Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
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Tosti Mario





Tradizionalismo - vol. II


Autore: Francesco Saverio Venuto

Origine e significati storici del Tradizionalismo. Il tradizionalismo rappresenta un complesso e composito fenomeno storico di carattere filosofico, politico, e teologico. Apparso in Francia all’inizio del XIX secolo e poi diffusosi nel resto dell’Europa come reazione ai “dogmi” della Rivoluzione francese, esso è stato innanzitutto una teoria filosofica con conseguenze politiche e, in seguito, anche una tesi teologica. J. De Maistre (1754-1821), L. de Bonald (1754-1820) e F. de Lamennais, suoi principali sostenitori, intesero condannare, pur con differenti sfumature di contenuto, le idee fondamentali dell’Illuminismo (razionalismo, individualismo, scetticismo) ritenute la fonte ispiratrice del movimento rivoluzionario francese. Secondo tali pensatori, soltanto la “restaurazione” della religione cattolica, unitamente alla proclamazione dell’infallibilità pontificia in senso massimalista (ultramontanismo), dell’istituzione monarchica secondo l’Ancien régime e della loro reciproca autorità, avrebbe potuto garantire la costituzione di una “giusta” società, pienamente adeguata alla “verità metafisica”. Questa non si manifesta come un’evidenza raggiunta con la sforzo di un’impotente ragione individuale, quanto piuttosto come un’autorità da accogliere per “tradizione” (secondo il senso letterale del termine latino tradere), ovvero come una “primitiva” rivelazione da parte di Dio verso l’uomo, trasmessa per senso comune attraverso i secoli alla società degli uomini (ragione collettiva). Al teatino napoletano Gioacchino Ventura (De methodo philosophandi, 1828) si deve la divulgazione e l’interpretazione in Italia di questa “scuola” di pensiero francese e, in particolare, delle tesi di F. de Lamennais, che ebbero soprattutto il merito di offrire una voce più persuasiva a posizioni filosofiche similari e già presenti in ambito italiano, piuttosto che influenzarle. Il Ventura, diversamente dai “fondatori del tradizionalismo”, non escluse del tutto un’autonomia argomentativa della ragione naturale, riguardo all’esistenza di Dio, all’immortalità dell’anima e ai fondamenti della morale, sebbene continuò a difendere una previa e necessaria rivelazione da parte di Dio verso gli uomini, almeno per una loro prima conoscenza. Gregorio XVI con le encicliche Mirari vos (1832) e Singulari nos (1834) riprovò i teoremi del tradizionalismo, anche se fu il Concilio Vaticano I con la Costituzione Apostolica Dei Filius (1870) a condannarne in modo più puntuale le erronee tesi in ambito filosofico e teologico, riaffermando una piena fiducia nella possibilità della ragione umana di poter giungere per analogia alla conoscenza dell’esistenza di Dio dalle cose create, all’immortalità dell’anima e ai fondamenti della legge naturale, e allo stesso tempo, la necessità della Rivelazione per poter accedere alle realtà divine di per sé inaccessibili alla sola ragione umana.

Un “nuovo” Tradizionalismo: Chiesa e modernità. Il tradizionalismo, nonostante l’esplicito anatema di carattere filosofico e teologico da parte del Vaticano I, sopravvisse attraverso una serie di particolari trasformazioni e denominazioni. In Italia tra il XIX e il XX secolo si attestò come mentalità politico-ecclesiale. Fenomeni come l’intransigentismo (posizione contraria a qualsiasi forma di collaborazione e partecipazione politica con espressioni politiche di stampo liberale della nascente Italia) e l’integralismo (derivazione acritica di scelte e forme politiche dalla fede) caratterizzarono una gran parte del cattolicesimo italiano attraverso l’Opera dei Congressi della seconda metà del XIX secolo di fronte al nascente Stato italiano. La crisi dei regimi liberali e l’affermarsi di forti ideologie politiche anticristiane nella prima metà del XX secolo concorsero a rafforzare le tesi di alcune correnti di pensiero cattolico, secondo le quali tali fenomeni altro non erano che un’ulteriore e nociva evoluzione dei principi di libertà, di fraternità e di uguaglianza della Rivoluzione Francese. Movimenti come l’Action française di Ch. Maurras (1868-1952) o, come nel caso italiano, esponenti cattolici di rilievo laici ed ecclesiastici, di fronte al dilagare dell’ateismo del comunismo di stampo marxista-leninista favorirono una collaborazione con il regime fascista nell’illusione che esso, pur se di natura ideologica, potesse essere considerato meno pericoloso di altri affini e quindi facilmente cristianizzato. Per quanto tali movimenti venissero presentati come difensori dei valori cristiani di fronte al pericolo del socialismo reale, furono esplicitamente condannati dal magistero di Pio XI, perché costituivano una strumentalizzazione e una subordinazione della fede e della religione alla politica. Nonostante la disapprovazione ufficiale del pontefice rispetto ad alcuni orientamenti ambigui del clero e del laicato, soprattutto in ambito associativo, il tradizionalismo come sistema filosofico e teologico non scomparve. Esso, trasformatosi nelle sue espressioni, mantenne tuttavia invariati i principi teorici di fondo.

