Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
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Roma 2015
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Tanzarella Sergio





Teatro - vol. I


Autore: Bernadette Majorana

Il teatro ha con la Chiesa in Italia un rapporto costante, che coinvolge a vario titolo tutta la comunità, chierici e laici, e suggerisce di essere affrontato attraverso le convergenze e le opposizioni, non meno che le contraddizioni con cui si delinea.

Alla fine del I secolo a.C. l’azione scenica si è ormai sciolta dalla parola letteraria e il corpo di mimi e pantomimi diventa il perno esibitorio dei theatra, suscitando la pura eccitazione sensoriale ed emozionale del pubblico: la Chiesa entra in contatto con la tradizione teatrale greco-romana mediante questo genere di spettacoli. Tertulliano, Lattanzio, Agostino e altri vi si oppongono per un insieme di ragioni, tra cui spicca appunto la condanna dell’offrirsi allo sguardo, giacché ritengono che il potere esercitato dalla finzione della scena, e in essa dagli histriones, produca nello spettatore passioni vere, ma oscure, che si trasmettono alla comunità in un contagio corruttore delle anime e dei corpi.

Insieme con l’opposizione della Chiesa, la fine dell’impero d’Occidente porta all’abbandono degli edifici teatrali e alla dispersione di quanti vivono di spettacolo. Le istituzioni e l’idea stessa di teatro si dissolvono e tuttavia parte del patrimonio drammaturgico si conserva al di fuori delle scene, nei monasteri, dove le opere latine vengono studiate e ricopiate.

D’altronde, per quel processo d’inculturazione raccomandato già da Gregorio Magno (VI-VII sec.), alcuni rituali drammatici si riversano nella teatralità cristiana alimentandola. Tra Natale ed Epifania, per esempio, dal X secolo il clero minore realizza feste che, come quelle pagane del passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo, si basano sul mascheramento e sul sovvertimento dei ruoli sociali. Nonostante le denunce dei canoni conciliari, esse restano vive fino al XVI secolo.

L’arte dell’attore perdura intanto sotterraneamente, saldandosi con le pratiche barbariche per poi riconfigurarsi nell’attività eclettica dei giullari (non vi sono rari i clerici, benché condannati da Bonifacio VIII): i giullari si esibiscono senz’altro apparato che quello di corpo e voce, ovunque si possa formare un gruppo di spettatori. Le censure ecclesiastiche ne stigmatizzano l’inutilità, l’esteriorità fittizia, il parlare vano, gli eccessi gestuali, l’alterazione dell’aspetto, cioè dell’immagine di Dio riposta in ogni uomo. La corrispondenza tra condotte teatrali e cattiva vita si ritiene indubitabile, manifesta nel nomadismo e nella mercificazione del corpo esibito per guadagno. La professione teatrale viene però riconsiderata nel quadro della scolastica e in particolare da Tommaso d’Aquino (XII-XIII sec.), ma l’orientamento della Chiesa resta negativo, nel tentativo di frenare l’adesione dei cristiani all’offerta di spettacolo giullaresca, estesa e pervasiva, apprezzata nelle corti e presso gli ecclesiastici (soggetti perciò, nel 1286, ai richiami del Concilio di Ravennna), fino alla Roma pontificia del XVI secolo e oltre.

Teatro e Chiesa s’incontrano, all’opposto, sul terreno dei riti e della liturgia, della festa, della devozione, dell’educazione cristiana, dove l’esperienza teatrale ­non è mestiere ma eccezione, principio ordinatore di una intenzione comunicativa o partecipativa, ed è svolta senza fini economici. Sino all’avanzata età moderna la legittimazione delle attività comprese in questo orizzonte contrasta con gli attacchi mossi parallelamente agli attori professionisti, fondandosi sulla possibilità di informare il teatro a strumenti e scopi della Chiesa e del suo magistero.

In alcune solennità cristiane la liturgia esprime dal X secolo azioni note come drammi o uffici liturgici, sviluppatesi nelle chiese abbaziali e cattedrali e rese possibili dalla duttilità della liturgia, nella quale s’inquadrano: queste azioni, dialogate, articolate nello spazio della chiesa, compiute dai chierici nell’ambito ristretto della loro comunità, sono originariamente prive di intento spettacolare. Dal XII secolo, però, la presenza dei fedeli, la varietà drammaturgica e la caratura teatrale raggiunta da talune azioni dipendenti dalla liturgia segnalano finalità ulteriori, la volontà di educare il popolo attraverso di esse, istruendolo suggestivamente sul senso ultimo del mistero cristiano. L’ufficio più antico, detto Visitatio sepulchri, l’incontro delle Marie con l’Angelo presso il sepolcro vuoto, si svolge al termine del Mattutino di Pasqua. A questo si aggiungono episodi evangelici contigui e legati al ciclo di Natale, documentati fra XII e XV secolo. Col diversificarsi dei soggetti (biblici, agiografici, morali) crescono anche personaggi e scene, fornite di testi in versi, didascalie, notazioni musicali; gli allestimenti nelle chiese si fanno più studiati e impressionanti, come per esempio il volo dell’Angelo nelle feste dell’Annunciazione (Parma ante XV sec., Firenze 1439).

I drammi liturgici non subiscono censure in Italia, dove sopra tutti s’impongono gli uffici del tempo di Passione: la cosiddetta Passione cassinese ne è il documento più antico (XII sec.); il Planctus Mariae di Cividale (XIV sec.) e in generale quelli dell’area veneto-friulana ne sono esempi importanti. Ma è al di fuori della liturgia che il legame tra la Madonna e il Cristo sacrificato diventa il perno del teatro religioso italiano: si tratta della lauda in volgare, sorta nell’ambiente laico delle confraternite d’ispirazione penitenziale e diffusasi tra XIII e XV secolo in forma drammatica dall’Umbria in molte parti d’Italia (in Abruzzo o a Roma, per esempio, dove ogni Venerdì santo, fino al 1539, l’Arciconfraternita del Gonfalone allestisce al Colosseo una Passione che influenza tutto il Lazio). Debitrice ai giullari per le forme metriche, la lauda ha impianto dialogico a più personaggi; gli autori sono anonimi, forse ecclesiastici o laici letterati; i membri delle confraternite realizzano l’allestimento e sostengono tutte le parti, cantate e recitate. Rappresentata in chiesa a Quaresima e nella Settimana santa, la lauda si estende presto ad altri tempi e temi religiosi; in ambito francescano e domenicano viene anche integrata nella predicazione. Le sacre rappresentazioni fiorentine (XV sec.), di ambiente borghese, estinguono l’austera potenza devozionale della lauda, da cui provengono, accentuando la psicologia dei personaggi, la ricercatezza letteraria e l’invenzione degli apparati. Intanto la festa del Corpus Domini assume rilievo rispetto a quelle locali dei santi patroni, spesso destinate a rimanere inalterate per secoli: a Viterbo, nel 1462, la processione eucaristica è guidata da Pio II, che ne delinea anche l’assetto spettacolare e gli elementi drammatici, testimonianza di criteri festivi operanti nella comunità dall’alto, secondo un preciso progetto intellettuale.

Ripensando l’antichità classica, la civiltà curtense e umanistico-rinascimentale fornisce contenuti e forme a questa nuova concezione, dove convergono tutte le espressioni della cultura più attuale. A Roma la Chiesa costruisce un nuovo Stato, di cui la festa è immagine e strumento politico. Evento extra-quotidiano, che si manifesta nella metamorfosi temporanea dei luoghi cittadini e dell’aspetto di persone e gruppi partecipanti alle azioni pubbliche, la festa s’impernia sulla esibizione del potere gerarchico, rappresentando al contempo una società ideale. Da Pio II a Leone X e oltre, i papi la promuovono e ne sono protagonisti: paradigmatico il possesso, magnifica cavalcata processionale che conduce il pontefice appena incoronato da San Pietro al Campidoglio a San Giovanni in Laterano. Le feste religiose sono regolari e frequenti (ricorrenze solenni, traslazione di reliquie, giubilei: per quello del 1500 Alessandro VI fa rappresentare un trionfo di Cesare con dieci carri); si affiancano a quelle politiche (paci, conquiste, vittorie), a entrate trionfali di principi (nel 1471 Paolo II fa apparare sontuosamente la città per l’arrivo di Borso d’Este, a cui dedica un mese di feste; tuttavia il cardinal Ammannati Piccolomini esprime viva riprovazione al papa amante di lussi e spettacoli) e alle feste profane di tradizione cittadina come il Carnevale, a cui le corti romane contribuiscono con nuovi intrattenimenti: banchetti-spettacolo, musiche, rappresentazioni drammatiche e allegoriche, recitate, cantate, danzate, buffoni, attori, declamazioni oratorie. La recitazione delle opere classiche, avviata dal retore Pomponio Leto nello Studium Urbis, viene sostenuta dai papi e dai cardinali: l’agere sulla scena degli oratores riveste funzione morale nella civitas christiana (celebre, nel 1486, un Ippolito di Seneca). La commedia italiana ha a Roma la propria consacrazione: fra le altre si allestiscono in Vaticano, davanti a Leone X, la Calandria del cardinal Bibbiena, con scene di Baldassarre Peruzzi (1514), e I suppositi di Ariosto, con scene di Raffaello (1519). La Chiesa diventa inoltre soggetto drammaturgico: nella Cortigiana dell’Aretino (1525) le corti di Leone X e Clemente VII sono il centro di ogni intrigo, frati e preti sono personaggi ambigui e ridicoli nella Mandragola di Machiavelli, messa in scena anche per Leone X (1520).

Dalla metà del XVI secolo la scena teatrale si distingue dalla festa: viene coltivata nelle corti private e nelle dimore signorili a Roma e altrove, consentendo sperimentazioni impegnative, come quelle del teatro di palazzo Barberini, aperto dai cardinali nipoti di Urbano VIII, dove operano insieme scenografi come Gian Lorenzo Bernini, drammaturghi come Giulio Rospigliosi, futuro Clemente IX, e importanti musicisti.

Le riforme e il Concilio di Trento determinano trasformazioni importanti. I padri conciliari non si esprimono riguardo alla rappresentazione teatrale, che a differenza della figurativa non è investita di questioni dottrinali dirette e urgenti; ma la separazione di sacro e profano, di alto e basso, la depurazione delle pratiche devote e collettive da ciò che è considerato eterodosso, osceno, indiscreto, irrisorio toccano subito la pratica teatrale, struttura portante della vita sociale: seguito da altri vescovi, Carlo Borromeo vieta esemplarmente la rappresentazione della Passione e di storie di santi, riconducendone i contenuti a narrazioni fatte dai predicatori in chiesa, cioè alla competenza sacerdotale, agli spazi sacri e, quanto ai laici, a una pietà più interiorizzata (1565); proibisce le azioni teatrali profane estranee al tempo festivo e al culto, come le mascherate e i riti di fecondità e corteggiamento del primo di maggio, da sostituire con la venerazione dei santi del giorno (1569, 1579). Tuttavia, nelle aree marginali di campagna e di montagna, molte esperienze tradizionali resistono, anche per l’adesione a esse del clero curato.

Nel contesto post-tridentino la Chiesa non è però soltanto controparte del teatro. La strategia comunicativa e persuasiva cattolica comprende una intensa azione spettacolare, imponente in molte città (Roma, Milano, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo): la festa è progetto retorico universale (il modello romano è esteso fino agli estremi confini dell’orbe cattolico), attento al piacere e alla comprensione dei dotti come degli illetterati, realizzato attraverso le più avanzate risorse tecniche e artistiche; l’artificio visivo vi è cruciale e la musica vi ha parte cospicua. Si affermano nel XVII secolo le quarantore, a santificazione delle profanità del Carnevale, le pompe funebri, macchine macabre grandiose e visionarie, le feste per le beatificazioni e le canonizzazioni che in ogni città seguono al rito celebratosi a Roma. Si può parlare di pastorale festiva non meno che di pastorale drammatica: la scena confessionale si pone sotto il segno della edificazione e della esemplarità delle condotte, incorporandosi in nuove realtà pedagogiche e devote. Collegi, accademie, congregazioni sono agenti di un teatro offerto alla collettività come esercizio virtuoso e pio intrattenimento, vincolato alla drammaturgia scritta (circolante a stampa anche per la lettura), recitato da dilettanti che sottoponendosi a una lunga preparazione, da cui non è esclusa la componente ludica, perfezionano i procedimenti attoriali di stampo oratorio a fini etico-pratici e d’intrattenimento, personali e sociali. Gli spettacoli si svolgono in occasioni straordinarie e in luoghi collegati al gruppo che li realizza: gesuiti, barnabiti, somaschi allestiscono, per esempio, sale e cortili delle loro scuole e gli apparati scenici vi raggiungono notevole complessità. Le produzioni dei collegi della Compagnia di Gesù, in latino e col Sei-Settecento sempre più in italiano, sono da Siracusa a Milano un fenomeno pubblico di grande rilevanza. Si afferma la tragedia spirituale e s’incrementano i soggetti agiografici, figure storiche che fra antichi martiri e nuovi santi rispondono tanto al criterio filologico che guida le indagini sulla Chiesa delle origini, quanto alle recenti prospettive della santità, incentrata sulla imitabilità dei più alti modelli cristiani. La sapienza scenica dei dilettanti (sempre maschi) determina uno scarto rispetto ai comportamenti quotidiani di attori e spettatori, ed esso stesso si qualifica come essenza ed eccellenza dell’esempio rappresentato (sulla base di questa consapevolezza, il missionario gesuita Paolo Segneri, già ottimo attore nel Collegio Romano e oratore di rango, usa la propria competenza drammatica nella predicazione ai semplici delle aree rurali, mettendo a punto nel 1671 una performance di grande efficacia compuntiva, sorte di emblema vivente della conversione, adottata e sviluppata da molti suoi seguaci). Già dal primo Cinquecento, intanto, e fino a tutto il secolo seguente, i conventi femminili danno spazio sotto forma di intrattenimento devoto e riflessivo alla commedia spirituale, recitata dalle novizie e poi dalle stesse monache per un pubblico ristretto.

Questo teatro, non solo ammesso in seno alla Chiesa, ma da essa anche promosso e regolato, si afferma mentre dalla metà del XVI secolo avanza con immensa fortuna il teatro dei professionisti: la Chiesa condanna quella che sarà poi detta commedia dell’arte servendosi più che di provvedimenti formali, parziali ed episodici, della predicazione, coscienziosa e capillare secondo le disposizioni tridentine. Gli antichi argomenti delle auctoritates contro istrioni pagani e giullari sono attualizzati in ragione degli aspetti specifici del moderno professionismo, vera e propria industria del divertimento: compagnie organizzate e itineranti, specializzazione drammaturgica (maschere e improvvisazione su canovaccio), economia di mercato (pubblico pagante indifferenziato). La novità maggiore è la presenza della donna, che mai aveva avuto un posto parimenti decisivo nella tradizione teatrale europea, pagana e cristiana: non più soltanto canterine o ballerine, come talvolta se n’erano viste, le donne dell’arte recitano come gli uomini ed esercitano una seduzione potente. Sulle scene dell’arte s’incarna l’anti-modello cristiano, facile, irrazionale, opposto a quello grave e pensoso del teatro dei dilettanti. I comici più coltivati rispondono ai detrattori affidando alle stampe la difesa morale del proprio mestiere e protestano la loro personale aspirazione alla perfezione cristiana, non disgiunta dalla disciplina recitativa quotidiana, esempio della possibilità di percorrere nel proprio stato la via della santità. D’altronde, l’offensiva ecclesiastica è di poco esito: al di fuori del tempo festivo, il successo è difficile da contenere e in assenza di testi drammatici scritti in forma distesa non lo si può nemmeno censurare preventivamente. Lo attestano, fra gli altri, i tentativi di Borromeo a Milano e di Paleotti a Bologna.

Le opposizioni della Chiesa vanno scemando nel XVIII secolo, mentre la pratica dilettantesca di uomini e donne si diffonde in ogni ambiente (i sacerdoti non sono rari), si aprono molti teatri pubblici, si rinnova il professionismo e, da Muratori (1706) fino a Manzoni (1823), si dibatte sulla riforma di generi, attori e recitazione per un teatro necessario alla maturazione morale della società. Nella disputa tra l’arcade Scipione Maffei, rinnovatore della tragedia italiana, assertore di un teatro aperto a tutti, e il domenicano Daniele Concina, che vuole la proibizione di ogni forma di spettacolo, Benedetto XIV si pronuncia a favore del primo (1753).

Il 1798-99 vede la Roma pontificia consacrata alla Repubblica dalle feste rivoluzionarie francesi: sulla resa di Pio VI a Napoleone si allestisce subito, alla Scala di Milano, senza che l’arcivescovo possa fermarlo, Il ballo del papa, pantomima del massone Fracncesco Saverio Salfi (1797). Nel processo risorgimentale, melodrammi, tragedie come quelle di Silvio Pellico, attori di rilievo come il mazziniano Gustavo Modena e i suoi allievi appassionano alla causa patriottica. Ma il nodo dei rapporti fra Stato e Chiesa impegna la censura teatrale prima e dopo l’unità, a tutela del sentimento religioso e dei rischi di scontro causati dagli attacchi alla figura del papa, ai religiosi (domenicani e gesuiti in ispecie), ai parroci: l’anticlericalismo, meditato o demagogico, caratterizza una gran quantità di drammi e commedie. Dopo la proclamazione del Regno le feste pontificie intendono rappresentare efficacemente, nei cortei splendidi, nella presenza delle milizie, negli apparati sontuosi, nelle allocuzioni ai prelati e ai fedeli spettatori, la potenza del capo di Roma e la gravità della minaccia sulla Chiesa: nel 1862, convenuti cardinali e vescovi da ogni parte dell’orbe cattolico, partecipe un’immensa folla, Pio IX canonizza i ventisei martiri uccisi in Giappone nel 1597 indicandoli esplicitamente come esempio del coraggio necessario a fronteggiare gli italiani nemici della religione. Una magnifica macchina pirotecnica, raffigurante la Gerusalemme dell’Apocalisse, incendiata per la Pasqua del 1870, è l’ultimo segno spettacolare della Roma dei papa-re.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Teatro - vol. II


Autore: Bernadette Majorana

Con l’unificazione nazionale la Chiesa non esercita più il potere politico e culturale che per quasi due millenni l’avevano resa attiva nel controllo e nella promozione delle manifestazioni teatrali: il contributo diretto del papato, della curia, degli ordini regolari, un tempo essenziale nel panorama spettacolare del Paese, e spesso dominante nella vita pubblica della società civile, diventa limitato e segmentato. Il legame fra teatro e fede permane in ambito popolare, col sostegno di vescovi e parroci: con quelle del calendario agricolo (maggio, Carnevale), canti, balli, narrazioni epiche o agiografiche, nel secondo Ottocento si rinsaldano forme drammatico-rituali legate alle maggiori feste cattoliche, soprattutto la Settimana santa e le feste patronali, espressione dei tempi forti dell’anno e di legami comunitari. Si afferma intanto, specialmente nelle città, una fitta offerta di spettacolo, articolata secondo i ritmi individuali della vita quotidiana e lavorativa. Il teatro è una pratica generalizzata, eterogenea, per tutti i ceti. In ogni centro del Regno si costruisce il teatro cittadino, emblema della progettualità civile e politica borghese: vi si dà soprattutto l’opera lirica, vero teatro nazionale. Il teatro drammatico è imperniato sui cosiddetti grandi attori, che accentrano su di sé tutta l’attenzione, incarnando prepotentemente il personaggio, subordinando alla interpretazione i testi (da Shakespeare ad Alfieri, a Goldoni, a Ibsen), dominando l’intero spazio scenico; gli autori operano per loro e spesso con loro. Acquistano influenza i critici professionisti.

