Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Autori
Roma 2015
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Belluomini Flavio


Dottorando in Storia della Chiesa presso la Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana, dove ha conseguito la licenza. Ha conseguito la licenza in Teologia con specializzazione in Liturgia presso il Pontificio Ateno Sant’Anselmo, il Diploma in archivistica – paleografia – diplomatica presso la scuola dell’Archivio di Stato di Firenze e il Diploma in biblioteconomia presso la scuola della Biblioteca Apostolica Vaticana. Ha pubblicato Culto e pratiche di pietà negli scritti pastorali di Scipione de Ricci prima del Sinodo di Pistoia del 1786, «Chiesa e Storia», 9 (2019) 311-332; Culto esterno, culto interiore, culto spirituale. La riflessione di Scipione de’ Ricci nei suoi primi interventi pastorali (1780-1785), «Rivista Liturgica» 107/4 (2020) 186-198, e alcune recensioni per la «Schweizerische Zeitschrift für Religions – und Kulturgeschichte» dell’Università di Friburgo (CH). È insegnante invitato per i corsi di “Storia della Chiesa medievale” e “Storia e teologia del Concilio Vaticano II” presso l’ISSR Toscano (polo di Pisa) e insegnante incaricato di “Storia della Chiesa medievale” presso lo Studio Teologico Interdiocesano di Pisa.




Benedetti Marina


Insegna storia del cristianesimo e storia della Chiesa medievale e dei movimenti ereticali presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa di eresia medievale, in particolare al femminile (Io non sono Dio. Guglielma di Milano e i Figli dello Spirito santo, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 20042, Donne valdesi nel medioevo, Torino, Claudiana, 2007), di Valdesi (Valdesi medievali. Bilanci e prospettive di ricerca, a cura di Marina Benedetti, Torino, Claudiana, 2009), di frate Dolcino da Novara e di crociate contro gli eretici. Ha ampiamente approfondito il tema dell’inquisizione (Inquisitori lombardi del Duecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2008, I margini dell’eresia. Indagine su un processo inquisitoriale (Oulx, 1492), Spoleto, Fondazione Cisam, 2013; La valle dei valdesi. I processi contro Tommaso Guiot, sarto di Pragelato (Oulx, 1495), Spoleto, Fondazione Cisam, 2013), specificamente affrontando i problemi collegati alla conservazione e trasmissione documentaria (Il «santo bottino». Circolazione di manoscritti valdesi nell’Europa del Seicento, Torino, Claudiana, 20072). Con Grado Giovanni Merlo ha ideato e dirige la collana “Fonti e documenti dell’inquisizione, secc. XIII- XVI”.





Beneficio ecclesiastico - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Ancora agli inizi del Novecento il Codex Iuris Canonici del 1917 definiva il beneficio ecclesiastico con queste parole: «un ente giuridico costituito od eretto in perpetuo dall’autorità ecclesiastica, composto da un ufficio sacro e dal diritto di percepire i redditi della dote, spettanti all’ufficio» (canone 1049). Le sue origini storiche sono riconducibili soprattutto alla nascita delle prebende canonicali, all’affitto o la concessione in livello enfiteutico di chiese, con tutti i loro diritti, oneri e beni, e alla fondazione di chiese proprie da parte di feudatari, famiglie, consorterie, villaggi, corporazioni, città ed altri. Su questa base, formatasi nel corso dei secoli con percorsi differenti nelle diverse aree regionali, nel basso Medioevo e in Età Moderna s’innestò il fenomeno delle fondazioni e dei lasciti testamentari per la celebrazione di Messe in suffragio delle anime del Purgatorio. In Italia, questo fenomeno ha conosciuto due picchi: l’uno fra il XIV ed il XV secolo e l’altro fra il XVII secolo e i primi decenni del XVIII. Queste fondazioni permettevano di costituire uffici ecclesiastici stabili anche all’interno di chiese preesistenti, alla stessa stregua delle prebende canonicali o delle chiese proprie: chiamati “cappellanie” o persino “altari”, non si differenziavano molto dalle “ufficiature” istituite con le stesse garanzie. D’altra parte, con l’appellativo di beneficio ecclesiastico si intendono estensivamente anche uffici sacri stabili di maggiore rilievo, purché dotati di un patrimonio e attribuiti ad un singolo individuo.

Analizzando il beneficio ecclesiastico nelle sue diverse componenti, troviamo un “ufficio sacro”, cioè una carica o un complesso di attribuzioni e di oneri di culto religioso o di giurisdizione spirituale, in base ai quali si articolavano due diverse tipologie: i benefici “residenziali” e quelli “semplici”. Fra i primi, che obbligavano il loro titolare a risiedere dove si trovava fisicamente l’ufficio, si contavano i vescovadi, le prepositure, i decanati, le dignità e gli altri canonicati delle chiese cattedrali e delle chiese collegiate, le cappellanie “corali”, le pievi, le parrocchie e tutti gli altri uffici con cura d’anime. Secondo la tradizione canonica, ribadita dal Concilio di Trento, per questi benefici vigeva il divieto di “cumulo”, che, però, è stato largamente disatteso persino dopo il Concilio di Trento, grazie ad apposite dispense papali che permettevano in una serie di casi di cumulare questi uffici, per motivi politici (come nei paesi germanici o iberici) o semplicemente logistico-finanziari (come nel caso dei canonici delle piccole città italiane, ai quali era concesso di essere anche parroci cittadini). Non sono mancati neppure pontefici che hanno continuato a godere il precedente vescovado insieme con quello romano: esemplari i casi, nel Settecento, di Benedetto XIII a Benevento e di Benedetto XIV a Bologna. I benefici “semplici” richiedevano al loro titolare soltanto l’adempimento, anche tramite altri sacerdoti, di obblighi di culto sacro, come la celebrazione di un certo numero di messe. In genere questi benefici erano esclusi dal divieto di cumulo, poiché non era considerata indispensabile la presenza continuativa del rettore nelle chiese in cui erano eretti. Col tempo, questa distinzione ha assorbito di fatto la più antica divisione fra “benefici maggiori”, uniti ad un ufficio dotato di potestà ordinaria di governo (vescovadi, decanati, prepositure nullius dioecesis, pievanati), e “benefici minori”, per i quali non era essenziale questa unione. Il «rettore» di questi uffici, che doveva essere un chierico (salvo dispensa papale), aveva il diritto di percepire ed utilizzare la “rendita” del beneficio ecclesiastico per mantenersi, per adempiere agli oneri e per conservare l’edificio sacro. La rendita proveniva dalla “dote” patrimoniale del beneficio ecclesiastico, costituita in genere da beni immobili, ma anche da prestazioni, da diritti reali e da obbligazioni consuetudinarie (come la decima ecclesiastica), oppure da capitali consolidati in titoli di rendita pubblica o privata. Ultimo elemento indispensabile per connotare un beneficio era l’“istituzione canonica”, tanto dell’ufficio, quanto del suo rettore: senza l’intervento di un’autorità ecclesiastica non esistevano uffici sacri perpetui, ma solo “condotte” precarie, destinate a sopravvivere senza la garanzia delle forme e dei privilegi della Chiesa, e, dopo la conclusione del conflitto fra papato ed impero sulle “investiture”, la nomina formale dei rettori doveva essere effettuata da parte di un’autorità ecclesiastica.

La presenza della dote presupponeva l’esistenza di uno o più fondatori del beneficio ecclesiastico. Se il fondatore era una persona ecclesiastica con potestà giurisdizionale, la scelta del nuovo rettore avveniva per “libera collazione”, cioè per libera scelta e con immediata istituzione canonica da parte dello stesso “collatore”, cioè il fondatore e i suoi successori pro-tempore nella potestà ecclesiastica. In questo caso, però, già nel Basso Medio Evo vigeva quella prassi dei “mesi riservati” alla Santa Sede, che si protrasse in Italia fin quasi la fine dell’età moderna: per un certo periodo dell’anno (un terzo, la metà) la collazione era devoluta al pontefice, anche quando si trattava di un ufficio curato. Se, invece, il fondatore (vero o presunto) non aveva il carattere clericale, si riconosceva l’esistenza del giuspatronato, cioè di un diritto vantato dai “patroni” originari e dai loro successori (→ voce). Il momento conclusivo dei percorsi di nomina del rettore era costituito dalla “presa di possesso” del beneficio da parte sua o di un suo procuratore, cioè non solo dell’ufficio sacro, con tutti i suoi oneri di giurisdizione, di amministrazione dei sacramenti, di culto, ma anche dei suoi beni patrimoniali con le relative rendite. Di fatto, anche quest’ultimo momento non era una tappa scontata: talvolta per prendere possesso effettivamente di un beneficio non bastava il diritto, ma era necessario il ricorso alla forza e al potere delle autorità politiche locali, chiamati a garantire il possesso del nuovo rettore nei confronti dei chierici concorrenti o dei laici scontenti (patroni, popolazioni locali ecc.).

