apre con un grande fervore di iniziative assistenziali in campo cattolico, come ci testimonia, tra gli altri, anche mons. G. Bonomelli, vescovo di Cremona (1871-1914), nella sua lettera pastorale del 1900 Il secolo che muore. Il prelato non è famoso solo per le sue “aperture” al nuovo corso politico italiano, ma soprattutto per le opere da lui fondate a favore degli emigranti italiani (Opera Bonomelli), degli operai e dei contadini. Lo slancio caritativo dei cattolici italiani non si era, dunque, affievolito al volgere del secolo, ma conosceva una nuova primavera di realizzazioni, assicurando così alla Chiesa ancora una lunga presenza nelle attività tradizionali di assistenza e di formazione professionale, che, per effetto della legge Crispi del 1890, godevano ora anche degli aiuti governativi. Nell’enumerare le iniziative più importanti va ricordato innanzittutto il S. Leonardo Murialdo (†1900), benemerito dell’assistenza ai lavoratori e del movimento operaio cattolico, mentre per quanto riguarda la tradizione pedagogica (rappresentata nell’800 da giganti quali l’Assarotti, l’Aporti, il Lambruschini, il Don Bosco) non ci sono grandi novità, ma solo prosecuzione di quanto fino ad allora attuato. Anche altre istituzioni, come asili, ospizi, case di riposo e altri si adeguano alle mutate condizioni, rinnovando sedi e metodi assistenziali. Nuovi orfanatrofi sorgono per opera di don Annibale Maria di Francia (†1927), sacerdote messinese, fondatore dei Rogazionisti del Cuore di Gesù. Molteplici iniziative, soprattutto nel campo dell’educazione e dell’assistenza, che rimasero sempre i due pilastri fondamentali della sua azione, furono approntate anche da Mons. Giovanni Antonio Farina, vescovo di Treviso (1850-1860) e di Vicenza (1860-1888). Infatti, alla sua morte, la Congregazione delle Suore Maestre di S. Dorotea, Figlie dei Sacri Cuori, da lui fondata nel 1836, gestiva quattordici (14) scuole elementari, una (1) scuola per sordomute, una (1) per cieche; cinque (5) asili infantili, una (1) scuola di lavoro, cinque (5) collegi annessi alla scuola elementare; un (1) convitto per ragazze di scuola superiore, quattro (4) orfanatrofi e due (2) brefotrofi; quattordici (14) ospedali, tre dei quali avevano incorporato il reparto manicomio; cinque (5) case di ricovero per anziani, una casa di riposo per suore anziane, una cucina economica per i poveri. Uno dei frutti della Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII (1878-1903), che poneva i fondamenti della questione sociale in termini assolutamente nuovi, e inauditi per i cattolici, cioè di giustizia e non più solo di carità, fu la fondazione di numerosissime Casse rurali, circa 2000 tra il 1900 e il 1914, allo scopo di sovvenire con il credito le attività delle campagne, settore fino ad allora assai marginalizzato nel campo dell’assistenza sociale. Spesso queste iniziative avevano come promotori proprio gli stessi parroci di campagna, che intuivano le possibilità di promozione economica e umana, offerte dalle nuove realtà finanziarie dell’associazionismo, della redistribuzione di quanto accumulato e del risparmio. Infatti, a fianco del prete solo pastore di anime, negli anni successivi all’Unità d’Italia va affermandosi la figura del prete animatore sociale. Le prese di posizione sulla necessità, o meno, che i preti uscissero dalla sacrestia, come si diceva allora, per essere accanto alle necessità concrete della povera gente erano numerose in seno al clero cattolico e, spesso, anche autorevoli, con l’appoggio, più o meno esplicito, di qualche vescovo. Come detto sopra, una rete enorme di casse rurali e di cooperative, piccole banche e di associazioni, vedono quasi sempre il ruolo determinante di un prete: ruolo che passa attraverso varie fasi. Dapprima ci sono i così detti preti sociali: la espressione è usata soprattutto a Torino, specialmente nei confronti di don Bosco e di Leonardo Murialdo. Tuttavia, “figure analoghe sono presenti in quasi tutte le diocesi italiane, dove i preti sociali sono tutti impegnati in un’azione caritativa di vario genere, si rivolgono a varie categorie di persone, privilegiano l’assistenza alle persone più povere ed emarginate”. A Modena don Severino Fabriani (1792-1849) si dedica ai sordomuti, primo in Italia ad organizzare un’assistenza specifica per essi, tanto da scrivere anche una Grammatica per sordomuti. A Cesena don Giovanni Ravaglia (1864-?), vivace ingegno intellettuale e fondatore de Il Savio, anima le attività riguardanti le emergenze sociali; allo stesso tempo, e allo stesso modo, agiscono don Giuseppe lo Cascio (??) a Palermo, don Carlo De Cardona (1871-1958) a Cosenza, mentre a Verona, a Parma, a Cremona, a Piacenza, a Torino, preti, o anche vescovi, fondano Congregazioni dedite all’annuncio missionario in paesi lontani. In seguito però le cure dei preti sociali “si rivolgono a contadini, operai e imprenditori, fondando associazioni, cooperative, casse rurali”. Una delle prime latterie sociali è fondata da un prete, don Antonio della Lucia (1824-1906), a Forno di Canale (oggi Canale d’Agordo) nel 1872. Il suo modello di latteria sociale è esportato in tutto il Regno d’Italia e don Antonio, perciò, è insignito del titolo di cavaliere del Regno. Non solo, ma egli fonda anche il primo asilo rurale, le prime biblioteche circolanti, i cui libri viaggiavano su carretti, le cooperative di consumo, le società di mutuo soccorso per gli animali bovini. “Altri danno vita a forni, mulini, farmacie cooperative; un altro fonda nel Friuli la Federazione delle cooperative. Un prete veneziano, Luigi Cerutti (1865-1934), diventa il profeta della cassa rurale, e scrive testi in difesa dei contadini” e della loro realtà, rimanendo per lungo tempo l’animatore di questa nuova forma di cooperativismo sociale cattolico.

A ciò si affiancarono gli Uffici del lavoro e i cappellani del lavoro. Mentre per quanto riguarda l’emigrazione (in poco più di un secolo, 1861-1964, sono usciti dall’Italia circa 30 milioni di persone), anche se hanno operato in altri Paesi, si sono distinti S. Maria Francesca Cabrini, mons. G.B. Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza dal 1876, fondatore della Società dei Missionari di S. Carlo; mons. G. Bonomelli (1831-1914), vescovo di Cremona dal 1871, e la sua Opera di Assistenza agli Emigranti. Il vescovo di Cremona si occupò costantemente anche della questione operaia e dei rapporti degli operai con il movimento socialista, per cui si adoperò per creare casse rurali e società di mutuo soccorso. Insieme alla promozione economica il movimento associazionista cattolico si preoccupa sempre anche della promozione umana delle persone coinvolte nell’attività assistenziale. A Firenze il prof. R. Bettazzi (†1941) fonda, nel 1902, l’Istituto della Protezione della giovane, emanazione di un’analoga organizzazione internazionale, allo scopo di proteggere e aiutare le giovani che andavano a lavorare in città; nel 1912 dà vita alla Associazione cattolica italiana contro l’alcoolismo, iniziativa apprezzata e sostenuta anche dalla gerarchia. A sua volta Filippo Crispolti (1857-1942) avvia il Movimento antiduellista e don A.

Argiolas (†1914), sacerdote sardo, svolge attività a favore dei sordomuti anche attraverso la pubblicazione di scritti a ciò dedicati. Un grande contributo all’elevazione delle classi operaie e del laicato cattolico in genere lo ha dato mons. G. Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo, di cui fu segretario il giovane don Angelo G. Roncalli (1881-1963), futuro papa Giovanni XXIII (1958-1963), dal 27 aprile 2014 S. Giovanni XXIII: nell’autunno del 1909, si schierò pubblicamente con gli scioperanti di Ranica, lavoratori di una fabbrica tessile, aderenti al sindacato cattolico, che chiedevano una riduzione dell’orario di lavoro, allora di 11 ore giornaliere per sei giorni alla settimana, e fu accusato per questo di modernismo e progressismo. Nell’occasione soccorse i più bisognosi di essi.

Non va tralasciato il settore sportivo, che ha sempre avuto una certa rilevanza in ordine all’educazione della gioventù, specialmente cattolica. Nel campo delle attività sportive si distinse dapprima la Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche, dalla sua fondazione (1906) e fino alla sua soppressione da parte del Fascismo (1927). Ad essa è succeduto il Centro Sportivo Italiano, fondato dal prof. Luigi Gedda, presidente dell’Azione Cattolica Italiana, il 5 gennaio 1944: raccogliendo il testimone ideale della prima organizzazione sportiva cattolica, il nuovo organismo, fin dal cambiamento della propria denominazione esprime l’idea di aprire i propri impianti anche ai giovani non cattolici. Fornito di uno Statuto, di organi dirigenti, di una sede centrale (Roma), di sedi periferiche (Regioni), per complessivi 17 Comitati regionali, 92 Comitati provinciali, 60 Comitati zonali, 3.000 Società sportive, circa 80.000 tesserati nel 1955, di una rivista ufficiale, Stadium, lo sport del CSI si forma inizialmente all’ombra dei campanili: le sue Società sportive si coagulano attorno agli Uffici Sportivi Diocesani e sono espressione, per la maggior parte, di Parrocchie (Oratorio) e di Istituti religiosi. Il suo motto è: educare attraverso lo sport, cui va affiancato quell’altro, che recita: a ognuno il proprio sport.