Secondo la tendenza internazionale prevalente, la drammaturgia italiana si orienta verso il dramma borghese. L’impianto realista esalta i rapporti tra individuo e società e le psicologie dei personaggi (Verga, Giacosa, Carlo Bertolazzi); l’impiego del dialetto produce esiti notevoli. D’Annunzio compone le sue tragedie opponendosi al verismo (dal 1911, dopo l’ambigua sintesi erotico-sacra di Le Martyre de saint Sébastien, tutte le sue opere vengono messe all’Indice). Nelle inquietudini del Novecento, con mezzi sperimentali e rinnovati, da Pirandello, punto di riferimento della drammaturgia internazionale e della sperimentazione registica (Nobel per la letteratura 1934), al Massimo Bontempelli del realismo magico, all’espressionismo lirico di Pier Maria Rosso di San Secondo, all’inchiesta sulla verità e sulla responsabilità di Ugo Betti, la contraddizione tra intima autenticità e convenzioni sociali è sottoposta a critica radicale. I sacerdoti sono figure non rare sulle scene italiane: da buoni o da cattivi pastori partecipano delle tensioni delle coscienze, nel quadro minuto delle vicende quotidiane o negli scontri tra individui e morale comune, come l’abate infido del notissimo La morte civile di Paolo Giacometti (1861, con Ernesto Rossi) o i patrioti di Dall’ombra al sol di Libero Pilotto (1880, compagnia Moro Lin) e Prete Pero di Dario Niccodemi (1918, con Ermete Zacconi), sospeso dalla censura dopo gli attacchi della stampa cattolica; oppure sono provati da acuti patimenti interiori, come in Il piccolo santo di Roberto Bracco (1912, con Ferruccio Garavaglia). Al di là del credo degli autori e delle loro scelte estetiche, il teatro si fa anche documento culturale della religiosità degli italiani: rituale, superstiziosa quella di Cavalleria rusticana di Verga (1884, con Eleonora Duse) o di La figlia di Jorio di D’Annunzio (1904, con Irma Gramatica e Ruggero Ruggeri); bigotta, nell’universo familiare impietoso di Il rosario di De Roberto (1912, con Maria Melato); attraversata dalla tensione tra scienza e fede nei drammi di Enrico Annibale Butti; pervasa di una sacralità rivelata dalla bestemmia in Sagra del Signore della nave, o dogmatica, insidiata dal rifiuto del sacerdozio e dalla inspiegabilità del miracolo in Lazzaro, entrambi di Pirandello (1925, con Lamberto Picasso ed Egisto Olivieri; 1929, con Picasso e Marta Abba).

Più dei testi sono però la peculiare organizzazione degli attori italiani e il loro carisma recitativo a determinare il sistema teatrale e l’interesse degli spettatori. Riuniti in compagnie girovaghe, si spostano di città in città vivendo degli incassi delle rappresentazioni; fanno il loro apprendistato in scena (tranne pochi esperimenti, fino al 1935 non ci sono istituzioni accademiche per la formazione teatrale); i maggiori sono acclamati anche all’estero: la Duse esercita un’influenza senza pari in tutto il mondo. Guardano ai modelli recitativi dei professionisti anche le compagnie filodrammatiche, sorte negli ambienti più diversi. Il teatro è ritenuto un’utile pratica pedagogica nelle scuole, negli oratori, nelle parrocchie: si afferma in quest’ambito il teatro salesiano di don Bosco, inteso come esperienza edificante e ludica. In esso, il divieto di formare compagnie miste esprime il timore della promiscuità e delle seduzioni ravvisato nel teatro di mestiere, che in Italia è caratterizzato dalle famiglie d’arte, la cui vita fa tutt’uno col teatro, e dalla convivenza di uomini e donne al di fuori del sistema comunitario e domestico corrente. Benché non più richiamato in forma polemica, anche l’antico argomento teologico-morale della finzione come espressione della natura demoniaca di attori e attrici rimane sullo sfondo della percezione sociale che di essi generalmente si ha: un universo parallelo a quello delle persone comuni.

Il regime fascista attua una politica di accentramento dell’organizzazione delle tournée delle compagnie, a cui eroga finanziamenti statali, e della censura; controlla ugualmente le attività filodrammatiche. Nel 1933 si apre la sezione di prosa del Maggio musicale fiorentino: Jacques Copeau, uno dei massimi registi europei, allestisce nel chiostro di Santa Croce La rappresentazione di Santa Uliva, spettacolo subito leggendario, modello di una possibile rifondazione morale del teatro secondo la ricerca rigorosa e autenticamente religiosa di bellezza e verità, così come in Italia la concepisce anche Silvio D’Amico, critico e storico del teatro, poi fondatore dell’Accademia nazionale d’arte drammatica (Roma, 1935) e della Enciclopedia dello spettacolo, un progetto editoriale senza precedenti, avviato nel 1949. Dal 1934, a Venezia, è attiva la Biennale internazionale del teatro. Nel 1943, caduto Mussolini, alcuni giovani, marxisti e cattolici (Orazio Costa, Diego Fabbri, Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi, Tullio Pinelli), redigono un appello «Per un teatro del popolo», teatro d’impegno, libero di manifestare le aspirazioni morali e sociali degli italiani.

Col secondo dopoguerra, mentre provengono dalle scene meditazioni importanti come quelle di Eduardo De Filippo, attore-drammaturgo centrale nell’Italia a venire, il teatro s’impone come possibile condizione di ripresa civile. Vi contribuiscono alcune personalità del mondo cattolico: oltre a D’Amico, già molto autorevole, i citati Costa e Fabbri, l’uno regista e docente all’Accademia, dove forma generazioni di attori, l’altro drammaturgo, i cui personaggi sono posti sempre di fronte a un’opzione di fede, attivo nel nuovo sistema teatrale italiano; nonché Mario Apollonio, tra i fondatori del primo teatro stabile pubblico italiano, il Piccolo Teatro (Milano 1947), dal 1954 primo docente di storia del teatro in una università italiana, la Cattolica di Milano, dove esercita un influente magistero, basato sull’idea di comunità e coralità dell’esperienza teatrale.

I primi registi italiani (Costa, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Pandolfi, Gianfranco De Bosio, Luchino Visconti) basano le messinscene su una concezione unitaria di spettacolo e stile recitativo. Con la fine degli anni ’50 ciò che non appartiene al binomio teatro di regia-teatri stabili, assurto a norma delle scene italiane, è respinto ai margini. Si formano allora attività minoritarie, intenzionalmente separate dal teatro ufficiale, da cui emergono personalità come quelle formidabili di Carmelo Bene e Dario Fo (Nobel per la letteratura 1997), che con la sua rielaborazione attoriale e drammaturgica delle antiche pratiche comiche e affabulatorie rilegge in chiave politico-ideologica il conflitto tra umili e potenti: nel 1977 la trasmissione televisiva del suo Mistero buffo, rappresentato sin dal 1969, produce un duro scontro con la Chiesa che lo accusa di blasfemia tramite «L’Osservatore romano» e «Avvenire».

Tendendo a costruire una drammaturgia del corpo e dello spazio che esautori le pratiche del teatro borghese, quello di intrattenimento come quello impegnato, gruppi e singoli artisti diversi per ispirazione e metodi si accostano a maestri delle scene internazionali (Living Theatre, Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor, Peter Brook, Eugenio Barba), i cui spettacoli e modelli di lavoro irrompono con gli anni ’60 nella riflessione teorico-pratica, e guardano attentamente a talune esperienze cruciali di performance e contaminazione delle arti (Bread and Puppet Theater, Meredith Monk, Robert Wilson). In questi ambiti, negli anni ’70 e ’80 e in seguito, si manifestano esperienze e si delineano percorsi che, ispirati da istanze partecipative, rituali, festive, riconsiderano le pratiche della tradizione cristiana e la possibilità di reinventarla.

Sono polemici sia con la scena ufficiale sia con quella d’avanguardia drammaturghi come Pier Paolo Pasolini, che fonda le sue tragedie sulla fiducia nella parola, e Giovanni Testori, per il quale il teatro è esperienza lacerante, rivelatrice della complessità carnale e psichica dell’uomo corrotto, compenetrato col peccato, e insieme della sua appartenenza all’eterno: nel 1961, L’Arialda, regia di Visconti, viene sospesa per oscenità e offesa al pudore.

Negli stessi anni ’70-’80 il teatro è anche strumento di animazione sociale: è presente nelle scuole, negli oratori, nelle fabbriche, nei manicomi, nei carceri, nei quartieri decentrati; il rifiuto del teatro come prodotto corrisponde alla importanza attribuita al processo creativo e al diritto alla espressione per tutti. Le esperienze di ricerca sono feconde lungo tre generazioni di artisti, comunità, spettatori: con molte trasformazioni e innovazioni, si configurano come eccezioni nel panorama del teatro commerciale, anche di alto livello, e aspirano a restituire l’essenza del teatro nella interazione fra etica ed estetica.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Apollonio, Storia del teatro italiano, edizione critica a cura di F. Fiaschini, 2 voll., Rizzoli BUR, Milano, 2003; C. Bernardi, La drammaturgia della Settimana santa in Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1991; C. Bernardi, Il teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Carocci, Roma, 2004; S. D’Amico, Dramma sacro e profano, Tumminelli, Roma, 1942; S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, 4 voll., Rizzoli, Roma-Milano, 1939-1940; S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, Vita e pensiero, Milano, 2001; S. Dalla Palma, Il teatro e gli orizzonti del sacro, Vita e pensiero, Milano, 2001; C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Bulzoni, Roma, 2008 (prima ed. 1984); C. Meldolesi, La microsocietà degli attori. Una storia di tre secoli e più, «Inchiesta» (XIV/1984, n. 63-64), 102-111; O. Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano, 1975-1988. La ricerca dei gruppi. Materiali e documenti, La casa Usher, Firenze, 1988; P. Puppa, Tonache in scena, in T. Caliò – R. Rusconi (edd.), Le devozioni nella società di massa, «Sanctorum» (5/2008), 51-65; F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna, 1995.


LEMMARIO




Teologia - vol. I


Autore: Gianfranco Calabrese

Premessa. La teologia cristiana si è sviluppata nella penisola italiana, in ragione del tentativo di difendere, approfondire e proporre la verità dei misteri della fede, che la Chiesa, nei secoli, ha annunciato nella catechesi mistagogica, celebrato nella liturgia e testimoniato nella pastorale ecclesiale. La teologia, come disciplina scientifica, si è strutturata nella storia della Chiesa come risposta adeguata all’azione missionaria di evangelizzazione da parte della comunità dei credenti e come attenzione permanente della Chiesa alle sollecitazioni delle diverse tradizioni filosofico-culturali e alle molteplici esigenze socio-istituzionali. La teologia cristiana, come scienza della fede e della rivelazione, si è posta a servizio della comunità dei credenti, in dialogo con la storia, con il mondo, con le altre scienze e le altre teologie. Si cerca di descrivere qui la storia della teologia nel primo millennio fino al 1870 soffermandosi su alcune prospettive sintetiche e personalità significative che hanno contribuito a sviluppare il concetto di teologia nella Chiesa e nella cultura italiana. Ovviamente l’ampiezza del periodo storico comporta necessariamente una serie di scelte opinabili, che necessitano di un ulteriore approfondimento e rimandano ad una bibliografia. È possibile riassumere questo lungo periodo in due tappe: 1) Storia della teologia e teologia della storia. Partendo dalla necessità di comprendere e proporre le verità fondamentali della fede cristiana, la teologia ha acquistato, all’interno dello sviluppo storico-socio-culturale della penisola italiana, un ruolo sempre più strutturato e sistematico con lo scopo di evangelizzare l’impero romano e le popolazioni barbariche e per consolidare il ruolo della Chiesa e del vescovo di Roma, dopo lo scisma d’Oriente e la nascita dello Stato pontificio. Questo ha reso possibile la formazione di una teologia cristiana, come disciplina centrale nel Medioevo, soprattutto con la Scolastica; 2) Lo sviluppo della teologia verso l’unità d’Italia. Il rinascimento, la riforma protestante, la riforma cattolica, la nascita e lo sviluppo del mondo moderno con l’illuminismo, l’unità d’Italia, il concilio di Trento e il concilio Vaticano I sono il contesto storico-culturale, nel quale si è formata e strutturata la teologia apologetica e giustificativa dell’ottocento in Italia. Queste due tappe fanno da cornice ad altri fondamentali passaggi, che giustificano la formazione di una teologia cristiana, che condurrà la Chiesa a celebrare il concilio Vaticano I, mentre l’Italia raggiungerà la sua unità politico-amministrativa.

Storia della teologia e teologia della storia: la storia come luogo “teologico”. I contenuti della teologia hanno una loro autonomia e oggettività, tuttavia sono anche il risultato di una riflessione e di una ricerca che ha avuto come protagonisti soggetti differenti, che hanno accolto e studiato la realtà secondo sensibilità culturali diverse. Interpellati da esigenze concrete i primi Padri della Chiesa e i teologi del secondo II° hanno iniziato una riflessione credente, attenta alla storia e alla cultura dei diversi popoli, per elaborare un linguaggio adeguato all’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo ai diversi popoli, per chiarire la canonicità dei libri della rivelazione e il valore della tradizione orale, soprattutto in riferimento all’insegnamento degli apostoli. Tutto questo processo ha avuto bisogno di tempo. Su di esso hanno influito molteplici fattori storico-ambientali, socio-ecclesiali e interpersonali. Questo processo, anche se non se ne possiede una precisa documentazione, ha trovato un proprio sviluppo nella penisola italiana, in parallelo con l’azione missionaria e con la graduale diffusione della comunità cristiana sul territorio, a cominciare da Roma, fino all’intero Impero romano. Di questo processo si trova testimonianza nella lettera di S. Paolo ai Romani, nella lettera di S Pietro e nel loro martirio a Roma. I rappresentanti della teologia apologetica dei primi secoli dell’era cristiana, oltre a volersi confrontare con alcune personalità significative della società e della cultura, latina e greca, presenti a Roma, hanno accolto ed elaborato una visione della storia e della filosofia positiva, anche se segnata dall’idolatria e dal paganesimo, in quanto inserita in una concezione credente della storia, in una teologia della storia della salvezza, come “preparatio evangelica”, al pari dei profeti dell’Antico testamento. Lo Spirito Santo, che illumina i discepoli di Cristo e guida la riflessione della Chiesa, ha condotto i profeti dell’antica alleanza e i sapienti del mondo pagano all’incontro e al confronto con la fede cristiana. La teologia dei primi secoli accoglie, valuta e discerne, da una parte, la rivelazione nella sua dinamicità e nel suo sviluppo e, dall’altra, la presenza e l’azione dello Spirito Santo nella storia degli uomini.

Il primo elemento che una storia dello sviluppo della teologia in Italia può evidenziare è la presenza nei primi secoli della Chiesa, di diversi livelli di riflessione teologica: l’approfondimento e la difesa del contenuto della fede (cristologico e uni-trinitario); la definizione della verità cristiana; l’incontro e lo scontro tra la riflessione patristica e teologica e il contesto socio-culturale del mondo pagano; l’elaborazione e la proposizione significativa della fede cristiana. Le prime elaborazioni teologiche sono il frutto della sinergia di queste riflessioni necessarie per l’azione missionaria e evangelizzatrice della Chiesa nell’Impero romano e all’interno della cultura latina. La presenza sul territorio italiano della città di Roma, capitale dell’impero romano, e sede del vescovo di Roma, successore di Pietro (elemento oggettivo, storico e geografico) ha condizionato necessariamente lo sviluppo della Chiesa cattolica e la stessa riflessione teologica intorno ad alcune questioni dottrinali e dell’istituzione ecclesiastica. Il dibattito tra alcune significative personalità della Chiesa sul territorio della penisola, Ippolito, Clemente romano, Giustino, Ambrogio, Leone Magno, ha influenzato fin dagli inizi la teologia in Italia (elemento soggettivo). In questa prospettiva una storia della teologia non può prescindere né dagli eventi storico-culturali né dalla stessa disposizione geografica e territoriale, ma deve tener presente l’insieme di tutti i fattori per presentare in modo adeguato la riflessione credente intorno a questioni teologiche fondamentali come il primato e l’infallibilità del Papa, il simbolo di fede niceno-costantinopolitano e l’aggiunta del Filioque; la nascita e lo sviluppo del potere temporale e dello Stato pontificio; il concilio e i sinodi generali e particolari; la lotta contro le eresie e la definizione di alcuni fondamentali dogmi della fede cristiana. Questa contestualizzazione del dato teologico, quest’attenzione della storia della Chiesa e della teologia al territorio, permette di giustificare le elaborazioni teologiche di quest’epoca e di comprendere alcune verità di fede. I Padri della Chiesa latina e gli altri teologi, che hanno operato sul territorio della penisola, hanno elaborato una metodologia teologica, attenta alla cultura e alla storia dei popoli sul territorio peninsulare. La teologia, elaborata nei primi secoli (II-III secolo d.C.), di fatto, è il frutto dell’azione di tre dimensioni, che hanno inciso sui primi passi della teologia cristiana e l’hanno resa ciò che è attualmente: la dimensione della fede, che rimanda alla rivelazione; la dimensione storico-culturale, che fa riferimento al mondo greco e latino e contribuisce all’opera di inculturazione della fede; la dimensione socio-ecclesiale, che permette alla Chiesa di formare cristiani adulti, capaci di “dare ragione della fede”.

In questa prospettiva la teologia cristiana, e in particolare l’apologetica ha cercato di rispondere ad eresie come l’arianesimo e il pelagianesimo, che potevano vanificare o distruggere l’originalità delle fede cristiana, anche grazie all’opera di Gregorio Magno e S. Ambrogio; si è occupata dell’organizzazione istituzionale ed ecclesiastica della Chiesa e della soluzione di questioni pratiche e giuridiche. Questo percorso ha condotto la teologia ad appropriarsi di alcuni termini della cultura e della tradizione latina e romana, di alcuni concetti filosofici dei pensatori pagani e di alcune esperienze amministrative dello stesso Impero romano, in particolare, dopo l’editto di Costantino (313 d.C.) e di Teodosio (391 d.C.). Questi primi secoli sono caratterizzati dalla volontà di valorizzare la singolarità della salvezza cristiana rispetto agli altri culti e alle altre impostazioni filosofiche, morali e giuridiche. La riflessione teologica nella penisola italiana diventa feconda e vivace attraverso l’azione di importanti pensatori cristiani e lo svolgimento di sinodi e concili, locali e regionali. La teologia fino alla riforma protestante tenta di strutturarsi all’interno di una legittima mediazione, culturale e teologica, legata ai diversi ambienti sociali. Questa interrelazione ha permesso alla fede cristiana di diventare significativa e rilevante a livello personale e sociale, ecclesiale e civile nel primo millennio. D’altronde l’attenzione all’uomo e alla sua salvezza è stata la ragione principale dell’evangelizzazione e della ricerca teologica. La teologia è nata e si è sviluppata come tentativo di proporre la credibilità della rivelazione cristiana, l’originalità del mistero di Dio e di Cristo, la singolarità della salvezza e la peculiarità della mediazione della Chiesa e dei suoi sacramenti.