Fra il tardo Medio Evo e la prima età moderna si colloca un particolare fenomeno degenerativo delle istituzioni ecclesiastiche locali: la “resignazione” o “risegna” (rinuncia) dei benefici ecclesiastici da parte dei loro legittimi titolari. Nella prassi rinascimentale questa rinuncia agli uffici sacri non avveniva più “nelle mani” dell’ordinario diocesano locale o del capitolo della cattedrale, bensì apud Sedem Apostolicam. Di conseguenza la successiva collazione era sottratta ai legittimi collatori ed ai legittimi patroni e diventava di libera pertinenza del papa: già secondo la Costituzione Licet ecclesiarum di papa Clemente IV (1265) proprio al pontefice – il dominus beneficiorum – apparteneva la collazione di tutte le chiese, dignità, personati e benefici vacanti per morte presso la Santa Sede, oppure rinunciati nelle mani del pontefice. Durante il XV secolo si cercarono di moderare gli effetti di questo abuso; tuttavia, a partire da papa Leone X il mercato dei benefici si dilatò assumendo connotazioni simoniache: sempre più spesso le resignazionioni presso la Curia Romana furono accompagnate da una serie di patti e condizioni in favore del rinunciatario, come il godimento di una porzione o della totalità delle rendite, oppure il diritto di rientrare in possesso del beneficio in caso di premorienza o di rinuncia del suo successore. Oltre alla possibilità di scambi e permute fra un beneficio e l’altro, era anche permesso di conservare la “dignità”: come quel carattere episcopale che consentiva agli insigniti di svolgere le funzioni tipiche di un vescovo suffraganeo (consacrazioni di chiese, cresime, ordinazioni sacerdotali etc.) al servizio di vescovi titolari assenteisti, incapaci dell’ufficio oppure oberati da un eccessivo carico di lavoro. La diffusione incontrollata delle resignazioni in Curia Romana e l’uso di tutte queste clausole provocarono forte malcontento nelle Chiese locali, dalle quali a più riprese fu richiesto di stroncare o almeno frenare questo sistema. Alla fine, in occasione del Concilio di Trento furono condannate e abrogate le clausole della reimmissione in possesso, ma le altre rimasero per tutta l’età moderna (Sess. XXV, Decr. de reformatione c. 7).

Oltre ai danni arrecati dalle ingerenze della Curia Romana nella provvisione dei benefici, alle soglie dell’età moderna altre due problematiche sconvolgevano la gestione degli uffici sacri locali: il saccheggio dei beni mobili e immobili alla morte o rinuncia dei rettori e la volontà politica che gli uffici e le risorse della Chiesa fossero attribuiti a chierici vicini, o almeno non ostili, ai governanti. Nell’Italia centro-settentrionale non mancarono principi e repubbliche che tentarono di controllare l’accesso ai benefici ecclesiastici, condizionandone direttamente e formalmente le nomine da parte dei pontefici, sia riservandosi le scelte per le prebende più ricche, sia impedendo l’accesso ai forestieri e agli esponenti di consorterie ostili (diritto di placitazione). Così avvenne, già fra tardo Medio Evo e prima Età Moderna, a Milano nel 1450, nel Piemonte-Savoia nel 1451 e a Genova nel 1453 grazie a concessioni di papa Niccolò V e nel 1487 (per opera di Innocenzo VIII), e ancora a Firenze nel 1475 e a Siena nel 1492. Sulla stessa linea si collocano le pretese dei sovrani, che, sull’esempio della Chiesa gallicana, mirarono a impadronirsi a proprio uso degli spogli degli ecclesiastici defunti e dei frutti dei benefici vacanti (le “regalie”). Un sistema di controllo più efficiente sugli uffici ecclesiastici fu realizzato grazie a quell’Economato dei Benefici Vacanti, che aveva mosso i suoi primi passi nella Lombardia visconteo-sforzesca, trovando poi imitatori anche in altri stati italiani, come nel Piemonte sabaudo. Per qualità d’intervento e per durata nel tempo, l’esempio più riuscito può essere considerato l’Auditorato dei Benefici vacanti, istituito in Toscana nel 1539 dal duca Cosimo I de’ Medici: a questo ministero governativo competeva la cura dell’amministrazione delle “temporalità” degli uffici vacanti e la concessione delle licenze di possesso ai nuovi rettori, sulla base di un’accurata e aggiornata indagine sull’assetto beneficiale di ciascuna diocesi.

Grazie alla protezione giurisdizionale accordata dai poteri politici locali, il sistema beneficiale, pur presente in tutta la penisola, conobbe un grande successo soprattutto nell’Italia Centro-Settentrionale, dove continuò a crescere e radicarsi nelle Chiese locali per tutta l’età moderna con la fondazione soprattutto di cappellanie e ufficiature perpetue, che affollavano le cattedrali come le chiese parrocchiali cittadine e rurali, le collegiate come gli oratori. Il carattere particolaristico e individuale di questi enti e la gestione personale dei loro patrimoni corrispondevano alle esigenze di tesaurizzazione e di trasmissione ereditaria di una società tesa a difendere i beni sottoposti a un regime giuridico privatistico, in cui le ragioni civili delle strategie familiari prevalevano sui bisogni sociali (del culto, della carità etc.) e sulle pretese della Curia romana. Ciò non avvenne in egual misura nell’Italia meridionale e insulare, dove la debolezza dei poteri politici stranieri e la minore differenziazione sociale facilitò per lungo tempo le ingerenze da parte della Curia romana e, per reazione, l’affermazione di un modello di chiesa collegiale, più coerente con realtà a basso livello di mobilità individuale. Anzi, il sistema beneficiale resse anche i colpi del riformismo illuminista: la stretta connessione esistente fra i benefici e i diritti di giuspatronato privato impedì fino alla Rivoluzione Francese l’evizione di quel sistema, che presentava i caratteri marcati della proprietà privata. I sovrani illuminati procedettero all’annessione dei benefici semplici di patronato laicale pubblico ai benefici curati, ma si fermarono di fronte alla grande massa dei giuspatronati privati. Soltanto alla metà dell’Ottocento, la secolarizzazione della società e l’eversione dell’asse ecclesiastico con la redenzione dei giuspatronati laicali (→ giuspatronati) fece implodere il sistema beneficiale. Svanito l’apporto delle fondazioni private e dei loro diritti, cresciuta la pressione della gerarchia ecclesiastica sui soggetti collettivi detentori di patronati (comunità, parrocchiani etc.), sulla personalità della dote patrimoniale cominciò a prevalere il carattere dell’ufficio sacro, finché con il più recente Codice di diritto canonico è stato soppresso il concetto stesso di beneficio ecclesiastico.

 

Fonti e Bibl. essenziale

A. Castagnetti, Benefici e feudi nella documentazione milanese del secolo XI, in A. Mazzon ed., Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, Roma, Istituto storico per il medio evo, 2008, 187-213; P.G. Caron, La rinuncia all’ufficio ecclesiastico nella storia del diritto canonico dall’età apostolica alla riforma cattolica, Milano, Vita e Pensiero, 1946; C. Cecchinelli, I benefici ecclesiastici nelle fonti parmensi al tempo del vescovo Alessandro Farnese: gli estimi del 1504 e 1525, in «Archivio storico delle province parmensi», s. 4/LX, 2008, 381-405; L. Chatellier, Elementi di una sociologia del beneficio, tr. it. in Società, chiesa e vita religiosa nell’Ancien Régime, a cura di C. Russo, Napoli, Guida, 1976, 83-114; G. Cornaggia Medici, Bénéfices ecclésiastiques en Italie, in Dictionnaire de droit canonique, Paris, Letouzey, 1937, vol. II coll. 525-595; G. Dell’Oro, Il Regio Economato. Il controllo statale nella Lombardia asburgica e nei domini sabaudi, Milano, Angeli, 2007; G. Del Torre, Stato regionale e benefici ecclesiastici: vescovadi e canonicati nella terraferma veneziana all’inizio dell’età moderna, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti», Classe di scienze morali, lettere ed arti, t. CLI (1992-93), 1171-1236; G.B. De Luca, Il Dottor Volgare, ovvero il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e municipale, nelle cose più ricevute in pratica (1670), rist. Firenze, Battelli, 1839-1843, vol. III, 210-306 («Dei Beneficj ecclesiastici in generale»); G. Greco, I giuspatronati laicali nell’età moderna, in G. Chittolini – G. Miccoli edd., Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1986, 531-572; A. Montan, Ecclesiastici e benefici ecclesiastici nello Stato Veneto durante il pontificato di Benedetto XIV (1740-1758), in «Studi Veneziani», n.s., 24 (1993), 87-145; V. Naymo, Benefici laicali e giuspatronati nel circondario di Gerace: strategie economiche, sociali e familiari, in V. Naymo ed., Confraternite, ospedali e benefici nell’età moderna. II Colloquio di studi storici sulla Calabria Ultra. Atti, Roma, Polaris, 2010, 43-55; L. Prosdocimi, Il diritto ecclesiastico dello Stato di Milano dall’inizio della signoria viscontea al periodo tridentino, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1941; A. Prosperi, «Dominus beneficiorum»: il conferimento dei benefici ecclesiastici tra prassi curiale e ragioni politiche negli stati italiani tra ’400 e ’500, in P. Prodi – P. Johanek edd., Strutture ecclesiastiche in Italia e in Germania prima della Riforma, Bologna, Il Mulino, 1984, 51-86; P. Sarpi, Trattato delle materie beneficiarie (1610), ora in Id., Scritti giurisdizionalisti, a cura di G. Gambarin, Bari, Laterza, 1958, 11-117; G. Stocchiero, Il beneficio ecclesiastico sede plena, Vicenza, S.A.T., 1940-42.


LEMMARIO




Besostri Fabio


 





Bibbia - vol. I


Autore: Giovanni Rizzi12

La Bibbia, intesa come Miqrā’ôt nell’ebraismo, o come Antico e Nuovo Testamento nelle chiese cristiane fin dalle origini, è uno dei monumenti letterari più consistenti per ricostruire anche la storia della fede e dello sviluppo delle comunità dei credenti, dall’antichità ai nostri giorni. Fin dalle antiche versioni delle Miqrā’ôt nel giudaismo come da quelle cristiane il tradurre aveva comportato uno sforzo di fedeltà nelle nuove lingue rispetto a quelle originali, e un impegno nel documentare le interpretazioni dei testi sacri secondo la viva tradizione delle comunità giudaiche come delle chiese locali che li trasmettevano. Nelle antiche versioni delle Sacre Scritture, come nelle traduzioni più recenti nelle nuove lingue parlate si riflettono la fede, la preghiera, l’esegesi, l’interpretazione e il canone dei testi sacri. Anche seguendo le linee principali della storia delle traduzioni in lingua italiana della Bibbia e circoscrivendo l’indagine alle sole edizioni manuali complete o in pochi volumi, si riscontrano costantemente i fenomeni indicati, per quanto tutto ciò sia iniziato intorno al sec. XV.