Agli inizi degli anni ’60, con il Concilio Vaticano II e poi nella fase successivo ed esso, il tradizionalismo come sistema filosofico-teologico comparve nuovamente, polemizzando all’interno degli ambienti ecclesiali contro la legittimità di un aggiornamento ecclesiale di carattere dottrinale e pastorale, sulle possibili realizzazioni, e principalmente sull’ipotesi di avviare un dialogo tra Chiesa e modernità, congiuntamente alle pericolose conseguenze che esso avrebbe inevitabilmente comportato. Proprio a partire dal confronto con la modernità, la quale con i suoi principi filosofici veniva considerata la causa prima di un pericoloso relativismo e snaturamento del bimillenario depositum fidei della Chiesa, il tradizionalismo si propose innanzitutto il compito di difendere la Tradizione, non soltanto salvaguardandone l’integralità, ma evitandone anche la necessaria ermeneutica. Esso riconduceva la Tradizione ad un archetipo ipostatico, alieno alla storia e alle sue dinamiche, considerate le premesse di un’insanabile corruzione del patrimonio della fede cristiana. Alcune tra le principali forme storiche della Chiesa, relative al dogma, alla morale, alla liturgia, alla disciplina e all’istituzione, estrapolate acriticamente dalla dinamica storico-ecclesiologica di Tradizione-Progresso, divengono così espressione di una riflessione teologica sclerotizzata, nettamente separata dalla storia. Un tale fenomeno non potrebbe essere pienamente compreso se non si facesse riferimento al Vaticano II, al post-Concilio con il ’68 e al progressismo, espressione teologica di segno opposto. Il Concilio, con il suo programma di aggiornamento interpretato e riletto, senza le necessarie distinzioni, specialmente in relazione agli avvenimenti posteriori, veniva così definito il concilio dell’anti tradizione e della vittoria del fronte progressista, ovverosia di quella posizione filosofico-teologica che sottometteva in modo ipercritico la fede alla storia, relativizzandola fino al punto di assecondare un’apostasia generale all’interno della Chiesa. Per tali ragioni il Vaticano II, in relazione alla liturgia, al rapporto Tradizione-Scrittura, alla collegialità episcopale, all’ecumenismo e al dialogo interreligioso e alla libertà religiosa doveva essere rifiutato. Il principale capofila del tradizionalismo fu Mons. Marcel Lefebvre, fondatore della Fraternità Sacerdotale di San Pio X per la difesa della Tradizione. Il movimento tradizionalista del presule francese si è diffuso anche in Italia (Albano Laziale in provincia di Roma), pur se in modo limitato, caratterizzandosi attorno ad alcuni temi: l’appartenenza della Fraternità alla Chiesa Cattolica, unitamente alla neutralizzazione della scomunica comminata al vescovo francese per aver consacrato dei vescovi senza il mandato della Santa Sede, e il rifiuto categorico del Concilio Vaticano II. Queste e altre tesi sono diffuse attraverso la rivista Si Si No No, ideata e realizzata a partire dal 1975 dal sacerdote italiano don Francesco Putti con la fedele collaborazione del biblista don Francesco Spadafora. Un consenso maggiore, tuttavia, fu raggiunto da un movimento più radicale e in disaccordo con quello lefebvriano, soprattutto in relazione all’autorità del pontefice romano e alla possibilità di interpretare il Vaticano II alla luce della Tradizione: il sedevacantismo. Questo, oltre a ripudiare in modo radicale il Concilio, sostiene la tesi per cui dopo la morte di Pio XII la Chiesa non avrebbe più avuto una sua guida, secondo alcuni in senso assoluto o secondo altri soltanto in senso formale, perché i successori di Pacelli avrebbero apostatato dalla fede con gli insegnamenti conciliari. Espressione di questa corrente è la rivista Sodalitium, a cura dell’Istituto Mater Boni Consilii (Verrua Savoia in provincia di Torino), all’interno della quale, oltre che sulla critica alla debole posizione di Mons. Lefebvre, si insiste nel collegare la crisi della Chiesa al malefico influsso congiunto tra ebraismo e massoneria. In ogni caso entrambi i movimenti rappresentano un’appendice di un fenomeno ecclesiale tipicamente francese in Italia.

Nell’ambito del cattolicesimo italiano, sul tema del tradizionalismo è doveroso tenere presenti due particolarità.

Primo. È opportuno distinguere l’accezione “tradizionalismo” da quella di “conservatorismo”. Con quest’ultimo termine si definisce una scelta che a livello ecclesiale coincide con l’atteggiamento di coloro che rimangono ancorati ad alcune particolari strutture come espressioni della dimensione istituzionale della Chiesa e del suo rapporto con il mondo (per esempio, preferenza per un regime di cristianità, piuttosto che per uno laico basato sulla libertà religiosa), oppure ad una particolare impostazione e modalità teologica nel formulare la dottrina. In questo secondo caso l’espressione “conservare” rappresenta, insieme a quella complementare di progresso, una delle forze necessarie nella dinamica dello sviluppo dottrinale. In questo senso deve essere ugualmente giudicata la posizione teologica della cosiddetta “minoranza” conciliare, che si espresse anche attraverso il raggruppamento del Coetus Internationalis Patrum, all’interno del quale hanno assunto un ruolo significativo alcune tra le più significative personalità dell’episcopato italiano del tempo, come l’Arcivescovo di Genova, Card. Giusppe Siri, l’Arcivescovo di Pelermo, Card. Ernesto Ruffini, e il Vescovo di Segni, Mons. Luigi Carli. Questi presuli, insieme ad altri dello stesso gruppo conciliare, non si opposero in senso aprioristico all’aggiornamento del Vaticano II, non sostennero mai una definizione rigida della Tradizione, ma furono piuttosto orientati ad una più moderata introduzione di riforme. Gli stessi, inoltre, si distinsero per una comune adesione e fedeltà alla scuola teologica romana di impianto neotomista, differente dal tentativo di un rinnovamento biblico-patristico della teologia di area franco-tedesca, e soprattutto rifiutarono di appoggiare l’atteggiamento e i toni di Mons. Lefebvre verso la Santa Sede.

Secondo. Se il “tradizionalismo” tende a confluire nel “conservatorismo”, rispetto al quale differisce sostanzialmente per il fatto che rifiuta in modo assoluto e radicale che la Tradizione possa essere oggetto di un possibile sviluppo insieme al dogma, il conservatorismo può in alcuni casi assumere toni tradizionalisti, senza tuttavia identificarsi pienamente con esso. Questo è il caso tipico italiano. Il tradizionalismo in generale ha tratteggiato alcuni ambienti ecclesiali italiani di stampo conservatore, specialmente nella difesa della Tradizione (per esempio l’esperienza di due riviste: Chiesa viva, fondata dal sacerdote Luigi Villa, sostenuta dai Cardinali Pietro Parente, Pietro Palazzini, Alfredo Ottaviani e da Mons. Antonio Piolanti; Renovatio, voluta dal Cardinale Giuseppe Siri, e affidata dallo stesso a Gianni Bager Bozzo). Ma diversamente, dal movimento lefebvriano, il tradizionalismo italiano si è dimostrato fin dall’inizio contrario ad atti di ribellione contro la Santa Sede e fedele ad essa, agli insegnamenti dei Pontefici, e al Vaticano II interpretato secondo la Tradizione e limitatamente alla sua natura strettamente pastorale. Nel caso italiano la discussione postconciliare da parte del tradizionalismo-conservatorismo si è concentrata su due grandi temi: gli sviluppi della riforma liturgica e l’identità della dottrina sociale della Chiesa. Il primo argomento trova ampio spazio nella sezione italiana della rivista e associazione Una Voce, in difesa della liturgia tradizionale-gregoriana secondo il Messale del 1962, con osservazioni assai critiche verso la riforma liturgica attuata da Paolo VI. La difesa della dottrina sociale della Chiesa si coagula intorno al gruppo di Alleanza Cattolica e alla sua rivista Cristianità, con connotazioni fortemente controrivoluzionarie.

Fonti e Bibl. essenziale

R. Amerio, Iota unum. Studio sulle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX, Lindau, Torino 2009; Cl. Bresolette, Tradizionalismo, in J.Y. Lacoste (ed.), Dizionario critico di teologia, Borla-Città Nuova, Roma 2005, 1370-1371; N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il Concilio Vaticano II, Edizioni Studium, Roma 2003; Y. Congar, La crisi nella Chiesa e Mons. Lefebvre, Queriniana, Brescia 1976; É. Coreth – W.M. Neide – G. Pfligerdsdorffer (edd.), La filosofia cristiana dei secoli XIX e XX, Città Nuova, Roma 1994-1995; Chr. Gabrieli, Uno scisma moderno. La comunità lefebvriana, EDB, Bologna 2012; D. Menozzi, L’anticoncilio (1966-1984), in G. Alberigo – J.-P. Jossua (edd.), Il Vaticano II e la Chiesa, Paideia, Brescia 1985, 433-464; G. Miccoli, La chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Laterza, Roma-Bari 2011; M. Ravera (ed.), Introduzione al tradizionalismo francese, Laterza, Roma-Bari 1991; A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Laterza, Roma-Bari 1996.