La formazione di una teologia cristiana fino al IX secolo: l’inculturazione della fede nell’Impero romano d’Occidente e tra i nuovi popoli barbari. Dopo la pentecoste, con il martirio di Stefano a Gerusalemme e la conversione di Paolo (30-31 d.C.), gli apostoli e i primi cristiani iniziano il loro pellegrinaggio lungo le strade del mondo. Interpellati dalle culture e dai diversi popoli e motivati dalle decisioni dell’assemblea di Gerusalemme (At. 15, 22-29), testimoniano la possibilità di vivere la fedeltà all’annuncio di Gesù Cristo, con l’aiuto dello Spirito Santo, nel rispetto di alcuni precetti e nell’attenzione alla novità del dono definitivo della salvezza. Il riconoscimento di Gesù, Messia atteso e Signore risorto, è il fondamento della fede, della chiamata universale alla salvezza con il primato della grazia sulla legge. La fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, è la ragion d’essere della costituzione della nuova comunità dei cristiani, la Chiesa, fondata non più sull’antica legge, ma sulla nuova ed eterna alleanza e sul dono dello Spirito. Le prime eresie e le conseguenti chiarificazioni nella Chiesa primitiva riguardano le questioni dottrinali e morali, caratterizzanti la prospettiva cristiana rispetto all’ebraismo e al paganesimo: ebionismo, gnosticismo, manicheismo, montanismo, arianesimo, docetismo, pelagianesimo. I primi pensatori cristiani cercano, anche durante il periodo delle persecuzioni, di non concepire la fede cristiana come un evento solo culturale, religioso e filosofico, ma come un evento esistenziale. Per questo, per entrare nella comunità cristiana, è necessario un cammino iniziatico non magico, ma mistagogico. La natura popolare della proposta evangelica facilita la diffusione del cristianesimo e il dialogo con le altre religioni e concezioni filosofiche, presenti sul territorio imperiale. Per questo la nascita in questo primo periodo di numerose comunità cristiane è segno non solo di una vivacità missionaria, ma anche dottrinale e culturale.

A Roma la presenza dei cristiani è testimoniata dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, scritta verso l’anno 56 a Corinto (Rm. 15, 23). Invece, la Prima lettera di Pietro è scritta a Roma e inviata ai cristiani dell’Asia Minore. Il Vangelo di Marco, come è testimoniato da molte fonti, è composto nella città di Roma. Sia Pietro nel 65 d.C. che Paolo nel 67 d.C. circa subiscono il martirio sotto la persecuzione di Nerone (54-68). Questo imperatore, come ci ricorda Tacito († ca 117) condannò «una grande moltitudine di cristiani ad essere uccisi» (Annali, 15, 44). Svetonio (+ dopo il 130) (Vite dei Cesari, Nerone 16,2) riporta la notizia che l’imperatore Claudio (41-54) «espulse da Roma giudei, che erano in continua agitazione per istigazione di Cresto». Queste informazioni ci permettono di comprendere ciò che viene affermato in Atti 18,2: «Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudei di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordinanza di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei». Queste notizie dimostrano il fatto che a Roma, centro dell’Impero romano e fuori dalla penisola, esistono comunità cristiane, vivaci e missionarie. La comunicazione della fede caratterizza il ruolo del cristianesimo anche durante il regno dei Visigoti (418-711), degli Ostrogoti (489-552) con Teodorico il grande (489-526), dei Longobardi (568-774), prima ariani e persecutori dei cristiani fedeli alla tradizione niceno-costantinopolitana e, dopo l’editto di Rotari (652),divenuti cristiani ortodossi. E, infine, durante il regno dei Normanni, il filosofo Boezio (480 c.-524) ha avuto un ruolo fondamentale. La sua azione ha contribuito ad impostare una teologia aperta alla sensibilità dei popoli barbari, ormai amministratori e dominatori della penisola. Egli, come consigliere e maestro di palazzo di Teodorico, ha contribuito ad elaborare una teologia, capace di coniugare la cultura greco-latina e classico-cristiana con il germanismo.

Un altro aspetto, che deve essere tenuto presente, è il ruolo che il vescovo di Roma ha avuto in Occidente e particolarmente in Italia, in particolare con Leone Magno (440-461) e Gregorio Magno (590-604). Questo ruolo ha avuto un forte impulso dopo la decisione dell’imperatore Costantino di spostare la sede imperiale a Bisanzio in Oriente e in Occidente a Ravenna. Tuttavia, anche la discussione su alcune questioni teologiche e la necessità di stabilire una chiara tradizione apostolica, hanno contribuito a rinforzare il potere della Chiesa di Roma e del suo vescovo su tutte le altre sedi episcopali. In quest’ottica la teologia sul papato, dopo la donazione di Pipino (754 d.C.), re dei Franchi, diventa giustificativa di un primato e di una magistero non solo spirituale, ma giuridico e temporale sulla Chiesa universale. La stessa incoronazione di Carlo Magno a Roma da parte di Leone II (800 d.C.) di fatto è l’inizio di una nuova concezione teologica e giuridico-pastorale del papato e della Chiesa di Roma. È con questo gesto fortemente simbolico e politico che nasce il Sacro Romano Impero e la teologia della della «societas perfecta», la visione piramidale della Chiesa. La lotta dei regni cristiani contro l’Islam, contro i Saraceni, la guerra dei Normanni e la loro riconquista della Sicilia (1071-1072), la concezione monocratica, religiosa e politica della religione islamica rinforzano, di fatto, la visione teocratica medievale e la concezione ideologica, politica ed istituzionale della teologia cattolica, giustificando la persecuzione degli infedeli e degli eretici, persone considerate non solo pericolose per la purezza e per l’ortodossia della fede, ma anche per l’unità e l’armonia della società, per la sicurezza e l’ordine sociale, civile e religioso dell’Occidente. L’alleanza tra il trono e l’altare trova nella teologia del potere del papato, nell’idea della “sacra potestas” imperiale, nella salvezza delle anime e nella ricerca della vita eterna il fine di tutto l’impegno sociale e religioso della teologia.

La Chiesa di Roma e la formazione della teologia cristiana. A Roma è possibile ritrovare, già nel secondo secolo, un vivace dibattito tra le comunità ebraiche, il giudaismo ellenico (Filone) e le prime comunità cristiane, formate sia dai giudeocristiani sia da alcuni pagani convertiti. Al tempo stesso, dopo la definitiva separazione della Chiesa dalla sinagoga e la distruzione del tempio di Gerusalemme, si verifica una significativa chiarificazione e la peculiarità della visione religiosa cristiana rispetto alla religione ebraica e pagana. Indicazioni di questo dibattito sono presenti già nelle lettere di Pietro e di Paolo. In seguito si ritrovano nella Chiesa post-apostolica, nella Lettera di Clemente Romano ai Corinzi (circa 96 d.C.), nel Pastore di Erma e, ancora, nella seconda parte del secondo secolo nella riflessione patristica, apologetica (Giustino, Atenagora, Ireneo di Lione) e negli scrittori latini come Minuccio Felice, Tertulliano. In questa situazione alcune verità della fede cristiana che interessavano la dottrina e la morale della Chiesa di Roma e che richiedono un approfondimento: il mistero di Cristo e la sua identità divino-umana: la missione salvifica, cosmica e universale della Chiesa; il mistero di Dio, uno e trino, e l’identità personale e divina del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; la missione della Chiesa e la sua costituzione gerarchica; la mediazione liturgico-sacramentale della salvezza; l’azione pastorale, caritativa ed evangelizzatrice della Chiesa.

Se il primo “tentativo teologico” conduce alla dottrina del Logos di Giustino (verso il 150 d.C.), il desiderio di elaborare un collegamento tra la rivelazione biblica e la filosofia greca si ritrova in Valentino, gnostico, e nella sua scuola verso il 140 d.C. in una cosciente, strutturata elaborazione teologica cristiana. Per riuscire a raggiungere una precisazione terminologica, fedele e rispettosa del dato rivelato ci vorrà, tuttavia, molto tempo e una vivace discussone all’interno della Chiesa. Le proto-eresie cristologiche e teologiche, che si sono sviluppate nello stesso ambiente cristiano, sono un segno del drammatico ma necessario percorso teologico, iniziato in un contesto particolare come l’Oriente con la necessità di un’attenta rielaborazione dottrinale e terminologica, per poter incidere su sensibilità diverse, radicate su un nuovo territorio come quello italiano. Roma fin dall’inizio è una città di immigrati e un «centro di incontro di personalità dotte». Il cristianesimo, che all’inizio si era sviluppato tra le classi più povere, con il passare del tempo comincia a suscitare interesse in alcune figure influenti dell’ambiente romano e della penisola italica. Le persecuzioni dei cristiani, prima legate a querele private (60-200 d.C.), poi apertamente indirizzare alla stessa organizzazione della Chiesa (200-249), e, infine, sistematiche e di massa, soprattutto sotto Decio, Valeriano e Diocleziano (249-305), non hanno, tuttavia, fermato lo sviluppo della Chiesa sul territorio né le discussioni teologiche e dottrinali della Chiesa. La teologia all’inizio cerca di fondare l’unicità della salvezza cristiana in alternativa alle altre teologie, ebraica e pagana. In seguito, dopo il riconoscimento ufficiale e la confessione pubblica della fede in Cristo, può concentrarsi sull’approfondimento, nel dialogo e nel confronto, con il patrimonio culturale greco-latino e romano (cfr. Col. 1, 12-20).

La teologia cristiana e la ricerca della formulazione di una fede ortodossa. L’editto di tolleranza dell’imperatore Galerio (311), l’editto di Milano con Costantino (313) e l’editto di Teodosio con il divieto dei culti pagani (391), trasformano il cristianesimo in religione ufficiale dell’Impero romano e sostengono ogni discussione teologica, al fine di sconfiggere le eresie ed estendere l’ortodossia. Per questo le assemblee conciliari e i sinodi sia in Oriente sia in Occidente, vengono favoriti dagli imperatori e dalla autorità civili e, in alcune occasioni, da loro stessi convocati. Le stesse dedizioni, dottrinali e disciplinari, vengono appoggiate e imposte dal potere politico. I concili generali e provinciali permettono ai papi, ai vescovi e ai teologi di discutere e condannare alcune eresie (l’arianesimo, la controversia apollinarista, il donatismo, i pneumatomachi, la controversia nestoriana, il pelagianesimo) e anche di sviluppare una fondamentale teologia sul mistero di Cristo e di Dio, sulla vergine Maria e sulla salvezza cristiana, a partire dai riferimenti biblici, dalla fedeltà alla tradizione e al magistero della Chiesa, nel dialogo con la cultura greco-latina e, in seguito, con i popoli barbari. Questo percorso teologico ha anche permesso di elaborare una professione di fede, ecclesiale, liturgica e battesimale. I molteplici concili sono stati preparati da un vivace dibattito teologico e hanno stimolato in seguito la ricerca e l’elaborazione teologica. Il primo concilio ecumenico si è svolto a Nicea (325) contro l’arianesimo; il secondo a Costantinopoli (381) contro i pnematomachi e i semiariani; il terzo a Efeso (431) contro il nestorianesimo; il quarto a Calcedonia (451) contro il monofisismo. Non sono di secondaria importanza per lo sviluppo della riflessione teologica gli altri concili ecumenici: il quinto a Costantinopoli II (553) contro i Tre Capitoli; il sesto a Costantinopoli III (680-681) contro il monotelismo e monoenergismo; il settimo a Nicea II (787) contro l’iconoclasmo; l’ottavo a Costantinopoli IV (869-870) per affrontare la controversia foziana. Questi importanti concili generali sono stati preceduti, preparati o recepiti da concili, che si sono svolti a Roma (368) e in altre importanti diocesi presenti nella penisola come per esempio a Milano (a partire dal 345), ad Aquileia (381), a Capua (382) e a Torino (398). Il cammino sinodale e conciliare della Chiesa in Italia trova il proprio riferimento in alcune personalità significative come i vescovi Lucifero di Cagliari; Eusebio di Vercelli, Dionigi di Milano, S. Zeno di Verona, papa Damaso (366-84), S Ambrogio e il suo successore Simpliciano, S Leone Magno, S Gregorio Magno e S Benedetto.

Il dibattito teologico del periodo post-costantiniano se ha contribuito a sviluppare la conoscenza della fede cristiana e la riflessione teologica, ha purtroppo giustificato un’ingerenza del potere civile all’interno di alcune questioni specificatamente religiose e dottrinali e, con il tempo, ha finito per facilitare l’uso strumentale della fede per interessi politici. La stessa teologia ha subito questa sorte, finendo per appoggiare e giustificare, in modo ideologico, alcune posizioni politiche e alcune correnti sociali. In questo la lotta tra l’arianesimo dei dominatori goti e longobardi (Odoacre e Teodorico) e l’ortodossia degli imperatori bizantini e del vescovo di Roma sono un esempio paradigmatico dell’uso strumentale e condizionante della teologia. Il riconoscimento ufficiale del cristianesimo ha anche favorito lo sviluppo di una molteplicità di sedi e diocesi e ha stimolato la riflessione teologica circa la funzione del ministero presbiterale, il ruolo del vescovo e del Papa e l’impegno della Chiesa nella difesa dei poveri e nella giustizia sociale. L’incremento della vita consacrata come testimonianza della sequela radicale di Cristo ha ritrovato nella stessa teologia un riferimento costante. La nascita della vita eremitica, cenobitica, monastica e religiosa ha espresso grandi figure di santi, di teologi e mistici, che con le loro opere e i loro scritti hanno influenzato la riflessione teologica, la spiritualità e la pastorale della Chiesa nel primo millennio.

L’affermazione del cristianesimo ha facilitato anche la nascita di alcune scuole teologiche come quella di Alessandria e di Antiochia, che hanno influenzato il dibattito teologico nella comunità di Roma e in altre sedi episcopali come Milano, la capitale del regno dei Longobardi, Aquileia e Ravenna, all’inizio bizantina e in seguito, dopo la conquista degli Ostrogoti, capitale del loro regno. È interessante la presenza all’interno delle Chiese di Roma, Aquileia e Milano di diverse correnti teologiche e, soprattutto, di differenti tradizioni rituali e liturgiche. A Milano la grande figura di S. Ambrogio (339-397) influenza notevolmente il rapporto tra la Chiesa e l’Impero. La teologia di Ambrogio, rivendicando la piena libertà nei riguardi del potere politico, sottolinea il valore della tradizione e la necessità della fedeltà alla Sacra Scrittura e al magistero della Chiesa e mette in evidenza la necessità di mantenere una costante relazione tra ciascuna verità della fede cristiana e il mistero di Dio, uno e trino. La Chiesa di Aquileia con il vescovo Teodoro (circa 308-315) ha un ruolo fondamentale per l’affermazione dell’ortodossia contro le eresie cristologiche e trinitarie. Nel 381 ad Aquileia viene convocato un concilio di 32 vescovi, nel quale è confermata la consustanzialità e la coeternità del Padre e del Figlio secondo la fede di Nicea. Alcune ragioni storiche e socio-ecclesiali sono all’origine dell’elaborazione di una teologia della funzione del vescovo di Roma soprattutto nella Chiesa d’Occidente: il cristianesimo come religione ufficiale, la funzione pubblica dei vescovi e dello stesso Papa, lo sviluppo del potere amministrativo e religioso, l’appropriazione di alcuni titoli religiosi e civili pagani (Sommo pontefice), la divisione dell’Impero romano, la celebrazione di importanti sinodi locali anche a Roma (il primo concilio è nel 252 presieduto dal papa Cornelio), il ruolo del vescovo di Roma nella diffusione del cristianesimo nell’Italia centrale e meridionale attraverso le vie consolari, la funzione del vescovo di Roma nelle controversie delle chiese locali, la costituzione dei regni barbarici e la loro lotta politica interna e con l’impero d’Oriente fino al drammatico scisma del 1054 tra Roma e Costantinopoli. Sin dai primi secoli sia i Padri della Chiesa sia i teologi hanno legato la funzione del vescovo di Roma al martirio, come garante della fedeltà al deposito della fede e come principio di comunione nella Chiesa, e alla testimonianza di fede degli apostoli Pietro e Paolo e alla presenza della loro tomba a Roma. In questo contesto il ruolo del vescovo di Roma diventa anche amministrativo e sociale, causando un’accentuazione della sua autorità, sia primaziale sia magisteriale, sulle altre chiese, trasformando un ruolo riconosciuto in un ruolo imposto. All’interno di questo sviluppo teologico-sociale il pontificato di Leone Magno (440-461) ha un influsso notevole. Si deve a Leone Magno l’attribuzione al vescovo di Roma del titolo di “vedetta” o “sentinella” per indicare la funzione di vigilantia, di sollecitudo e di auctoritas del Papa nei riguardi delle altre chiese: «Se non interveniamo con la vigilanza (vigilantia) che a noi spetta, non potremo scusarci presso colui che ha voluto che noi siamo la sentinella (qui nos speculatores esse voluit)» (Epist. 4,1 [PL 54, 610B]). Lo stesso Leone al termine “successore” preferisce quello di “vicario di Pietro” sulla sede di Roma, affermando che «il beatissimo apostolo Pietro non cessa di presiedere sulla propria sede» (Sermo 5,4 [PL 54, 153-155]). Gregorio Magno (540-604 d.C.), dopo aver seguito la carriera politica ed essere diventato prefetto di Roma, avendo abbandonato tutto per seguire la vita monastica, è ordinato diacono e inviato come legato pontificio a Costantinopoli. Questo percorso di vita permette di comprendere il valore del suo ministero come Papa. Eletto nel 590 d.C. si dimostra vero pastore della Chiesa nella cura dei poveri e nella diffusione della fede. La sua formazione giuridica e politica e la conoscenza della Chiesa d’Oriente lo rendono anche un buon amministratore e un fine diplomatico a servizio del bene della Chiesa universale. La formazione monastica e la cultura teologica gli permettono di scrivere molti trattati di morale e di teologia, che hanno influenzato la riflessione e il magistero dei secoli seguenti. Altri eventi che contribuiscono a sviluppare il ruolo del vescovo di Roma e a consolidare una teologia del papato, sono: l’appoggio dato al monachesimo benedettino e alle missioni nella penisola italiana e nel continente europeo come la missione scoto-irlandese, la missione anglosassone e la missione franca.

La teologia monastica e l’edificazione della «societas cristiana». La possibilità per la teologia cristiana di esprimere la propria capacità di assimilazione, di stimolo e di integrazione nei riguardi delle diverse culture trova nel monachesimo in Occidente un’esperienza significativa e incisiva. Il monachesimo viene portato nella penisola verso la metà del IV secolo da Atanasio (295-373) durante il suo esilio a Roma. Tuttavia sia Cassiodoro (490c.-583) in Calabria con la redazione della sua «enciclopedia», che Benedetto (480-547) contribuiscono allo sviluppo del monachesimo nella penisola italica. La vita e la teologia monastica nascono come tentativo di coniugare lo stile di vita agricola, comunitario e familiare, con la cultura classica, la proposta cristiana e la sapienza greco-latina. Si cerca di superare la semplice ripetizione degli schemi classici rispetto ad alcuni nodi antropologici, sociologici e teologici fondamentali come la relazione tra ragione, volontà e fede, tra intelletto e amore, tra il valore della persona con i suoi diritti individuali e il valore della comunità dei credenti e della comunione dei popoli, tra la libertà degli individui e dei credenti e l’autorità del capo come guida della comunità. L’esperienza e la teologia monastica hanno sviluppato un percorso possibile intorno a questi nodi tematici, secondo il modello gnostico-sapienziale della tradizione biblica e patristica. Esso caratterizzerà l’alto-medioevo e la rinascita benedettina e giustificherà con Carlo Magno la riforma carolingia. I monasteri con lo sviluppo delle attività religiose e sociali e la diffusione su tutto il territorio, diventeranno il centro dello sviluppo culturale, ecclesiale, sociale e teologico del periodo che condurrà al rinascimento. L’impostazione monastica, rispondente alla Regola di Benedetto, diventa un modello per la stessa organizzazione feudale della società e della Chiesa. Nel monastero, piccola cittadella e micro-società autosufficiente, l’insieme delle attività spirituali, pratiche ed economiche («ora et labora») trova una sua unità e armonia a partire dai principi della teologia cristiana. Nonostante la distruzione e le successive ricostruzioni del monastero di Montecassino (fondato verso il 529, distrutto dai Longobardi nel 581 d. C. e dai Saraceni nell’883d.C.) il monachesimo di Benedetto trova un grande sostenitore in Gregorio Magno. Quando nel 774 a Susa il sovrano franco Carlo Magno sconfigge i Longobardi, la rinascita benedettina diventa l’anima della stessa rinascita culturale e religiosa carolingia. La «societas cristiana», modello profetico e anticipazione del regno di Dio sulla terra, troverà nella forma monastica un segno concreto, sul quale si modellerà la «societas medievale». In questa prospettiva teologica e socio-culturale l’essere cristiano e l’essere cittadino diventa coincidente, in una visione d’armonia antropologica, sociale, religiosa ed ecclesiale.