La presenza della Bibbia nella penisola italica ha una fenomenologia molto variegata, connessa inizialmente alle comunità ebraiche, poi a quelle giudeo-cristiane e quindi alle comunità cristiane effettivamente indigene, con un pluralismo linguistico e confessionale nella trasmissione della Bibbia (ebraico, aramaico, greco e latino), come anche dimostra la presenza di codici e manoscritti biblici, parziali o anche completi, dell’Antico e del Nuovo Testamento in queste lingue, documentati nelle biblioteche italiane; ma la Bibbia fu trasmessa anche da lezionari liturgici, da un’imponente tradizione testuale indiretta e per molto tempo dai capolavori dell’arte musiva di grandi cattedrali, o da più semplici affreschi di chiese locali, importante forma di accesso al testo sacro per una maggioranza della popolazione analfabeta.3

Le comunità ebraiche sono state sempre presenti nella penisola, sicuramente dal sec. I a.C., ed ebbero un influsso sulle prime comunità giudeo-cristiane a Roma; ma il giudeo-cristianesimo non ebbe lunga vita; anche la popolazione ellenofona, più attestata nella parte meridionale della penisola, subì gli effetti della mescolanza delle popolazioni dovuta alle invasioni durante la decadenza dell’impero romano d’occidente e lungo il periodo medievale. Perciò, la presenza della Bibbia come Antico e Nuovo Testamento nell’area peninsulare, nelle forme parziali o complete di codici, manoscritti e lezionari liturgici cristiani, è attestata largamente in latino, poiché le comunità cristiane furono soprattutto di lingua latina. La situazione perdurò oltre un millennio con continue e profonde mutazioni nella lingua latina, fino al sorgere del volgare italiano, quando s’impose la necessità di tradurre il latino della Bibbia, accessibile prevalentemente ai dotti, nei nuovi dialetti vernacolari della popolazione fino a ottenere traduzioni in lingua italiana.

La presenza e la trasmissione della Bibbia nella penisola italica dalle origini alla Vulgata geronimiana, alle soglie dell’umanesimo, al Concilio di Trento, fino all’esplosione del illuminismo e alle sfide della modernità, ormai contemporanee al costituirsi dell’unità politica dell’Italia (1861), intreccia la tradizione testuale (diretta e indiretta), le questioni legate al canone dei testi biblici e delle varie ermeneutiche anche confessionali, di cui è facile trovare eco nelle traduzioni stesse del testo biblico.

Dalle origini alla Vulgata geronimiana. Non abbiamo né rotoli, né manoscritti, né codici delle Miqrā’ôt utilizzati dalle prime comunità giudaiche della diaspora nella penisola italiana, ma forse il cosiddetto «Salterio latino di Pietro», versione latina dei Salmi dall’ebraico conservata nel Salterio Cassinese (sec. XII), attesta ancora un influsso diretto giudeo-cristiano su qualche comunità cristiana a Roma nel I sec. d.C.

Verosimilmente i primi tentativi di versione latina del Pentateuco avvennero in comunità giudaiche della costa africana mediterranea, seguiti dalle prime versioni cristiane dal greco dell’Antico e del Nuovo Testamento in lingua latina: la Vetus Latina (sec. II a.C.), che si suole suddividere in una tradizione africana (Afra) e italica (Itala). La rapidità, con cui si giunse a questa versione dal greco della Septuaginta (LXX) dell’Antico Testamento, senza passare per l’ebraico, e del greco del NT per le comunità cristiane della penisola italiana, documenta che le conversioni alla fede cristiana appartenevano più spesso agli strati più popolari, del tutto ignari degli originali semitici della Bibbia e ben poco familiarizzati col greco della parlata comune mediterranea. La lingua della Vetus Latina era grezza, molto più prossima a quella della gente comune, ma protesa a rendere il senso del testo tradotto e interpretato, fino a forzare il latino e a creare nuovi significati per i termini già noti nella tradizione corrente: la Bibbia stava plasmando irreversibilmente il latino e la sua cultura.4

La nuova versione cristiana della Bibbia, soprattutto per l’Antico Testamento ricorse in molti a casi a interpretazioni tipicamente cristiane, più o meno apertamente allusive alla persona e alla vicenda di Gesù, fissando così già nella versione alcune coordinate ermeneutiche del testo biblico. La necessità di avere testi in latino a disposizione per le comunità indusse a riprodurre spesso anche vari tentativi di versione dai testi greci, con errori e varianti molteplici, fino a creare un’incontrollata proliferazione della tradizione testuale diretta della Vetus Latina, oltre che delle sue riprese nelle citazioni degli autori cristiani (tradizione testuale indiretta).

L’interpretazione del testo biblico compare già nel più antico scritto esegetico rimasto della Chiesa cristiana, sul testo greco di Teodozione di Daniele, in quattro libri, dove Ippolito di Roma (morto nel 235) commenta anche le parti deuterocanoniche di Daniele; di Vittorino di Pettau (morto nel 304) rimane in latino solo il commento all’Apocalisse. La discussione era stata forte sul canone dei libri biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento come si vede dal così detto Frammento del Muratori (fine del sec. II), di provenienza romana, che presentava una quadruplice distinzione: i libri considerati sacri da tutti e che si debbono leggere nella liturgia; i libri che non sono accettati da tutti come sacri e quindi in qualche chiesa non sono letti pubblicamente; i libri che si possono leggere privatamente, ma che non è lecito leggere nella liturgia; i libri che la Chiesa non può ricevere perché scritti da eretici, contenenti errori. Le controversie dottrinali, interpretative anche della Bibbia, lasciavano una loro traccia nell’arte, come nella basilica di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, eretta dal re goto Teodorico (505) di confessione ariana: nonostante le trasformazioni dovute alla conquista bizantina (540) e i rifacimenti di impronta cattolica, anche Sant’Apollinare Nuovo porta ancora le antiche “Storie di Cristo”, con i santi e i profeti negli ordini più alti della fascia sopra gli archi.5

Dalla Vulgata alle soglie dell’umanesimo. Vi furono eccellenti lavori di commento alla Bibbia, come quello su 13 lettere paoline (manca Ebrei) dell’Ambrosiaster (Pseudo-Ambrosius), comparso a Roma sotto papa Damaso (366/384); l’impegno omiletico-esegetico di Ambrogio (334-397), vescovo di Milano, ebbe vastissima eco e attinse anche alla tradizione esegetica greca, pur avvalendosi del testo latino corrente. Un contributo importante fu dato da Rufino (nato ad Aquileia intorno al 345), con la traduzione dell’opera esegetico-ermeneutica principale di Origene: De principiis (dopo il 397).

La situazione testuale della Vetus Latina era diventata caotica, come notava Agostino d’Ippona (354-430), che cercò di controllare attentamente i testimoni testuali per la lettura del testo latino, lasciando anche una cospicua serie di commentari ai libri biblici, fino a creare una sorta di «grammatica cristiana» per l’interpretazione della Bibbia. Il poderoso sforzo di sintesi di Cassiano (360-432/433) radicato anche nella sapienza monastica orientale, tra lettura del testo biblico, riferimento al mistero di Cristo e compartecipazione della vita del credente all’ermeneutica biblica (cfr. Conlatio 14), ebbe un influsso enorme sul monachesimo di lingua latina, come attesta anche la Regola di Benedetto da Norcia (480-547).

L’impegno di Girolamo (347-419/420), di Stridone, che aveva potuto acquisire una buona conoscenza del greco e discreta per l’ebraico, si svolse su due fronti: la revisione della Vetus Latina (Nuovo Testamento, Salmi e Antico Testamento, consultando anche l’Esapla origeniana nella copia di Cesarea in Palestina) e la versione del testo ebraico dell’Antico Testamento (presso Betlemme tra il 390-405), che poi fu chiamata correntemente Vulgata. Girolamo con Origene condivideva la convinzione che la Septuaginta e la Vetus Latina fossero la traduzione dello stesso testo ebraico che poteva leggere dall’Esapla origeniana; era all’oscuro del fatto che, tra il sec. III a.C. e il sec. I d.C., il testo ebraico delle Miqrā’ôt, anche dopo la traduzione della Septuaginta, aveva subito interventi, ritocchi, aggiunte sotto il controllo degli ambienti sacerdotali presso il tempio di Gerusalemme, così che molte differenze tra la traduzione della Septuaginta e il testo ebraico dell’Esapla origeniana, o il testo ebraico della sinagoga di Betlemme da lui lungamente studiato e consultato, non erano semplicemente errori dei copisti greci, ma potevano dipendere anche differenze originarie nel testo ebraico presupposto dalla Septuaginta. Un malinteso, che si sarebbe chiarito soltanto 1500 anni più tardi, soprattutto a partire dalle scoperte dei rotoli del Mar Morto. Girolamo lavorò alla monumentale versione della Vulgata per rendere in un latino non più classico il senso del testo ebraico; ricorse alle antiche versioni giudaiche di lingua greca a lui note, o anche alla parafrasi aramaica targumica, senza rifuggire dal riprodurre il calco della Vetus Latina, quando non ritenne necessaria una nuova traduzione dall’ebraico. Tra i suoi scopi, v’era anche quello di fornire alle chiese di lingua latina un testo biblico dell’Antico Testamento sicuro, fedele all’originale e affidabile nelle dispute tra cristiani e giudei. Nell’ambito di quindici anni di lavoro intensissimo, il traduttore arrivò anche all’idea che la Septuaginta non avrebbe dovuto più occupare quel ruolo centrale, di cui fino ad allora aveva goduto. Solo di Tobia e di Giuditta Girolamo diede una sua versione latina, accogliendo invece la Vetus Latina dei libri e dei frammenti deuterocanonici dell’Antico Testamento. Il drastico ridimensionamento geronimiano della Septuaginta, a favore del testo ebraico e dei libri che lo compongono, fu piuttosto anomalo, così che esaltando la veritas hebraica, prese una posizione marginale rispetto alla comune tradizione delle chiese antiche. Ma era impossibile a Girolamo rinunciare alla propria fede cristiana, così che in numerosi punti intese il testo ebraico nel comune senso cristiano corrente, soprattutto in relazione all’indole messianica di passi dell’Antico Testamento, intesi come riferiti a Gesù di Nazaret. La stessa chiesa latina di Roma non volle sostituire subito la versione corrente della Vetus Latina dei Salmi, con quella nuova geronimiana, per non stravolgere la tradizione della preghiera liturgica e personale. Girolamo ha lasciato testimonianze significative del suo impegno esegetico sul testo biblico nei prologhi ai singoli libri biblici della Vulgata e in brevi commentari ai singoli libri biblici, dove nella sostanza dei contenuti si allinea alla tradizione cristiana classica.6