Importanti si rivelarono soprattutto le Settimane Sociali, avviate in seguito alla soppressione dell’Opera dei Congressi da parte di Pio X (1904): la prima fu celebrata a Pistoia nel 1907 sotto la presidenza del card. Maffi; dopo di che, e fino al 1935, se ne celebrarono ben diciotto, che dibatterono i più scottanti problemi sociali allora in auge. In generale, però, va detto che “nella secolare storia dell’associazionismo [cattolico e non], solamente durante il ventennio fascista il volontariato organizzato dovette confrontarsi con il potere politico per assecondarne indirizzi e orientamenti”, in quanto il regime fascista scoraggiava fortissimamente l’associazionismo che non fosse sua diretta emanazione, per cui “molte associazioni furono chiuse o costrette a farlo, mentre il regime colpiva il movimento cooperativo in maniera sistematica”. Solo la Società di S. Vincenzo potè salvarsi, dando assistenza ai bisognosi.

La post-Modernità. Nel secondo dopo guerra l’attività assistenziale e caritativa della Chiesa ha continuato a operare, abbracciando anche le nuove emergenze che via, via andavano prendendo piede nella società. A tutt’oggi l’elenco dell’impegno assistenziale e caritativo cattolico è molto lungo e copre praticamente tutto l’ambito del sociale. Si va dalle scuole agli ospedali, dagli oratori alle colonie marine (ora in via di cessazione), dall’assistenza agli operai a quella ai profughi, ai prigionieri, ai reduci, alle nuove famiglie, agli immigrati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si va dalle associazioni di assistenza agli alcolisti alle molte comunità di recupero per i tossicodipendenti, dei malati di AIDS, delle giovani, soprattutto extracomunitarie, sfruttate dal mondo della prostituzione, dei giovani disadattati, vere piaghe della società postmoderna: la maggior parte di queste associazioni sono attivate e animate da preti, continuando così, in altri settori del disagio sociale, l’esperienza animatrice dei preti della seconda metà dell’Ottocento. Iniziativa affatto originale è stata Nomadelfia, fondata nel 1941 da don Zeno Saltini (1900-1981) come Opera Piccoli Apostoli per dare una famiglia ai piccoli abbandonati e riconosciuta da Giovanni Paolo II nel 1980. In questo scorcio di secolo è doveroso ricordare, se non altro per la vastità delle sue realizzazioni, un gigante quale è stato p. Ottorino Marcolini (1897-1978), bresciano, della Congregazione dell’Oratorio, amico personale di Paolo VI, “prete fuori serie” come ebbe a definirlo lo storico (mons.) Antonio Fappani, il prete-muratore, il prete-imprenditore. Nella provincia bresciana, stremata dalla guerra, con l’iniziativa “una casa per la famiglia” egli costruì le prime case, che sarebbero diventate migliaia e migliaia in tutta Italia, (in trent’anni, a partire dal secondo dopoguerra, 30.000 alloggi in 12 Province!), utilizzando spesso la tipologia del villaggio, all’interno del quale, con spazi dedicati alla preghiera, allo svago, al gioco, “le famiglie possono vivere a misura d’uomo, incontrandosi negli spazi comuni ed occupando il tempo libero in un fazzoletto di orto e di giardino”. Questo prete, così geniale e tenace, che mai per un momento ha dimenticato la preghiera e la vita interiore, è stato tanto dinamico e benefico da meritarsi l’appellativo di “muratore di Dio”. La sua opera richiama considerazione, perché, essa ci dà l’idea esatta di come preti, laici, organismi, istituzioni ecclesiali siano continuativamente impegnati a soccorrere i più bisognosi. Notevole anche lo sforzo, da parte della Chiesa, di coordinare, centralizzandola, tutta l’attività assistenziale, dandole una caratteristica di razionalizzazione di attività e risorse economiche: ne è un chiaro esempio la Pontificia Opera di Assistenza (P.O.A.). Fondata da papa Pio XII nel 1946 come Pontificia Commissione di Assistenza con il compito di occuparsi dei prigionieri, profughi e reduci di guerra, nel 1953 fu trasformata in Pontificia Opera di Assistenza, estendendo la sua competenza anche ad altri ambiti di bisogno sociale. Sciolta nel 1970, perché il suo compito si era esaurito, Paolo VI pensò ad un nuovo organismo che recepisse le indicazioni del Vaticano II (1962-1965), in particolare della costituzione pastorale Gaudium et spes, per cui ad essa subentrò la Caritas Italiana, avviata concretamente dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 1971, e affidata alla guida di don Luigi Nervo. Questo evento influenzò profondamente sia il mondo dell’assistenza, che quello del volontariato: “Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale nel campo dell’assistenza: il volontariato comprese che era giunto il momento di rivedere i propri obiettivi per superare un assistenzialismo troppo angusto, assai poco in sintonia con l’idea di promozione umana al centro dell’attenzione conciliare e ormai ampiamente condiviso dall’opinione generale”.

Un valido contributo a questa trasformazione è venuto sia dalle grandi encicliche giovannee Mater et Magistra e Pacem in terris, sia dalla costituzione conclliare Gaudium et spes, sia dall’enciclica di Paolo VI Populorum Progressio e, prima ancora, dalle riflessioni di don Primo Mazzolari (1890-1959) ne La parola ai poveri.

Non si può non accennare qui, per le evidenti connessioni con tutta la problematica della regolazione artificiale della fecondità umana, attraverso la così detta interruzione volontaria della gravidanza, alias aborto, al Movimento per la vita (MOvit), organizzazione sorta nel 1975 e operativa su tutto il territorio nazionale mediante i Centri di aiuto alla vita. “Culturalmente e religiosamente il Movimento s’ispira al magistero della Chiesa cattolica, che sul tema della vita fa riferimento alle encicliche Humanae vitae ed Evangelium vitae di Paolo VI e Giovanni Paolo II del 1968 e del 1995”.

Un ulteriore campo di intervento per l’attività assistenziale dei cattolici si è aperto, a partire dal 2000 e andato via, via intensificandosi fino ad assumere le caratteristiche di una vera e propria emergenza sociale, con la progressiva intensificazione dei flussi migratori in ingresso sul territorio nazionale italiano. Ma vanno ricordati anche i vari ostelli per i poveri gestiti dalla Caritas, in sinergia con le Ferrovie dello Stato Italiane, nei locali delle grandi stazioni Termini di Roma e Centrale di Milano, non che in parecchie altre. Le molte mense Caritas, aperte anche agli extracomunitari, e presenti in ogni città; le molte “Messe della Carità”, organizzate presso i Santuari mariani. Mentre, sempre a Roma, va segnalata l’attività assistenziale ai barboni di strada, svolta dalla Comunità di Sant’Egidio. Nelle nuove povertà che avanzano la Chiesa trova spazio per la sua opera assistenziale, che si prefigura, a volte, come una supplenza, anche se non dichiara e non esplicitamente riconosciuta, delle attività sociali dello Stato, non sempre puntuali ed esaustive.

Conclusione. A imitazione del loro Signore, Gesù, che passava beneficando e risanando quanti erano sotto il potere del male, fin da subito i primi cristiani affiancarono alla predicazione della buona Novella le opere di assistenza ai bisognosi. Infatti, la comunità cristiana nella sua attività di evangelizzazione fin dalle origini non ha potuto, e non ha voluto, separare la diffusione della Parola di Dio dalla manifestazione delle premure di Dio per la sua gente, visibile nelle opere di assistenza dei bisogni materiali delle persone evangelizzate. Nel concludere la sezione di mia competenza ho voluto richiamare, brevissimamente, i primi tempi della Chiesa, perché i principi ispiratori iniziali dell’attività assistenziale della Chiesa sono rimasti immutati nei secoli, tanto che se ne può condividere una definizione ormai classica, che recita che l’assistenza [sociale] “è l’aiuto agli uomini, che si trovano in necessità e pericolo fisico, morale ed economico. L’obbligo dell’assistenza sociale deriva dal precetto divino della carità”). Ma, un po’ alla volta, accanto a questo quadro, certamente illuminante, le comunità cristiane vedono associarsi altre tematiche, quali la proprietà privata, l’uso dei beni della Chiesa e la definizione di chi è veramente il povero: è, cioè, l’emergere, sia pure lento e, a volte, anche contrastato, di quella che, ai giorni nostri, viene comunemente chiamata la questione sociale e che nei secoli precedenti all’Unità d’Italia era conosciuta semplicemente come le opere di misericordia. Mi pare questo il grande cambiamento intervenuto nell’assistenza da parte della Chiesa: senza trascurare i perenni principi evangelici della carità, la sua organizzazione da parte della Chiesa, dopo l’Unità d’Italia (1861-1870), ha assunto anche la caratteristica della giustizia nel rispetto della dignità della persona assistita, prendendo dalla società civile le forme nuove e più recenti della giustizia sociale. Non più, dunque, e non più soltanto “il contare i poveri”, come si esprimeva il parroco di Barbiana, ma “il far parlare i poveri”.