La teologia, il Sacro Romano Impero e la Chiesa medievale (secc. IX-XIII). Dopo che Odoacre aveva deposto l’imperatore Romolo Augustolo e mandato le insegne imperiali all’imperatore d’Oriente, che gli aveva accordato il titolo di Patrizio Romano e aveva sancito la fine dell’Impero romano d’Occidente, diverse popolazioni del nord avevano invaso e saccheggiato la penisola. La Chiesa con la sua struttura sul territorio era stata nella concretezza della vita quotidiana, l’unico punto di riferimento per coloro che abitavano le città e i villaggi. I monasteri, come cittadelle fortificate, erano diventati centri non solo religiosi ma anche civili per la difesa di tutti coloro che risiedevano nella penisola e nelle isole. La conversione poi di alcuni re barbari al cristianesimo (gli Ostrogoti e, in seguito, gli ariani Longobardi all’ortodossia) di fatto aveva consolidato l’influenza della Chiesa sul potere politico e sulla stessa amministrazione civile. L’incoronazione il 25 dicembre dell’800 di Carlo Magno da parte di papa Leone III (783-816) nella Chiesa di S. Pietro, induce la possibilità di realizzare una nuova unità tra il potere civile e il potere religioso, che si era spezzata con la fine dell’Impero romano d’Occidente. La rinascita carolingia permette di realizzare un nuovo e grande impero in Occidente, sotto l’influenza cristiana e con la sacra benedizione del vescovo di Roma: il Sacro Romano Impero. I Franchi fin dall’inizio legano strettamente il loro potere alla difesa del cristianesimo sui loro territori: il re franco Clodoveo nel 496 era stato battezzato a Reims, Carlo Martello a Poitiers aveva sconfitto nel 732 gli Arabi. Pipino il Breve, unto re dal papa Stefano II (752-757), riconosce i possedimenti e i lasciti ereditati dalla Chiesa di Roma per la convenzione di Milano nel 313 d.C. E vi aggiunge nel 754 d.C. anche l’esarcato di Ravenna e la Pentapoli. Con questa Donazione, con la seguente estensione dei possedimenti pontifici nell’Italia centrale, si costituisce un influente ed esteso Stato della Chiesa nella penisola. Il potere temporale del pontefice, la sua influenza sia sul regno dei Franchi, sia nel X secolo, sul regno degli Ottoni si consolida con Gregorio VII (1073-1085 d.C.). Lo scisma tra Roma e Costantinopoli nel 1054, la lotta di Gregorio VII contro Enrico IV, la riconquista normanna della Sicilia (1071-1072 d.C.), l’elezione del Papa da parte dei cardinali e il grande concilio di Piacenza del 1095, con le sue decisioni riguardo al rapporto tra i vari gruppi nella Chiesa, l’indizione della Prima Crociata e la relazione della Chiesa con l’imperatore tedesco contribuiscono a sviluppare una teologia del papato e della Chiesa secondo una visione societaria, piramidale e gerarchica. Essa pone al centro di ogni elaborazione teologica il principio dell’autorità e l’origine divina del potere civile. Tale autorità è anche il principio unitario ed armonico della missione della Chiesa nel mondo e della pace sociale. L’incidenza storica del binomio Sacerdotium-Regnum, propria della teologia carolingia, dove l’imperatore in terra è l’immagine analogica della monarchia celeste, giustifica la concezione secondo la quale Chiesa forma con il potere regale un’unica “societas” cristiana.

La teologia nel periodo medievale. Nel periodo che gli storici definiscono alto Medioevo (692-1073) e basso Medioevo (1073-1294) non solo si estende il potere spirituale, culturale, amministrativo e socio-politico della Chiesa sul territorio della penisola, ma la stessa disciplina teologica, nell’alto Medioevo, si struttura, si sviluppa e progressivamente, come la Chiesa-istituzione, diventa: a) teologia confessante, di palazzo, legata agli interessi e alle esigenze storico-culturali (esempi evidenti sono: l’aggiunta del «Filioque» nel Simbolo niceno-costantinopolitano e il concilio generale franco del 794 d.C. che respinge i decreti del concilio di Nicea del 787 d.C. sul senso e sulla la liceità delle immagini); b) teologia mistica, religiosa e spirituale, che si sviluppa nei monasteri e afferma il primato della dimensione trascendente sulla realtà storica e sociale. Nel basso Medioevo, invece, la teologia si caratterizza come c) teologia scolastica, che contribuisce a conservare e a consolidare la visione gerarchica e piramidale della Chiesa e della stessa conoscenza umana con la ricerca di un metodo filosofico-teologico particolare, presso le grandi Università vicine ad alcune importanti cattedrali medievali, cercando di penetrare razionalmente nel patrimonio della fede cristiana; d) teologia monastica, che continua comunque a sviluppare la riflessione teologica attenta alla dimensione spirituale e esistenziale, che rimanda alle grandi Scuole dei monasteri e alla spiritualità dei nuovi ordini religiosi .

La teologia scolastica con le Summae nel tentativo di conciliare la scienza con la fede, le due fonti, la ragione umana e la rivelazione, la dialettica critica e quella argomentativa, di fatto elabora un metodo sistematico ed enciclopedico, capace di giustificare il patrimonio della fede, l’autorità del magistero del Papa e difendere la libertà della Chiesa in rapporto ad ogni altro potere umano e dialogare con le altre tradizioni e culture, anche con quella islamica. La teologia monastica, invece, afferma l’ortodossia della fede seguendo la via della spiritualità dell’Amore, l’accoglienza obbediente e adorante della rivelazione, il riconoscimento della regalità divina e l’attesa escatologica del regno di Dio. La teologia nel basso Medioevo giustifica teoricamente l’armonia tra il potere temporale e il potere spirituale e contribuisce a costruire una visione sacrale della storia, una visione unitaria tra la città degli uomini e la città di Dio, dentro la quale la Chiesa terrena è chiamata ad essere una profezia e un segno visibile del Regno. È la teologia confessante del primato di Dio, creatore e redentore dell’universo. La teologia e il cristianesimo sono, in questa prospettiva, il vertice di ogni conoscenza umana e di ogni evento terreno. La civiltà e la cultura feudale non sono solo un modo di concepire il potere civile, ma anche una visione teologica. Tale visione è cristiana, in quanto il mistero di Cristo è il centro della rivelazione e della pienezza della storia; è gerarchica, perché ordinata secondo alcuni criteri precisi, rivelati da Dio; è piramidale, dal momento che riceve dall’alto i propri principi veritativi (discendenti e ascendenti); è ideologica, in quanto, anche se si esercita nel rispetto della ragione umana, non può prescindere dalla rivelazione e deve essere accolta nell’obbedienza della fede; è sistematica e totalizzante, perché cerca e propone una sintesi omni-comprensiva della realtà cristiana, come riflesso della sintesi tra la trascendenza della storia divina e l’immanenza della storia umana.

La Chiesa e la cultura medievale italiana: la teologia e le eresie. La teologia scolastica e la teologia mistica e monastica hanno, a loro modo, contribuito alla sintesi medievale, alla visione unitaria e sacrale della cultura occidentale, al ruolo prioritario della Chiesa di Roma e del suo vescovo, il Papa. Nel periodo fino al XIII secolo la «confessio fidei», che la teologia, i concili e il magistero episcopale hanno contribuito a determinare e precisare, diventa «professio fidei» e soprattutto «doctrina fidei». Compito della teologia, in obbedienza al magistero della Chiesa, è la difesa della dottrina cattolica; suo scopo principale è quello di precisare e conservare l’ortodossia della fede, il primato e l’autorità del romano pontefice, costituito e stabilito per istituzione sacra e divina, contro le eresie e i diversi attacchi da parte del potere civile o religioso: «l’auctoritas fidei» diventa «potestas fidei». I concili di Roma sono una testimonianza evidente di questa concezione: il Lateranense I (1123) affronta la questione delle investiture, della simonia e degli altri abusi; il Lateranense II (1139) tenta di risolvere lo scisma di Anacleto II e condanna il radicalismo di Arnaldo da Brescia, avversario del potere temporale; il Lateranense III (1179) combatte il Catarismo e stabilisce nuove norme per l’elezione del Papa; il Lateranense IV (1215) condanna l’eresia degli Albigesi e dei Valdesi. Il sinodo Lateranense del 1059, con la sua decisione di stabilire il monopolio dei vescovi-cardinali delle chiese suburbicarie di Roma sull’elezione del Papa, elimina il ruolo del clero, del popolo romano e dello stesso imperatore e di fatto, influisce sulla visione teologica e pastorale dello stesso papato fino ad oggi. La teologia dei secoli X-XIII comprende una molteplicità di personalità significative, che hanno influito, in modi e in ambiti differenti, alla riflessione teologica e culturale nella Chiesa, in Occidente e nella cultura italiana. Particolarmente la teologia scolastica può essere suddivisa in quattro periodi: il periodo pre-scolastico (800-900) con Giovanni (Scoto) Eriugena (810 circa-877 circa), considerato il più grande filosofo altomedievale; il periodo iniziale della Scolastica (1000-1200) con Anselmo di Canterbury (1033-1109), il padre della Scolastica, e Pietro Abelardo (1079-1142); l’età d’oro della Scolastica (1200-1280) con Alberto Magno (1193- 1280), Bonaventura da Bagnoreggio (1221-1274); e con Tommaso d’Aquino (1224-1274); l’ultimo periodo della Scolastica (1280-1400) con Duns Scoto (1266-1308), Maestro Eckhart (1260-1327) e Guglielmo di Ockham (1280-1349). Non si possono dimenticare, poi, Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), Caterina da Siena (1347-1380): la loro teologia risente della vita monastica e della dimensione mistica della Chiesa dell’epoca medievale.

Lo sviluppo della teologia verso l’unità d’Italia. Nel XIII secolo nascono una molteplicità di nuovi luoghi di formazione e di elaborazione del pensiero teologico, si creano spazi di dialogo tra le diverse sensibilità culturali all’interno dell’unica visione cristiana della vita e della società: “la fine del Medioevo è corrisposta in Occidente all’avvento di una nuova figura del sapere, e si può pensare che la figura del mondo ne è risultata cambiata, per il meglio e per il peggio. Sapere e spiritualità sono stati separati. Si tratta di una distinzione benefica o di un taglio rovinoso? La novità, ad ogni modo, ha permesso un diverso rapporto con la realtà, lo sviluppo della logica e delle scienze sperimentali, e poi il progresso della tecnica. In breve, l’essenziale della modernità. A.N. Whitehead pensava che le conoscenze scolastiche avevano aperto la strada che portava alla rivoluzione industriale (…). Nel Medioevo, si osserva chiaramente nell’aula universitaria il passaggio da un tipo di insegnamento in cui la ricerca della verità è un esercizio spirituale, che coinvolge totalmente il maestri e il suo discepolo, ad un altro modo più specifico, nel quale il teologo non è più un maestro spirituale, bensì un esperto che, grazie alla sua erudizione e al suo rigore, illumina come dal di fuori la vita cristiana” (Jean-Yves Lacoste (ed.), Storia della teologia, Queriniana , Brescia 2011, 196). I monasteri, prima, e le cattedrali, in seguito, diventano i luoghi non solo della preghiera e della vita liturgica, spirituale ed ecclesiale, ma anche della trasmissione e dell’approfondimento culturale e teologico. Si inizia a creare una visione condivisa, che può essere indicata come italiana, che precede quella politico-istituzionale e che si manifesta, progressivamente, con la creazione di una lingua comune “volgare” e con una Chiesa unita, piramidale e gerarchica, sotto il vescovo di Roma.

La teologia conflittuale e giustificativa: dal XIII secolo alla crisi di Lutero (1517). Nel duecento e nel trecento nascono le Università, insieme ad una molteplicità di altri centri di cultura teologica e filosofica, di ricerca scientifica e di elaborazione artistica e letteraria. Questi centri sono aiutati economicamente dalla nascente borghesia comunale e dalle famiglie influenti, che, attraverso il sapere, tentano di acquisire potere e prestigio sociale. Questa relazione tra potere e cultura interesserà anche la Chiesa e lo Stato pontificio. Lo sviluppo culturale e teologico sarà legato non solo ad alcune singole personalità, ma anche ad alcuni nuovi ordini religiosi, che nasceranno e si svilupperanno in questo periodo come i domenicani e i francescani. La massima espressione del potere pontificio,tuttavia, si avrà durante il pontificato di Bonifacio VIII con la bolla “Unam Sanctam” (1302) e con il primo Giubileo (1300). Egli, attingendo alle tesi tradizionali di Bernardo di Chiaravalle, di Ugo di San Vittore, di Innocenzo III e di Tommaso d’Aquino, cercherà di giustificare una visione ierocratica del papato. Ma la situazione socio-politica ed ecclesiale è ora molto diversa dalla concezione unitaria e piramidale del periodo medievale. Le autonomie locali, la frammentazione del Sacro Romano Impero, lo scontro tra i principi, i Comuni, le Signorie; le divisioni all’interno della Chiesa, la lotta per le investiture e il dramma della simonia, tutto questo logora la concezione unitaria medievale e la stessa supremazia del Papa sulla Chiesa e sull’Impero. Mentre fuori dalla penisola italiana si formano rapidamente gli Stati-nazione, si dovrà aspettare molto più tempo per riuscire a riunire l’Italia sotto un’unica amministrazione nazionale. Tuttavia già la lotta dei Comuni contro gli invasori può essere considerata come la manifestazione di una reale e cosciente tensione all’unità religiosa, culturale e civile, anche se non ancora politica e istituzionale. Paradossalmente la comune sensibilità religiosa, cristiana e cattolica, se da una parte, a causa della presenza dello Stato pontificio, ha rallentato l’unità d’Italia, dall’altra è stata la ragione profonda dell’unità stessa come dimostra il pensiero di Gioberti. La penisola italiana dal XIII° al XV° secolo vive un periodo economicamente e culturalmente vivace. In questo periodo si pongono le premesse per uno spirito comune, che, dopo la caduta dell’Impero romano, si era perso. L’Umanesimo e il Rinascimento, con la riscoperta della classicità, contribuiscono notevolmente a rianimare le radici profonde della comune “romanitas” e di un cristianesimo profondamente latino e classico. L’idea teologica di un cristianesimo fonte d’ispirazione e di civilizzazione del mondo e della Chiesa romana, centro della Chiesa universale, una, santa, cattolica, apostolica e romana guida le drammatiche vicende del cristianesimo fino all’unità d’Italia. La stessa idea risorgimentale dello Stato pontificio come centro di una possibile confederazione degli Stati si comprende in questa prospettiva. I papi del XV° e XVI° secolo come Alessandro VI, Giulio II, Leone X, al di là del loro ruolo spirituale ed ecclesiale, con la loro azione diplomatica, militare e politica, assecondano l’influenza straniera in nome di un’autonomia della Chiesa.

La riflessione teologica, rispetto al primo millennio, passa da una prospettiva difensiva e dichiarativa, che tenta di approfondire e definire il contenuto essenziale della fede cristiana e cattolica (il mistero di Cristo e del Dio cristiano) ad una visione teologica predominante, che punta sulla difesa dell’autorità del   ‘soggetto/ai soggetti’ che professano la fede cristiana. La teologia si pone dal secolo XIII° fino al XIX° secolo la questione dei soggetti legittimi, che sono autorizzati a trasmettere, interpretare e testimoniare la fede come magistero gerarchico, come singoli credenti e come comunità cristiana. La teologia tenta di giustificare la struttura istituzionale della Chiesa cattolica, sostenendo che la salvezza cristiana si riceve attraverso la mediazione della Chiesa, nella professione della vera fede, nella celebrazione dei sacramenti e nell’obbedienza ai legittimi pastori, successori degli apostoli, e al Papa, vicario di Pietro. Questo passaggio di attenzione dalla riflessione teologica sul contenuto della fede ai soggetti della comunicazione della fede rinsalda la questione sull’auctoritas e sulla potestas nella Chiesa, sul ruolo del vescovo di Roma e degli altri vescovi. L’espansione dei nuovi ordini religiosi mendicanti, delle confraternite e, in seguito, di altri movimenti religiosi e la loro azione nell’ambito della riflessione teologica, dell’impegno caritativo, dell’istruzione e della formazione del popolo hanno facilitato il radicamento di una visione culturale e sociale unitaria, cristiana e popolare. L’appoggio di diversi pontefici ai nuovi movimenti religiosi hanno rafforzato la tendenza alla centralizzazione romana e hanno assicurato, dal punto di vista teologico, una rinnovata visione verticistica dell’autorità del Papa sulla Chiesa in Italia e sull’intera cristianità. Lo sviluppo della Chiesa di Roma nei secoli fino al concilio di Trento e, in seguito, fino e dopo il Vaticano I ha giustificato una teologia manualistica ed apologetica, non solo post-patristica ma anche post-scolastica.

L’opera di Melchiorre Cano (1505-1560), «De locis theologicis libri duodecim», pubblicata incompleta dopo la sua morte nel 1563 e ristampata trenta volte fino al 1980, non solo fonda la metodologia teologica sul “principio di autorità”, ma estende anche a dieci i “loci”, le fonti della ricerca teologica: «i primi sette sono propriamente teologici (autorità della Scrittura, della Tradizione, della Chiesa cattolica, dei Concili, della Chiesa romana, dei Padri, dei teologici scolastici e canonisti), mentre gli altri tre sono argomenti di ragione (ragione naturale, autorità dei filosofi e ella storia (…) Dall’impostazione teologica di Cano è pervenuta in sostanziale continuità la figura della teologia manualistica in uso in tutte le scuole accademiche di teologia prima del Vaticano II» (Guido Pozzo,La manualistica, in Storia della teologia. 3. Da Vitus Pichler a Henri de Lubac a cura di Rino Fisichella, ED-EDB, Roma-Bologna 1996, 311-312) Le fonti della teologia, in questo modo, si sono strutturate in ordine alla difesa del potere e dell’autorità del magistero gerarchico della Chiesa cattolica romana e in funzione del servizio del ministero del Papa in contrapposizione al conciliarismo ed alle altre forme di autonomia episcopale, laicale e nazionale come il gallicanesimo, il febronianesimo e l’episcopalismo. La caduta di Bisanzio (1453), il saccheggio dei turchi di Maometto II e la lotta contro il pericolo islamico hanno contribuito a concentrare l’attenzione sul potere del vescovo di Roma. La stessa teologia ha contribuito nell’ambito della riflessione sistematica, spirituale, morale e giuridica dei secoli XIV° e XVI°, a spingere alcuni pontefici a cercare di impostare una riforma all’interno della Chiesa e difendere una teologia giustificativa. Le illusorie dichiarazioni di riforma della Chiesa, invece, durante il pontificato di Leone X (1517) aprono le porte alla protesta teologica e istituzionale di Martin Lutero (1483-1546), che il 31 ottobre 1517 affligge sulle porte del duomo di Wittemberg le 95 tesi contro il commercio delle indulgenze e la mondanità nella Chiesa. Lutero vuole così riproporre la purezza del Vangelo rispetto ad ogni riflessione teologica, che si è allontanata dalla fedeltà alla sorgente della fede: la Parola di Dio e il Cristo, unico Maestro e Signore. Per Lutero è necessario ribadire il primato della fedeltà e della grazia di Dio, che giustifica e salva nella sua libera e sovrana volontà. Nell’impostazione di Lutero e dei Riformatori l’attenzione alle istituzioni visibili della Chiesa, propria della prima parte del secondo millennio, viene superata dal tentativo di riportare la riflessione biblica al centro della riflessione teologica. Il primato di Cristo e l’azione misteriosa e permanente dello Spirito Santo sono la ragione della “communio sanctorum”. La stessa traduzione nella lingua tedesca della Bibbia certamente contribuisce ad avvicinare i cristiani alla fede in Cristo, a smascherare le interpretazioni strumentali e le evidenti incoerenze della Chiesa ufficiale, spesso compromessa con il potere civile e politico. Tuttavia il terremoto protestante non solo conduce la Chiesa a riprendere seriamente il tentativo di riforma, ma anche a rivisitare le problematiche e le questioni teologiche aperte nella polemica con la teologia dei Riformati. Il concilio di Trento (1545-1563), i teologici post-tridentini, le Congregazioni come i Gesuiti e la stessa Scuola romana cercano di impostare una nuova teologia, capace di arginare le obiezioni protestanti, ma, al tempo stesso, finalizzata a fondare le affermazioni tridentine sulla tradizione della Chiesa cattolica, per tentare una riforma in campo dottrinale, istituzionale e pastorale.