La tradizione del commento e dell’interpretazione dei testi biblici si evidenziò anche nel magistero pontificio (cfr. Leone Magno, 440/461; Gregorio Magno, 540-604), fondamentale per una tradizione orale. Ma l’esigenza di sintesi della tradizione esegetica ed ermeneutica cristiana della Bibbia trovò soprattutto nelle Catene, con il testo biblico al centro della pagina e i padri che lo commentano disposti intorno, un genere attestato da centinaia di manoscritti e ancora nell’Italia del sec. XVI. Ancora più importante fu il genere della Glossa: raccolta di spiegazioni prevalentemente patristiche, ma anche di autori contemporanei, impaginata per lo più come una Catena; la Glossa, che per la diffusione fu detta anche ordinaria, divenne il principale strumento della tradizione e dell’interpretazione della Bibbia nell’occidente latino, nei teologi scolastici, in Tommaso d’Aquino; in Italia divenne epocale quella di Nicola da Lira, stampata a Venezia nel 1485.

Il margine tra libri canonici e non canonici rimase fluttuante. Il catalogo più ampio dell’antichità cristiana circa gli scritti «apocrifi» è il così detto Decreto gelasiano: una raccolta di decreti autentici della chiesa romana (412-523), scritta nella Gallia meridionale come opera di un privato e attribuita, non senza riserve, a papa Gelasio (morto nel 496); contiene un elenco dei libri della Bibbia ed un elenco di scritti apocrifi, opere riguardanti personaggi dell’Antico Testamento e opere teologiche più o meno eterodosse ripudiate dalla Chiesa romana; un secolo più tardi, nella Lista dei sessanta libri canonici mancava ancora l’Apocalisse canonica.

L’esegesi biblica medievale mosse i suoi passi dalla distinzione dei quattro sensi della Bibbia, condensata da Giovanni Cassiano: senso storico o letterale; allegorico o cristologico; tropologico, o morale, o anche antropologico; anagogico. Ne nacque il celebre distico: «Littera docet; qudi credas allegoria; / moralis quid agas; quo tendas anagogia». L’esperienza monastica traeva linfa dai sensi della Bibbia così schematizzati, privilegiando ordinariamente quello allegorico, i contenuti morali e anagogici. Il ministero pastorale della predicazione attingeva largamente al senso morale dei testi biblici, ricorrendo a quello allegorico soprattutto là dove il senso letterale sarebbe stato inaccettabile per la vita cristiana.

Le scuole, attente a ricavare materiale biblico atto a confermare le dottrine teologiche e morali, non privilegiavano ordinariamente il senso letterale della Bibbia, soprattutto nel caso dell’Antico Testamento. In Italia la tradizione teologica medievale non poté avvalersi delle conoscenze dell’ebraico e dell’esegesi rabbinica del canonico regolare inglese Andrea, abate di S. Vittore presso Parigi (morto a Wigmore, 1175), il cui commento all’Antico Testamento ebbe larga risonanza. Ebbe grande successo anche in Italia, fino a entrare nelle biblioteche papali, il Pugio fidei (1278), del domenicano catalano Raimondo Martini: una «Summa contra Iudaeos», parallela a quella del suo confratello Tommaso d’Aquino (1225-1274), Summa contra Gentiles, nella quale compaiono passi identici all’opera del Martini. Tommaso d’Aquino, dopo aver chiarito che la metafora faceva parte del senso letterale della Bibbia, formulava il principio più vasto circa l’ermeneutica biblica: «niente di necessario alla fede è contenuto nel senso spirituale, che la Sacra Scrittura non esprima chiaramente in senso letterale in qualche altro testo (La Somma teologica 1.1,10 ad 1; traduzione a cura dei domenicani italiani, vol. I, Firenze 1952). L’eredità di Tommaso d’Aquino esercitò un influsso immenso in tutta la storia del cristianesimo e non solo in Italia, anche nell’ambito degli studi biblici (cfr. il commento al Vangelo di Giovanni, al Padre nostro, al Corpus Paulinum, a Giobbe; la Catena aurea, una Glossa continua sui Vangeli), fino in epoca ancora recente. Più complesso rimane il bilancio della successiva tradizione degli «scolastici», dove l’utilizzazione della Bibbia per la ricerca ormai esclusiva di punti di appoggio dottrinali rimase in auge nell’insegnamento della teologia cattolica in Italia ancora nel sec. XX, ma segnò anche la fine della sua credibilità scientifica col progresso delle scienze bibliche e orientalistiche.

Per la gente comune, spesso ancora analfabeta, la conoscenza della Bibbia avveniva anche attraverso le «rappresentazioni sacre» di episodi o cicli biblici e nell’arte musiva delle chiese. Nel Duomo di Monreale, costruito nel 1174 per ordine di Guglielmo d’Altavilla, le pareti delle absidi e delle navate in alto sono rivestite da mosaici, fondo oro, eseguiti tra il sec. XII e la metà del sec. XIII, da artigiani locali e veneziani di scuola bizantina: il catino absidale presenta la maestosa figura del Cristo Pantocratore, mentre lungo le pareti absidali e delle navate si susseguono le storie cicliche dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Da forme popolari di approccio e di trasmissione della Bibbia, le «rappresentazioni sacre» poi evolvettero in un genere teatrale vero e proprio. La forma più semplice era una narrazione più articolata rispetto alla lettura o declamazione di un testo biblico: ne emergeva l’intento didascalico e il desiderio d’immedesimazione. La prima «rappresentazione sacra» con la presenza di varie persone, fu il «presepe vivente», riguardante la nascita di Gesù, che Francesco d’Assisi realizzò a Greccio nel 1223, ispirandosi certamente al racconto di Lc 2,1-20, ma anche all’esegesi popolare della Septuaginta di Ab 2,2, dove il manifestarsi divino tra «due esseri viventi» (cfr. i cherubini dell’arca di Es 37,7-9) fu inteso come tra «due animali», come il bue e l’asino delle tradizioni apocrife (cfr. Pseudo-Matteo). La tradizione del presepio è rimasta viva ancor oggi in Italia e vi sono molti esempi di presepi viventi in tutto il mondo.

Anche la «Lauda drammatica», composta da «stanze», affidate a un «solista» o a un gruppo, da intendersi come un «coro», divenne strumento di diffusione per l’approccio popolare alla Bibbia sul genere della «rappresentazione sacra»: Jacopone da Todi (1230-1306) ne iniziò la forma dialogica e la più celebre composizione fu «Donna del paradiso», o «Il pianto di Maria», dove oltre alla madre di Gesù, compaiono altri personaggi: Gesù, il popolo, il nunzio fedele (Giovanni apostolo); ispirandosi alla «Passione di Gesù», in una forma cantata liturgica è stata presente in Italia fino alla tradizionale «Via crucis», celebrata nei venerdì di Quaresima del sec. XX. La «Lauda drammatica» esprimeva il desiderio anche popolare di un rinnovamento, come ristrutturazione dell’istituzione ecclesiastica basata sulla spiritualità e la povertà, attraverso la pietà religiosa popolare, che si voleva sentire vicina a Cristo nella partecipazione attiva e passiva delle rappresentazioni di momenti fondamentali della sua vita. Le «Laudi» furono rappresentate da «fraternite» e poi «confraternite», formate da chierici e anche da laici. Lo spazio architettonico della chiesa non fu più sufficiente per la «rappresentazione sacra» e nel 1300 comparvero «palcoscenici» sui sagrati delle chiese; la musica, prima in forme monodiche accompagnate da strumenti musicali e più tardi la polifonia fu sempre più protagonista. Come genere teatrale, di argomento religioso e in particolare biblico, la «rappresentazione sacra» si sviluppò in Italia a partire dal sec. XV in Toscana.