Fonti e Bibl. Essenziale

G. Penco, Storia della Chiesa in Italia, II, Dal Concilio di Trento ai nostri giorni, 257-264 (capitolo terzo, L’Ottocento: uomini ed eventi, 3. Attività caritativa); 451-462 (capitolo quinto, Il Novecento: la parabola di un secolo, 2. Attività apostolica e caritativa), (Già e non ancora, 38), Jacka Book, Milano 1978. Per una più ampia informazione sui Papi degli ultimi due secoli cfr. Enciclopedia dei Papi, 3 voll., Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2000, ora anche in rete (www.treccani.it/catalogo/catalogo_prodotti/i…/papi.html); “Custode di mio fratello”. Associazionismo e volontariato in Veneto dal medioevo ad oggi, a cura di F. Bianchi, 213-336 (Parte Terza, L’Organizzazione della solidarietà in Età contemporanea, di Giovanni Silvano), Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa-Vicenza, Marsilio, Venezia 2010; Assistenza sociale, in Dizionario del cattolicesimo nel mondo moderno, Edizioni Paoline, Alba (CN) 1964, 47-48; P. Consiglio per la Giustizia e la Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2004; Enciclopedia di Pastorale, a cura di Seveso B. – Pacomio L., 4, Servizio Comunità, Edizioni Piemme. Casale Monferrato (AL) 1993; Chiesa e territorio (a cura della Caritas Italiana), Roma 1981. Consulta Nazionale delle Opere Caritative e Assistenziali, Chiesa ed emarginazione in Italia, Rapporto n. 2, 2 voll., Torino 1990; Assistenza [specialmente A. sociale], in Dizionario di Antropologia pastorale, EDB, Bologna1980, 104-115; G.A. Farina – F. De Maria, Memorie storiche. Sulla istituzione della Casa di educazione in parrocchia di S. Pietro di Vicenza per le fanciulle povere e abbandonate dai propri genitori, Suore Maestre di S. Dorotea Figlie dei Sacri Cuori, Vicenza 2011; M. Guasco, Il Clero Curato. Modelli e Sviluppi, in Cristiani d’Italia, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 2011; L. Monchieri, Grazie, Padre! Memoria marcoliniana per i Cinquant’anni delle B.I.M., Edizioni Bréssa, Brescia 1996. Per i personaggi citati nel presente contributo cfr. Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 72 voll. fin’ora editi, Roma 1960-…, ora anche on line (www.treccani.it/biografie/).


LEMMARIO




Associazionismo cattolico - vol. II


Autore: Guido Formigoni

In epoca post-unitaria, accanto alla continuazione delle varie forme associative consegnate dalla tradizione (pie unioni, terz’ordini religiosi, confraternite, “amicizie cristiane”, congregazioni mariane ecc.), si svilupparono nuove forme aggregative di credenti, legate ai concetti di “movimento cattolico” o di “azione cattolica”, che allora passavano sostanzialmente per sinonimi.

Si trattava di gruppi di laici cattolici, spesso strettamente collaboranti con alcuni preti e religiosi, che intendevano assumere un’esplicita testimonianza pubblica, per difendere e promuovere gli interessi della Chiesa nello spazio creato dalle nuove istituzioni civili laiche, basate sul principio di libertà. Nello Stato italiano unitario, i primi esperimenti di aggregazione di cattolici che volevano assumere un ruolo pubblico militante incorsero nei rigori polizieschi (fu sciolta ad esempio un’Associazione Cattolica Italiana per la difesa della libertà della Chiesa fondata a Bologna nel 1864, che pure aveva tentato di non presentarsi come legittimista e anti-statale). Altre esperienze, come la Società della Gioventù Cattolica Italiana (Sgci), che unificava dal 1868 vari circoli cittadini, ebbero maggior durata e sfuggirono ai controlli, per i loro caratteri meno evidentemente politici. Secondo l’espressione di Giovanni Acquaderni, uno dei fondatori, questi giovani intendevano essere “cattolici di professione”. Fu attorno al gruppo direttivo della Sgci che si coagulò l’idea di convocare un grande congresso cattolico nazionale, come avveniva in altri paesi. Sotto la spinta del peggioramento del giudizio sullo Stato unitario, dopo il 1870, i fatti di Porta Pia e l’aggravamento della “questione romana”, l’intransigentismo ritenne necessario passare all’azione. Nel 1874 a Venezia un Congresso cattolico mise le basi di quella che l’anno seguente divenne la struttura permanente dell’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici in Italia.

L’Opera era una sorta di organismo federativo nazionale che per trent’anni avrebbe funzionato da alveo coordinatore di tutte le molteplici esperienze spirituali, ecclesiali, economico-sociali e anche elettorali (soprattutto in campo amministrativo) dei cattolici intransigenti. Un comitato permanente e alcuni gruppi di lavoro nazionali coordinavano un magma in espansione di comitati regionali, diocesani e parrocchiali. Dagli anni ’80, fu piuttosto attivo e autonomo, in particolare, il II gruppo, che si interessava di questioni sociali, guidato da Stanislao Medolago Albani sotto l’influenza di Giuseppe Toniolo. A queste strutture facevano capo circoli locali, società cattoliche, strutture economico-sociali (casse rurali, cooperative, società di mutuo soccorso, via via anche leghe sindacali), quotidiani cittadini ecc. Il coordinamento era in realtà spesso molto blando, anche perché il localismo era forte: l’orgoglio di bandiera gestito da una prevalente struttura democratica interna induceva ogni realtà a difendere i propri margini di autonomia. L’occasione di incontro privilegiata era il Congresso cattolico nazionale: se ne celebrarono 19 nei trent’anni di vista dell’Opera. Dopo inizi non sempre floridi, segnati da divisioni interne e grandi discussioni con i transigenti, le incertezze legate al cambio di pontificato del 1878 e alle ipotesi conciliatoriste degli anni ’80 rallentarono l’insediamento dell’Opera. Fu dopo il fallimento di questi tentativi, negli anni ’90, che l’Opera conobbe il suo vertice, con la presidenza del conte veneziano Giovanni Battista Paganuzzi. Al congresso di Milano del 1897, il comitato permanente mostrava un bilancio piuttosto imponente: esistevano 17 comitati regionali, 188 diocesani, 3982 parrocchiali, 708 sezioni giovani (promosse in polemica con la Sgci, che aveva avuto uno sviluppo ritenuto troppo transigente), 17 circoli universitari, 588 casse rurali, 688 società operaie, 24 quotidiani e 155 periodici. La dimensione sociale aveva trovato slancio dopo la pubblicazione della Rerum Novarum nel 1891. Nella crisi di fine secolo, rilanciando l’intransigentismo, l’Opera entrò nel mirino della repressione politica dei gruppi ritenuti sovversivi (i “neri” come i “rossi”): nel 1898 furono incarcerati alcuni attivisti (tra cui il focoso prete milanese don Davide Albertario), furono sciolti molti comitati, mentre quello permanente nazionale si salvò solo per un equivoco poliziesco.

Gli anni iniziali del secolo videro però forti contrapposizioni interne tra gli anziani intransigenti, ancora abbarbicati alla questione romana, e i giovani che si cominciavano a chiamare democratici-cristiani, i quali interpretavano ormai il ruolo del movimento cattolico nel promuovere lo sviluppo sociale e civile e la crescita economica delle masse popolari, preparando anche futuri sbocchi politici in senso democratico. Nel 1904 il nuovo papa Pio X sciolse quindi l’Opera, non tollerando la divisione interna al movimento. Si allungavano anche le ombre delle polemiche contro il “modernismo”, di cui qualche integrista additava la variante “sociale”. Dalla scelta del papa, con l’enciclica Il fermo proposito del 1905, derivò una riorganizzazione del movimento attorno a tre Unioni (Unione popolare; Unione economico-sociale; Unione elettorale), che configuravano una prima e ancor timida specializzazione dell’apostolato. L’Unione popolare, che doveva riunire gli adulti su un progetto formativo e di testimonianza laicale capillare, per la verità non decollò molto. Fino alla prima guerra mondiale si sviluppò invece fortemente il movimento sociale: una inchiesta del 1910 censiva 1.800 società operaie di mutuo soccorso, 1.750 cooperative, 1.611 casse rurali e operaie, 102 banche e 374 organizzazioni sindacali locali con 104.614 iscritti. Anche in campo elettorale si misero le basi di un percorso di organizzazione che fece eleggere i primi “cattolici deputati” e preparò quello che nel 1919 doveva divenire il Partito popolare.

Nel frattempo nascevano altre esperienze destinate a un ruolo importante. Nel 1896, alcuni circoli di universitari cattolici davano luogo a una federazione nazionale, la Fuci, sotto l’influsso di don Romolo Murri, impegnandosi in una nuova ricerca sui rapporti fede-cultura (che qualcuno sospettò di modernismo). Il modello inglese dello scoutismo venne invece importato da alcuni ambienti, tra cui spiccava un gruppo genovese guidato da Mario Mazza. Nel 1916, con la presidenza del conte Mario di Carpegna, venne fondata un’Associazione Scautistica Cattolica Italiana (Asci), che conobbe una certa diffusione, in competizione con lo scoutismo di ispirazione nazionale del Cngei, accusato di influenze massoniche. Nel 1906 nasceva anche una Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (Fasci), che coordinava parecchie società ricreative e sportive in tutto il paese. Nel 1908, dopo molti dibattiti e confronti con il nascente femminismo laico, alcune donne cattoliche dei ceti aristocratici, tra cui Cristina Giustiniani Bandini, promossero un’Unione fra le donne cattoliche italiane.

Il primo dopoguerra, sotto la spinta dell’emersione definitiva di una società di massa e nella logica di un tentativo di democratizzazione inedito delle istituzioni monarchiche e liberali, anche il mondo cattolico fu attraversato da un ulteriore fermento associativo, che mobilitò nuovi gruppi e ambienti. Nacquero una Confederazione delle cooperative e una Confederazione dei sindacati “bianchi”, tra 1918 e 1919. I circoli dei giovani della Sgci e della Fuci, ma anche società sportive, scoutistiche e ginnastiche, svilupparono forti capacità di mobilitazione e impegno, trovandosi anche spesso coinvolti in scontri con socialisti e fascisti. A partire da una esperienza milanese, Armida Barelli lanciò l’originale progetto di una Gioventù femminile cattolica (Gf), che iniziò a coinvolgere molte ragazze, non più solo delle classi abbienti. Il tentativo di Benedetto XV di rafforzare le capacità di coordinamento dell’”azione cattolica” da parte di una Giunta nazionale, però, fu molto faticoso.