Dal concilio di Trento (1545-1563) al concilio Vaticano I (1869-1870): la teologia apologetica e controversista. Sul territorio italiano, per una molteplicità di fattori, la riforma protestante non ha avuto una diffusione significativa come è accaduto in altre nazioni del nord-Europa. Tuttavia, nelle diverse diocesi era chiara sia tra i vescovi sia tra i fedeli cristiani la percezione della necessità di una riforma nei riguardi della vita morale e spirituale, della teologia e delle stesse istituzioni ecclesiastiche. Per questo prima e durante lo svolgimento del concilio di Trento le richieste teologiche e pastorali, che erano state nella Chiesa cattolica sollecitate dal movimento riformatore, sono diventate le esigenze del rinnovamento della stessa Chiesa. In particolare il desiderio di una più coerente e profonda spiritualità, il superamento di una visione formale della vita cristiana, la ricerca di una maggiore fedeltà al vangelo di Gesù Cristo e alla Bibbia, la purificazione della teologia da un’esagerata influenza aristotelica, l’abbandono di un tomismo e di una scolastica, lontane dal contatto con le fonti patristiche e con la Rivelazione e, infine, la volontà di ritornare all’antica tradizione della Chiesa cattolica, sono le esigenze che trovano una loro prospettiva di analisi teologica nelle opere spirituali e teologiche di alcune importanti autori dal XV° al XVI°: Caterina da Genova (1447-1510), Girolamo Savonarola (1452-1498), Paolo Giustiniani (1478-1528), Vittorino da Feltre (1373 o 1378 -1446), Bernardino da Siena (+ 1444), Carlo Borromeo (1538-1585), Filippo Neri (1515-1595), Girolamo Emiliani (1486-1537), Gaetano da Thiene (1480-1547), Egidio da Viterbo (1469-1532), Seripando (1493-1563), Jacopo Sadoleto (1477-1547), Gasparo Contarini (1483-1542), Reginald Pole (1500-1558) Non si possono dimenticare anche alcuni importanti fondatori di Congregazioni religiose, che, in questo periodo, operano nel campo dell’istruzione, della formazione religiosa e spirituale, dell’assistenza materiale e ospedaliera del popolo. Queste figure insieme al rinnovamento spirituale della «devotio moderna» contribuiscono a preparare, a stimolare e ad attuare le decisioni rinnovatrici del concilio di Trento.

Prima e durante il concilio di Trento, nelle riflessioni teologiche del domenicano Tommaso de Vio ( 1468-1547), del gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621) e, in seguito, di molti altri teologi e vescovi fino al concilio Vaticano I, è possibile cogliere alcune linee fondamentali di tendenza, che determinano una scuola teologica in Italia. I rappresentanti principali della teologia della Compagnia di Gesù nei secoli XVI°-XVII° sono un esempio di questi nuovi percorsi teologici, che nascono e si sviluppano in Spagna: Francisco de Toledo (1533-1596), Francisco Suárez (1548-1617), Tommaso Sánchez (1550-1610) (la triade andalusa); Luis de Molina (1535-1600), Gabriél Vázquez (1549-1604), Gregorio de Valencia (1549-1603) (la triade castigliana). Questi teologi condizioneranno e influenzeranno i gesuiti e i teologi del collegio della Gregoriana di Roma. In questa prospettiva la teologia cattolica cerca di recuperare un’attenzione alle fonti della fede cristiana, anche se in un contesto di reazione e di contrapposizione con la riforma protestante. In secondo luogo, lo stesso concilio con i suoi documenti, di fatto ha incoraggiato e sollecitato la formazione teologica, spirituale e pastorale del clero. Questa finalità ha messo in luce il valore e la funzione della teologia e della stessa ricerca teologica in ordine ad un necessario approfondimento di alcune questioni controverse. Era necessaria una seria formazione teologica per la riforma della Chiesa e per superare una certa ritualità formale, che non rispondeva al vero spirito della liturgia e che aveva impoverito la predicazione e la catechesi. Per rispondere alle osservazioni critiche dei protestanti e per sanare alcuni difetti della concezione cattolica, era necessario armonizzare la dimensione visibile della Chiesa con quella invisibile, la struttura gerarchica con la dimensione spirituale della vita ecclesiale. Questi tentativi non hanno trovato un’immediata realizzazione nella riflessione teologica del XVII° e del XVIII° secolo a causa dell’ambiente polemico e della contrapposizione tra la teologia cattolica e quella protestante e anglicana, per la crescente visione anticlericale, antiromana, illuministica e positivista della società e della cultura italiana.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Alberigo, Il cristianesimo in Italia, Bari 1997; P. Ciardella – A. Montan (a cura di), Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal concilio Vaticano II. Storia, impostazioni, metodologie, prospettive, Leumann (Torino) 2011; E. dal Covolo (a cura di), Storia della teologia. 1. Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, EDB, Roma – Bologna 1995; G. Occhipinti (a cura di), Da Pietro Abelardo a Roberto Bellarmino, EDB, Roma-Bologna 1996; L. Jean-Yves (ed), Storia della teologia, Brescia 2011; B. Mondin, Storia della teologia Volumi 1-3, Bologna 1997; Id, Le teologie del nostro tempo, Roma 1975; R. Osculati, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico. II – Primo millennio, Secondo millennio, Cinisello Balsamo (Milano) 1997; C. Vasoli, La crisi del tardo Umanesimo e le aspettative di Riforma in Italia tra la fine del Quattrocento ed il primo Cinquecento, in Storia della teologia. III: Età della Rinascita, Casale Monferrato (AL) 1995, 397-485; E. Vilanova, Storia della teologia cristiana. 1. Dalle origini al XV secolo, Borla, Roma 1991; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. 1. Dalle origini al Concilio di Trento, Jaca Book, Milano 1978; G. Penco, Storia della Chiesa in Italia. Volume II. Dal Concilio di Trento ai nostri giorni, Jaca Book, Milano 1978.


LEMMARIO




Teologia - vol. II


Autore: Gianfranco Calabrese

Premessa. La teologia, in qualche modo, dopo il concilio di Trento fino al Vaticano e anche dopo l’unità di Italia, ha tentato, con alterne vicende e non sempre lineari risultati, un percorso di rinnovamento metodologico della teologia per superare le contraddizioni che derivavano dal controllo severo e dalla reazione ultramontana come emerge con la crisi modernista. La teologia cerca di rinnovarsi fondandosi sulla rivelazione e sulla tradizione patristica. Per questo nel periodo post-tridentino e soprattutto dopo il Vaticano I, la teologia ha un notevole sviluppo e produce anche una molteplicità di opere, espressione di alcune scuole teologiche presenti in Italia come in altre nazioni europee: la scuola domenicana, la scuola francescana, la scuola romana. Tuttavia la divisione ecclesiastica lungo la penisola in tre grandi zone finisce per influenzare la stessa posizione culturale e teologica della Chiesa nei riguardi dell’età moderna. Nella zona settentrionale, dove sono presenti i centri religiosi e culturali più sensibili alle sollecitazioni dell’epoca moderna, si sviluppano circoli culturali e centri teologici aperti al rinnovamento della teologia e alla riforma della Chiesa. Nella zona centrale, costituita per la maggior parte dallo Stato pontificio, il governo pontificio opera una censura delle nuove idee e delle nuove richieste politiche, filosofiche e culturali. Quest’atteggiamento causa la crescita di un’opposizione anticlericale, soprattutto dopo l’unità di Italia. Infine, nella zona meridionale, che comprende anche le isole, il dominio spagnolo non aiuta il rinnovamento e facilita il tradizionalismo culturale e teologico, il conservatorismo rituale e devozionale nella pastorale. All’interno di questo panorama ricordiamo alcune figure significative come Angelo Maria Querini (1680-1775), attento al dialogo con le altre chiese cristiane, il cardinale di Bologna Prospero Lambertini (1675-1758), l’abate Antonio Rosmini (1797-1835) e, sul versante politico, lo stesso Vincenzo Gioberti (1801-1852). La parentesi della rivoluzione francese (1789) e l’invasione napoleonica con il concordato italiano (1803), invece, influenzano solo marginalmente la cultura cattolica e la teologia italiana. La restaurazione, poi, riproponendo la frammentazione territoriale della penisola, blocca ogni innovazione socio-politica e civile e ogni apertura culturale dei circoli cattolici e liberali. I moti rivoluzionari del 1830-31 e quelli seguenti accentuano ancora la divisione tra i cattolici: una minoranza liberale e una maggioranza conservatrice. La politica dello Stato pontificio, dopo le prime aperture di Pio IX, è caratterizzata da una ferma chiusura verso ogni tipo di dialogo con il mondo moderno e con le nuove correnti culturali, teologiche ed ecumeniche.

La presenza in Italia dello Stato pontificio e il forte anticlericalismo del governo italiano influiscono sullo sviluppo dell’unità politica dello Stato nazionale e sul rinnovamento culturale e teologico della Chiesa in Italia. La nascita dal XVII° al XIX°secolo a Roma di molti Collegi nazionali, per la formazione del clero e di molte Facoltà teologiche, sponsorizzate da alcune Congregazioni religiose, producono un vivace confronto teologico, condizionato dalla fedeltà al magistero pontificio, dalla concezione apologetica delle fonti e da un rinnovato interesse alla questioni bibliche e patristiche. I rappresentanti più autorevoli di questa corrente neotomista si collocano all’interno di una continuità della tradizione scolastica: Bartolomeo Cappellari (1765-1846), eletto nel 1831 papa con il nome di Gregorio XVI (1831-1846); Giovanni Perrone (1794-1876); Carlo Passaglia (1812- 1887); Johan Baptist Franzelin (1816-1886); Tommaso Maria Zigliara (1833-1893); Domenico Palmieri (1828-1909), Francesco Satolli (1839-1910), Camillo Mazzella (1833-1900). Questa riflessione teologica, attenta alla dimensione gerarchica e societaria della Chiesa ma poco sensibile al dialogo con le altre chiese e comunità cristiane, incide sulla contrapposizione tra la cultura illuminista, romantica e positivista e la teologica cattolica e permette l’evoluzione di una teologia manualistica.

Con Leone XIII la corrente neotomista trova, nell’enciclica “Aeterni Patris” (4 agosto1879) (DS 3135-3140), un appoggio e un incoraggiamento. Tale enciclica richiede una particolare cura nella metodologia teologica, nei riguardi delle scienze e, particolarmente, della filosofia, che deve essere insegnata nel rispetto della fede cattolica. Vengono sostituiti, per questo, nelle Facoltà Teologiche a Roma, a Piacenza e a Napoli e in altri luoghi i professori che non si conformano al neotomismo e all’impostazione neoscolastica. In Italia nel secolo XIX° la teologia è considerata in una scienza a servizio della dottrina cattolica e del magistero della Chiesa. Dal momento che in Italia la riforma protestante, escluse alcune zone del nord-Italia (le Valli valdesi del Piemonte), non aveva avuto molta diffusione, alla teologia cattolica manca un attento confronto con il protestantesimo. La struttura fortemente verticistica e “gerarcologica” della Chiesa in Italia e la scarsa attenzione nei riguardi delle sollecitazioni del mondo moderno, proprie dei secoli XVIII° e XIX°, hanno contribuito a giustificare una teologia difensiva e chiusa ad ogni dialogo culturale, impermeabile alla molteplici sollecitazioni, che emergono dalla vita del popolo di Dio e solo concentrata sulle problematiche interne e sulla tutela del ruolo dell’autorità nella gestione della vita della Chiesa.

Lo sviluppo della teologia dal concilio Vaticano I (1869-1870) e verso il concilio Vaticano II (1962-1964): la teologia tra difesa e rinnovamento. La formazione dell’unità nazionale del Regno d’Italia, con la perdita violenta dello Stato pontificio e del potere temporale, accentua, in modo radicale, la mutua diffidenza tra la cultura cattolica e la cultura moderna del nuovo Stato. La teologia in Italia, anche se non direttamente, è influenzata da questo radicale anticlericalismo, da questo ostracismo non del popolo ma della maggioranza degli intellettuali e dei politici, che, dopo l’unità d’Italia, condizionano la politica sociale e culturale dell’Italia unita sotto la monarchia sabauda. La Chiesa si oppone a questa prevaricazione, accentuando la propria visione teologica, istituzionale e culturale in senso reazionario e conservatore, attraverso alcune correnti tradizionaliste, che erano contrarie ad ogni dialogo, collaborazione e anche alle nuove libertà politiche e civili, affermate dal nuovo Stato unitario. La prima corrente accusava la Chiesa cattolica di opporsi al sogno risorgimentale e all’unità d’Italia, la seconda, invece, accusava lo Stato italiano di aver voluto realizzare l’unità socio-politica contro gli interessi della Chiesa cattolica e in nome di una visione naturale della religione, secondo una concezione positivistica, illuministica e massonica dell’uomo e della società. Il Vaticano I, convocato da Pio IX durante il periodo di maggiore tensione tra la Chiesa e i diversi Stati e Regni, è accolto non solo con diffidenza da parte dei circoli politici e culturali, liberali e nazionalisti, ma anche da alcune correnti interne alla Chiesa cattolica. In seguito, è anche interpretato, in modo ambiguo, da chi lo aveva compreso come un’occasione per ristabilire e rinforzare la centralità del primato e del magistero pontificio e della visione gerarchica della Chiesa (tesi della corrente ultramontana), in contrapposizione a tutti coloro che desideravano rispondere ad alcune esigenze culturali, sociali, politiche proprie della cultura moderna (tesi del cattolicesimo liberale).

La crisi modernista e la condanna di alcuni teologi e uomini di cultura, sensibili alle rivendicazioni del mondo moderno, del rinnovamento biblico, patristico, storico e politico, creano una situazione di conflitto e di tensione tra la Chiesa cattolica ed il nuovo Regno d’Italia. Di fatto, questo condiziona lo sviluppo e il rinnovamento della teologia in Italia. La corrente modernista ha, in Italia, molti centri di Formazione ecclesiastica: a Roma si possono ricordare tra gli altri il Seminario dell’Apollinare, il Collegio Capranica e l’Università Gregoriana; e altri in Lombardia, in Liguria, in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria e in Campania. Alcuni rappresentanti di questa corrente ecclesiastica, sono: Salvatore Minocchi (1869-1943), Giovanni Genocchi (1860-1926), Ernesto Bonaiuti (1881-1946), Giovanni Semeria (1867-1931) e, in campo sociale e letterario, Romolo Murri (1870-1944) e Antonio Fogazzaro (1842-1911). Mentre la corrente conservatrice trova la propria espressione nella scuola romana e napoletana, con gli scritti di Mons. Umberto Benigni (1862-1934), e la «Rivista di Filosofia Neoscolastica», fondata nel 1909 da padre Agostino Gemelli (1878-1959) ed appoggiata dallo stesso papa Pio X (1903-1914).

Il Concilio Vaticano I (1869-1870). Questo clima, che caratterizza il periodo dal XVIII° al XIX° secolo fino al concilio Vaticano II, accentua la contrapposizione tra i diversi Stati europei, il Regno d’Italia e la Chiesa cattolica, viene rafforzato da alcuni fattori esterni alla stessa teologia come la questione romana, le leggi Siccardi sulla proprietà ecclesiastica (1850), la breccia di Porta Pia (1870), il non expedit (1871) che vieta la partecipazione dei cattolici alla politica del nuovo Stato unitario; ma anche da alcuni fattori interni come la lotta contro il modernismo e contro il cattolicesimo liberale, il difficile svolgimento del concilio Vaticano I e la sua ambigua e pregiudiziale accoglienza e recezione. Il concilio, voluto e guidato con decisione da Pio IX, fin dall’inizio è influenzato da una prospettiva difensiva e intransigente rispetto alle istanze liberali e moderne da parte di una maggioranza conciliare, comprendente il segretario di Stato, il cardinale G. Antonelli (1806-1876). In seguito, è recepito dalla maggioranza dei cattolici, dagli stessi governi nazionali e dalla maggioranza dei vescovi come un tentativo estremo, per ristabilire la centralità della Chiesa di Roma e del potere pontificio.

L’interpretazione postconciliare delle decisioni dottrinali del Vaticano I può essere collocata, tranquillamente, all’interno della contrapposizione tra la teologia difensiva cattolica e la cultura a moderna. In questo senso la cultura della seconda metà del XIX° secolo si allontana sempre più dai principi e dai valori antropologici e teologici della Chiesa cattolica. L’interpretazione ultramontana e la concezione apologetica della teologia e dell’ecclesiologia, invece, contribuisce ad elaborare il trattato sulla vera Chiesa di Cristo, che è la Chiesa cattolica romana. Questa concezione impedisce ogni dialogo ecumenico tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese e comunità cristiane.

Queste intenzioni sono affermate, in modo esplicito, prima dell’inizio del concilio Vaticano I dalla rivista dei gesuiti, “La Civiltà Cattolica”, e riprese da alcune personalità del mondo cattolico. Esse condizionano la riflessione teologica, durante e dopo il Vaticano I, e influiscono sulla stessa recezione dei suoi documenti: la costituzione dogmatica «Dei Filius» sulla fede cattolica (24 aprile 1870) (DS 3000- 3045) e la prima costituzione dogmatica «Pastor aeternus» sulla Chiesa di Cristo (18 luglio 1870) (DS 3050-3075). Il primo documento sulla fede cattolica vuole contrastare il razionalismo, il fideismo, lo scientismo e proporre una concezione armonica tra la fede e la ragione. Il secondo documento sul primato e sul magistero infallibile del Papa, ha lo scopo di definire la dottrina cattolica sul ministero petrino. Molteplici sono le cause del progressivo allontanamento della Chiesa e della teologia dalla vita e dalle esigenze reali del popolo cristiano presente in Italia: l’interruzione forzata del concilio, il clima ostile, la diffidenza nei riguardi del clero e della gerarchia da parte dell’élite culturale dominante, progressista e radicale, l’allontanamento della borghesia e della classe operaia dagli insegnamenti dottrinali, sociali e morali della Chiesa cattolica e dalle sue stesse strutture formative e pastorali ecclesiali.