LEMMARIO




Trampus Antonio





Tribunali della Curia romana - vol. I


Autore: Irene Fosi

Il pontefice romano, in qualità di giudice supremo del mondo cattolico, esercita la giustizia da sé o attraverso i tribunali della sede apostolica o suoi delegati: questo assunto, presente nell’attuale Codice di Diritto Canonico, riflette gli esiti giurisdizionali di un complesso percorso plurisecolare dei tre tribunali supremi della Curia romana. Essi sono: il tribunale della Rota romana, il tribunale supremo della Segnatura e la Penitenzieria apostolica.

Il tribunale della Rota. Le sue origini risalgono al medioevo quando, nel XIII secolo, gli Auditores generales causarum Sacri Palatii Apostolici, ufficiali con i quali il pontefice trattava le cause di tutto l’orbe cattolico, separandosi dalla cancelleria pontificia, assunsero fisionomia autonoma, si costituirono in collegio e fu delegato loro il compito di giudicare le cause presentate a Roma da ogni parte della cristianità. Varie ipotesi sono state avanzate per spiegare il nome: forse dalla chiesa di S. Caterina della Rota, alla quale appartenevano i giudici; dall’uso di riunirsi in circolo o attorno ad un tavolo a forma di ruota; dal modo di presentare le suppliche e i memoriali avvolti come rotuli. Il tribunale fu in seguito regolamentato nelle procedure, nelle competenze assai vaste – aveva giurisdizione anche in materia di diritto feudale – e fu definito il numero dei suoi componenti. Con la costituzione Romani Pontificis, emanata da Sisto IV nel 1472, la sua struttura fu costituita da un collegio di dodici uditori, che avevano il rango di protonotari apostolici. I requisiti di accesso all’uditorato erano la legittimità dei natali, la laurea in utroque iure, i buoni costumi, una rendita annua di almeno 200 fiorini di Camera. Il carattere multinazionale del collegio, presente fin dalle sue origini e riflesso, secondo il cardinale G.B. De Luca, della sua universalità, fu definito nel corso del XVI secolo: fu costituito da tre uditori romani, un bolognese, un ferrarese nominati direttamente dal papa; un milanese e un veneziano scelti dal pontefice fra una rosa di candidati presentati dalle due città; un francese, due spagnoli, un soggetto imperiale presentati dalle rispettive corone; un fiorentino o un perugino, della cui nomina non si conoscono le procedure. Il tribunale rotale, a differenza di altri, doveva, prima di emettere la sentenza, renderne pubbliche le motivazioni, redatte di solito dall’uditore cui era stata affidata la causa (ponente). Questo materiale (decisiones) costituì un riferimento essenziale sia per interpretare norme del diritto canonico e civile e rappresenta solo una parte di un’imponente documentazione archivistica conservata, quasi interamente, nell’Archivio Segreto Vaticano.

Nel corso dell’età moderna la posizione e il ruolo svolto da alcuni auditori di Rota per i rispettivi governi rivestì notevole importanza, coadiuvando, ma anche sovrapponendosi, talvolta, alle rappresentanze diplomatiche ufficiali delle potenze cattoliche presenti a Roma. Per le città dello Stato Pontificio e per gli stati italiani, gli auditori di Rota costituirono un potente legame fra la Curia romana, la corte pontificia e le aristocrazie e i patriziati locali. La definizione della Rota come ‘sacra’ e ‘romana’ intendeva sottolinearne la natura di tribunale supremo del papa, distinto dalle altre Rote presenti sia nello Stato Pontificio che in altri stati. I tribunali rotali delle città dello Stato Pontificio, come Perugia, Bologna, Ferrara, si configurarono, nel corso dell’età moderna, come espressione dell’autonomia municipale, in contrapposizione, talvolta, con i tribunali del legato pontificio. Nella seconda metà del Cinquecento le competenze universali della Rota romana furono ribadite da Pio IV e nella riforma dei tribunali voluta da Paolo V con la costituzione Universi agri dominici (1612) le facoltà giurisdizionali del tribunale rotale furono estese alle cause beneficiali e matrimoniali, ai processi di beatificazione e di canonizzazione, in particolare riguardanti l’eroicità delle virtù e il martirio. Papa Borghese intendeva ridurre il crescente potere giurisdizionale delle congregazioni, istituite o riconfigurate da Sisto V e da Clemente VIII, che aveva suscitato conflitti di competenza proprio con i supremi tribunali della Curia romana. Nonostante l’apparente staticità, come ha rilevato P. Prodi, il tribunale subisce durante i primi secoli dell’età moderna un progressivo cambiamento già avvertito alla fine del Seicento dal De Luca. Il cardinale, che aveva fatto parte del tribunale rotale, individuava la perdita del carattere universale dello stesso nella frattura prodotta nella cristianità dalla Riforma, nella crescente ostilità dei sovrani di rimettere alla Rota le cause istruite e giudicate nei loro territori, la maggiore chiarezza della normativa in materia beneficiale. Tuttavia nella carriera curiale restava fondamentale il passaggio per l’uditorato di Rota, considerato un gradino che poteva condurre al cardinalato.

Con Alessandro VII fu riformato l’accesso a questo ufficio. Con Benedetto XIV le facoltà della Rota furono ulteriormente precisate e riguardarono le cause di beatificazione e canonizzazione, le cause di nullità della professione religiosa e lo scioglimento degli ordini sacri, il contenzioso civile, laico ed ecclesiastico, le cause beneficiali e tutte le cause inoltrate dai tribunali inferiori, laici ed ecclesiastici, che trasformarono la Rota romana in un tribunale di appello. Dopo i turbolenti anni del dominio francese, durante i quali interruppe la sua attività fra il 1798-1799 ed il 1809-1814, il tribunale rotale fu ripristinato una prima volta da Pio VII nel 1800 e nel 1814, al ritorno del pontefice nei suoi stati. Pio VII, nel 1821, lo rese competente anche per l’appello nelle cause di carattere commerciale; Gregorio XVI con il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili (1834) ne limitò le competenze e divenne tribunale di appello ordinario per le cause civili ed ecclesiastiche per Roma e lo Stato Pontificio, perdendo così la funzione di tribunale supremo universale, per trasformarsi in tribunale delegato per cause deferite alla sua competenza dal papa, dalla Segnatura di Giustizia o da congregazioni romane.