La fase di fervore si chiuse con l’avvento del fascismo, che dopo le violenze degli anni di transizione e a seguito della svolta autoritaria del 1925-’27, provvide a sciogliere d’autorità la gran parte degli enti autonomi dal partito e dallo Stato. Le associazioni sportive e ricreative cattoliche, oltre quella scout (l’Asci), furono sciolte in occasione della nascita dell’Opera Nazionale Balilla (Onb), che voleva monopolizzare l’educazione dei giovani. Il movimento cattolico fu allora più strettamente radunato da Pio XI sotto la sigla della nuova Azione cattolica (v.), che con gli Statuti del 1923 configurava una struttura accentrata e strettamente dipendente dalla gerarchia, divisa in “rami” per età e per genere, oltre che capillarmente presente nelle parrocchie. Il Concordato del 1929 tutelava la sua autonomia, cosa voluta fortemente dalla Santa Sede, salvaguardando il suo ruolo di uno dei pochi spazi associativi indipendenti dal regime. L’Aci di massa fu così uno degli spazi più significativi della dialettica che si venne a costituire tra Chiesa e fascismo, che intrecciò strettamente un compromesso formale e una serrata competizione per il controllo delle anime (non senza momenti di tensione e di scontro aperto, come nel 1931 e nel 1938). Collegati strettamente a tale esperienza, poterono svilupparsi i movimenti intellettuali, cioè la già citata Fuci e il nuovo Movimento dei Laureati cattolici, germinato dallo stesso ambiente fucino nel 1934, sotto la regia e con la sensibilità di mons. Montini (che della Fuci stessa era stato assistente nazionale dal 1925 al 1933).

La ripresa democratica del secondo dopoguerra non poteva che riaprire un percorso di innovazione e disseminazione associativa. Il movimento cattolico veniva ancora pensato da papa Pio XII come fortemente unitario e accentrato, unificato attorno alla Chiesa-istituzione, che assumeva essa stessa connotazioni movimentiste (si pensi a eventi come il Giubileo del 1950 e la Crociata del gran ritorno). L’Azione cattolica, nello statuto riformato del 1946, doveva quindi essere formalmente il centro coordinatore di un universo specializzato. La regia di mons. Montini dalla segreteria di Stato fu importante in questa direzione. Di fatto,però, il pluralismo crebbe. Già nel 1944 erano state fondate le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), come organismo formativo e aggregativo dei lavoratori, pendant della realizzazione di un sindacato unitario con comunisti e socialisti. Dopo la scissione sindacale del 1948 e la nascita di un sindacalismo democratico e non confessionale nella Cisl, le Acli si ricollocarono come “movimento operaio cristiano” fuori dall’orizzonte strettamente sindacale. Ripresero vita anche organismi cooperativi, sociali, assistenziali. Un’esperienza innovativa fu la Confederazione dei coltivatori diretti (Coldiretti), che assunse il ruolo di lobby agricola nella Dc e nelle istituzioni pubbliche. Nel 1944, nell’alveo della Giac, prendeva le mosse un Centro Sportivo Italiano (Csi), con il parallelo femminile di una Federazione Attività Ricreative Italiane (Fari): era la ripresa di una specifica tradizione soppressa dal regime. Il movimento dei Laureati promosse varie unioni professionali di cattolici che, condividendo lo stesso ruolo lavorativo, riflettevano assieme sul senso spirituale della loro attività e sul rinnovamento cristiano degli ambienti sociali (Unione cattolica insegnanti medi, Uciim; Associazione dei maestri cattolici, Aimc; Unione dei giuristi cattolici italiani, Ugci; Unione cristiana imprenditori e dirigenti, Ucid). Lo scoutismo dell’Asci riprese vita, dopo lo scioglimento forzato, avvalendosi anche di qualche sperimentazione di attività clandestina nell’epoca del regime e della guerra: tra 1943 e 1944 naufragò un tentativo effimero di riunificazione con lo scoutismo aconfessionale del Cngei. L’epoca postbellica vide anche il primo solido sviluppo di uno scoutismo femminile, raccolto nell’Associazione guide italiane (Agi), con figure come Giuliana di Carpegna e Josette Lupinacci. Alcuni sodalizi già consolidati da qualche decennio, ispirati al modello della consacrazione personale di una vita condotta “nel secolo” vennero formalizzati secondo la nuova categoria degli “istituti secolari” (v.).

Nascevano anche nuove realtà, ancor più esterne rispetto al circuito dell’Ac. Nel 1944 si formò un Movimento di Rinascita cristiana, ispirato al pensiero dell’abate Cardjin, partendo da un riflessione sugli effetti della guerra nella società mondiale. Nel 1947 a Trento otteneva riconoscimento diocesano l’Opera di Maria, fondata da Chiara Lubich, che poi si evolverà nel Movimento dei Focolari. Dal 1950 il tronco delle congregazioni mariane di ispirazione gesuita dava vita a un percorso di rinnovamento in cui cresceva il ruolo dell’elemento laicale. Roma divenne nel frattempo sede attrattiva di movimenti nati in altri paesi (i Legionari di Cristo, l’Opus Dei, la Legione di Maria), che aprirono punti di riferimento italiani.

La stagione conciliare, collegata direttamente o indirettamente all’evento del Vaticano II fu indubbiamente un ulteriore momento di grande fermento e di passaggio nella storia dell’associazionismo ecclesiale. Il forte appello conciliare alla coscienza battesimale del cristiano nel popolo di Dio e la sua riflessione sulla “universale chiamata alla santità” ebbero un immediato riflesso nella critica al modello del primato dell’Azione cattolica, come via privilegiata dell’apostolato laicale. La stessa Ac si dovette profondamente ripensare come una via particolare di apostolato, mentre altre esperienze germinavano. Il carattere immediato e anti-istituzionale della cultura-ambiente dell’epoca influenzò parecchie esperienze aggregative. Ci fu un fiorire di “gruppi spontanei” che assunsero posizioni critiche di “dissenso” rispetto alla gerarchia, criticando le fragilità nella recezione del concilio, e arrivarono a tentare nel 1968 di costruire anche un coordinamento nazionale. Nacquero varie Comunità di base, utilizzando un modello fortemente radicato nell’America Latina: alcune di esse furono piuttosto effimere, altre molto durature; alcune iniziarono un percorso di rapida politicizzazione nell’esplosione dei movimenti sociali di fine decennio, altre cercarono un percorso più rigorosamente evangelico. Il coordinamento di tali comunità espresse posizioni politicamente radicali, vicine al movimento dei Cristiani per il socialismo (fondato nel 1973). Alcune esperienze valorizzarono il messaggio di emancipazione e crescita che veniva in quei frangenti dal Terzo Mondo, avviando duraturi rapporti di cooperazione internazionale (Mani Tese sorse nel 1964; l’Operazione Mato Grosso nel 1967, mentre dal decennio precedente operava a Milano il Celim). Movimenti giovanili e laicali si coagularono anche attorno ad alcune delle principali congregazioni religiose missionarie. Nel 1972, sul tronco di precedenti esperienze federative, nacque una Federazione degli organismi cristiani di servizio internazionale volontario (Focsiv). Tra le esperienze che svilupparono il ribellismo giovanile in un orizzonte di servizio ai poveri e di spiritualità essenziale va ricordata la Comunità di Sant’Egidio, fondata a Roma, nel quartiere di Trastevere, nel 1968. Essa ebbe nei decenni successivi una evoluzione sempre più cordialmente inserita nella trama istituzionale ecclesiastica e diretta a uno specifico lavoro per la pace internazionale e il dialogo tra i popoli e le religioni.

A parte il fiorire molto appariscente ma anche minoritario di queste realtà, va ricordato che nella stessa pastorale parrocchiale la formula del “gruppo di fedeli” divenne abituale, soprattutto a livello giovanile. Una ricerca del 1982 censiva più di 2000 gruppi, dediti a percorsi soprattutto formativi e spirituali, ma anche aggregativi e di solidarietà. Inoltre, negli anni ’70 in Italia ebbero luogo svolte significative all’interno di esperienze consolidate. Le Acli conobbero un’evoluzione classista e anticapitalista, che le portò a formulare una “ipotesi socialista” per lo sviluppo della società, denunciando il collateralismo con la Dc. La decisione della Cei di ritirare gli assistenti ecclesiastici e la “deplorazione” di Paolo VI furono l’acme di uno scontro che doveva essere ricucito solo lentamente, verso la fine del decennio ’70. Nel caso degli scout cattolici, la diffusione di posizioni favorevoli all’impegno sociale e politico non spostò la tradizionale centralità della questione educativa, ma un grosso ripensamento portò all’unificazione delle due associazioni, maschile e femminile, in un’unica Associazione guide e scout cattolici italiani (Agesci), che prese vita nel 1974, sottolineando valori nuovi quali quelli democratici e partecipativi, non senza parecchie fatiche. Prese invece definitivamente le distanze dall’Aci nel 1972 il movimento che si era sviluppato a partire dal 1954 come Gioventù studentesca (Gs) nell’ambito dell’Ac milanese, ad opera di don Luigi Giussani. Il percorso di Gs era diventato molto autonomo fin dagli anni ’60, sottolineando alcuni elementi come la testimonianza nell’ambiente di vita e la centralità dell’”incontro” con Cristo nell’attività del movimento. Dopo una sbandata nel clima della contestazione del ’68, il gruppo legato a Giussani diede vita a un nuovo movimento, del tutto indipendente dall’Ac, con il nome di Comunione e liberazione (Cl).

Altre forme aggregative nacquero e fiorirono in quegli anni, indirettamente sostenute dal clima creativo post-conciliare, introducendo in Italia modelli nati altrove. Si pensi ai carismatici cattolici del Rinnovamento nello spirito, che videro un primo gruppo Emanuele fondato a Roma nel 1973 e una convocazione nazionale di diversi gruppi nel 1978. Nel 1968 invece approdò a Roma il primo esperimento italiano di comunità del Cammino neocatecumenale, promosso qualche anno prima in Spagna da Kiko Argüello e Carmen Hernández: nel giro di qualche anno furono parecchie decine le comunità che presero piede. Nel campo della spiritualità familiare, si diffusero in quest’epoca anche in Italia le Équipes Notre-Dame, nate nel dopoguerra in Francia.