L’attenzione del mondo cattolico e della gerarchia nei riguardi delle questioni assistenziali, il contributo della Chiesa all’istruzione delle classi più povere, e lo sviluppo di una molteplicità di opere sociali soprattutto nelle regioni settentrionali sono il segno della vitalità della presenza e dell’azione della Chiesa cattolica e del suo magistero, teologico e morale: G.B. Bosco (1815-1888); G.B. Cotolengo (1786-1842); Francesca Cabrini (1850-1917); G. Bonomelli (1831-1914); G.B. Scalabrini (1839-1905). La stessa formazione del clero, nell’ottocento e nel novecento in Italia, si caratterizza per la preoccupazione rituale della pastorale e devozionale della teologia e della spiritualità. Essa è legata ad una predicazione tradizionale, preoccupata più dell’ortodossia che del dialogo culturale con il mondo moderno, più attenta a difendere e custodire che a rispondere alle esigenze reali del popolo cristiano. Questo clima generale, di fatto, impoverisce la riflessione teologica in Italia e rallenta il necessario dialogo. Inoltre dopo alcune tenue aperture socio-politiche, alcune riforme nel campo della promozione del laicato e dell’associazionismo cattolico sotto il lungo pontificato di Leone XIII (1878-1903), a causa dell’intensificazione della lotta antimodernista da parte di Pio X (1903-1914) e della Curia romana ha un’accentuazione del clima di sospetto e di diffidenza nei riguardi degli intellettuali, seguaci delle nuove teorie filosofiche, scientifiche e politiche, legate al positivismo, all’idealismo e al romanticismo, e di alcuni teologi, vescovi e intellettuali cattolici, colpevoli semplicemente di voler dialogare con la nuova cultura. Essi, all’interno di alcuni Seminari, Università pontificie, Collegi di formazione, manifestano un particolare interesse con le nuove istanze di rinnovamento, per ricercare più adeguate espressioni di fede dei dogmi cattolici.

Alcuni teologi vogliono superare, anche in Italia, la teologia neoscolastica, troppo strutturata, spesso ripetitiva e poco attenta al rinnovamento della ricerca storico-esegetica e patristica del novecento. Il decreto del S. Uffizio «Lamentabili» (3 luglio 1907) (DS 3401-3466), è confermato da Pio X con il primo documento papale contro il modernismo, l’enciclica «Pascendi domini gregis» (8 settembre 1907) (DS 3475-3500) e il giuramento antimodernista, il Motuproprio «Sacrorum antistitum» (1 settembre 1910) (DS 3537-3550). Questo giuramento è obbligatorio per il clero impegnato nella pastorale, per gli insegnanti di religione e di teologia. L’abolizione per legge da parte dello Stato, sin dal 1871, della presenza delle Facoltà di teologia nelle Università pubbliche influisce ancor di più sull’allontanamento e sulla dicotomia tra la cultura laica e la teologia cattolica in Italia e sollecita la teologia a diventare una semplice disciplina, finalizzata alla formazione dottrinale, spirituale e pastorale del clero diocesano e dei religiosi nei seminari e nelle Facoltà teologiche. La teologia, in questo modo, lungo la via tracciata sia dal concilio di Trento sia dal Vaticano I, diventa sempre più manualistica, apologetica, preoccupata a difendere i dogmi ed a dimostrare le posizioni del magistero e della fede cattolica. Essa, nel periodo seguente al concilio Vaticano I, diventa sempre più confessionale e interessata a presentare la Chiesa cattolica romana come l’unica e vera Chiesa di Cristo e a combattere le eresie e le false concezioni filosofiche, sociali e teologiche del mondo moderno.

Verso il Vaticano II. Il dramma della prima guerra mondiale (1915-1918), la partecipazione dei cattolici al conflitto, il loro impegno nella difesa del territorio nazionale e nella ricostruzione post-bellica, il pontificato di Benedetto XV (1914-1922), attento alle relazioni diplomatiche e aperto all’impegno dei cattolici nella vita sociale e politica dell’Italia, sono le ragioni che hanno permesso la nascita del partito «popolare» di ispirazione cattolica, fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo. La stessa attenzione, tuttavia, non si è manifestata da parte dell’Episcopato e del Papa nei riguardi del rinnovamento in campo teologico e dottrinale. La teologia in Italia, infatti, è rimasta negli anni precedenti al Vaticano II, confinata all’interno degli ambienti formativi e protetti dei Seminari e dei centri di spiritualità e, per questo, sotto lo stretto controllo dell’autorità dei vescovi diocesani e della stessa Curia romana, che con il S. Ufficio dovevano verificare l’ortodossia e la fedeltà dei teologi, dei loro scritti e del loro insegnamento. Questa linea di tendenza non si è attenuata sotto il pontificato sia di Pio XI (1922-1939) sia di Pio XII (1939-1958).

Dal punto di vista dell’impostazione e dello sviluppo della teologia si possono ricordare di Pio XI l’enciclica «Studiorum ducem» (29.06.1923) (DS 3665-3667) sul carattere vincolante della dottrina di Tommaso d’Aquino; l’enciclica «Mortalium animos» (06.01.1928) (DS 3683) sulla funzione e l’ambito del magistero ecclesiastico; la Costituzione «Deus Scientiarum Dominus» (24.05.1931) (AAS 23) sugli studi teologici; di Pio XII l’enciclica «Mystici corporis» (29.06.1943) (DS 3800-3822) sul mistero della Chiesa; l’enciclica «Divino afflante Spiritu» (30.09.1943) (DS 3825-3831) sull’adeguata ricerca storico-critica della sacra Scrittura; l’enciclica «Mediator Dei» (20.11.1947) (DS 3840-3855) sul significato della sacra Liturgia; la costituzione apostolica «Sacramentum Ordinis» (30.11.1947) (DS 3857-3861) sul sacramento dell’Ordine; la lettera del S. Uffizio all’arcivescovo di Boston (08.08.1949) (DS 3866-3873) sull’uso del principio «al di fuori della Chiesa nessuna salvezza»; l’enciclica «Humani generis» (12.08.1950) (DS 3875-3899) sui nuovi sviluppi e pericoli della teologia.

La teologia italiana, prima del Vaticano II, vede in questa prospettiva alcune influenti personalità, che hanno cercato di rinnovare, nel rispetto delle esigenze neo-scolastiche e del magistero ufficiale della Chiesa, la riflessione teologica: Pietro Parente (1891-1986) e Antonio Piolante (1911-2001). Un cammino teologico, originale, innovatore, più attento alle esigenze e alle sollecitazioni della teologia e alle richieste dei movimenti biblico, patristico ed ecumenico, può essere verificato in alcuni autori italiani, anche se in tono minore rispetto alla Germania, alla Francia, al Belgio, all’Olanda e alla Svizzera. Circa gli studi biblici è bene ricordare l’opera di Alberto Vaccari (1875-1965), di Giuseppe Ricciotti (1890-1964) e di Salvatore Garofalo (1911-1998). Per lo sviluppo del pensiero patristico in Italia è importante la pubblicazione di tutta una serie di opere e collane patristiche, anche se avvenuta in modo incostante, come «Nova Patrum Bibliotheca», «Corpus scriptorum latinorum Paravianum», «Corona Patrum» Salesiana e «Classici Cristiani» e gli studi di Ubaldo Mannucci sulle «Istituzioni di Patrologia» e di Umberto Moricca sulla «Storia della patrologia». Anche il movimento liturgico ha avuto rappresentanti autorevoli, che hanno influenzato la riflessione del Vaticano II sulla teologia e sulla liturgia: Dom Alfredo Ildefonso Schuster (1880-1954), in seguito cardinale a Milano; Giacomo Lercaro (1981-1976), in seguito cardinale a Bologna; l’abate Mario Righetti (1882-1975); a Genova, con l’Apostolato liturgico, Mons. Giacomo Moglia; Vagaggini Cipriano (1909-1999). La rinascita tomista, iniziata nel XIX secolo a partire da Leone XIII, rende l’Italia la culla del neotomismo con l’opera di Matteo Liberatore (1810-1892), Luigi Tappareli d’Azeglio (1793-1862), Geatano Sanseverino (1811-1865) e, nel XX secolo, Amato Masnovo (1880-1955), Cornelio Fabro (1911-1995), Francesco Olgiati (1886-1962), Sofia Vanni Rovighi (1908-1990). Dal punto di vista del rinnovamento della riflessione teologica incide l’opera teologica di Carlo Colombo (1909-1991) prima e durante il concilio Vaticano II e nella teologia post-concilio. Egli, nel suo insegnamento, presso la ripristinata Facoltà teologica del seminario di Milano, tenta di uscire dallo studio teologico presente in Italia, legato allo schema ripetitivo della manualistica e delle formule dogmatiche, per una nuova metodologia teologica. Carlo Colombo cerca di ripensare sia l’insegnamento teologico dogmatico sia lo statuto della teologia come “scienza” del mistero cristiano nella prospettiva storico- sistematica in dialogo con il pensiero filosofico soprattutto francese e tedesco. Per il teologo Colombo la riflessione teologica non è fine a se stessa, ma alla carità.

Dunque, la presenza del Papa, vescovo di Roma e guida della Chiesa universale, e l’influenza della Curia romana condiziona inevitabilmente lo sviluppo della ricerca teologica italiana, rallentano le richieste delle nuove correnti pastorali, culturali e teologiche in Italia e non tengono in giusta considerazione le esigenze, che emergevano dalla vita quotidiana del popolo di Dio. Tuttavia queste condizionamenti non impediscono la penetrazione in Italia e nella Chiesa italiana di alcuni movimenti di riforma, sorti in altre nazioni come la Francia e la Germania e che di fatto hanno il merito di preparare già nella prima parte del XIX° secolo, soprattutto, dopo la fine della seconda guerra mondiale (1939-1945) e negli anni 1950- 1960, le idee ispiratrici del concilio Vaticano II. La teologia si è lasciata guidare dalle prospettive originali ed ispiratrici dei movimenti biblico, liturgico, patristico, ecumenico e missionario. Questi movimenti non sono né ufficiali né organizzati, eppure hanno il merito di sostenere gli studi e le ricerche di alcuni teologici e storici, che, spesso nella diffidenza della Chiesa e, alcune volte, nell’incomprensione, influiscono per il loro ruolo nell’insegnamento e per la loro funzione pastorale e culturale nella preparazione di teologi e pastori. Essi permettono e preparano il rinnovamento e la riforma del concilio Vaticano II: Romano Guardini (1885-1968); Odo Casel (1886-1948); Karl Rahner (1904-1984); Ugo Rahner (1900-1968); Marie-Dominique Chenu (1895-1990); Jean Daniélou (1905-1974); Henri De Lubac (1896-1991); Yves Congar (1904-1995); Hans Urs von Balthasar (1905-1988); Edward Schillebeeckx (1914-2009); Hans Küng (1928); Joseph Ratzinger (1927). La conoscenza e lo studio di questi autori stranieri è possibile per il fatto che in Italia si è ha la possibilità di accedere alle loro opere in lingua originale e alla traduzione italiana, per merito di alcune case editrici. Nonostante alcuni autorevoli rappresentanti di questi movimenti, prima del concilio Vaticano II, siano stati costretti al silenzio e all’isolamento, le loro opere sono diventate, tra i teologi italiani, uno stimolo di riflessione e di approfondimento. Alcuni teologi italiani, in alcune occasioni, insieme ai loro colleghi stranieri hanno avuto la fortuna di partecipare a congressi, conferenze e seminari di studio, durante i quali questi teologi hanno condiviso le loro scoperte, le loro intuizioni e le loro proposte di rinnovamento. Infine, un ruolo non secondario al rinnovamento della teologia deve essere riconosciuto alle riviste teologiche e filosofiche, che hanno permesso la conoscenza e la diffusione delle nuove ricerche in campo teologico, storico-biblico, patristico, liturgico e filosofico.

La teologia italiana nel concilio Vaticano II e nel post-concilio in dialogo con le altre scienze. L’attuazione del concilio Vaticano II è un’occasione provvidenziale per il rinnovamento e lo sviluppo della teologia italiana. Infatti, molti teologi italiani hanno avuto la possibilità di collaborare con i vescovi e con gli altri colleghi stranieri sia nella fase della consultazione (1959-1960), nella commissione teologica preparatoria e nell’elaborazione e nella definizione degli stessi documenti conciliari. Per molti aspetti è possibile verificare l’influsso di alcuni teologi su molte affermazioni del Vaticano II. Il concilio ha certamente inciso sull’elaborazione di una rinnovata concezione della natura e della funzione della teologia come risulta da affermazioni contenuti in importanti documenti conciliari: OT 15-16-17; PO19; GS 53-54.62. Da questi e da altri testi conciliari è possibile indicare alcuni principi di rinnovamento, che il Vaticano II ha ribadito rispetto alla natura, alla funzione e alla missione della teologia: a) la Scrittura è «anima di tutta la teologia»; b) l’importanza dello studio dei santi Padri; c) il necessario rapporto tra la teologia, la filosofia e le scienze umane e, in generale, con la cultura; d) la valorizzazione della spiritualità. Per la teologia la santità, l’agiografia e la prassi testimoniale devono essere accolte come «luoghi teologici pratici»; la stessa teologia deve porsi a servizio della crescita e della maturazione della vita spirituale dei credenti; e) l’attenzione della teologia al laicato.

Queste prospettive permettono di descrivere una rinnovata visione della natura e della funzione della teologia in ordine alla missione della Chiesa nel mondo. Dall’esperienza conciliare la teologia può abbozzare, anche in Italia, un proprio e originale percorso innovativo. D’altronde, lo stesso linguaggio magisteriale conciliare nel periodo postconciliare è certamente cambiato rispetto all’epoca precedente. Esso è maggiormente attento alla storia, alla cultura, alla dimensione salvifica e missionaria dell’annuncio evangelico per la vita dell’uomo, della società e del popolo di Dio. Questo stile è l’unica ragione che può giustificare il rinnovamento e la maturazione nella comunità cristiana di un più attento dialogo con il mondo e con le diverse culture dell’uomo e di una valorizzazione di una concezione antropologica e teologica, attenta all’evangelizzazione e alla promozione del bene comune e dell’armonia cosmica.

Il contributo della teologia italiana all’elaborazione della dottrina del Vaticano II non è oggettivamente né determinante né decisivo rispetto alle prospettive teologiche, elaborate in altre nazioni europee. Tuttavia, non si deve dimenticare il ruolo di alcune personalità e teologici italiani, che hanno influito sulla elaborazione di una innovativa e originale ricerca teologica. La teologia nel periodo postconciliare sa fondare il rinnovamento della fede e della morale nella tradizione dei primi secoli dell’era cristiana, in ascolto delle esigenze del mondo. Il ritorno alle fonti e l’apertura al mondo sono i due aspetti che permettono lo sviluppo, anche in Italia, della teologia, scienza e riflessione critica della fede sulla vita dell’uomo, del mondo e della Chiesa. La teologia del XX° e del XXI° secolo elabora un percorso idoneo e scientifico, capace di incidere culturalmente sulla Chiesa e sulla società contemporanea. Questa potenzialità critica richiede ancora uno sviluppo reale e conseguenziale.

Nel periodo post-conciliare il sodalizio tra il magistero ecclesiastico e il ministero teologico ha alterni e contraddittori sviluppi. Infatti, la teologia ha il grande merito di mantenere viva la recezione del concilio Vaticano II, di vigilare e di stimolare, al tempo stesso, sul magistero e sulla comunità cristiana a riguardo della reale rilevanza pastorale ed istituzionale delle indicazioni dottrinali conciliari. Questo ruolo in alcune occasioni si è sostituito al ruolo ministeriale del magistero gerarchico. Per questo, l’interpretazione teologica, in alcune occasioni, non ha rispettato la recezione dei documenti conciliari, ne ha modificato la finalità e ha finito, in modo consapevole o inconsapevole, per forzare le stesse intenzioni dei Padri e dei testi conciliari. Il dissenso cattolico in Italia è un esempio paradigmatico di quella corrente teologico-pastorale, che in nome dello “spirito del concilio”, ha tentato di contrapporre la prassi della Chiesa, popolo di Dio, con la dottrina della Chiesa gerarchica, la Chiesa «popolare» alla gerarchia, la comunità di base con la Chiesa ufficiale. In questa prospettiva si comprende anche il rapporto della teologia postconciliare con i movimenti e le associazioni legate al movimento studentesco del ’68, condizionato da una concezione marxista e socialista del cristianesimo. Lo sviluppo, ambiguo e contraddittorio, della teologia in Italia in questi ultimi quarant’anni giustifica anche una reazione forte da parte di alcuni settori tradizionalisti, presenti nella Chiesa e nella teologia. Essi, non avendo accolto con entusiasmo il rinnovamento conciliare, tentano di recuperare, nella dottrina e nella pastorale, alcune istanze conservatrici e reazionarie in nome della fedeltà e della purezza del concilio e della tradizione. Anche questo conflitto non permette lo sviluppo di un’effettiva collaborazione, anche se dialettica, tra la teologia e il magistero nella Chiesa cattolica. La teologia continua, in Italia, ad essere considerata una disciplina funzionale, che ha come fine primario la formazione del clero e dei laici impegnati, che si esercita all’interno di alcune strutture ufficiali e che si struttura all’interno della difesa e della giustificazione del magistero e dei dogmi della Chiesa. Certamente sono aumentati i Centri di ricerca teologica, le Facoltà teologiche, gli Istituti superiori di Scienze religiose. Sono aumentati i soggetti interessati alla studio della teologia e sono sorti promettenti Centri Interdisciplinari, dove la teologia è considerata all’interno della formazione come disciplina fondamentale: l’Università Cattolica di Milano e la Libera Università di Urbino e di Roma. Tuttavia questo non aiuta, in generale, la qualità e la stessa scientificità della proposta teologica, né permette alla teologia di incidere sulla cultura italiana.