Tribunale della Segnatura. È uno dei tribunali supremi della Curia romana, insieme alla Rota e alla Penitenzieria, che ha origine anch’esso nel XIII secolo, quando i pontefici dettero facoltà ad alcuni curiali di riferire loro sommariamente il contenuto di suppliche, dopo averlo considerato alla luce delle norme del diritto canonico. La decisione e la firma – la segnatura, appunto – sarebbero state apposte dai pontefici sugli atti precedente preparati da notai, inizialmente, e poi dai cosiddetti referendari. La definizione dei compiti e del numero dei referendarii avvenne nel ‘400, dopo il concilio di Costanza, e successivamente, sotto Eugenio IV, essi costituirono un organismo che prese il nome di Segnatura, proprio dall’atto finale con il quale il pontefice firmava le decisioni in merito alle domande di grazia e di giustizia. Era, questa, un’espressione fondamentale del potere sovrano: il papa, fonte di giustizia e grazia, ascoltava le suppliche dei sudditi che si sentissero gravati da decisioni definitive e inappellabili di altri tribunali e decideva superando i limiti previsti dalle norme (suprema et absoluta papae potestas dispensandi vel derogandi). La monarchia pontificia, nel Quattrocento, si mostrava così rafforzata anche con la costituzione e regolamentazione di questo tribunale supremo. Proprio negli ultimi decenni del XV secolo – la data precisa non è stata stabilita ma si indica il 1491 o 1492 – il tribunale si scisse in due branche parallele e autonome, ma strettamente correlate: la Segnatura di Grazia, competente per l’esame di suppliche in materia amministrativa, aveva il compito di risolvere le cause con equità, non conosceva un limite pecuniario delle cause stesse, emanava sentenze alla presenza del papa. La Segnatura di Giustizia, alla quale erano demandati l’esame e l’approvazione delle suppliche in materia giudiziaria, doveva agire nei limiti del diritto, vigilare sulla correttezza delle procedure e sull’azione dei giusdicenti. La funzione suprema del tribunale apostolico fu celebrata anche dagli affreschi che Raffaello dipinse nella stanza della Segnatura, nel palazzo Vaticano, fra il 1508 e il 1511.

Dall’inizio del Cinquecento, la Segnatura di Giustizia si configurò come tribunale supremo della Curia con ampie competenze: poteva infatti conoscere le cause sia contenziose che criminali, ecclesiastiche e civili, sia in prima istanza che in appello per difetti di forma e per giudizio nel merito, di tutto lo Stato Pontificio, escluse quelle demandate al tribunale della piena Camera, al tribunale del Campidoglio. Non sottostavano inoltre alle due Segnature i tribunali di congregazioni come il Sant’Uffizio, Buon Governo, Vescovi e Regolari, Sacra Consulta. Nella seconda metà del Cinquecento, pontefici come Pio IV e Sisto V regolamentarono soprattutto le competenze della Segnatura di Giustizia e definirono il numero e i requisiti per poter accedere alla carica di referendario, diventata molto ambita per chi aspirava alla carriera curiale e per i privilegi che comportava, fra i quali la possibilità di legittimare i figli naturali e l’immunità di fronte alla giurisdizione vescovile per sé e per i propri familiari.

Alessandro VII, nel 1659, stabilì nuove e precise regole per il cursus honorum dei referendari, potenziandone soprattutto la formazione in utroque e in teologia e richiedendo la pratica legale svolta presso avvocati o nella stessa Curia. Non mancarono, nel corso del Seicento, concessioni di ulteriori privilegi da parte di pontefici per compensare il servizio, la fedeltà, l’amicizia e altri legami che si instauravano all’interno della Curia e della corte romana. Contrasti per la precedenza nelle cerimonie suscitarono in questo periodo accese dispute fra i referendari e i generali degli ordini religiosi. Già sotto Innocenzo X era mutata la prassi del supremo tribunale: i ricorsi nelle cause in criminalibus non venivano più discussi nella Segnatura di Giustizia, ma dall’uditore del cardinale prefetto. Sebbene manchino ancora studi specifici che chiariscano le pratiche del tribunale e i suoi rapporti con altri uffici curiali, si può affermare che il suo potere venne restringendosi, rimanendo come corte di appello per cause romane o di quelle provenienti solo da alcune parti dello Stato Pontificio. Fra XVI e XVIII secolo anche la Segnatura di Grazia perse progressivamente la sua funzione, assorbita dalla Dataria, dalla Segreteria dei Brevi e dall’Uditore del papa.

Tribunale della Penitenzieria Apostolica. È un supremo tribunale di grazia che concede, dietro pagamento, assoluzioni e dispense in base alla potestas ligandi et solvendi del pontefice: dispensare e assolvere da scomuniche, interdetti, censure sia nel caso di irregolarità di stato giuridico (matrimoni nei gradi proibiti) che sacramentale (ordini sacri). Sembra aver avuto origine già nel VII secolo, quando compare la figura del cardinale penitenziere, incaricato di rappresentare il pontefice davanti ai fedeli che giungevano a Roma o inoltravano suppliche per risolvere questioni di coscienza e, più tardi, casi riservati solo al papa. Infatti già nel XII secolo il tribunale appare strutturato per aiutare il papa ad assolvere i peccati gravi riservati alla sua suprema autorità. Le sue competenze riguardavano il foro interno, ma nel corso dei secoli, la sua giurisdizione si ampliò sconfinando nel foro esterno, nella giustizia penale e capitale – sacrilegio, lesa maestà papale, eresia – così come crebbe il numero dei componenti il tribunale. In particolare, con la prima celebrazione dell’anno santo, nel 1300, i penitenzieri acquisirono un potere riconoscibile anche da un rituale che sottolineava il carattere giudiziario del loro operato. Infatti, i penitenzieri minori delle basiliche romane, costituiti in collegio, toccavano con una lunga bacchetta i pellegrini e i penitenti inginocchiati davanti a loro per ottenere trenta giorni di indulgenza. Il cardinale Penitenziere maggiore celebrava questo rito pubblicamente solo quattro volte l’anno, in occasione della Domenica delle Palme a S. Giovanni in Laterano, il mercoledì santo in S. Maria Maggiore, giovedì e venerdì santo nella basilica di S. Pietro e concedeva cento giorni di indulgenza.

Nel corso del ’400, la figura del Penitenziere maggiore assunse nella Curia un ruolo di straordinaria importanza, soprattutto sul piano finanziario, rendendo necessari interventi sia da parte di Martino V che di Sisto IV (1484) per ridimensionarne il potere divenuto ormai di giurisdizione ordinaria e per ridefinire le competenze, poiché l’assoluzione dei casi riservati era divenuta una cospicua e scandalosa fonte di rendita. Anche nel secolo successivo il tribunale e il cardinale Penitenziere furono oggetto di continui tentativi di riforma che miravano a circoscriverne il potere non sempre limitato alla risoluzione dei casi riservati e di foro interno. In particolare le riforme di Pio IV (1562) e Pio V (1569), oltre a ristrutturare anche nel numero dei componenti il tribunale, limitarono la funzione giurisdizionale solo al foro interno, rendendolo esecutore della bolla In Coena Domini che, proclamata dal papa il giovedì santo, enunciava l’elenco dei casi la cui assoluzione era riservata al papa. Inoltre Pio V attribuì agli ordini religiosi il ruolo di penitenzieri nelle basiliche romane e stabilì che fossero francescani i penitenzieri minori di S. Giovanni in Laterano, domenicani quelli della basilica di S. Maria Maggiore e gesuiti quelli di S. Pietro. La funzione di questi ultimi rivestiva anche un particolare significato rituale: al cardinale penitenziere maggiore spettava infatti l’assoluzione del pontefice sul letto di morte, ai penitenzieri minori la preparazione della salma del pontefice defunto e la recita delle esequie prima della tumulazione. La limitazione delle competenze della Penitenzieria al foro interno imposta dai pontefici nella Controriforma mirava soprattutto a separare la sua giurisdizione da quella dell’Inquisizione nella lotta all’eresia.