Di qualche anno più tardiva, ma sempre collegata all’eco conciliare, fu la stagione dell’esplosione di gruppi di volontariato cattolici di tipo nuovo (che oltrepassavano il modello assistenziale “istituzionalizzato” del passato). La nascita nel 1975 della Caritas italiana rappresentava l’istanza ecclesiale di coordinare e promuovere questo fermento, oltre che di inserire stabilmente nella pastorale l’istanza dell’attenzione agli ultimi. Ma ben oltre i gruppi collegati direttamente alla struttura ecclesiale tramite la Caritas, nacquero molteplici esperienze, spesso legate al carisma di un prete fondatore (don Luigi Ciotti e il Gruppo Abele, don Oreste Benzi e la Comunità Giovanni XXIII, don Franco Monterubbianesi e la Comunità di Capodarco, don Antonio Mazzi e il gruppo Exodus). Tra queste esperienze, quelle più sensibili a una dimensione politica forte del volontariato, avviavano dal 1982 il percorso di collegamento nazionale nel Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca).

La stagione che cominciò a essere chiamata la “primavera” dei movimenti ecclesiali spontanei pose ben presto il problema di un coordinamento con la pastorale ordinaria. A parte gli ambienti critici del cosiddetto “dissenso”, infatti, i movimenti cercavano riconoscimento, ma non sempre la loro autonomia era ben vista. Negli anni ’70 in Italia si discusse molto del nesso tra la nuova dimensione movimentistica e la struttura locale delle diocesi e delle parrocchie, fino all’approvazione nel 1981 da parte della Cei di una “Nota sui criteri di ecclesialità di gruppi, movimenti e associazioni di fedeli”. Il testo tentava di coordinare l’apertura alle novità con una distinzione di ruoli e di rapporti con la pastorale, distinguendo tale collocazione in tre livelli: le associazioni “scelte e promosse” dall’autorità ecclesiastica, le aggregazioni “riconosciute” (il che implicava la partecipazione alle “consulte” o forme di coordinamento del laicato organizzato) e le aggregazioni “libere” e spontanee.

Il papato di Giovanni Paolo II è riconosciuto come uno dei momenti in cui la nascita di varie aggregazioni e movimenti ecclesiali ha ottenuto una visibilità centrale nella Chiesa. Il papa tutelò e promosse con grande enfasi nel 1981 un primo convegno internazionale dei “movimenti” – l’espressione divenne da allora dominante, appiattendo un poco modelli che originariamente erano stati anche pluralistici – e accelerò i processi di riconoscimento di alcuni movimenti che pendevano di fronte alla Cei e alla Santa Sede (nel caso italiano, si possono ricordare le situazioni di Cl, di Rns, dei neocatecumenali, degli stessi Focolari, mentre a livello globale significative furono scelte come la concessione della prelatura nullius all’Opus dei). La questione del governo della molteplicità di carismi e di spiritualità dei movimenti fu affidata a una forte sottolineatura del legame con la sede di Pietro e dell’obbedienza al papa. Scelta percepita e rilanciata da molti movimenti, che superarono difficoltà di inserimento nelle chiese locali con un rinnovato slancio “papalino”. In conseguenza di queste novità, la stessa Cei aggiornò nel 1993 la Nota pastorale del 1981, con riferimento al nuovo Codice di diritto canonico e all’enciclica Christifideles laici, con un tono generalmente più positivo verso i movimenti, chiamati a collaborare alla “nuova evangelizzazione”. L’unico, significativo, cenno all’esistenza di qualche problema sotterraneo fu la messa in guardia dal rischio di «ritenersi come unica interpretazione o realizzazione autentica della Chiesa».

Fonti e Bibl. essenziale

A. Canavero,I cattolicinella società italiana. Dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, La Scuola, Brescia 1991; M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Carocci, Roma 2008; A. Favale (a cura di), Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali e apostoliche, Las, Roma 19914.


LEMMARIO




Ateismo - vol. I


Autore: Paolo Siniscalco

Nei primi secoli dell’era cristiana nell’Impero romano i cristiani furono accusati di essere ‘atei’. Occorre dire che il termine ‘ateo’ non indica qui, in senso moderno, chi nega l’esistenza di Dio, ma chi non riconosce le divinità imperiali romane e si rifiuta di prestarvi culto. Nell’Apologeticum (10, 1), scritto di uno dei più antichi scrittori cristiani di lingua latina, Tertulliano, risalente alla fine del II secolo d. C., si legge: «Voi [pagani] dite [a noi cristiani] di non prestare onore agli dèi e di non offrire sacrifici per gli imperatori. Perciò siamo processati come rei di sacrilegio e di lesa maestà» («sacrilegii et maiestatis rei convenimur»). Questa è l’accusa più rilevante, anzi tutta l’accusa».

Dalle parole dell’apologeta, e da altre scritte nella lunga esposizione dell’opera dedicata a respingere le argomentazioni pagane, si discerne quali incriminazioni fossero rivolte ai cristiani: si trattava del crimen laesae romanae religionis, ossia di una trasgressione volutamente compiuta contro la religione romana, gli usi, le credenze comunemente accettate. Nel diritto romano con il termine crimen si indicava un delitto di particolare gravità. Occorre osservare che, come già aveva messo in luce Teodoro Mommsen, la religione di Roma altro non era che il riflesso ideale del sentimento popolare. Perciò l’ordine della civitas esigeva dal cittadino l’adesione alla fede tradizionale e un comportamento corrispondente a questa fede; allo stesso modo anche il potere punitivo riguardava la medesima sfera. Non si tollerava quindi che fossero trasgrediti i principi propri del costume sociale e civile e anche le pratiche religiose. Perché, come già nelle civiltà antiche, anche in quella romana, pur avendo i sacerdoti un ruolo distinto dai magistrati, la sfera civile e politica era strettamente legata alla sfera religiosa. Separare le due sfere era ritenuto un attentato alla coesione della società, un grave frattura recata al tessuto della convivenza.

Di qui nasceva l’accusa di ateismo e di empietà. A questa si aggiungeva poi un’altra accusa, non meno grave: i cristiani, con il loro comportamento sarebbero caduti nel crimen imminutae maiestatis, ossia non avrebbero riconosciuto la grandezza del popolo romano che nei primi secoli della nostra epoca era rappresentata dalla statua della Vittoria che Augusto aveva voluto fosse posta nell’aula del Senato per celebrare la vittoria di Azio. Ora, uno degli atti più significativi del culto tradizionale consisteva nell’offerta di incenso a quell’immagine e a quella della Dea Roma, secondo formule e riti minuziosamente indicati. Non era richiesta un’adesione interiore, purché che non fossero respinte le formalità ufficiali. In proposito ancora Tertulliano risulta essere un testimone prezioso. Egli osserva che alcuni [evidentemente tra i pagani] ritenevano una follia [dementia] il comportamento dei cristiani: infatti compiendo l’atto prescritto avrebbero potuto andarsene sani e salvi, conservando nel loro animo la propria convinzione. Ma essi non volevano valersi di un inganno.

Vi era un motivo per cui non acconsentivano a sacrificare, giacché non reputavano che esistessero le divinità pagane. Il rifiuto era dettato dalla fedeltà alla loro coscienza [pro fide conscientiae nostrae] (cf. Apologeticum 27, 11-3). Il confronto e lo scontro ponevano in luce le ragioni profonde del contrasto che avevano origine da due visioni della religione e dell’uomo profondamente diverse. Da una parte non pareva esserci spazio per quella che potremmo definire una visione soggettiva del giudizio morale; prevaleva la considerazione che non si poteva rinnegare un norma o una tradizione ricevuta dagli avi, la cui osservanza era ritenuta necessaria per la vita stessa della civitas. Ne risultava un comportamento intollerabile che si doveva sanare penalmente. Dall’altra parte si veniva affermando in modo più perentorio e diffuso l’autonomia della coscienza. Per il cristiano la discriminante passava tra il riconoscere l’autorità e l’obbedire ai dettami di Dio, che, per fede, riteneva si fosse rivelato all’uomo. In tal modo non si sottometteva agli obblighi imposti da una società politeistica e non voleva riconoscere nell’imperatore una creatura assolutizzata e quindi non voleva giurare per il suo ‘genio’, ma voleva piuttosto pregare il Dio vero per la sua salvezza (pro salute imperatorum Deum invocamus aeternum, Deum verum, Deum vivum [Apol. 30, 1]) (si vedano sull’argomento, tra le altre testimonianze patristiche: Minucio Felice, Oct. 8, 2; 8, 15 ss. Aristide 4; Atenagora 3. 4. 5. 10; Clemente di Alessandria, Strom. VII, 1, 1, 4; Lattanzio, Epit. 63; Id., De ira Dei 9; Arnobio I, 29; 3, 28; 5, 30; 6, 27). La capitale dell’Impero, Roma era il punto nevralgico in cui di concentravano i rappresentanti più autorevoli delle due parti. Ivi avviene il martirio di Pietro e di Paolo; nel II secolo il martirio di Giustino e più tardi di non pochi vescovi della sede romana: essa assume insomma, fin dall’inizio un ruolo fondamentale.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Callewaert, Les prèmiers chrétiens et l’accusation de lèse-majesté, in Rev. des Questions Historiques 76 (1904), 5-28; A. von Harnack, Der Vorwurf des Atheismus in den ersten Jahrhunderten, T.U. 28, N.F. 13/4, Leipzig 1905; Brasiello, Novissimo Digesto Italiano, V, UTET, Torino 1960, 1 ss.; W. Nestle, in Reallexikon für Antike und Christentum, I, Hiersemann Verlags, Stuttgart 1950, coll. 869-870, s.v. Atheismus; P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, 2013, Laterza, Roma-Bari, 66-73; P.F. Beatrice, in NDPAC vol., I, Marietti, Genova-Milano, 637-640, s.v. Ateismo.