Le diverse riforme della «Ratio studiorum» delle Facoltà teologiche e dei Centri di Formazione teologica da parte della Congregazione per l’educazione cattolica non producono un’armonizzazione sui criteri e sui percorsi disciplinari, riguardo anche la formazione dei docenti e degli studenti. Ma aumenta, purtroppo, la confusione e l’ambiguità, e il rinnovamento della teologia in Italia è rallentato da posizioni conservatrici e all’interno di un sistema centralizzante. Sono aumentati gli strumenti di lavoro teologico come le riviste, i dizionari e i manuali, sono sorte nuove associazioni teologiche (la prima associazione teologica italiana ATI è nata nel 1967 a Napoli), ma il rinnovamento della teologia, secondo le indicazioni del Vaticano II, resta ancora latente, soprattutto per quanto riguarda il dialogo ecumenico ed interreligioso, l’apertura alla cultura e la ricerca di uno specifico e scientifico statuto metodologico delle scienze teologiche. Occorre investire maggiormente nella formazione dei docenti, dei presbiteri, dei religiosi, dei laici, soprattutto di coloro che sono chiamati a svolgere a tempo pieno la funzione di ricerca e di insegnamento teologico. È necessario, per questo, investire economicamente negli Istituti di ricerca e nelle biblioteche interne alla Facoltà teologiche. È fondamentale stimolare una maggiore e più incisiva collaborazione tra gli Istituti di ricerca teologica e gli Istituti universitari statali, sfruttando i nuovi spazi di comunicazione come la Rete e il Web. Inoltre, in virtù delle sfide culturali e pedagogiche, presenti anche in Italia, e in ragione della globalizzazione si devono superare alcune riduttive e provinciali concezioni della natura e della funzione della teologia: la teologia come semplice disciplina finalizzata alla formazione e alla conoscenza catechistica del cristianesimo. È necessario, anche, smascherare la falsa visione di coloro che considerano la teologia come un’attività accademica che non ha nessuna rilevanza pastorale, o di coloro che riducono la pastorale a pura strategia di evangelizzazione, senza alcun riferimento teologico e culturale. Invece, la teologia del terzo millennio deve promuovere la competenza professionale del teologo, stimolare la Chiesa a riconoscere nella ministerialità del teologo un dono ed un servizio per la crescita della comunità cristiana. Occorre ampliare e sollecitare la collaborazione tra il magistero e i teologici ed investire in luoghi di dialogo tra la teologia e la cultura. Queste prospettive potranno contribuire, a rendere la teologia uno spazio idoneo per la maturazione cristiana e civile degli uomini e dei credenti, come è accaduto nella storia della Chiesa, e, in questo modo, formare una mentalità e una sensibilità civile, sociale e religiosa adeguata alla proposta cristiana nel contesto europeo e mondiale ed a servizio della società e della Chiesa in Italia.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Giuseppe, Il cristianesimo in Italia, Bari 1997; P. Ciardella – A. Montan ( a cura di), Le scienze teologiche in Italia a cinquant’anni dal concilio Vaticano II. Storia, impostazioni, metodologie, prospettive, Leumann (Torino) 2011; R. Fisichella ( a cura di), Storia della teologia. 3. Da Vitus Pichler a Henri de Lubac, Roma – Bologna 1996; J.-Y. Lacoste (ed), Storia della teologia, Brescia 2011; A. Marranzini, La teologia italiana dal Vaticano I al Vaticano II, in Bilancio della teologia del XX secolo diretto da R. Vander Gucht e H. Vorgrimler Volume II: La teologia del XX secolo, Roma 19972, 95-112; G. Occhipinti (a cura di), Storia della teologia. 2. Da Pietro Abelardo a Roberto Bellarmino, Roma-Bologna 1996; B. Mondin, Storia della teologia Volume 4: epoca contemporanea, Bologna 1997; Id, Le teologie del nostro tempo, Roma 1975; R. Osculati, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico. II- Secondo millennio, Cinisello Balsamo (Milano) 1997; G. Trabucco – M. Vergottini, Il concilio Vaticano II e il nuovo corso della teologia cattolica, in G. Angelini – S. Macchi (ed.), La teologia del Novecento. Momenti maggiori e questioni aperte, Milano 2008, 297-377; C. Vasoli, La crisi del tardo Umanesimo e le aspettative di Riforma in Italia tra la fine del Quattrocento ed il primo Cinquecento, in Storia della teologia. III: Età della Rinascita, Casale Monferrato (AL) 1995, 397-485; G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea, Laterza, Bari 1988.


LEMMARIO




Terrorismo - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Non sono pochi coloro che diffondono un equivoco di fondo, parlando di una continuità logica tra il ’68 e il terrorismo. Ora, vi furono certamente alcuni giovani che avendo vissuto la delusione delle mancate riforme sperate dalle manifestazioni del ’68, passarono prima ad altre forme di lotta, per poi teorizzare e praticare la lotta armata. Ma non tutti i protagonisti del ’68 passarono alla lotta armata, e non tutti i protagonisti della lotta armata venivano dal ’68.

Si può constatare che vi fu qualche rapporto tra i due eventi. Nel momento in cui si realizzò un legame tra il movimento studentesco e il movimento operaio, i primi, accettando la teoria marxiana della classe operaia come elemento trainante della trasformazione della società, iniziarono ad agire dentro la stessa classe operaia, spesso anzi scegliendo il lavoro salariato. Lentamente, finirono per contestare sia il sindacato sia il Partito comunista, accusato il secondo di perdere gradualmente lo slancio rivoluzionario. Tale contestazione avrebbe portato al rapimento e uccisione di Aldo Moro, l’uomo a ragione considerato il responsabile del lungo processo che aveva portato il Partito comunista, o almeno parte di esso, ad accettare le regole del gioco democratico. In effetti, non solo si era realizzato lo strappo da Mosca, ma a metà degli anni Settanta il segretario del partito, Enrico Berlinguer, con i dirigenti francesi e spagnoli, aveva parlato di vie nazionali al socialismo, scelta indicata allora come “eurocomunismo”, e accettava il dialogo con la Democrazia cristiana, che lo avrebbe portato a condividere le responsabilità di governo, in quello che venne definito “compromesso storico”.

Il passaggio di alcuni alla lotta armata avvenne gradualmente. Prima vennero organizzati sequestri dimostrativi, durati pochi giorni: si voleva mettere in ridicolo e intimorire il personale direttivo delle diverse strutture produttive. Poi i sequestri aumentarono nel numero e nel significato. Il 18 aprile 1974, il sequestro del sostituto procuratore della repubblica di Genova Mario Sossi assunse un significato emblematico: il giudice era considerato il nemico di classe, i giorni del sequestro vennero a coincidere con la campagna elettorale del referendum sul divorzio, che a sua volta veniva visto come una svolta importante nella storia della cultura e dei costumi italiani, e anche con la prima grande rivolta in un carcere, che ebbe come conseguenza in Alessandria la morte di sette persone, tra ostaggi e sequestratori

Inoltre, i sequestratori del giudice avevano chiesto la liberazione di alcuni loro compagni, incriminati anche per omicidio, minacciando l’uccisione del giudice se non avessero ottenuto quanto richiesto.

Era oramai evidente che i responsabili del sequestro avevano compiuto il passo decisivo, quello che li portava a passare dai sequestri alla lotta che non escludeva la possibilità dell’uso, spesso indiscriminato (“colpiscine uno per educarne cento” era uno degli slogan), della violenza omicida.

I terroristi, come si iniziò a definirli, avevano una loro organizzazione, nota come le Brigate rosse, cui poi si aggiunsero altre sigle, quali i NAR (Nuclei Armati Proletari) e Prima linea. Alcuni vi vedevano lo sbocco, anche in questo caso non inesorabile, delle varie organizzazione che erano nate in quegli anni: Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia.

Prima di loro, si erano costituite altre organizzazioni di estrema destra, che avevano dato inizio già nel dicembre 1969 alla “strategia della tensione”, con attentati dinamitardi sulle piazze, nelle stazioni e sui treni. Rimane poco chiaro quanto agissero anche in collegamento con quelli che venivano considerati i servizi segreti deviati.

Gli anni Settanta furono così segnati dal sangue, spesso innocente: giudici, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine divennero bersaglio di “gambizzazioni” o furono uccisi da organizzazioni di estrema destra o di estrema sinistra. Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta vennero rapite 361 persone. Il numero di attentati e di episodi di violenza fu drammatico: si tratta di diverse migliaia

Tutto questo coinvolse un numero molto alto di terroristi o di loro fiancheggiatori, tra i mille e i duemila, prevalentemente giovani. Alcune centinaia sarebbero poi fuggiti all’estero, soprattutto in Francia, dove in base a quella che venne definita la “dottrina Mitterand” furono considerati rifugiati politici e quindi non estradati in Italia.

L’elenco dei morti e dei feriti di quelli che vennero definiti gli “anni di piombo” è impressionante, così come quello delle attività dei terroristi di destra e di sinistra. Il sequestro di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo 1978 con l’uccisione della sua scorta, sequestro concluso con l’uccisione di Moro, il 9 maggio, avrebbe rappresentato quasi il culmine, ma anche l’inizio del declino del movimento, messo in crisi anche dalla collaborazione offerta alle forze dell’ordine da diversi pentiti. Ci sarebbero stati ancora alcuni attentati mortali: si può ricordare quello che portò alla morte del senatore Roberto Ruffilli, il 16 aprile 1988.

Quando si iniziò a ricostruire gli album di famiglia non destò sorpresa lo scoprire che non pochi brigatisti venivano dalla cultura cattolica o da quella marxista: due correnti di pensiero che possono facilmente portare a forme diverse ma ugualmente pericolose di fondamentalismo.

Alcuni terroristi decisero di abbandonare le armi consegnandole alle autorità religiose: molto noto l’evento che portò alla consegna di armi a Milano, affidandole al cardinale Martini; così come impressionò moltissimo la preghiera con cui il pontefice Paolo VI, molto legato a Moro, si rivolse al Signore nel corso del funerale dello stesso Moro, quasi rimproverando Dio di non aver dato ascolto alle preghiere per un “uomo buono, mite, saggio, innocente e amico”. Tra l’altro, il papa sarebbe morto pochi mesi dopo, il 6 agosto 1978.

Il giudizio su La notte della Repubblica, come ebbe a definire quegli anni un noto giornalista, rimane controverso: si trattò di una vera e propria guerra civile, secondo alcuni, di una rivolta contro lo Stato, della degenerazione criminale di una lotta che aveva all’inizio delle ragioni comprensibili. Ma rimane sempre difficile per una coscienza civile accettare che un qualsiasi cambiamento debba essere pagato dalla morte di tante persone innocenti.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Betta, Memorie in conflitto. Autobiografia della lotta armata, in “Contemporanea”, XII (2009), n. 4, 673-701; G. Bocca, Il terrorismo italiano, 1970-1978, Rizzoli, Milano 1978; A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978: storia di Lotta continua, Mondadori, Milano 1998; P. Corsini e L. Novati (edd.), L’eversione nera: cronache di un decennio (1974-1984), Angeli, Milano 1985; G. Fasanella – A. Franceschini, Che cosa sono le Br. Le radici, la nascita, la storia, il presente, Rizzoli, Milano, 2004; G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini e Castoldi, Milano 2007; M. Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2011; A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005; H. Hes, La rivolta ambigua. Storia sociale del terrorismo italiano, Sansoni, Firenze 1991; A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Einaudi, Torino 2008; D. Novelli – N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Garzanti, Milano 1988; G. Panvini, Cattolici e violenza politica. L’altro album di famiglia del terrorismo italiano, Marsilio, Venezia 2014; A. Valle, Parole opere e omissioni. La Chiesa nell’Italia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 2008; S. Zavoli, La notte della Repubblica, Mondadori, Milano 1992.


LEMMARIO




Terz'ordini - vol. I


Autore: Pereira Sergio

Fino al Basso Medioevo i laici che aspiravano alla vita devota non intravedevano altra possibilità che entrare in monastero o associarsi a un ordine religioso per beneficiare delle ricchezze spirituali. C’erano diverse forme di associazioni che non è il caso nominarle tutte. Tra di esse, si trovavano i laici che rimanevano nel mondo facendo un patto con un convento, una abazia o una collegiata, che chiamavano speso fraternità, oblati o donati. Questo spontaneo raggrupparsi di alcuni secolari attorno ai religiosi diede forma a ciò che alla seconda metà del XIII secolo sarà conosciuto con il nome di Terz’ordine. Ci sono, però, elementi affini a questa istituzione negli oblati di san Benedetto e di san Norberto che compaiono agli inizi del secolo XII; verso la fine dello stesso secolo appaiono i Poveri Cattolici e gli Umiliati. Questi ultimi, provenienti dal gruppo di valdesi milanesi riconciliati con la Chiesa, fu riconosciuto da Innocenzo III e diviso in tre distinti sezioni, l’ultima delle quali era costituita dalle persone viventi nel secolo sotto una Regola. Su questo dato si può dire che il Terz’ordine è, in fine, un’ulteriore espressione della spiritualità dei laici, specialmente dei movimenti di penitenza e pauperistici del XII e XIII secolo.

Tuttavia, chi diede forma propria e duratura a questi movimenti fu il movimento francescano in Italia nella prima metà del XIII secolo, anche se alla sua nascita non si può parlare di terziari, ma, di laici chiamati alla penitenza, che assumevano la spiritualità francescana e partecipavano ai privilegi e benefici spirituali dell’ordine. A essi Francesco d’Assisi scrisse la Lettera a tutti i fedeli, probabilmente verso il 1220, e Memoriali prepositi del 1221 (quest’ultimo attribuito a papa Niccolò III). La diffusione dei frati minori comportò una proporzionale diffusione dei gruppi di laici sposati e non sposati della penitenza. Fu il papa Niccolò IV a riorganizzare questi gruppi in un’unica realtà, mediante la bolla Supra montem, del 19 agosto 1289. In essa, il pontefice dà a Francesco d’Assisi il titolo di huius ordinis institutor, da dove proviene che sia stato considerato il fondatore del così detto Terz’Ordine della Penitenza di San Francesco.

Sulla scia del francescanesimo, gli altri ordini mendicanti ebbero le loro Fraternitas de Poenitentia, che, però, sono nate come associazioni analoghe al modello francescano in un periodo successivo. La Santa Sede riconobbe espressamente ai vari Ordini religiosi mendicanti il diritto di aggregarsi e dette analoghe associazioni, con le proprie particolarità: ai domenicani nel 1406, agli agostiniani nel 1409, ai serviti nel 1424, ai carmelitani nel 1476, ai minimi nel 1501, ai carmelitani scalzi nel 1594, ai mercedari nel 1680 e ai trinitari e premonstratensi nel 1751. Ciononostante, non significa che non ci fossero dei laici aggregati sin dalla loro origine a ognuno degli ordini sopra nominati. Infatti, quando la Santa Sede approvava espressamente associazioni analoghe al Terz’Ordine Francescano, sanciva spesso una situazione prima esistente.

I penitenti, o terziari francescani, si sono diffusi rapidamente per tutta l’Italia, in maniera molto densa nei territori centro-settentrionali, durante il XIV secolo, periodo a cui risalgono le tendenze di alcuni penitenti a unirsi in vita comune sul modello religioso, secondo la Regola di appartenenza, con uno o più voti religiosi, formando varie congregazioni con statuti propri, rendendo difficile la distinzione tra secolari e regolari. In questo senso, è importante la classifica fatta dal Concilio Lateranense V, nella Costituzione Dum intra promulgata il 19 dicembre 1516, nella quale si enumerano quattro gruppi diversi: i terziari a vita comune (regolari), i terziari che vivevano nei conventi insieme con i frati di voti solenni, le terziarie che vivevano avendo promesso con voto vita virginale o casta, e i terziari e le terziarie secolari che vivevano non solo nei loro ambienti, ma anche esercitavano la vita propria del secolo, cioè senza voti religiosi. Con questa divisione viene sancita ufficialmente la distinzione tra terziari regolari e secolari.

Terz’Ordine Regolare. Leone X, mediante la costituzione Inter cetera, del 20 gennaio 1521, emanò una Regola per i gruppi di terziari di vita comune e quelli che vivevano nei conventi con i frati, imponendo a tutti i voti solenni e la vita comune. Questi ultimi diventarono parte vera e propria del primo ordine, mentre dal primo gruppo nacque, il così detto, Terz’Ordine Regolare. Il quale fu un caso esclusivamente francescano.

I terziari francescani regolari adottarono la Regola di Niccolò IV, cioè la Supra montem, e le sue comunità fiorirono specialmente a partire del XIV secolo, con la nascita delle comunità di penitenti o terziari. In Italia sono note in questo periodo, tra altre, le fondazioni della Liguria, Toscana ed Umbria, più le città di Milano, Vicenza, Ferrara e Messina. Gli altri ordini mendicanti, invece, non avevano ufficialmente un Terz’Ordine Regolare. Fino a XV secolo è permesso ai domenicani di annoverare in comunità alcune delle proprie terziarie a Firenze, Prato e Perugia.

Dopo il Concilio di Trento, le istituzioni maschili ebbero una riforma voluta dal papa Pio V, che ebbe forma soltanto nel Terz’Ordine Francescano. I terziari regolari in pratica sparirono in questo secolo, quelli del movimento francescano furono obbligati ad unirsi agli Osservanti, mediate la bolla Ea est officii nostri ratio, del 3 luglio 1568. Solo il Terz’Ordine Francescano Regolare dell’Italia riacquistò la sua indipendenza il 29 marzo 1586, con la bolla Romani Pontificis providentia di Sisto V.

Le terziarie, che vivevano in comune, furono obbligate alla clausura dal papa Pio V, con la bolla Circa pastoralis, del 1566, sotto la minaccia di essere soppresse se non osservavano la nuova normativa. La maggioranza di queste comunità divennero pian piano comunità monastiche del secondo ordine, anche se ad alcune di esse fu concesso osservare la Regola di Niccolò IV, aggiungendo l’ingiunzione di Pio V con la bolla sopra citata. Tuttavia alcuni monasteri riuscirono a svolgere delle attività pastorali: la storia di molte città italiane è piena di questi «conventi aperti», conosciuti con il nome di conservatori, lasciati in vita dalle autorità ecclesiastiche, fin quando il richiamo alla clausura non fu più severo. Molte fraternità di terziarie sparirono in questo periodo ed alcune diedero origine a numerosi istituti di voti semplici. Le terziarie che vivevano nelle loro case e professavano il voto di castità coniugale o virginità non furono colpite dalle prescrizioni della Circa pastoralis.

In questa forma di comunità autonoma i terziari regolari ebbero una basta diffusione, soprattutto in ambito femminile. Dalla fine del XIII fino al XVIII secolo, si può parlare di centinaia di terziari e terziarie in Italia, legati ai diversi ordini mendicanti. Solo a Roma en 1514 si contavano 16 «case sante», nome con cui erano conosciuti i luoghi dove facevano vita comune gruppi di terziari. Anche se avevano preso una Regola di vita e iniziarono a fare vita comune, per cui regolari, i terziari non erano considerati religiosi o religiose.

Il Terz’Ordine secolare. Dopo la distinzione fatta dal Concilio Lateranense V nel 1521 tra regolari e secolari, e grazie alla recente invenzione della stampa, fiorirono una serie di manuali e commenti alle diverse Regole che fanno notare il modo in cui il Terz’Ordine Secolare partecipava ai privilegi e benefici spirituali del rispettivo ordine mendicante, specialmente le indulgenze offerte secondo il calendario proprio e universale.

Tra il XVI e il XVIII secolo gli ordini terziari secolari ebbero un grande sviluppo. Nel territorio italiano, il Terz’Ordine Secolare Francescano conobbe un grande espansione, grazie all’impegno di alcuni frati osservanti come Giovanni da Capestrano. La Compagnia di Santa Maria dei Servi, anche essi italiani, associati alla spiritualità dei Servi di Maria, furono approvati nel 1424 dal papa Martino V, e trovarono la massima diffusione nel Veneto e nella Toscana. L’Ordine dei Minimi, fondato da Francesco da Paola verso il 1435, in Calabria, sin dal inizio dettò norme per coloro che volevano vivere nei propri ambienti la spiritualità incarnata dal paolano. I terziari minimi furono approvati dal papa Alessandro VI nel 1501, quando il fondatore era ancora in vita.

I penitenti agostiniani (diversi di quelli chiamati cinturati considerati una specie di quart’ordine), le fratellanze trinitarie per la redenzione degli schiavi, e i mantellati domenicani e i carmelitani, tutti laici del rispettivo ordine religioso, tutti presenti nella Italia del nostro tempo di studio, divennero Terz’Ordine Secolare, con le successivi approvazioni pontificie sopra elencate.

I Terz’Ordini, siano regolari siano secolari, conobbero una grande decadenza a causa dalle leggi eversive e dalle soppressioni degli ordini religiosi che si susseguirono dalla fine del XVIII secolo. Per quanto riguarda all’Italia, la soppressione dei Terz’Ordini da parte di Giuseppe II, attuata dal 1780 al 1790, affettò alle diverse fraternità della Lombardia e del Veneto. Infine, nel Regno d’Italia, durante il periodo napoleonico, con decreto del 25 aprile 1810, furono soppressi tutti gli istituti, corporazioni, congregazioni, ed associazioni ecclesiastiche di qualunque natura (eccettuate le suore di carità e poche altre congregazioni dedite all’educazione). Tuttavia, alcuni terz’ordini riuscirono evadere la legge di soppressione.