Tuttavia, nel corso del Seicento, il tribunale superò nuovamente i limiti imposti, confliggendo con la giurisdizione di congregazioni, in particolare con l’Inquisizione. Il potere dei penitenzieri, che usavano l’oraculum vivae vocis nella concessione di assoluzioni di casi riservati, rese necessari ulteriori interventi per ripristinare il limite giurisdizionale al foro interno sia da parte di Urbano VIII (1634) che di Innocenzo XII (1692). Rimase però alla Penitenzieria la facoltà di assolvere nel foro interno gli eretici nei territori in cui non fosse presente l’Inquisizione. Infine, da Benedetto XIV (1744) furono di nuovo distinte con precisione le facoltà di assolvere da peccati e censure sia in foro interno che esterno, da casi riservati, concedere dispense matrimoniali, risolvere tutti i dubbi sottoposti all’autorità del sommo tribunale. La Penitenzieria divenne lo strumento per tutelare «l’uniformità e la disciplina interna del popolo cristiano…[e] diviene la sede dove si elabora e si applica la disciplina ecclesiastica, il punto di riferimento per la teologia morale, per il nuovo sistema normativo della vita cristiana» (Prodi, 311-313).

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Tuninetti Giuseppe





Turchini Angelo





Università - vol. I


Autore: Raffaele Savigni

Lo sviluppo culturale dell’Europa occidentale nei secoli XI-XII favorì la nascita di nuovi centri di istruzione superiore, che, pur presentando qualche affinità con esperienze precedenti (come le “case della scienza” del mondo islamico), rappresentano un fenomeno sostanzialmente nuovo, di dimensione internazionale, che accompagna l’emergere della figura moderna dell’”intellettuale” ed al tempo stesso si caratterizza per un legame più o meno stretto con la Chiesa (sottolineato da Boncompagno da Signa, per il quale «ordo quippe scholasticus est ecclesie speculum»). Le università, nate dall’incontro tra studenti e docenti ma inizialmente prive di locali appositi e di strutture stabili, assumono progressivamente, intorno al 1200, una più precisa configurazione giuridica come Studia promossi e governati da associazioni (universitates) di docenti (come a Parigi) o studenti (come a Bologna), in una complessa e variabile interazione con i due poteri universali (Papato ed Impero, ai quali Alessandro di Roes aggiunse, alla fine del ʼ200, proprio lo Studium per formare un trittico ideale) e con le autorità locali. Il primo Studio italiano, quello bolognese, sorto da una comitiva di docenti e studenti di diritto, si sviluppa progressivamente come istituzione incentrata sulla universitas scholarium (poi articolata in nationes): allo studio del diritto romano si affianca quello del diritto canonico, e, nel secolo XIV, anche della medicina, delle arti, della teologia.

Sulle origini dello Studio di Bologna (per il quale, diversamente dal caso parigino, non è dimostrabile un preciso legame con una preesistente scuola della cattedrale, anche se G. Ropa ha raccolto alcuni indizi della vitalità della cultura ecclesiastica bolognese del sec. XI, a partire dal celebre Codice Angelica 123), si è sviluppato negli ultimi decenni un vivace dibattito: se Carlo Dolcini ha ipotizzato un ruolo decisivo del vescovo filoimperiale  Pietro (forse identificabile con il misterioso Pepo che secondo fonti più tarde avrebbe insegnato diritto a Bologna prima di Irnerio: si veda l’allusione di Rodolfo il Nero, intorno al 1180, «Cum igitur a magistro Peppone velut aurora surgente iuris civilis renasceretur initium»), Giovanna Nicolaj ha ricondotto piuttosto la figura di Pepo ad un ambiente notarile. Da parte sua Giuseppe Mazzanti ha attribuito a Irnerio un curriculum di studi anche teologici, che sarebbe sfociato nella redazione di un Liber divinarum sententiarum (di cui lo stesso Mazzanti ha fornito l’edizione critica: Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 1999): ma questa proposta non è condivisa da molti storici del diritto. Non appare più sostenibile l’ipotesi, accreditata nel ‘200 dal giurista bolognese Odofredo, di una translatio dei libri legales da Roma a Ravenna e di qui a Bologna, e sembra preferibile sottolineare il policentrismo che caratterizzava la realtà culturale del secolo XI.

Con la costituzione autentica Habita di Federico I (1155) gli studenti approdati a Bologna per frequentare lo Studio («fatti esuli dall’amore della scienza») vennero sottratti alla giurisdizione comunale e sottoposti al giudizio del loro maestro o, a scelta, del vescovo. Più tardi, per nobilitare lo Studio bolognese nel momento in cui Federico II creava l’Università di Napoli (1224), vietando ai sudditi del Regno di Sicilia di frequentare scuole al di fuori del Regno stesso, venne fabbricato (intorno al 1225) il falso privilegio teodosiano, che riconduceva a Teodosio II la fondazione dell’Ateneo bolognese. Sebbene il Comune cercasse di trattenere a Bologna i docenti mediante l’imposizione di vincoli giuridici e la concessione di benefici economici (ad esempio assicurando un salario ai maestri che insegnavano nello studium locale), si verificarono diverse migrazioni di studenti e docenti, che diedero origine agli Studi (talora destinati al successo, talora di durata effimera) di Modena (discusso trasferimento di Pillio da Medicina, 1182), Vicenza (1204), Arezzo (1215), Padova (1222), Vercelli (1228: trasferimento promosso da studenti padovani col sostegno attivo del Comune di Vercelli). I nuovi Studi sorti nella penisola in seguito alla volontaria migrazione di gruppi di studenti e professori seguono sostanzialmente il modello bolognese (quello dell’universitas scholarium: è il caso della «societas bazallariorum et scollarium liberalium arcium de Studio paduano» che nel 1262 approva la Cronaca di Rolandino da Padova) piuttosto che quello parigino (incentrato sull’universitas magistrorum e maggiormente dipendente dall’autorità ecclesiastica, che controllava lo Studio tramite la figura del cancelliere vescovile); ma sembra che quest’ultimo abbia esercitato un’influenza sulla nascita dell’Ateneo pisano, formalmente sancita da Clemente VI nel 1343. Nel secolo XIII venne utilizzato, per indicare un centro di studi superiori capace di attirare studenti da tutta Europa, il termine Studium generale; e a questi Studi venne riconosciuto dal pontefice, nel 1291, il potere di conferire la licentia ubique docendi, che estendeva la validità della licentia docendi (la laurea con valore legale) già introdotta nei decenni precedenti (nel quadro di un processo di istituzionalizzazione che implicò il superamento dell’iniziale spontaneismo) e conferita dall’autorità ecclesiastica. A Bologna tale compito fu affidato nel 1219 da papa Onorio III non al vescovo o al suo cancelliere, ma all’arcidiacono: come ha osservato Lorenzo Paolini, questo provvedimento non riflette tanto una volontà di ingerenza della Chiesa (che appare invece più evidente verso la fine del secolo), quanto piuttosto l’intento di favorire un superamento delle tensioni che negli anni precedenti avevano caratterizzato i rapporti tra studenti, docenti ed autorità cittadine (le quali tentavano di sottoporre lo Studio al proprio controllo). L’intervento papale bloccò le pressioni localistiche e salvaguardò il respiro internazionale dello Studio, ma non eliminò il vaglio scientifico dei candidati da parte della commissione esaminatrice, in quanto il compito dell’arcidiacono si limitava al conferimento del titolo finale nel quadro di una cerimonia pubblica.