LEMMARIO




Azione Cattolica - vol. II


Autore: Guido Formigoni

Associazione ecclesiale di laici, strettamente legata alla gerarchia, sviluppatasi nel sec. XX sul tronco del “movimento cattolico” ottocentesco. Il concetto generico di “azione cattolica”, già nell’800, coincideva con l’insieme delle esperienze organizzate di associazionismo (v.) che il cattolicesimo intransigente aveva messo in atto per rispondere alla secolarizzazione e alla modernità, utilizzando i nuovi spazi creati dalle libertà moderne. In questo orizzonte, alcune esperienze avevano esplicita finalità formativa, spirituale e religiosa, come la Società della Gioventù Cattolica Italiana (Sgci), promossa nel 1868 da due animatori di circoli cattolici cittadini: il viterbese Mario Fani e il bolognese Giovanni Acquaderni. Tali giovani si dichiaravano “cattolici di professione”, intendendo alludere a un’intenzione di acquisizione personale e approfondita della fede, espressa anche in una testimonianza pubblica.

Dopo qualche difficoltà iniziale, attorno alla Sgci nel 1874, con la benedizione di Pio IX, prese forma l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici (v. associazionismo cattolico). Dalla scelta di Pio X di sciogliere l’Opera nacque una prima specializzazione nelle forme dell’apostolato laicale, con la formazione nel 1905 di un’Unione popolare (Up), più attenta alla mobilitazione religiosa e morale, e di altri organismi distinti, dedicati a coordinare la presenza sociale e persino elettorale dei cattolici. A livello diocesano, una Direzione diocesana dell’Ac si proponeva di coordinare le diverse organizzazioni, con un modello esteso nel 1915 a livello nazionale. L’Up però stentò a crescere. Fu invece papa Pio XI (1922-1939) a istituzionalizzare l’Azione Cattolica come massima forma di “partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico della Chiesa”, in virtù di un vero e proprio “mandato” ecclesiastico. In conseguenza di tale impostazione, si consolidò lo schema tipico dell’Azione Cattolica italiana, sigla ufficializzata con la riforma statutaria del 1923. Radicata capillarmente nelle parrocchie, si costruiva su quattro “rami” nazionali, cioè associazioni distinte per genere ed età (Gioventù femminile di Ac, Gf e Unione donne di Azione cattolica; Gioventù italiana di Ac, Giac, erede della Sgci, e Unione Uomini di Ac). A ogni livello, dal parrocchiale al nazionale, esistevano “giunte” di coordinamento tra i rami, presiedute da una figura unitaria. I dirigenti erano di nomina ecclesiastica, andando oltre le forme democratiche delle origini. Questa Ac prese caratteri di massa, arrivando nel secondo dopoguerra a 3.500.000 aderenti. Era il miglior simbolo di una risposta ecclesiale alle dinamiche e alle regole della mobilitazione delle masse, tipiche della società successiva alla prima guerra mondiale. Intendendo preservare e mobilitare i cattolici attorno alla Chiesa-istituzione, questo modello acquisiva al contempo forme di esperienza centralizzate e standardizzate, tipiche dei tempi moderni. Ai quattro “rami” si aggiunsero federativamente organismi specializzati per studenti universitari (la Fuci, già nata alla fine dell’800) e per Laureati e professionisti.

Nel ventennio fascista, tale struttura fu una delle poche realtà associate autonome dal regime (la Santa Sede volle tutelarla con il Concordato del 1929): anche se prevalentemente acquiescente allo stato di cose politiche, poté elaborare una formazione morale e religiosa “totalitaria” (l’espressione è di papa Ratti stesso) senz’altro autonoma dall’ideologia fascista. Si è parlato di “afascismo” per definire tale impostazione. Nel dopoguerra, con Pio XII, il modello venne rilanciato e il clima della democrazia condusse tale formazione morale e religiosa ad avere diversi sbocchi possibili: per alcuni dirigenti, si trattava di animare attraverso forme di partecipazione democratiche partitiche distinte dall’Ac le nuove istituzioni costituzionali; per altri, di mobilitarsi come forma di pressione permanente per affermare gli interessi cattolici (anche condizionando i governi a guida democristiana e prendendo forti posizioni nel dibattito civile). La costituzione di Comitati civici nel 1948, a fianco dell’Ac, ad opera del presidente degli Uomini, Luigi Gedda, fu l’avvio di una prevalenza progressiva del secondo modello, che ebbe occasione di svilupparsi nella presidenza nazionale dello stesso Gedda, dal 1952 al 1959.

Dopo il Vati­cano II, con la rivalutazione del carisma battesimale e della vocazione all’apostolato e alla santità di ogni cristiano, l’Azione Cattolica di massa consegnata dalla tradizione ha conosciuto un’indubbia crisi. La diaspora degli aderenti fu forte, ma l’associazione, con la presidenza di Vittorio Bachelet (affiancato dall’assistente mons. Franco Costa) si ricollocò nella linea prevista dal decreto AA (n. 20). La cosiddetta “scelta religiosa”, istituzionalizzata con un nuovo Statuto nel 1969, puntava a una concentrazione sull’essenziale, prendendo le distanze dall’ipotesi di condizionare la politica, e trovando la propria specifica collocazione ecclesiale, meno esclusiva che in passato, in una cooperazione stretta con i pastori al servizio della vita pastorale ordinaria delle comunità cristiane. In questa veste, l’Ac fu un importante tramite per la recezione capillare dell’impostazione conciliare, mirata a realizzare il primato dell’evangelizzazione in una prospettiva comunitaria, con la centralità della Parola e della liturgia. Non a caso l’espressione “scelta religiosa” venne in seguito utilizzata per delineare una strategia pastorale di tutta la Chiesa italiana. Scesa attorno a 600.000 aderenti negli anni ‘70, l’Ac ha continuato a essere, nei decenni successivi, una delle più cospicue e radicate associazioni laicali nella Chiesa.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Casella, L’Azione cattolica nell’Italia contemporanea (1919-1969), Ave, Roma 1992; G. Formigoni, L’Azione cattolica italiana, Ancora, Milano 1988; E. Preziosi (a cura di), Storia dell’Azione cattolica. La presenza nella Chiesa e nella società italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.


LEMMARIO




Barbari - vol. I


Autore: Paolo Fusar Imperatore

Tracciare delle linee di sintesi sul rapporto fra la chiesa e i barbari fra V e VIII secolo è un lavoro che ancora oggi può portare a nuovi percorsi storiografici: le ultime ricerche hanno messo in luce quanto lo stesso concetto di “barbaro” sia inadeguato ad esprimere una realtà così diversificata dal punto di vista cronologico, geografico e culturale. Notevoli furono le differenze fra la discesa in Italia, dalla Francia o dalla Spagna, di popolazioni nomadi stanziate già entro i confini dell’impero, il contatto con genti di stirpe germanica, dislocate oltre i confini, ma abituate a vivere in stretti rapporti con il mondo romano o il fenomeno di migrazioni violente, in cerca di terre in cui abitare o di un ricco bottino da spartire. In senso opposto, per quelle popolazioni fu diverso incontrare il mondo culturale romano del III secolo, fortemente imbevuto del concetto di “impero”, o, un secolo e mezzo più tardi, l’Italia uscita dalle guerre greco-gotiche, priva di un fronte comune anche in ambito religioso. Aspetti di carattere economico, sociale e politico, oltre a quelli di ordine linguistico, culturale e religioso, rendono quest’epoca molto più policroma di quanto non si pensasse prima. Gli studi più recenti forniscono informazioni dettagliate sulle modalità di insediamento e sui reciproci influssi culturali e civili che il mondo “barbaro” ha condiviso col mondo romano: oggi, l’attenzione alle rovine e agli incendi è affiancata ad uno studio delle interazioni e degli scambi fra le due differenti realtà.

L’aspetto religioso necessiterebbe, invece, di una rilettura generale più ampia per l’epoca tardo-antica. Il sacco di Roma del 410 e la deposizione dell’ultimo imperatore d’occidente avvengono a meno di un secolo dall’intervento di Teodosio per l’imposizione della religione cristiana a tutto lo Stato romano: l’impero era tanto cristiano da percepire come estraneo l’elemento religioso delle nuove popolazioni? In Italia, in un primo momento, le invasioni barbariche, comunque le si voglia definire, furono anzitutto un problema politico e sociale piuttosto che un problema religioso. Una prima situazione da prendere in considerazione è quindi quella che vede l’incontro fra il barbaro, ex mercenario o federato, e il cittadino romano dell’Italia: che fossero i Goti di Alarico, gli Unni di Attila, o i Vandali di Genserico, poco importa; ci troviamo davanti a capi militari che conducono le loro milizie attraverso l’Italia per fare bottino e dare dimostrazioni di forza. Il cristiano non poté che mettersi al riparo sperando che se ne andassero presto: i barbari erano dei nemici, al massimo degli alleati pericolosi che servivano a conservare meglio l’impero. Incendi, rapimenti, uccisioni, saccheggi col trascorrere degli anni portarono soltanto a scegliere siti più indicati per la difesa e per le comunicazioni: Ravenna divenne corte imperiale al posto di Milano e Grado, e poi Venezia, sostituirono la più esposta Aquileia. Persone più giovani e disinteressate nel gestire la res publica cittadina sostituirono la corrotta amministrazione precedente e spesso i vescovi diventarono la figura ideale di questa nuova gestione. A livello sociale tutto ciò portò ad un ulteriore scontro fra cristianesimo e cultura pagana romana, riscontrabile, ai massimi livelli, nella Città di Dio di Agostino, impegnata difesa del cristianesimo dall’accusa di essere stato la rovina dell’impero e tentativo di trovare una sintonia piena tra cristianesimo, romanità ed impero.