Dall’umanesimo al Concilio di Trento. Alle difficoltà degli inizi subentrò una completa affermazione della Vulgata: dal sec. V fino all’epoca di Carlo Magno; l’impulso carolingio si fece sentire fino al sec. XIII, quando si cercò di arginare la tendenza straripante a glossare il testo latino. Dopo le prime edizioni a stampa in Italia nel 1450-1456, la Vulgata fu stampata circa un centinaio di volte, ma per lo più senza alcun apparato critico. Il Concilio di Trento (1545-153) chiarì le ultime questioni relative al canone dei libri ispirati (IV sessione, 1546; cfr. Concilio di Firenze, 1438-1445): 47 libri dell’Antico Testamento, compresi i deuterocanonici e 27 libri del Nuovo Testamento; dichiarò la Vulgata punto di riferimento per la definizione del canone biblico, da considerare come «autentica», autorevole per letture, dispute, predicazione, esposizione, per i momenti ufficiali come la liturgia e l’insegnamento. Alcuni volevano la proibizione delle traduzioni della Bibbia nelle lingue vive, altri le incoraggiavano, o si cercava qualche compromesso; nella prassi disciplinare successiva veniva favorita la Vulgata latina e per leggere la Bibbia nelle lingue vive, al di fuori dai testi ebraici, greci e latini, doveva esserci il permesso scritto dal «santo Uffizio dell’Inquisizione romana», non potendosi abitualmente usare le Bibbie in lingue vive, poste invece accanto ai libri proibiti. I teologi e i biblisti tridentini erano ben consapevoli della mancanza di un’edizione critica della Vulgata; il lavoro della commissione appositamente istituita da Sisto V nel 1586 subì ritocchi sostanziali non pertinenti all’edizione critica, ma voluti dallo stesso Pontefice; ne risultò l’edizione della Bibbia Sistina (1590); sotto il pontificato di Clemente VIII l’edizione Sistina fu migliorata e ricomparve come Biblia sacra vulgatae editionis Sixti V iussu recongita et Clementis VIII autoritate edita in una ristampa del 1604 a Lione. La Sisto-clementina della Vulgata rimase per lungo tempo l’unica «ufficiale», «autentica» e «autorevole» della chiesa cattolica, mentre le successive edizioni furono soltanto delle ristampe di questo testo, emendato dagli errori tipografici.

Nel frattempo, la nuova civiltà europea, emergente dalla fioritura dell’umanesimo e del rinascimento, aveva portato con sé il desiderio di riscoprire a occidente i testi originali della Bibbia, dopo aver vissuto quasi esclusivamente delle sue traduzioni in prevalenza latine. Accanto allo studio dell’ebraico, del greco e poi delle lingue delle antiche versioni «orientali», fu fondamentale l’esigenza di poter leggere la Bibbia nelle lingue effettivamente parlate dalle varie popolazioni, rimanendo ormai il latino la lingua dei dotti. Il sorgere delle traduzioni della Bibbia nelle nuove lingue correnti, antenate di quelle attuali come tedesco, francese, inglese, spagnolo, portoghese, italiano e così via, divenne irreversibile.

Nel mondo italiano non mancarono traduzioni complete della Bibbia nella lingua e anche nei dialetti locali, prima e dopo il Concilio di Trento (1545-1563); prima dell’epoca segnata dalla stampa sono rimasti manoscritti di traduzioni, caratterizzate da dialetti locali frammisti a quello che si sarebbe imposto più tardi come italiano: parti del testo biblico per la liturgia, oppure un libro, o un gruppo di libri, come i Vangeli, ma l’intera Bibbia era assai rara. A seguito del Concilio di Trento, l’Indice dei libri proibiti risultò fatale alla lettura delle traduzioni prodotte nelle chiese riformate oltre che in quella cattolica. Le restrizioni post-tridentine volevano scoraggiare un uso individuale che comportasse una lettura senza riferimento ecclesiale e quindi legata alle forme del libero esame; divenne obbligatoria la pubblicazione del testo biblico corredato di opportune introduzioni e note; obbligatorio nell’uso liturgico, l’uso della Vulgata, a fronte dell’assenza di una traduzione ufficiale in lingua italiana, fece della Vulgata la versione ufficiale e più importante in ambito cattolico; le traduzioni italiane dell’area cattolica vi si ispirarono per lungo tempo. Nell’interpretazione anche spirituale della Bibbia si poteva fare ricorso tradizioni, ora definitivamente apocrife, ma allora circondate da un alone di credibilità storica, come per esempio gli Atti di Simone e Giuda; anche le edizioni della Vulgata continuarono a riportare in fondo alcuni testi apocrifi, ritenuti edificanti (cfr. Preghiera di Manasse, 3-4 Esdra).7

Con l’invenzione della stampa cattolici e riformati in Italia produssero varie traduzioni: il monaco camaldolese N. Malermi (Malherbi) traduceva la prima intera Bibbia dalla Vulgata latina (Wandelin, Venezia 1471), utilizzando, revisionando e confrontando manoscritti precedenti, con molte ristampe successive: A. Guerra la riproponeva ancora nel 1773 (Venezia), riveduta sulla Vulgata latina e sulla versione di G. Diodati.

Nel 1471 si diffondeva anche la traduzione anonima a cura dello stampatore N. Jenson. A. Brucioli, utilizzando per l’Antico Testamento la versione latina dall’ebraico del domenicano S. Pagnini (1527) e per il Nuovo Testamento quella dal greco di Erasmo da Rotterdam (1516), pubblicava la sua «nuova traduzione» di tutta la Bibbia (L. Giunta, Venezia 1530-1532), ma lo scontro con l’Inquisizione ecclesiastica ne decretò la condanna. Ancora due domenicani curarono due edizioni della Bibbia in italiano presso l’editore L. Giunta a Venezia: Zaccaria da Firenze (1536) e S. Marmochino (1538); per gli italiani riformati a Ginevra fu attivo F. Rustici (F. Duron); il benedettino M. Teofilo curava un’edizione del Nuovo Testamento a Lione (1551); il valdese G.L. Paschale pubblicava un’edizione bilingue in italiano-francese (Ginevra, 1552). Sempre a Ginevra (1607), dove si era rifugiato, G. Diodati pubblicava la sua valida traduzione della Bibbia completa dai testi originali, indipendente da quella di Lutero (1522-1534), e influendo anche profondamente per i secoli successivi su tutto il mondo italiano; una commissione, guidata da G. Luzzi, la revisionava nel 1924, eliminando i deuterocanonici dell’Antico Testamento, presenti ancora fino al 1822-1823; i valdesi in Svizzera la usarono fino al 1848; fu revisionata in Germania nel sec. XVIII, a Londra nel 1819 da G.B. Rolandi e ancora da scozzesi e italiani nel sec. XIX; nel 1894 da A. Meille e Giovanni Luzzi; l’ultima revisione è del 2001.

Una notazione scribale a metà di un manoscritto della Torah, in ebraico non vocalizzato, catalogato molto più tardi presso la biblioteca dell’Università di Bologna come Rotolo 2, segnalava che il rotolo era stato regalato dagli Ebrei ad Aimerico Giliani da Piacenza, Maestro Generale dei Domenicani dal 1304 al 1311; il rotolo, fissato agli estremi esterni a due perni sui quali poteva essere avvolto e svolto, è lungo 36 metri e largo 64 centimetri, è scritto con inchiostro a carbone, contiene tutto il Pentateuco ed è databile tra la seconda metà del XII secolo e l’inizio del XIII secolo circa. La sua attribuzione a Esdra è certamente discutibile, ma si tratta di uno dei più antichi codici ebraici integri del Pentateuco ebraico non vocalizzato. Il rotolo della Torah divenne un’attrazione per viaggiatori e studiosi stranieri a Bologna e il paleografo francese Bernard de Montfaucon ne diede una dettagliatissima descrizione, riportandone nel suo Diarium italicum l’iscrizione bilingue (latina ed ebraica) che attribuiva ad Esdra la scrittura del testo. Le rapine napoleoniche lo fecero arrivare a Parigi, dove però scomparve l’attestazione della donazione da parte degli ebrei. Per il resto il rotolo tornò integro dalla Francia nel 1815 per essere conservato presso la Biblioteca Pontificia di Bologna, oggi divenuta Biblioteca Universitaria. La sparizione dell’attestazione sulla donazione ebraica ai Domenicani, ingenerò l’equivoco che aveva portato a identificare il rotolo in questione con un altro rotolo mutilo della stessa università, fino a che la catalogazione del Rotolo 2, fatta da Leonello Modona nel 1889 lo aveva classificato come un manoscritto molto più tardivo del Pentateuco. I più recenti studi sulla “Torah di Bologna”, avviati dallo studioso italiano M. Perani, hanno permesso di ristabilire identità e antichità del manoscritto biblico, che ritenuto comunque prezioso per le comunità ebraiche italiane, potrebbe comunque essere arrivato in Italia con gli esodi delle comunità ebraiche sefardite o askenazite espulse da altre aree europee.

Tra il sec. XV-XVI iniziava in Italia l’impresa delle Bibbie Rabbiniche (Miqrā’ôt Gedôlôt = Le Grandi Scritture), un genere di edizione della Bibbia, che condivideva e riformulava anche genialmente l’intuizione delle Catene e della Glossa cristiane: la Bibbia interpretata con la Tradizione. A Bologna (1462) Joseph ben Abraham, coadiuvato da Abraham ben Tintori editava il Pentateuco: al centro della pagina il testo ebraico, affiancato dal targum Onkelos e tutt’intorno il commento di Rashi. Seguirono ben 6 edizioni complete della Bibbia Rabbinica, anche con trasformazioni. La prima in 4 voll. (D. Bomberg, Venezia 1516-1517) era curata da F. Prato, che dopo la morte del padre, aveva chiesto il battesimo e intorno al 1506 era diventato religioso agostiniano; per la prima volta in una Bibbia ebraica i libri di Samuele e dei Re furono divisi ciascuno in due libri distinti, seguendo il modello della Vulgata latina; oltre ai commentari comprendeva anche i «tredici articoli» delle fede del giudaismo, raccolti e schematizzati da Maimonide, e il trattato sugli accenti attribuito a Ben Asher. Nella seconda Bibbia Rabbinica (D. Bomberg, Venezia 1524-1525, 4 voll.), curata da Jacob ben Hayim, che in tarda età passò alla fede cristiana, il testo ebraico, basato su manoscritti spagnoli (sefarditi) e con la masorah marginale, diventava il testo masoretico standard per 400 anni e oltre ai targumim portava i commentari di Rashi, di Ibn Ezra, di Davide e Mosè Kimchi e di Levi ben Gerson; in un’ulteriore edizione veneziana (1525-1528) il testo ebraico diventava una combinazione tra quello di F. Prato e quello di Jacob ben Hayim. Fu poi C. Adelkind a modificare l’edizione bombergiana (Venezia, 1546-1548, 4 voll.), che, sotto la direzione di Giovanni di Gara, fu rivista venti anni dopo con numerosi cambiamenti da Isaac ben Ioseph Salam e da Isaac ben Gerson Treves (D. Bomberg, Venezia 1568). Quasi mezzo secolo più tardi, sotto la direzione di Leone di Modena e di Abraham Shaber-Tob ben Solomon Hayim Sopher, usciva quasi una riproduzione della precedente (Pietro e Lorenzo Bragadin, Venezia 1619), con l’«imprimatur» del censore Renato di Modena (1626).8