A Bologna la nascita di una vera e propria universitas scholarium, ben presto articolata in nationes, ma chiamata a rappresentare unitariamente gli studenti di fronte alle autorità comunali, va collocata tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo: dopo un’iniziale divisione tra studenti citramontani (italici) e ultramontani, nel 1265 è attestata l’esistenza di ben tredici nationes ultramontane, che fissarono i criteri di rotazione per l’elezione del loro rettore. Gli studenti d’oltralpe erano mediamente più anziani e studiavano prevalentemente diritto canonico, mentre quelli italiani privilegiavano lo studio del diritto civile. Se Parigi mantenne a lungo il monopolio sull’insegnamento universitario della teologia, nel 1360 Innocenzo VI istituì anche a Bologna la facoltà di teologia, che, inaugurata nel 1364, fu affidata al controllo dell’arcivescovo, il quale assumeva la funzione di cancelliere. Tale facoltà svolse però un ruolo non troppo incisivo, in quanto nell’insegnamento della teologia si affermarono ben presto gli Ordini Mendicanti (già sostenuti dal Papato nella polemica che nel Duecento li aveva contrapposti a Guglielmo di S. Amore ed ai maestri “secolari” dello Studio parigino). Nel 1304 il capitolo generale dei Domenicani (che sin dagli inizi avevano stabilito rapporti di contiguità con gli ambienti universitari) stabilì che in ogni provincia dell’Ordine sorgesse uno Studium generale; nel corso del Quattrocento gli Studia dei Mendicanti vennero incorporati nelle Università, per cui le facoltà universitarie di teologia che mantennero un’autonomia formale rispetto ad essi vennero di fatto marginalizzate.

Altre università furono fondate dall’imperatore, dal papa o da altri sovrani europei. L’iniziativa di Federico II, che fondando l’Ateneo di Napoli sulla base del principio del monopolio statale dell’insegnamento intendeva preparare i funzionari del Regno (per questo egli sottopose al proprio controllo la nomina dei docenti), pose le premesse per una serie di fondazioni di atenei nazionali (Lisbona 1290, Praga 1347, Vienna 1365) o comunque controllati dai poteri regionali (Pavia 1389, Torino 1405, Catania 1444). A partire dalla fine del ‘300 diversi Studi, come quello padovano, tentarono sempre più di limitare il reclutamento dei docenti all’ambito locale, chiedendo come prerequisito per potervi insegnare il possesso della cittadinanza, e concessero l’ingresso gratuito nel collegio dei giuristi ai soli discendenti maschi di un dottore che ne avesse fatto parte: si verificò quindi un processo di graduale nazionalizzazione degli Studia, mentre il corpo accademico tendeva a diventare una casta ereditaria. In età umanistica si registra inoltre uno scollamento tra le Università e le Accademie umanistiche create dai principi.

La libera ricerca razionale, che con Abelardo aveva caratterizzato la figura di un intellettuale orgoglioso del proprio status ed almeno tendenzialmente autonomo rispetto al gruppo sociale di provenienza ed ai diversi poteri, cedette il passo ad un potenziato ruolo politico del docente, concepito come educatore dei sudditi e garante dell’ordine sociale e morale. Nel corso del XV secolo, che nonostante le sfumature introdotte dagli studi più recenti segna indubbiamente una frattura cronologica, le università diventarono quindi, come ha osservato J. Le Goff (Università e pubblici poteri, p. 187), «centri di formazione professionale al servizio degli Stati» piuttosto che centri di lavoro intellettuale disinteressato. Carlo V nominò (1530) conti palatini i dottori dello Studio bolognese, che però assunse sempre più una connotazione cittadina e vide progressivamente attenuarsi quella dimensione internazionale che lo aveva caratterizzato nei primi due secoli.

A Roma gli istituti di istruzione superiore furono a lungo rivolti esclusivamente al clero urbano (è il caso della scuola capitolare lateranense e dello Studium Curiae istituito da Innocenzo IV, che non rilasciava veri e propri titoli accademici). La prima vera università di Roma, lo Studium Urbis, matrice dell’attuale Università «La Sapienza» (laicizzata nel 1870), venne istituita da Bonifacio VIII con la bolla In Supremae praeminentia dignitatis (20 aprile 1303: «uno Studio generale dotato di tutte le facoltà, i cui maestri e studenti godano di tutti i privilegi, libertà e immunità concessi ai dottori e agli studenti degli Studi generali»), e rifondata, dopo un periodo di decadenza, nel 1406. Lo Studium Urbis (presso il quale si tennero corsi di teologia, materie letterarie, diritto civile e canonico, quindi anche di medicina e chirurgia) subì dalla metà del ‘500 la forte concorrenza del Collegio romano dei Gesuiti, innalzato al rango di università da papa Paolo IV (1556); e venne sottoposto nel 1824 da Leone XII, con la bolla Quod divina sapientia, ad uno stretto controllo da parte della Congregazione degli studi, che, composta da cardinali e prelati, sovrintendeva ai programmi e all’organizzazione di tutte le università dello Stato della Chiesa, con ampi poteri di censura. In età moderna sorsero altri Atenei pontifici, come l’Università Urbaniana, che trae le sue origini dal Collegio Missionario di Propaganda Fide, fondato nel 1624 dal prelato spagnolo J.B. Vives y Marja, con lo scopo di formare missionari secolari attenti alle culture dei popoli extraeuropei: il collegio, affidato ai Teatini, fu elevato al rango di Pontificio Ateneo da papa Urbano VIII con la bolla Immortalis Dei Filius (1 agosto 1627). In concomitanza con la soppressione della Compagnia di Gesù (1773) Clemente XIV affidò le facoltà di teologia e di filosofia del Collegio Romano al clero della diocesi di Roma; nel 1824 Leone XII le restituì ai Gesuiti, ma consentì al clero secolare che li aveva sostituiti di continuare a dedicarsi all’insegnamento, e da questo nucleo sorse, sotto Pio IX, l’Ateneo del Pontificio Seminario Romano, che con Giovanni XXIII (1959) divenne la Pontificia Università Lateranense.

Il passaggio, nel corso dei secoli, da un’ampia peregrinatio di studenti (e talora di maestri) ad una progressiva regionalizzazione del reclutamento studentesco favorì la diffusione dei collegi. I Gesuiti fondarono scuole e collegi che talora divennero vere e proprie università: il loro inserimento a Bologna provocò il progressivo scorporo di una parte delle discipline propedeutiche (come la grammatica) dal controllo degli organi accademici, mentre non ebbe successo il tentativo di rilancio della Facoltà di teologia dello Studio avviato dal card. Paleotti, per cui nel ‘700 Benedetto XIV inserì all’interno del Seminario gli insegnamenti di teologia destinati alla formazione del clero secolare.