Un secolo di “età costantiniana”, come si suole definire il IV secolo, e un altro di comune difesa dalle invasioni, furono sufficienti a rendere i cristiani non solo interessati, ma affezionati all’impero. Al cedere delle strutture politiche i vescovi presero il ruolo di difensori della città e della romanità, punto di riferimento essenziale per tutti gli abitanti, pagani o cristiani che fossero. Ambrogio a Milano prima, Massimo di Torino, Paolino da Nola e, ancor più enfatizzato dai racconti della tradizione, Leone magno poi, diventeranno i modelli di questo ruolo civico del cristianesimo di V secolo: soffrire per la crisi dell’impero fu il sentimento comune anche di persone votate a vita ascetica come Girolamo, Rufino e la giovane Melania.

Il breve regno di Odoacre diede inizio ad una nuova fase, quella dell’insediamento stabile di intere popolazioni in Italia: l’aspetto religioso divenne più importante. Con i Goti di Teoderico, infatti, entrò nella penisola l’elemento ariano del cristianesimo, politicamente caratteristico di chi doveva governare in contrasto con la sponda greca del mediterraneo: il barbaro divenne usurpatore e potenziale persecutore religioso ma, forse proprio per questo, oggetto di evangelizzazione. L’Italia, memore di un glorioso passato di fedeltà nicena, vedeva con distacco l’arianesimo dei governanti e, per quanto il regno goto avesse cercato di presentarsi in continuità col passato romano, non vi furono integrazioni: nel tumultuoso tentativo di equilibrio con Costantinopoli essere ariani consentiva di mantenere la pressione politica e militare, a scapito delle relazioni con la popolazione locale; i re faticarono ad essere tolleranti nei confronti dei sudditi, visti come potenziali alleati del nemico. La testimonianza di una difficile convivenza è visibile ancora oggi nella presenza del duplice battistero di Ravenna, capitale del regno goto, e nel toponimo romano di sant’Agata dei Goti, oltre che nelle moltissime località italiane con toponimi bizantini, dove si giocò, metro per metro, la difesa della fede nicena fra V e VII secolo. I vescovi del VI secolo diventarono difensori della retta fede sull’esempio di papa Leone o dei loro predecessori ai tempi di Atanasio. Al contempo, mantennero la prerogativa di difensori dei popoli e garanti della giustizia, poiché il regno goto, conservando le linee romane di governo, dovette riconoscere ai vescovi la dignità giuridica e sociale che nel IV secolo la figura episcopale aveva acquisito: i doveri religiosi e civili del vescovo furono la chiave di volta di una nuova testimonianza cristiana sul territorio, fatta di carità, onestà e giustizia, ma, soprattutto, del coraggio di presentarsi davanti al potente per contrattare e coordinare la vita italiana.

Il periodo che va dalla morte di Teoderico alla discesa dei Longobardi in Italia fu segnato da due importanti avvenimenti che modificarono la situazione sociale e religiosa fin qui delineata: le guerre greco-gotiche e lo scisma tricapitolino. Dal 533 al 553 l’imperatore Giustiniano organizzò la riconquista dell’Italia: l’elemento gotico e l’elemento romano vennero totalmente spazzati via da una stagione di spietate guerre e l’Italia ne uscì distrutta e spopolata. I Goti restarono immortalati nei ricordi del passato come i sanguinari eretici dei Dialoghi di Gregorio magno; il Senato romano per sopravvivere dovette avvalersi della protezione offerta dalla Chiesa e Roma fu ridotta a parte del prestigioso passato dell’impero bizantino. Dal punto di vista religioso, devastante quanto le guerre, fu lo scisma tricapitolino, imposto a forza da Giustiniano nel 553 a tutto il territorio dell’impero: gli aspetti teologici della condanna dei tre maestri antiocheni al secondo concilio di Costantinopoli e le vicende politiche annesse sono molto complesse per essere affrontate qui, ma possiamo ben segnalarne le conseguenze. A livello ecclesiale, per la prima volta, il cristianesimo italico risultò ostinatamente diviso, per tutto un secolo, fra romani e tricapitolini: non ci furono conseguenze teologiche, ma molte furono le ricadute politiche e giurisdizionali, prima fra tutte la separazione fra Roma e il resto della penisola. L’Italia e i suoi vescovi avevano definitivamente acquisito libertà e prestigio e non erano ormai più capaci di comprendere come proprie le scelte politiche e religiose dell’imperatore bizantino: in Italia non c’era più un impero romano in cui riconoscersi.

La discesa dei Longobardi fu facilitata da questi segni di disgregazione: con una politica religiosa caratterizzata da un forte opportunismo politico, i Longobardi pare abbiano fatto la scelta di scardinare quel poco di geografia imperiale ed ecclesiastica che ancora si reggeva alla fine delle guerre gotiche. Una diversa gestione delle terre e degli stanziamenti, la divisione in ducati territoriali e la volontà di porsi in antagonismo con Costantinopoli sancirono la divisione dell’Italia in sfere di influenza ben precise. La stessa testimonianza delle fonti, Gregorio magno in particolare, ce li descrivono come popolazione nefanda e terribile, forse proprio per marcarne la differenza culturale rispetto alle altre popolazioni. Lo strato di paganesimo e la risoluta volontà di inquadrare l’Italia nel proprio modo di vedere e gestire il mondo rese la comparsa dei Longobardi sul suolo italiano un evento apocalittico. Ariani forse per accattivarsi la fiducia dei goti rimasti, niceni tricapitolini per mantenere un’adeguata tensione politica con Costantinopoli, i Longobardi seppero ben sfruttare le divisioni presenti sul suolo italiano. La loro conversione al cattolicesimo non convinse mai del tutto la chiesa di Roma, ma permise, infine, di chiudere lo scisma tricapitolino: le stesse diocesi italiane comprendevano sempre meglio la necessità di essere in comunione con Roma contro i monoteliti e gli iconoclasti orientali del VII secolo e anche il regno longobardo si schierò su queste posizioni. La chiesa di Roma poteva così riconquistare i rapporti col resto della penisola e, alla fine dell’VIII secolo, tornare ad orientare il mondo politico e religioso italiano: la scelta dei Franchi fu il tentativo di impedire la formazione di un’Italia longobarda e di acquisire autonomia dal pericoloso vicino e dall’ormai sempre più scomodo impero d’oriente.

Il pensiero di Gregorio magno sulla vecchiezza del mondo fa di lui l’ultimo antico romano, la sua eredità monastica, con l’esaltazione della figura di Benedetto, e il suo desiderio di vedere il mondo interamente cristiano permetterà, col tempo, al regno longobardo di accogliere le tradizioni monastiche irlandesi, ma il monito contro le genti infernali che distruggono le chiese e testimoniano l’avvento escatologico delle genti di Og e Magog, assieme all’instabilità delle scelte religiose longobarde, impediranno, a lungo termine, una valutazione positiva dei Longobardi e del loro dominio nei confronti di quello franco. Quando in Italia, agli inizi del X secolo, scenderanno gli Ungari, popolazione inarrestabile e parlante una lingua sconosciuta, la terribile nomea dei “nefandi barbari longobardi”, lasciata intatta nei mutamenti del VI e VII secolo e confermata dalla politica franca, non potrà altro che essere trascritta nella storiografia successiva.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Azzara, Le invasioni barbariche, il Mulino, Bologna 1999; C. Azzara, Teoderico, Il Mulino, Bologna 2013; A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Laterza, Roma-Bari 2006; P. Brown, La formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità, Laterza, Roma-Bari 2003; U. Dovere, La figura del vescovo tra la fine del mondo antico e l’avvento dei nuovi popoli europei, AHP, 41 (2003), 25-49; S. Gasparri, Italia longobarda, Laterza, Roma-Bari 2012; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. I Dalle Origini al Concilio di Trento, Jaca Book, Milano 1977, 77-143.


LEMMARIO




Barbierato Federico





Barocco - vol. I


Autore: Andrea Spiriti

Al di là degli etimi/paretimi (la perla scarmazzzata “barroca”, il sofisma “baroco”), il termine gode attualmente di un’estensione semantica duplice: un senso estensivo e meramente cronologico per indicare la sviluppo artistico ed architettonico europeo (con cospicui influssi in America ed Asia) dall’ultimissimo cinquecento fino alla metà del settecento, con il problema dipendente del tardo barocco e del rococò; un senso specifico, a significare uno specifico “stile” basato sul nesso fra grandiosità e persuasione, fra teatralità e metamorfismo. Risulta palese il legame con l’evoluzione ideologica della Chiesa Cattolica, che fin dal Concilio di Trento si era trovata di fronte all’alternativa fra un’arte chiara, precisa nella trasmissione dei significati, comprensibile per quasi tutti, rigorosa e un po’ noiosa, cerebrale; ed un’arte coinvolgente, attenta alla dimensione psicoemotiva, inevitabilmente ambigua e polisemica, ossia più bella e più rischiosa. La durezza del contrasto con il mondo protestante e la percezione di rischio anche nelle aree rimaste cattoliche spinse alla prima scelta, che si tradusse in quel manierismo già definito “senza tempo”: una fase che giunge fino a Federico Barocci (peraltro già aperto ad un intimismo dolce dalla brande futuro ottocentesco) e che si chiude simbolicamente con il rogo di Giordano Bruno (1600). Le aperture successive (si pensi alla sorte molto meno tragica di Galileo) e la nascita del barocco vanno di conserva: e non è casuale la nodalità intellettuale ed artistica dei papati di Paolo V Borghese (1605-1621) e di Urbano VIII Barberini (1623-1644).