Caratteristico fu anche il genere della retroversione dei Vangeli dalla Vulgata in ebraico, come quella di G.B. Iona (Roma 1668), un ebreo divenuto cristiano (1625) e docente di ebraico nell’Accademia Romana della Sapienza, desideroso di riconfigurare un patrimonio spirituale originario, distorto dalla polemica anti-giudaica; l’opera aveva due finalità: spiegare comprensibilmente alle comunità ebraiche italiane l’esperienza dell’autore; far conoscere con una selezionata antologia di esempi e di argomentazioni il tesoro della tradizione giudaica al mondo cristiano, come si evidenziava anche dalla dedica dell’opera a papa Clemente IX. Il genere delle retroversioni del Nuovo Testamento nell’ebraico classico si sviluppò successivamente abbandonando la Vulgata e partendo dal testo greco, per arrivare alle edizioni del sec. XIX-XX e agli studi, che hanno cercato di ricostruire anche il sottofondo aramaico dei Vangeli. Con finalità talora dichiaratamente proselitistica nel sec. XX si sarebbe rivelato qualche tentativo di retroversione del Nuovo Testamento, o di alcune sue parti, in ebraico moderno e anche in yiddish; ma nessuno di questi tentativi sembra provenire dall’area italiana.

Mentre le chiese riformate nella restante Europa compivano una larga esperienza del nuovo corso delle traduzioni della Bibbia dai testi nelle lingue originali in lingue moderne, la chiesa cattolica italiana restava essenzialmente ancorata alla Vulgata Sisto-Clementina. Vi furono alcuni tentativi di traduzioni in latino di qualche libro della Bibbia anche dell’Antico Testamento dall’ebraico, come il Salterio, a cura di G.G. Giuseppe Mingarelli, dei canonici regolari del SS. Salvatore (Bologna 1748), ma rimase tra le migliori eccezioni.

La versificazione poetica italiana di G.C. Gazola (Verona 1816) di un’edizione dei Salmi, tradotti dall’ebraico in italiano da G. Venturi, a parte lo sforzo di accostarsi al testo biblico ebraico, non meriterebbe particolare attenzione. Molto più significativa ne fu invece l’acutissima recensione critica del sedicenne G. Leopardi, che dimostrava una discreta conoscenza dell’ebraico, anche di fronte alle difficoltà dei testi poetici col solo testo consonantico, seguito puntualmente facendo riferimenti precisi anche al testo vocalico a lui noto; sembra emergere solo qualche caso di puntuazione masoretica diversa da quella ordinaria; ne emergono i criteri per una traduzione italiana del Salterio ebraico: nell’indole propria della poesia religiosa dei Salmi, per Leopardi era necessario che il traduttore avvertisse la forza dell’originale ebraico, ne conservasse la semplicità, la forza, la rapidità, il calore della fantasia orientale e profetica nella traduzione, che avrebbe dovuto colpire il lettore come nell’originale, anche quando un’interpretazione in prosa ne presentasse almeno la fedeltà della Vulgata. Leopardi ammetteva comunque l’insufficienza della Vulgata per una conoscenza dei Salmi, pur riconoscendole il pregio di saper anche «commuovere» un traduttore serio del testo ebraico. Ma una traduzione del Salterio avrebbe dovuto evitare il ricorso a glosse, parafrasi e anche a perifrasi non indispensabili, preferendo invece nettamente una resa il più possibile letterale del testo; sarebbe stato inutile qualsiasi tentativo di «versificazione», ancor peggio con la rima come quella di G.C. Gazola; neppure il seguire la scansione sticometrica del testo ebraico e la riproduzione degli acrostici sarebbero stati sufficienti a garantire la rigorosità di una traduzione italiana. La traduzione in versi sciolti sarebbe stata la migliore delle soluzioni possibili, rispettando la sticometria della poesia ebraica e rimandando in nota indicazioni metriche e acrostiche. Per quanto non manchino numerosi riferimenti, riprese e interpretazioni di testi e temi biblici negli scritti di G. Leopardi, si può solo immaginare quale tappa miliare sarebbe stata per la lingua religiosa italiana una sua traduzione completa dei Salmi dall’ebraico, se il sedicenne Leopardi avesse voluto o potuto continuare e approfondire i suoi studi in materia, fino a cimentarsi in una compiuta traduzione del libro biblico dall’originale ebraico.9

Nel 1757 Benedetto XIV auspicava una traduzione della Bibbia in italiano; l’abate A. Martini, poi divenuto vescovo di Firenze, dalla Vulgata latina prima tradusse il Nuovo Testamento (1769-1771) e quindi l’Antico Testamento (1776-1791), accompagnando l’opera con note desunte da autori cattolici e specialmente dai padri della chiesa, secondo la prassi disciplinare post-tridentina. Ebbe 8 edizioni nella seconda metà del sec. XVIII e 40 in quello successivo (ultima riedizione 1967-1972 in 3 voll.). Per quanto monumento tardivo della lingua italiana, fu dichiarato «testo di lingua» dall’Accademia della Crusca (1885) ed è stato tenuto presente anche nella prima edizione della Bibbia tradotta dalle lingue originali in italiano curata dalla CEI (1971). Ha avuto un’importanza incalcolabile nella tradizione della chiesa cattolica italiana sia per la divulgazione come per la formazione del clero e dei religiosi. Può essere vista come una traduzione interlineare italiana della Vulgata, ma faceva anche attenzione al testo greco dell’Antico e del Nuovo Testamento e all’ebraico. L’esegesi e l’interpretazione dei testi era fortemente ancorata alla tradizione patristica e agli autori più conformi alla teologia magisteriale; nell’introduzione generale si avverte il senso di accerchiamento vissuto nell’ambito cattolico italiano a fronte anche delle migliori nuove istanze dell’esegesi biblica e delle scienze orientalistiche europee.10

Col secolo XIX il nuovo corso delle scienze bibliche e orientalistiche e della traduzione della Bibbia dalle lingue originali in quelle moderne prendeva slancio anche nel mondo cattolico italiano: G.B. De Rossi a partire dal 1808 (Parma) curò la traduzione di Salmi, Ecclesiaste, Giobbe, Lamentazioni e Proverbi; G. Ugdulena a Palermo tradusse il Pentateuco (1859-1861, 2 voll.), Giosuè e i Libri dei Re; a Torino C.M. Curci tradusse e commentò il Nuovo Testamento (1879.1883); a Milano N. Tommaseo tradusse i Vangeli dal greco (1869); a Firenze G. Vegni tradusse dall’ebraico l’Ecclesiaste (1871). Il seminario di Padova, ad esempio, brillava per la sua opera formativa accompagnata da pubblicazioni-manuali dalle lingue bibliche originali. Gli esponenti italiani delle chiese riformate erano attivi soprattutto fuori Italia e facevano ricorso alla versione di Giovanni Diodati. Nelle comunità ebraiche italiane emergeva la traduzione delle Miqrā’ôt dall’ebraico in italiano, iniziata da S.D. Luzzatto e terminata dai suoi discepoli (Padova-Rovigo 1853-1875).

Se i primi passi della critica moderna della Bibbia furono compiuti dal sacerdote oratoriano R. Simon (1638-1712), passato dalle chiese riformate al cattolicesimo, il mondo cattolico italiano non riuscì a entrare nel dibattito internazionale successivo; già col sec. XVI-XVII si stava sviluppando la critica testuale, la filologia ebraica e nel sec. XVIII nasceva in Germania il metodo storico-grammaticale, con implicazioni interpretative nuove del testo biblico. Il sec. XIX vide l’affermarsi del metodo storico-critico grazie a studiosi dell’area tedesca, che proposero svariate teorie sull’evoluzione storica della letteratura biblica, guardando anche al modello hegeliano. La documentazione letteraria, emergente dalle nuove scoperte archeologiche, parlava di uno sviluppo delle antiche religioni di quell’area culturale, nella quale era nata e si era formata la Bibbia. La valutazione dei dati a confronto apriva la strada a interpretazioni molto diverse di parti consistenti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Si avvertiva una commistione confusa tra ermeneutica filosofico-razionalista e i possibili significati dei dati letterari e culturali studiati; tra gli studiosi delle chiese riformate prevalse l’ipotesi-quadro che la critica moderna dovesse essere esperita fino in fondo, senza preoccuparsi di eventuali implicazioni dogmatiche e morali e delle convinzioni più tradizionali o popolari sulla Bibbia. La poderosa spinta culturale in atto provocò reazioni anche nelle chiese riformate, ma non subì arresti. Nell’area della chiesa cattolica, e in particolare nel mondo italiano, che raggiungeva intorno alla metà del sec. XIX una sua unità anche politico-nazionale, il nuovo corso delle scienze bibliche, archeologiche e orientalistiche suscitò interesse e studiosi di assoluto valore, come l’esegeta ed egittologo L. Ungarelli (1779-1845), il filologo, orientalista, egittologo e storico A. Peyron (1785-1870), il critico testuale C. Vercellone (1814-1869), l’orientalista I. Guidi (1844-1935), l’archeologo G.B. De Rossi (1822-1894), ma non poteva ancora raggiungere la gente comune; l’influsso inizialmente più avvertito nel mondo culturale italiano per il rinnovamento degli studi biblici fu quello esercitato da A. Loisy (1857-1940). Gli ambienti dell’ex-Stato Pontificio lo chiamarono «modernismo», in senso negativo.11