La soppressione delle cattedre di teologia nelle Università statali per iniziativa del ministro Correnti (1873) relegò tale insegnamento negli atenei ecclesiastici e favorì quella divaricazione tra cultura “laica” e cultura ecclesiastica che ha caratterizzato la storia dell’Italia unita.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Valdesi - vol. I


Autore: Stefano Cavallotto

Il movimento valdese nasce tra il XII-XIII secolo intorno alla figura di Valdo (†1206), commerciante di Lione convertitosi nel 1170 ca. dopo una profonda crisi religiosa agli ideali evangelici della povertà e della predicazione itinerante secondo il modello apostolico (Mt 10) nella scia peraltro dei movimenti penitenziali e pauperistici. Intenzionato inizialmente a rinnovare la chiesa dal suo interno, Valdo ne viene messo ai margini con l’accusa di eterodossia e ribellione. La stessa sorte tocca ai suoi seguaci (chiamati all’inizio “poveri di Lione” e più tardi “valdesi”), i quali dopo una prima approvazione papale nel 1179 rifiutano la proibizione imposta dalla gerarchia di predicare senza autorizzazione, radicalizzando via via in alcuni filoni la loro critica contro la chiesa istituzionale a sostegno di una «chiesa di laici» con culto e sacramenti propri e in cui anche le donne possono accedere al ministero della predicazione. Condannati come eretici, assieme ai catari, da Lucio III nel 1184 e dal IV Concilio Lateranense nel 1215 sotto Innocenzo III, sono sottoposti a repressione e persecuzione da parte dei poteri civili e religiosi. Paradossalmente, però, le difficoltà e gli attacchi inquisitoriali finiscono per accrescere il consenso popolare nei loro riguardi e a far sì che nonostante il forzato ricorso alla clandestinità si espandano non soltanto nella Francia meridionale e in Lombardia, ma un po’ in tutta l’Europa. Fra il XIV-XV secolo la loro presenza appare lungo le valli alpine del versante piemontese fino all’Austria, all’Ungheria e specialmente in Boemia, dove influenzano i seguaci di Jan Hus (†1415) e i Taboriti.

Le zone in cui però si radicano maggiormente sono il Delfinato, le Alpi Cozie, la Provenza, la Calabria, la Puglia e la Germania meridionale. L’espansione del movimento valdese è dovuta principalmente al carattere missionario della sua predicazione, ma anche alla radicalità degli ideali proposti in antitesi col quadro ufficiale della societas christiana e alla natura popolare, fraterna, solidale e ugualitaria della comunità. Centro della testimonianza valdese sino al Cinquecento sono la fedeltà al Vangelo nell’obbedienza “letterale” agli insegnamenti di Gesù e la conseguente scelta di povertà della chiesa con la rinuncia al potere politico e all’uso della violenza; testimonianza continuamente alimentata dai predicatori itineranti, i “barba” o “barbetti” secondo un termine popolare che indica una persona di riguardo, i quali visitando le comunità svolgono la funzione di maestri e curatori delle anime. A giudizio di alcuni studiosi più che di un movimento unitario bisognerebbe parlare di “valdismi medievali” al plurale (c’è anche un movimento di «Poveri cattolici» guidati da Durando di Osca [† dopo 1210] e sottomessi al papa) e ciò anche a motivo del debole collegamento istituzionale che vige tra i diversi gruppi. Altri si chiedono pure, se e fino a che punto i movimenti valdesi del Trecento e Quattrocento abbiano conservato l’identità propria dei seguaci del “povero di Lione”. E’ indubbio comunque che la loro convinzione, come si evince dalla letteratura valdese del tempo, è di essere rimasti in linea di continuità con i “figli di Valdo”.

Ciò non impedisce alle comunità del Meridione francese e del Piemonte, costrette anche dalle persecuzioni della fine del XV secolo, di aderire alla Riforma calvinista nel 1532 col sinodo di Chanforan. Una data di svolta (di “morte” del movimento medievale secondo lo storico Gabriel Audisio) nella storia dei valdesi che li porta a chiudere l’esperienza medievale e ad organizzarsi secondo il modello della [→] Riforma ginevrina in chiese locali con predicatori-pastori propri per il culto e la celebrazione dei sacramenti. Come minoranza protestante ormai fuori della clandestinità, seppur circoscritta nello Stato Sabaudo, subisce assieme alle altre presenze evangeliche in diverse città dell’Italia gli attacchi della Controriforma fino alla Convenzione di Cavour del 1561, con cui Emanuele Filiberto di Savoia sancisce il libero esercizio del culto riformato-valdese in modo limitato e all’interno dei confini nelle Valli. Tali comunità, formate da poche migliaia di persone, costituiranno per quasi tre secoli una specie di avamposto del [→] protestantesimo europeo. Diversa è invece la sorte del valdismo in Calabria e in Puglia, dove a causa delle persecuzione e della diaspora tende a scomparire, lasciando comunque significative testimonianze di martirio, come quella del predicatore Giovan Luigi Pascale (†1560). Oltre all’emarginazione, le comunità valdesi delle Valli sperimentano nella seconda metà del Seicento nuove persecuzioni, dovute anche al progetto, mai abbandonato, dei sovrani francesi e piemontesi di riportarle alla chiesa cattolica. Così nel 1655 subiscono il tremendo eccidio, noto come «Pasque piemontesi», ad opera dell’esercito sabaudo (secondo fonti valdesi i morti sono oltre 1700); una strage, stigmatizzata con forza dall’Europa protestante e che provoca l’intervento dell’Inghilterra di Oliver Cromwell.

Un’altra prova che mette in pericolo la stessa loro sopravvivenza è effetto del decreto emanato in Piemonte nel 1686, su pressione di Luigi XIV, che l’anno prima ha revocato l’Editto di Nantes: Vittorio Amedeo II di Savoia impone di scegliere tra l’abiura e l’esilio. La risposta dei valdesi è la resistenza armata, conclusasi però con una disfatta e l’espatrio dei pochi sopravvissuti nei cantoni protestanti svizzeri. Da Ginevra tre anni dopo tornano con un’operazione politico-militare spettacolare e coraggiosa («Glorioso rimpatrio») guidati da Enrico Arnaud (†1721) per occupare alcune valli delle Alpi piemontesi, rimanendo però confinati in un’area intorno a Pinerolo, che verrà chiamata il «ghetto alpino», e subendo ogni tipo di discriminazioni. La sopravvivenza delle comunità viene assicurata dagli aiuti dei protestanti di tutto il mondo, in particolare dagli inglesi (notevole l’apporto del quacchero rev. William Allen [†1843] e del rev. Stephen Gilly [†1855]). Negli anni Venti dell’800 i valdesi piemontesi «risvegliati» dalla predicazione carismatica di Felix Neff (†1829) partecipano non senza rotture interne al rinnovamento della vita protestante europea («Risveglio»).