Terziari italiani illustri. I Terz’Ordini hanno impresso un’orma marcata nella storia della Chiesa e della società italiana: specialmente nella numerosa schiera di santi, uomini e donne illustri. Tra i terziari francescani italiani più noti ci furono: Rosa de Viterbo (1233-1251), chi espugnò una forte posizione in difesa del papato nella lotta fra Guelfi e ghibellini; Angela da Foligno (1248-1309), uno dei più grandi esempi della mistica francescana; Corrado Confalonieri (1290-1351), penitente piacentino che condusse vita anacoreta; Angelina di Marsciano (1357-1435), considerata fondatrice del Terz’Ordine Francescano Regolare; Francesco da Paola (1416-1507), fondatore dell’Ordine dei minimi; il napoletano Gaetano da Thiene (1480-1547), cofondatore dell’Ordine dei Chierici regolari teatini; la bresciana Angela Merici (1474-1540), fondatrice della Compagnia di Sant’Orsola; il fiorentino Filippo Neri (1515-1595), fondatore degli oratoriani; Carlo Borromeo (1538-1584), cardinale e vescovo di Milano che contribuì alla riforma della Chiesa; Maria Francesca delle Cinque Piaghe (1715-1791), napoletana nota per le sue estreme penitenze; Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842), fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza a Torino; Vincenza Gerosa (1784-1847), cofondatrice dell’Istituto delle suore della carità, dette di Maria Bambina, a Bergamo.

Gli agostiniani ostentano nella lista dei suoi terziari la friulana Elena di Udine (1396-1458) e Cristina da Spoleto (1432-1458), entrambe vedove, entrarono al Terz’Ordine della Penitenza di Sant’Agostino e se dedicarono all’attenzione dei malati e dei poveri. Anche terziario agostiniano fu Giovanni Battista Jossa (1767-1828), il quale si distinse come apostolo nelle cinque carceri cittadine di Napoli.

Il Terz’Ordine Domenicano italiano ebbe delle grandi figure come Caterina da Siena (1347-1380), nota per la sua corrispondenza con il Papa, insistente su il suo ritorno alla Sede Romana; Maddalena Panattieri (1443-1503), suora laica della penitenza di San Domenico; e Colomba da Rieti (1467-1501), fondatrice del monastero domenicano di Perugia.

Terziario mercedario fu il sacerdote romano Gaspare del Bufalo (1786-1837), fondatore dei Missionari del Preziosissimo Sangue. I trinitari, tra altri, hanno avuto come terziari: il papa Innocenzo XI (1611-1689); Teresa Cucchiari (1734-1801), fondatrice delle Maestre Pie della Santissima Trinità a Roma; Anna Maria Taigi (1769-1837), mistica senese dedita alle opere di carità a Roma; ed Elisabetta Canori Mora (1774-1825), romana, anche lei mistica, sposa e madre di famiglia.

Si ebbe il caso in cui una persona poteva appartenere a diversi Ordini Secolari, normalmente possibile ai principi e alti ecclesiastici. Il sacerdote romano Vincenzo Pallotti (1795-1850), fondatore della Società dell’Apostolato Cattolico, per esempio, fu terziario francescano, minimo, mercedario e trinitario allo stesso tempo.

Fonti e Bibl. essenziale

A parte le voci dedicate dal Dizionario degli Istituti di Perfezione sia ai singoli ordini terziari regolari e secolari, sia al concetto generale del terz’ordine, si vedano: M. Asselle, Le radici del passato le sfide del futuro. Il Terz’Ordine Francescano di fronte ai nuovi movimenti ecclesiali, Porziuncola 2014; Atti del Convegno nazionale nel V centenario dell’approvazione della I Regola del T.O.M., in «Charitas», n. s. 36 (2001); A. Benvenuti Papi, «In castro poenitentiae». Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma, Herder, 1990; J. De Longny, A l’ombre des grands Ordres, Parigi 1936; E. Kajetan, Origini e inizi del movimento e del ordine francescano, Milano, Jaka Book, 1990; A. Romano di S.T., Le affiliazioni dell’Ordine Trinitario. Appunti storici, Isola del Liri 1947; S. da Romallo, Terz’Ordine, in Enciclopedia Cattolica, XI, Firenze 1953, coll. 2044-2048; Terz’Ordine Agostiniano, Tolentino 1944; A. Vauchez, I laici e la vita religiosa, in «Storia del Cristianesimo. Religione-politica-cultura», 5, Apogeo del papato ed espansione della cristianità (1054-1274), edizione italiana a cura di Augusto Vasina, Roma, Borla-Città Nuova, 1997, 804-820; A. Vauchez, Penitenti laici e terziari nei sec. XIII e XIV, in Ordini mendicanti e società italiana XIII-XV secolo, Milano 1990, 206-220.

LEMMARIO




Tessaglia Stefano





Tolleranza - vol. I


Autore: Jörg Ernesti

 

Antichità e Medioevo. Il Nuovo Testamento è ambiguo sulla questione della tolleranza religiosa. Nel Vangelo, accanto al precetto generale di battezzare (Matteo 28,18 ss.), troviamo anche l’esortazione di Gesù ai suoi discepoli ad andare oltre, quando in qualche luogo non li si voglia ascoltare (Marco 6,11). Questa ambiguità si riflette nell’atteggiamento della Chiesa primitiva. Nell’impero romano ci fu sostanzialmente tolleranza religiosa, intesa come libertà di culto e di coscienza, fin quando nel terzo secolo, di fronte alle nuove minacce provenienti dall’esterno, la religione, rafforzata dagli imperatori pagani, fu sentita come strumento di coesione sociale e si giunse a ricorrere ad ampie misure contro i cristiani visti come dissidenti religiosi. Anche quando la legislazione degli imperatori cristiani favorì la Chiesa, non si può tuttavia parlare di una sistematica soppressione del paganesimo nel IV secolo. Troviamo un’eco della più antica idea romana di tolleranza negli anni Sessanta e Settanta, in relazione alle figure dell’imperatore Giuliano e di Simmaco, il leader dell’aristocrazia senatoria romana. Soltanto alla fine del secolo, dopo che negli anni 392-394 l’usurpatore Eugenio aveva ancora messo in atto una politica di tolleranza verso i pagani, sotto l’imperatore vittorioso Teodosio si aggravò ancora di più Ia condizione giuridica per i pagani (divieto di praticare riti pagani, di consultare l’oracolo di Delfi e di celebrare le Olimpiadi). Il Codice Teodosiano e il Codice di Giustiniano introducono numerose misure contro gli eretici e gli scismatici e provvedimenti contro pagani ed ebrei. Questa posizione fu approvata dagli scrittori ecclesiastici: Agostino da un lato sottolinea la libertà nelle scelte di fede, ma dall’altro non si oppone alle misure coercitive dello Stato contro gli eretici (ep. 185).

La situazione cambiò di nuovo radicalmente con la conversione dei Longobardi in Italia e degli altri popoli germanici. Mentre l’adesione alla fede cristiana nei primi tre secoli della storia della Chiesa era frutto di una decisione individuale, ora invece avveniva a livello collettivo nell’ambito di un gruppo o di un popolo. Questa evoluzione produsse nuove forme di costrizione religiosa, quali il mondo antico non aveva conosciuto (si pensi al massacro di Verden del 792 in cui furono uccisi, per ordine di Carlo Magno, 4500 Sassoni). Tale tipo di coercizione è concepibile soltanto attraverso una cooperazione tra potere temporale e statale, così come andò configurandosi a partire dal XII secolo anche nella lotta contro i vari movimenti eretici da parte dell’Inquisizione.

Nell’alto Medioevo troviamo spesso sovrani interessati ad uno scambio con il mondo culturale islamico e tolleranti nei confronti dei musulmani, come Ruggiero II di Sicilia (†1154), l’imperatore Federico II (†1250) e Alfonso il Saggio di Castiglia (†1284). Con Raimondo Lullo (†1316) inizia anche un discorso teorico..

Rinascimento. Le idee di Lullo sono riprese nel Rinascimento dal cardinale Niccolò Cusano (†1464), che in qualità vescovo-principe di Bressanone, dopo la caduta di Costantinopoli scrisse l’opera De pace fidei (1453), nella quale pose in risalto gli elementi comuni delle tre religioni monoteistiche. Per Cusano Dio è inconoscibile e ineffabile. Nelle varie epoche della storia del mondo, Dio ha inviato agli uomini dei profeti per dare loro insegnamenti. Le pratiche religiose (l’autore parla di “riti”) che ne costituiscono il risultato, condizionate nelle diverse religioni dal contesto storico, furono considerate dagli uomini come verità assoluta.

La pace tra le religioni è possibile se gli uomini si rendono conto che dietro le varie forme di pratica religiosa vi è un unico Dio. Queste forme trovano la loro giustificazione in quanto tentativi di avvicinamento al Dio inconoscibile e devono essere pertanto tollerate (anche le non cristiane). La posizione di Cusano, tuttavia, non sfocia nell’indifferentismo: occorre avvicinare a coloro che professano un’altra fede l’essenza del Cristianesimo a tal punto che possano riconoscervi il nucleo della propria religione. Le conclusioni raggiunte nel De pace fidei furono riutilizzate da Cusano sette anni più tardi nello scritto Cribratio Alkorani, applicate in modo specifico ancora all’Islam.

Analogamente il filosofo fiorentino Giovanni Pico della Mirandola (†1494) si propose di formulare una conciliazione fra tutte le dottrine religiose e filosofiche. Pico nelle sue 900 tesi tentò di armonizzare le tradizioni delle tre grandi religioni monoteistiche e ritenne la Cabala particolarmente conciliabile con il Cristianesimo. Nessuna religione possiede la verità assoluta. Piuttosto una “rivelazione originale”, che sta a monte rispetto alle rivelazioni delle varie religioni, è accessibile a tutti gli uomini come philosophia perennis. Sulla base di questa convinzione egli promuove il rispetto per le altre concezioni religiose.

Dopo la Riforma I: Tolleranza pragmatica. Nell‘antichità, nel Medioevo e nel Rinascimento il discorso della tolleranza aveva riguardato i non cristiani. In seguito però alla divisione confessionale dell’Europa causata dalla Riforma, l’orientamento cambiò. Il vivere accanto a cristiani di “altre confessioni” conferì al concetto di tolleranza religiosa una dimensione pragmatica e divenne un elemento fondamentale della ragione di stato. I principi sanciti dalla Pace di Augusta nel 1555, ratificati nella loro sostanza dalla Pace di Westfalia del 1648 (e validi anche nei principati vescovili di Trento e Bressanone) costituirono il modello per le normative successive. Dal momento che né i dialoghi sull’unità né le guerre di religione avevano risolto la questione confessionale, con tali accordi si garantì una convivenza pacifica fra persone mediante un complesso di strumenti politico-legali, senza che si giungesse già ad una asserzione di principio riguardo alla tolleranza nei confronti di quanti professavano una fede diversa, e senza che fossero compresi tutti i gruppi religiosi.

Lo stesso vale per l’Editto di Nantes (1598), che in Francia riguardava gli ugonotti calvinisti (ma non i luterani), e per il Bill of Rights (1689), documento sulla base del quale vennero protetti i gruppi separati dalla chiesa di stato anglicana (non però i cattolici). Un caso parallelo è rappresentato dal trattamento riservato ai Valdesi, il gruppo più numeroso di non cattolici presente in Italia. Nel 1532 il loro sinodo generale decise di aderire alla Riforma. Nell’ambito della controriforma, i duchi di Savoia perseguitarono i Valdesi. In particolare nelle Pasque piemontesi (1655) ebbero luogo scontri sanguinosi che, in seguito alle pressioni delle potenze internazionali, sfociarono nella concessione da parte del duca Carlo Emanule II di una limitata libertà religiosa ai Valdesi (Patenti di grazia del 1655). Un altro momento cruciale si ebbe con le persecuzioni del 1686. Costretti ad emigrare a Ginevra, i Valdesi dovettero difensersi. Avendo vinto contro i Piemontesi, il duca Vittorio Amedeo II di Savoia concesse loro ampia tolleranza. Le disposizioni del governo piemontese sono in linea con le normative sopra ricordate vigenti nel Sacro Romano Impero, in Inghilterra e in Francia, in quanto si tratta di insiemi di regole pragmatiche di natura politico-giuridica, ma non della tolleranza vera e propria nei riguardi di questa minoranza. Solo con le Lettere Patenti firmate dal re Carlo Alberto il 17 febbraio 1848 i Valdesi ottennero finalmente la piena libertà religiosa e la parità civile e politica. Il testo dice: “I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ Nostri sudditi … Nulla è però innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette”.

Nel Regno d’Italia, a partire dal 1861 anche altre confessioni religiose godettero di tolleranza religiosa, compresi gli ebrei ormai completamente emancipati. A Roma dopo il 1870 furono edificati numerosi edifici sacri non cattolici. Al tempo dello Stato Pontificio il culto non cattolico era stato possibile solo nelle ambasciate delle potenze straniere, come ad esempio avveniva nella cappella della legazione prussiana sul Campidoglio. Quando moriva un non cattolico a Roma, veniva sepolto nel Cimitero acattolico (l’11 ottobre 1821 il cimitero fu aperto ufficialmente con editto della Segreteria di Stato, dopo che già in precedenza vi erano state delle sepolture).

Dopo la Riforma II: Il discorso teoretico. Se i tentativi fin qui esaminati erano ancora di natura pragmatica, tesi cioè a risolvere i conflitti politico-giuridici tra le diverse confessioni, in una seconda fase (in parte parallela) si sviluppò un nuovo dibattito teoretico sul concetto di tolleranza. Erasmo da Rotterdam (†1536) si espresse ripetutamente contro l’applicazione di misure coercitive contro gli eretici, in particolare nell’opera Moriae Encomium (1509). Sospettato nel frattempo egli stesso di eresia, durante il Sacco di Roma del 1527, ammise che i sovrani possano agire contro i rivoltosi se l’ordine pubblico è minacciato, ma senza che venga applicata la pena di morte. La condanna al rogo dell’antitrinitario Michele Serveto nella Ginevra di Calvino mostrò chiaramente che i protestanti avevano uguagliato i cattolici quanto a durezza inquisitoria. Contro tali pratiche Sebastiano Castellione (†1563), nell’opera De haereticis, an sint persequendi, sulla scorta della tradizione dimostrò che gli eretici non dovrebbero essere perseguitati (1554). A partire dal XVII secolo i diritti civili fondamentali divennero sempre più spesso prioritari rispetto alle giustificazioni teonomiche tradizionali (sono da considerare pionieri John Locke, Baruch Spinoza, Samuel von Pufendorf, e successivamente Charles de Montesquieu e Thomas Jefferson). Dove l’appartenenza al sistema statale assicurò i diritti civili, non vi fu più spazio per l’intolleranza religiosa. Locke nella sua Lettera sulla tolleranza del 1689 si riferiva ancora ai non conformisti (cristiani non appartenenti alla Chiesa anglicana) ed escludeva cattolici e atei. In modo analogo già Spinoza aveva mostrato nel suo Tractatus theologico-politicus del 1670 che è per il bene dello Stato concedere ai sudditi la tolleranza religiosa.

Nell’Illuminismo si sviluppò l’idea di una religione razionale, la cui conseguenza logica fu un ethos della tolleranza nei confronti di appartenenti ad altre fedi (Voltaire, Gotthold Ephraim Lessing). Dopo la rivoluzione francese, con il riconoscimento anche politico dei diritti umani, la tolleranza religiosa divenne definitivamente un diritto appartenente ai cittadini in quanto tali, invece che una grazia concessa di tanto in tanto dalle autorità. La religione e la libertà di coscienza sono diritti di ogni essere umano in quanto tale. Anche se questa evoluzione fu rifiutata ancora da Gregorio XVI (Mirari Vos, 1832) e da Pio IX (Quanta Cura / Syllabus 1864), il termine tolleranza fu usato per la prima volta in senso positivo da Leone XIII: la tolleranza di altre forme di religione da parte dello Stato è consentita, se con essa può essere evitato un male maggiore (Immortale Dei, 1885).

Fonti e Bibl. essenziale

M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna. Dalla riforma protestante a Locke, Torino 1978; La questione della tolleranza e le confessioni religiose. Atti del convegno di studi, Roma, 3 aprile, 1990, Napoli 1990; La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, a cura di Mario Sina (= Cultura e storia 2), Milano 1991; A. Natale Terrin, La tolleranza nelle religioni di ieri e oggi, in Credere oggi 101 (1997), 47-63; G. Carobene, Tolleranza e libertà religiosa nel pensiero di Voltaire (= Classici sulla libertà religiosa 6), Torino 2000; De Pace Fidei. Die Toleranz. La tolleranza. Ein Schauspiel von Nikolaus von Kues, a cura di Philipp Steger (= SYN 6), Bressanone 2001; Wege zur Toleranz. Geschichte einer europäischen Idee in Quellen, a cura di Heinrich Schmidinger, Darmstadt 2002; F. Lomonaco, Tolleranza. Momenti e percorsi della modernità fino a Voltaire, Napoli 2005; A. Angenendt, Toleranz und Gewalt. Das Christentum zwischen Bibel und Schwert, Münster 32007; ‘Dignitatis Humanae’. La libertà religiosa in Paolo VI (= Colloquio Brescia, 24.-26.9.2004 / Istituto Paolo VI. Pubblicazioni 29), Brescia – Roma 2007; G. Salvini, La ‘Dignitatis humanae’. La libertà religiosa in Paolo VI, in La Civiltà Cattolica 159 (2008), 338-348; M. Cassese, Espulsione, assimilazione, tolleranza. Chiesa, Stati del Nord Italia e minoranze religiose ed etniche in età moderna, Trieste 2009; S. Salvadori, Sebastiano Castellione e la ragione della tolleranza. L’ars dubitandi fra conoscenza umana e veritas divina, Milano 2009; L. Sandoni (Hg.): Il Sillabo di Pio IX. Introduzione di Daniele Menozzi, Bologna, CLUEB, 2012.


LEMMARIO




Tomassoni Roberto


Dottorando di ricerca (2017-2020) presso le Università di Venezia “Ca’ Foscari”, Udine e Trieste (interateneo) con un progetto dal titolo “La collezione numismatica di Apostolo Zeno”. La ricerca è svolta mediante un accordo di collaborazione (cotutela) con la Westfälische Wilhelms-Universität Münster. Laurea Triennale in Conservazione dei Beni Culturali conseguita nel 2012 presso l’Università degli Studi di Udine, discutendo una tesi dal titolo “La monetazione greca di Locri Epizefiri”, relatore Professor Andrea Saccocci, votazione 103/110. Laurea Magistrale in Scienze dell’Antichità conseguita nel 2017 presso le Università degli Studi di Udine e di Trieste (interateneo), discutendo una tesi dal titolo “Il ripostiglio di denari marchigiani e ravennati di Esanatoglia conservati nel Museo Archeologico Nazionale delle Marche”, relatore Professor Andrea Saccocci, correlatore Professor Bruno Callegher, votazione 110/110 con lode. Schedatura di monete romane e medievali (2016-2017) presso il Museo Archeologico Nazionale delle Marche (Ancona). Componente della Missione Archeologica dell’Università di Udine PARTEN (Progetto Archeologico Terra di Ninive) nel periodo agosto-ottobre 2015. Schedatura di monete antiche (romane e tolemaiche) e medievali-moderne (cinesi) presso l’Oriental Museum di Durham (UK), nell’ambito del progetto Erasmus Placement, nel periodo luglio-settembre 2014. Schedatura di monete magno-greche della ex Collezione De Brandis, presso i Civici Musei di Udine, nel periodo aprile-settembre 2013. Pubblicazioni: Tomassoni R. 2014, Il Barile: una moneta nella Firenze del ‘500, “Il giornale della numismatica” 6; Tomassoni R. 2016, La moneta di Ancona e la riforma monetale di Giulio II, “Panorama Numismatico” 314; Saccocci A., Tomassoni R. 2017, Monete rinvenute nell’urna di San Ciriaco nella cattedrale di Ancona (XI-XII sec.) Museo Diocesano ‘Mons. Cesare Recanatini’ – Ancona, “Rivista Italiana di Numismatica” CXVIII.