Sotto il profilo pastorale incontrava ben più fortuna tra la popolazione cattolica italiana il genere letterario della «Storia sacra». Il sacerdote C.I. Fransioli nel 1868 (ultime aggiunte nel 1881) traduceva in italiano un’opera di un confratello anonimo della diocesi di Basilea: La Storia Biblica Illustrata ossia la Storia Sacra del Vecchio e Nuovo Testamento con illustrazioni; era destinata all’uso scolastico (tra il 1880 e il 1914) ed ebbe larga diffusione anche tra gli adulti, con notori consensi. Il genere letterario dell’opera è misto: segue il canone dei testi biblici dell’Antico-Nuovo Testamento selezionandone gli episodi ritenuti significativi, come in un’ampia antologia; le citazioni provengono dalla Vulgata, ma il testo è spesso riformulato e parafrasato con abbreviazioni e aggiunte dell’autore; il percorso storico si conclude con gli Atti degli apostoli. La parte successiva dell’opera ricalca il genere del “catechismo tridentino”: dopo un florilegio di «profezie» dell’Antico Testamento e una silloge di «sentenze morali», desunti da uno studio di Mons. A. Martini, è esposta una «Concordanza della dottrina cristiana con i racconti biblici», che riguarda i fondamenti biblici del «Credo», dei «Comandamenti» e dei «Sacramenti». Prima e dopo la sua pubblicazione, il testo ottenne 60 approvazioni ecclesiastiche e quella pontificia (8/3/1880); in italiano fu ristampato in più di 80 edizioni fino agli anni 1940, ma, eccettuata l’edizione del 1881, le altre non sembrano recare data. L’opera consentì un approccio popolare facilitato alla Bibbia, tradizionale-catechistico, ma aprendo la strada alla divulgazione di altre forme di «Storia sacra». G. Bosco, fondatore dei Salesiani, visse il periodo critico degli studi biblici come sacerdote impegnato soprattutto con i ceti popolari del mondo giovanile, al quale era destinata la sua «Storia Sacra», che nell’edizione del 1929 (Torino), aveva raggiunto il «250° migliaio»; il testo espone soprattutto con parole proprie quello che ritiene il tracciato narrativo della Bibbia, inserendo anche vere e proprie citazioni in corsivo; qualche elemento più tecnico e catechetico compare nel dizionario e nelle tavole finali. Il genere della «Storia Sacra», antologia biblica parafrasata, corredata e illustrazioni con didascalie, rimase in uso ancora fino agli inizi del Vaticano II.

Fonti e Bibl. essenziale

Edizioni: N. Malermi, Biblia. vulgare novamente stampata, et coreta: con le sue figure alli luochi congrui situade…: aggionti etiam i suoi ordinatissimi repertorii…ne mai per i tempi passati con tale ordine per altri fatta, Venetiis, per Bernardino Bindoni milanese [colophon], 1541; Biblia sacra vulgatae editionis Sixiti V iussu recognita et Clementis VIII auctoritate edita, Lione 1604; Bibliorum sacrorum latinae versiones antiquae seu Vetus Itala, a cura di P. Sabatier, Parigi: Franciscum Didot 1751; La Sacra Bibbia secondo la volgata. Tradotta in lingua italiana e con annotazioni dichiarata da Monsignore Antonio Martini, Firenze: David Passigli e Socj, 1833-1836; La Storia Biblica Illustrata ossia la Storia Sacra del Vecchio e Nuovo Testamento / scritta da un Sacerdote della Diocesi di Basilea; e tradotta ad uso delle scuole italiane dal M.R. Parroco di Faido D. Carlo Ignazio Fransioli- 3. ed. – Einsiedeln: F.lli. Benzinger; Torino: Tipografia e Libreria S. Giuseppe, 18-279; ill. (Biblioteca racconti e novelle) [1868]; Vetus Latina. Die Reste der altlateinischen Bibel nach Petrus Sabatier, a cura dell’Abbazia di Beuron, Herder, Freiburg 1949; La Sacra Bibbia, Tradotta in lingua italiana e commentata da G. Diodati, a cura di M. Ranchetti – M. Ventura Avanzinelli, Mondadori, Milano 1999. Cataloghi: E.M. North, The Book of Thousand Tongues, Being Some Account of the Translation and Publication of All Part of the Holy Scriptures into morre than a Thousand languages and Dialects with over 1100 Exemples from the Text, American Bible Society, New York and London 1938; Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, Bibbia, Catalogo di edizioni a stampa (1591-1957), Roma 1983. Studi: R.E. Brown – C. Buzzetti – D.W. Johnson – K.G. O’Connell, Testi e versioni, in Nuovo Grande Commentario Biblico, a cura di R.E. Brown – J.A. Fitzmyer – R.E. Murphy, edizione italiana a cura di F. Dalla Vecchia – G. Segalla – M. Vironda, Queriniana, Brescia 1997, 1418-1463; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Saggi, Il Mulino 1997; G. Rizzi, Edizioni della Bibbia nel contesto di Propaganda Fide. Uno studio sulle edizioni della Bibbia presso la Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana, voll. I-III, Urbaniana University Press, Roma 2006; G.I. Gargano, Il sapore dei padri della Chiesa nell’esegesi biblica, Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009; G. Rizzi, Le antiche versioni della Bibbia. Traduzioni, tradizioni e interpretazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009; G. Rizzi, Le versioni italiane della Bibbia. Dalla Bibbia del Malermi (1471) alla recente versione della CEI (2008), San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2010.

Immagini: 1) Mosaici del Duomo di Monreale (1172-1267) – Fascia inferiore dei mosaici della parete sud della navata; 2) Mosaici del Duomo di Monreale (1172-1267) – Fascia inferiore dei mosaici della parete nord della navata; 3) Frontespizio di un’edizione della Vulgata del 1542; 4) Copertina del primo tomo dell’opera di Pierre Sabatier († 1742); 5) Mosaico in S. Apollinare in Classe (Ravenna, 549 d.C.). Il tradimento di Giuda; 6) S. Apollinare Nuovo (505 d.C.) – Melchisedec, Abele e Abramo prefigurano il sacrificio di Cristo; 7) Bibbia tradotta da Nicolò Malermi, frontespizio per il libro dei Proverbi; 8) Cappella Sistina; costruzione iniziata nel 1473 – Michelangelo Buonarroti: Il giudizio universale; 9) Bibbie Rabbiniche – Un’edizione moderna delle Miqrā’ôt Gedolot (da Esodo 12); il testo ebraico masoretico in caratteri più grandi; i targumim aramaici vocalizzati a fianco in caratteri più piccoli; i commentatori della tradizione rabbinica in caratteri ebraici non vocalizzati nelle parti inferiori delle pagine; 10) Frontespizio di un’edizione della Bibbia di Antonio Martini (1836); 11) Storia Sacra di G. Bosco (1847).


LEMMARIO




Bibbia - vol. II


Autore: Giovanni Rizzi1

Sono tre le linee guida per le moderne traduzioni scientifiche della Bibbia nelle chiese occidentali: una sempre migliore aderenza ai testi biblici originari in edizioni critiche adeguate; l’aggiornamento delle lingue della traduzione in rapporto alle sue evoluzioni epocali; il progresso delle conoscenze linguistiche, filologiche, culturali, archeologiche e storiche del mondo biblico. Nelle edizioni più di carattere pastorale sono presenti in misura diversa le stesse linee guida, o talvolta compare qualche altro criterio specifico. Permane la caratteristica nella traduzione della Bibbia di riflettere la fede, la preghiera, l’esegesi, l’interpretazione e il canone dei testi sacri. Si assiste a un’evoluzione rapida delle traduzioni moderne; in vari casi, la traduzione, per quanto curata, non è sentita come sufficiente per un’adeguata comprensione del testo biblico, così che si ritiene necessario corredarla di ampie introduzioni e di copiose note.

Possiamo caratterizzare la storia delle edizioni della Bibbia in Italia in cinque fasi principali: la crisi «modernista»; dalla Divino Afflante Spiritu (1943) al Concilio Ecumenico Vaticano II; la fioritura postconciliare; le edizioni della Bibbia curate dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

La crisi «modernista». Non erano mancati eminenti studiosi italiani, che avevano curato importanti edizioni critiche relative alla LXX (A. Mai, 1857; C. Vercellone e G. Cozza, 1868-1881), alla Siroesaplare (A.M. Ceriani, 1874), o imponenti lavori fondamentali in vista di un’edizione critica della Vulgata (C. Vercellone, 1860-1864), ma la chiesa cattolica italiana, nonostante vari tentativi di traduzione di qualche libro biblico dalle lingue originali, aveva camminato nel solco delle indicazioni tridentine, attenendosi alla traduzione dalla Vulgata e alle spiegazioni esegetiche ed ermeneutiche del magistero, corredate dalle tradizioni patristiche. Ciò aveva contribuito a creare un significativo e doloroso ritardo rispetto ad altre aree della chiesa cattolica di lingua francese, inglese e tedesca per l’esegesi biblica, le scienze orientalistiche e la traduzione stessa della Bibbia nelle lingue moderne.