L’affrancamento dalla ghettizzazione viene solo nel 1848 grazie alle “Regie Lettere Patenti”, con cui Carlo Alberto pone fine a secoli di discriminazione, riconoscendo ai suoi sudditi valdesi i diritti civili e politici. Un editto di tolleranza che comunque concede una libertà molto limitata, dal momento che «nulla [è] innovato» per quanto riguarda la libertà religiosa, e perciò restano in vigore tutte le restrizioni dell’età controriformista. Il Risorgimento vede i valdesi impegnati in prima linea: per loro è un’occasione provvidenziale per “ridiventare italiani” e riprendere nello spirito del «grande Risveglio» la predicazione e la diffusione della bibbia assieme ad altri gruppi protestanti («Liberi», «Fratelli», metodisti, battisti, pentecostali). Col processo di unificazione dell’Italia e il conseguente conflitto tra Chiesa romana e Stato si aprono nuove possibilità di evangelizzazione, specialmente nel Meridione, e di presenza con attività accademiche e culturali (risale al 1855 la fondazione della Facoltà Valdese di Teologia, la più importante istituzione culturale di tutto il Protestantesimo italiano) e nel settore dell’educazione e della carità con molteplici opere sociali.

Nella seconda metà dell’Ottocento si intensifica inoltre, anche per ragioni economiche, l’emigrazione valdese verso l’America Latina e gli Stati Uniti (esiste oggi una chiesa valdese di migliaia di membri anche nel distretto del Rio de la Plata [Uruguay e Argentina]). Emarginati durante il ventennio fascista (1922-1943) e protagonisti convinti nella Resistenza (1943-1945) con un notevole contributo di sangue (le Valli sono uno degli epicentri più significativi della lotta antifascista), nel secondo dopoguerra i valdesi avviano un duplice processo: di negoziazione per un riconoscimento statale e di unificazione con le altre realtà evangeliche italiane, in linea con lo spirito ecumenico che pervade la cristianità evangelica dopo il conflitto mondiale, e di dialogo “sincero” con le componenti più aperte della chiesa cattolica specialmente a partire dal Concilio Vaticano II. Nel 1984 siglano un’Intesa con lo Stato italiano in applicazione dell’art. 8 della Costituzione; intesa che sarà integrata nel 1993 e perfezionata nel 2007.

Nel 1975-1979 assieme ai metodisti, con i quali sin dal 1948 hanno partecipato al Consiglio Ecumenico delle Chiese, realizzano un patto d’integrazione, basato sulla medesima confessione di fede calvinista del 1655 e nel rispetto delle proprie identità, creando una struttura amministrativa comune: le due chiese si presentano con il nome di «Chiesa Evangelica Valdese – Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste» con un unico organo esecutivo, che è la «Tavola Valdese», e un Sinodo annuale “unito”, composto di laici e pastori, dove si assumono le decisioni più importanti per la vita delle chiese e la loro testimonianza. Anche con i battisti realizzano un accordo: dal 1990 la Chiesa Evangelica Valdese e l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia si riconoscono reciprocamente e insieme pubblicano il settimanale “Riforma”. La Chiesa valdese, che ha un’organizzazione di tipo presbiteriano e sinodale (i «presbiteri» – uomini e donne – a cui è affidato il ministero della predicazione hanno il titolo di pastori; la comunità locale è guidata da consigli di «anziani» eletti dai fedeli), fa propria la teologia calvinista con i principi del solus Christus, sola fide, sola gratia, sola Scriptura, e conserva alcune tradizioni ecclesiastiche tipiche del mondo riformato (matrimonio dei pastori, comunione col pane e vino, rifiuto del culto delle immagini e del principio episcopale). Nel campo dell’etica sessuale e in quello politico-sociale non interviene con disposizioni obbliganti i propri fedeli, mentre sull’aborto e l’eutanasia lascia aperto il dialogo con la scienza in linea con gli orientamenti del gruppo di lavoro sui problemi di bioetica nominato dalla Tavola Valdese.

A partire dagli anni Settanta del XX secolo dietro l’impulso ecumenico del Vaticano II si sono intensificati, seppure con alti e bassi, i rapporti dei valdesi con la chiesa cattolica italiana. Se nell’orizzonte europeo la Carta Ecumenica, sottoscritta a Strasburgo il 22 aprile 2001 dai rappresentanti della KEK e del CCEE e accolta lo stesso anno dal Sinodo valdese, costituisce il documento più importante dell’incontro istituzionale tra le due chiese, a livello nazionale uno dei documenti più rilevanti del dialogo ufficiale con la Conferenza Episcopale Italiana è il Testo comune per un indirizzo pastorale dei matrimoni tra cattolici e valdesi o metodisti, approvato nel 1997, a cui ha fatto seguito, nel 2000, il Testo applicativo. Sempre nel solco del nuovo clima ecumenico post-conciliare bisogna ricordare la traduzione interconfessionale della bibbia in lingua corrente negli anni Settanta, promossa dalla Società Biblica in Italia. E ancora: una rappresentanza della Commissione per il dialogo ecumenico ed interreligioso della C.E.I. è regolarmente invitata quale ospite al sinodo che ogni anno le comunità valdesi italiane celebrano a Torre Pellice; così come docenti valdesi insegnano in varie strutture universitarie pontificie, tra cui vale la pena menzionare il ben qualificato Istituto di Studi Ecumenici s. Bernardino di Venezia. Cattolici e i valdesi, assieme ad ortodossi ed ebrei, sono tra gli animatori dell’associazione laica ed interconfessionale Segretariato Attività Ecumeniche che in Italia già dai primi anni Sessanta è impegnata a promuovere in sede locale e nazionale con molteplici iniziative la formazione ecumenica delle diverse comunità cristiane. Frequenti e significativi sono pure i rapporti e le collaborazioni tra le due confessioni in ambito locale nelle varie diocesi della chiesa italiana.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Audisio, Les «Vaudois». Naissance, vie et mort d’une dissidence (XII-XVI siècles), Claudiana, Torino 2000; C. Maurizio, L’emigrazione dei valdesi in Sud America: 150 anni fa dalla Val Pellice a Montevideo, Pinerolo (TO) 2008; G.G. Merlo, Valdesi e valdismi medioevali. Itinerari e proposte di ricerca, Claudiana, Torino 1984; ID., Valdesi e valdismi medioevali. 2. Identità valdesi nella storia e nella storiografia. Studi e discussioni, Claudiana, Torino 1991; ID., Valdo. L’eretico di Lione, Claudiana, Torino 2010; G. Spini, Risorgimento e protestanti, Mondadori, Milano 1989 (nuova edizione Claudiana, Torino, 1998); Storia dei Valdesi: vol. 1 di A. Molnar, Dalle origini all’adesione alla Riforma (1176-1532), Claudiana, Torino 1974; vol. 2 di A.A. Hugon, Dall’adesione alla Riforma all’emancipazione (1532-1848), Claudiana, Torino 1984; vol. 3 di V. Vinay, Dal movimento evangelico italiano al movimento ecumenico (1848-1978), Claudiana, Torino 1980; G. Tourn, I valdesi, La singolare vicenda di un popolo-chiesa, Claudiana, Torino, 2008; S. Peyronel Rambaldi – M. Fratini, 1561. I valdesi tra resistenza e sterminio: in Piemonte e in Calabria, Claudiana, Torino 2011; S. Velluto, Valdesi d’Italia, Edizioni Sonda (1a ed. 2003), Casale Monferrato 2008.


LEMMARIO




Valeri Elena





Valli Norberto