Gli esiti trionfali del classicismo emiliano romanizzato (Correggio, i Carracci, Guido Reni, Domerichino, Francesco Albani, Guercino) e l’irriducibilità del Caravaggio, col suo naturalismo (preferirei iperverismo) che condivide istanze teatralizzanti e drammatiche ma gode di un proprio incatalogabile linguaggio, per poi divenire fenomeno europeo, non sono affatto fondativi di mondi in comunicanti, ma aperti ad un continuo interscambio: si pensi al tema del drappo angolare superiore che, nato con la Madonna Sistina di Raffaello si ripropone in contesto sacro per Caravaggio, in ambito ritrattistico per Rubens e Van Dyck. Questo rende spesso difficile la cronologia e la stessa appartenenza categoriale: esemplare il mondo milanese, dove Carlo Borromeo finanzia pittori di manierismo internazionale (Carlo Urbini, Aurelio Luini), mentre il secondo successore Federico Borromeo creerà l’iconografia carliana grazie a pittori tardo manieristici ma anche a cavaliere fra manierismo e barocco (Cerano, Morazzone) o fra classicismo e barocco (i Procaccini, Daniele Crespi). Così nell’Urbe il cardinale Scipione Borghese commissiona al giovane Bernini due opere paradigmatiche come il David e l’Apollo e Dafne: un binomio biblico e classico nel quale il rapporto non condizionato col passato rinascimentale si unisce ad un virtuosismo metamorfico molto più profondo della propria perizia tecnica. Ma ancora nell’età barberiniana vecchio e nuovo, barocco e no coesistono: così nello stesso palazzo di famiglia l’architettura di Carlo Maderno da Bissone, affiancato dai giovani Borromini e Bernini, racchiude gli affreschi scenografici di Pietro Berrettini da Cortona ma anche quelli classicisti di Andrea Sacchi. Del resto in età Borghese lo stesso Maderno –portatore della sapienza architettonica ed ingegneristica degli artisti dei laghi lombardi – aveva proseguito la linea di sistemazione di un monumento/simbolo quale la basilica vaticana iniziata dalla cupola dei Della Porta e del Fontana, raggiungendo un compromesso accettabile fra le due istanze di pianta centrale e pianta longitudinale che fin dall’età di Giulio II si erano alternate. In parallelo, un cantiere innovativo come la casa-madre filippina di Santa Maria in Vallicella vedeva coesistere sugli altari le opere di Barocci, Caravaggio e Rubens, visti come compatibili dalla committenza pilotata da Cesare Baronio. Il paradigma di questa fase è proprio Pieter Pauwel Rubens, sia per le sue tappe italiane (Milano, Mantova, Venezia, Firenze, Roma e soprattutto Genova) sia per il respiro europeo che presto assume la sua arte, con le grandi committenze per la propaganda di stato di Fillippo IV in Spagna, di Maria de’ Medici in Francia, di Carlo I in Inghilterra: non a caso sovrani, con diverse gradazioni, cattolici o filocattolici.

Spesso mediata da quegli Ordini religiosi che una storiografia “episcopalista” ha sottovalutato, la diffusione di questo primo barocco nei centri italiani eccelle, per impatto urbano e qualità di realizzazioni, a Genova e a Napoli. Nel primo caso, la volontà patrizia di visualizzare il proprio status con scenografiche committenze sacre si traduce in spazi “ariosi” di forte impatto: esemplare la Santissima Annunziata del Vastato, coi grandi affreschi dei lacuali Carloni di Rovio. A Napoli il fittissimo tessuto di architettura dei regolari crea un percorso ininterrotto che ha il suo culmine nella certosa di San Martino al Vomero, con la volontà di servirsi dei migliori artisti degli altri territori della Monarchia Cattolica, dal lombardo Cosimo Aliprandi del Fanzago allo spagnolo Jusepe de Ribera. Questa dimensione ecumenica della Spagna filippina (oltretutto dominatrice, dal 1580 al 1640, del Portogallo e del suo immenso dominio coloniale) crea circolazioni di artisti ed opere di cui è difficile sminuire la portata; e che in Europa si traduce in un interscambio Madrid – Lisbona – Bruxelles – Milano – Napoli – Palermo – Cagliari, senza dimenticare le due piazze vitali per la Monarchia di Roma e Genova.

Il successo di Bernini negli anni di Urbano VIII, la sua iniziale marginalizzazione clientelare e recupero trionfale nel periodo di Innocenzo X e la fase grandiosa di Alessandro VII scandiscono le tappe di una ditta il cui leader si gioca sempre più in un ruolo di regìa, coordinando competenze specifiche ed articolate, e declinandosi in realizzazioni che diventano paradigmi: si pensi ai modelli alternativi di tomba papale elaborati per Barberini (pontefice seduto, benedicente/trionfante) e per Chigi (pontefice inginocchiato orante). Né sul piano formale Bernini si astiene dalle arditezze metaforiche: si pensi alla Transverberazione di Santa Teresa in Santa Maria della Vittoria (con la sua geniale lettura sottesa della poesia di Giovanni della Croce) o all’iconema del Lago di sangue. Anche sul piano architettonico la grandiosità del baldacchino petrino, l’articolazione scenografica della cattedra-gloria e l’ellissi della piazza colonnata costituiscono modelli di lunga fortuna europea.

A Roma le alternative possibili sono due: il classicismo “greco”, sublime, idealizzato della scultura bolognese di Alessandro Algardi (si pensi all’altare petrino di San Gregorio Magno); e l’architettura “concettosa”, iperrazionalizzata eppure scenografica del lombardo Francesco Castelli il Borromini (San Carlo alle Quattro Fontane, Sant’Ivo alla Sapienza), capace al Laterano di un restauro filologico molto lacuale. Né va dimenticata la preziosa mediazione dei lombardi Ercole Ferrata ed Ercole Antonio Raggi, per un verso modelli a loro volta per la grande diffusione europea, che aveva portato gli artisti dei laghi ad alterare l’attività nei centri italiani con la conquista della Mitteleuropa, spesso utilizzando un medium tecnico adattissimo come lo stucco, modellato in intrecci manieristici e barocchi; e questo mentre a Roma l’eredità berniniana si declinava nelle scenografie del Baciccio, nella fioritura francesizzante, nel grandioso finale dell’altare di Sant’Ignazio al Gesù coordinato dal lombardo Andrea Pozzo, che peraltro nella sua attività di pittore (volta di Sant’Ignazio) porterà all’estremo la dialettica fra doxa e pistis, fra apparenza/parere e Fede. In parallelo l’attività napoletana, fiorentina e spagnola di Luca Giordano segnerà per un verso il trionfo di una pittura capace di rileggere Veronese in termini barocchi, per un altro di finire nel modo migliore la storia figurativa della Monarchia Cattolica di Spagna. E questo mentre lo Spatbarock dell’Europa Centrale creava straordinari complessi devozionali (spesso proseguiti nel Settecento, da Einsiedeln a Wies, da Vierzehnheilingen a Waldsassen) e i centri italiani raggiungevano il culmine dell’impatto urbano, dalle monumentali conferme di Milano, Genova, Napoli alla pirotecniche facciate di Venezia (Santa Maria del Giglio, San Moisé, peraltro con Sinai interno che riprendeva la grande lezione teatrale dei Sacri Monti lombardo-piemontesi seicenteschi, da Varallo a Varese ad Orta) e al borrominismo di Guarino Guarini a Torino (cappella della Sindone, San Lorenzo).

Ed è sintomatico che già nel 1665 il celebre viaggio di Bernini a Parigi (programmato per fallire, e infatti simbolo dell’inizio nell’arte di quel primato francese che dal 1648 era dato politico) includa l’accettazione della sua scultura come strumento di propaganda e il rifiuto classicista della sua architettura, Ma questo contribuisce a spiegare perché l’ultimo barocco si delinei soprattutto in quella Mitteleuropa dove l’Austria asburgica diveniva (grazie alla genialità di Innocenzo XI Odescalchi, all’assedio ottomano del 1683, al nuovo asse Roma – Vienna – Varsavia) la potenza alternativa, unificata visivamente dal quel barocco dei lacuali già pronto, come avverrà nel primo quinquennio del Settecento a divenire rococò in netto anticipo sulla Francia. Ma proprio questa evoluzione segnerà le ambiguità del rocaille: per un verso la sua eredità linguistica barocca, per un altro la sostituzione all’estetica del grandioso della nuova estetica del delicato, del miniaturistico, del grazioso, con tutti i rischi conseguenti (e puntualmente avverati) di crisi del sacro come categoria artistica.


LEMMARIO




Battelli Giuseppe


Di origine modenese (1953), ha compiuto gli studi universitari a Bologna, formandosi allo studio della storia del cristianesimo con G. Alberigo e G. Miccoli, e acquisendo il PhD con R. Aubert. Dal 1990 è ordinario di Storia della Chiesa e poi Storia contemporanea presso l’Università di Trieste. L’ambito complessivo di ricerca è costituito dalla storia delle chiese cristiane tra XVI e XX secolo. L’analisi è effettuata secondo un approccio storico-critico e prevalentemente in linea con l’analisi del rapporto chiesa/società e delle dinamiche istituzionali all’interno del cristianesimo. Tra le specifiche tematiche d’indagine si segnalano: l’episcopato e il clero secolare italiano, esaminati sia come entità collettive che attraverso la vicenda di figure di particolare rilievo storico; il papato nell’Ottocento-Novecento; la cultura del clero esaminata attraverso le biblioteche ecclesiastiche private; religione e politica in Italia tra fine Settecento e secondo Novecento; storiografia religiosa del XIX e XX secolo.