L’affermarsi a livello divulgativo del genere della «Storia sacra», epitome di episodi biblici selezionati e parafrasati, corredati da didascalie e illustrazioni, sanciva nell’area cattolica italiana un profondo distacco tra gli studiosi, più aperti alle istanze delle moderne scienze bibliche orientalistiche, e la gente comune, con un progressivo allontanarsi di persone più colte o con esigenze culturali più vivaci dalla vita stessa della chiesa. Nel 1902 sorgeva in Vaticano la Pia Società S. Girolamo per diffondere a prezzi minimi e in milioni di copie i Vangeli, inizialmente tradotti in italiano da G. Clementi, annotati da G. Genocchi e presentati da G. Semeria, che guardò anche ai nuovi orientamenti dell’esegesi moderna; tra i collaboratori e promotori dell’impresa c’era Mons. Giacomo Della Chiesa, divenuto poi Benedetto XV.2

Gli interventi della Pontificia Commissione Biblica (PCB) erano prevalentemente di condanna di posizioni ritenute errate (1905-1933) nelle ipotesi-quadro o nelle affermazioni degli studiosi «modernisti», avvertite come pericolose per la fede e la comunità cristiana. Le contromisure magisteriali di Pio X (decreto Lamentabili 1907; enciclica Pascendi 1907) riguardarono soprattutto l’esegesi, l’ermeneutica e le teologie proposte dall’avanzamento degli studi biblici e orientalistici, fino a coinvolgere non solo le ricostruzioni storiche del mondo biblico ma anche la teologia sistematica e la morale cattolica. Due erano le questioni centrali: la priorità della ricerca storico-critica o dell’impianto teoretico-filosofico nei nuovi sviluppi delle scienze bibliche e orientalistiche; la portata e limiti dei nuovi metodi di analisi. La tesi di Pio X era che l’ideologia teoretico-filosofica avesse influenzato lo studio dei testi biblici; i biblisti dell’epoca erano convinti del contrario e che eventualmente ci fossero stati degli eccessi; la vera questione era epistemologica, sulla portata e sui limiti dei metodi elaborati.

Perplessità verso le moderne scienze bibliche e orientalistiche e diffidenza verso il magistero ecclesiale stesso dopo le condanne «antimoderniste» (inizio del sec. XX) contribuirono a incrementare il distacco della gente comune dalla Bibbia, ma anche nel clero e nei religiosi, che non avevano ordinariamente un libero accesso alla lettura integrale della Bibbia stessa. Sospetti e condanne verso le «Società bibliche», cresciute nelle chiese riformate e destinate alla divulgazione della Bibbia anche nelle missioni, furono superati solo con il Concilio Vaticano II, dopo il quale si intensificarono invece le collaborazioni.

Studiosi cattolici come L. Tondelli, P. Vannutelli, G. Ricciotti e altri possedevano le conoscenze necessarie per portare un contributo agli studi biblici e a una traduzione dell’intera Bibbia in italiano dalle lingue originarie, ma fu necessario l’impulso di altre scuole presenti o conosciute in Italia per poter affrontare la reazione anti-modernista. Limiti e portata dei nuovi metodi storico-critici e letterari nello studio della Bibbia furono il centro della controversia tra la scuola francese, guidata J.-M. Lagrange, fondatore dell’École Biblique di Gerusalemme (1890), la scuola del Pontificio Istituto Biblico (1909, voluto da Pio X), rappresentata da A. Vaccari, e la scuola di Milano. Non fu facile raggiungere un’intesa sulle questioni aperte, a fronte degli interventi del magistero pontificio, variamente intesi, e di quelli della PCB.

Alcuni studiosi italiani si mossero all’interno di queste coordinate, cercando un “compromesso all’italiana”, tra istanze pastorali di aggiornamento ormai inderogabili, limitazioni permanenti da parte dell’autorità ecclesiastica e necessità di svecchiamento degli stereotipi tradizionali alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche e culturali: La Sacra Bibbia (Firenze 1929), voluta da G. Rossi, superiore generale della Compagnia di S. Paolo, e curata da G. Castoldi con un qualificato gruppo di collaboratori si collocava ancora in una fase calda della polemica tra «modernisti» e «anti-modernisti».

Dalla Divino Afflante Spiritu (1943) al Concilio Ecumenico Vaticano II. Perché in Italia si sbloccasse la situazione fu decisivo l’impulso magisteriale di Pio XII con l’enciclica Divino Afflante Spiritu (1943), che promuoveva anche le traduzioni bibliche dai testi originali, aprendo la porta ai metodi moderni di indagine storico-critica. Finita la seconda guerra mondiale, A. Vaccari guidava un nutrito gruppo di biblisti nella prima traduzione scientifica dalle lingue originali dei testi biblici in italiano (Firenze 1957-1958, 10 voll., ridotti poi a 1 vol.), realizzando finalmente un desiderio di Pio X (lettera del 29/9/1913 al superiore generale dei Gesuiti). L’attenzione andava anche per nuove traduzioni, fedeli ai testi originali ma accessibili alla gente comune e conformi all’interpretazione della chiesa cattolica, come quella voluta da G. Alberione (Roma 1958), o più accurate come quella di F. Nardoni (Firenze 1960), con brevi note al testo.

Nel 1960 usciva la prima e unica versione italiana a tutt’oggi completa dell’Antico Testamento dal testo greco della Septuaginta, ad opera di Aristide Brunello: La Bibbia secondo la versione dei Settanta; il traduttore affermava di essersi basato sull’edizione allora critica del testo greco di A. Rahlfs (1935; quinta edizione nel 1952), così come essa si presentava, e annotava dove il testo si allontanava dalla Vulgata latina, o dove la Vulgata o il testo greco omettevano qualche versetto. Lo scopo principale era valorizzare l’autorità della Bibbia Greca dei Settanta che aveva costituito un tempo la Bibbia ufficiale della Chiesa anche Latina e che godeva nella Chiesa e nella Liturgia Bizantina. G. Perniciano, vescovo ausiliare di Piana degli Albanesi, evidenziava nella prefazione all’opera in due volumi, che la traduzione italiana della Septuaginta era destinata principalmente all’Eparchia di Piana degli Albanesi e all’Associazione Cattolica Italiana per l’Oriente Cristiano. L’antica versione greca della Septuaginta per l’AT è ancora oggi il testo della Liturgia Bizantina. Si può così ritenere che la versione di A. Brunello abbia un’autorevolezza “scritturistica”, in quanto testo accolto e pregato da una viva comunità cristiana di lingua italiana.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962 – 1965), con la costituzione dogmatica Dei Verbum, promuoveva il rinnovamento biblico nella teologia come nella vita della chiesa cattolica, accogliendo e discernendo le varie istanze emergenti: l’incoraggiamento all’uso dei moderni metodi di analisi dei testi biblici, la sottolineatura sul loro senso storico-letterale e l’attenzione ai generi letterari dovevano portare a evidenziare la sinergia tra l’ispirazione del testo sacro e l’attività degli antichi agiografi nel loro contesto culturale; ma l’interpretazione della Bibbia nelle sue singole parti doveva avere ben chiara l’unità teologica dell’AT e del NT nella centralità del mistero di Gesù Cristo. Nell’accuratezza delle traduzioni dai testi originali, il lavoro esegetico doveva avvenire in un contesto effettivamente ecclesiale, senza ridursi a un’operazione puramente filologica e razionalistica.

Durante la seconda e la terza sessione del Vaticano II, S. Garofalo curava La Sacra Bibbia (Casale Monferrato 1963; 3 voll.), sotto la direzione di F. Vattioni per l’AT e L. Algisi per il NT; lo stesso anno E.R. Galbiati, A. Penna e P. Rossano proponevano La Sacra Bibbia (Torino), che sarebbe diventata la base per l’edizione ufficiale nel 1971 della Bibbia della Conferenza Episcopale Italiana (CEI). B. Mariani guidava un gruppo di biblisti francescani per La Sacra Bibbia, tradotta dalle lingue originali (Milano 1964). Qualche contrapposizione alle aperture conciliari si manifestò ancora nella riedizione della traduzione di A. Martini dalla Vulgata (Roma 1967-1972, 3 voll.).

Poco dopo la fine del Vaticano II, usciva l’edizione critica della Vulgata, curata da R. Weber (Stuttgart 1969, Editio Minor), che il Concilio di Trento avrebbe voluto intraprendere e per la quale Pio X aveva dato l’incarico ai benedettini nel 1907; ma, durante il Vaticano II, Paolo VI voleva che si arrivasse a una revisione della Vulgata stessa, rendendola conforme ai testi originali, là dove essa si era allontanata; l’operazione fu ultimata con la Vulgata Nova (Typis Poliglottis Vaticanis 1979; 1998), promulgata da Giovanni Paolo II come testo ufficiale della chiesa cattolica e proposta come modello di traduzione, a cui avrebbero dovuto guardare tutte le traduzioni della Bibbia nelle lingue parlate. La traduzione più recente curata dalla CEI (2008), ha cercato di tenere presente questa istanza magisteriale. Si può affermare che con la Vulgata Nova si chiude il processo di inculturazione della fede cristiana nella tradizione originariamente di lingua latina. Ci sono voluti circa 1500 anni perché dalla prima grande traduzione geronimiana della Vulgata dai testi originali si potesse arrivare a disporre degli strumenti necessari per revisionare criticamente sui testi biblici nelle lingue originali in edizioni critiche affidabili l’antica versione latina, di importanza fondamentale per circa un millennio per tutte le chiese occidentali. Girolamo, secondo la fede della comunità cristiana cui apparteneva, non poté rinunciare a evidenziare il senso cristiano anche dell’AT e neppure i revisori attenti della Vulgata Nova hanno voluto cancellare le tracce più essenziali e riconfermate dalla tradizione liturgica di questa lettura cristiana della Bibbia.3

La fioritura postconciliare. Gli interventi della PCB sono sempre più diventati di orientamento all’interno delle discussioni emergenti (1941-1990), fino al più recente documento: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (Città del Vaticano 1993), dove si è cercato di tratteggiare una dialettica tra metodi diacronici e sincronici, nuovi approcci e riposizionamento dell’ermeneutica patristica dei testi biblici, mettendo in guardia verso nuove tendenze fondamentaliste. I metodi d’indagine diacronici, ormai molto più sviluppati e raffinati rispetto agli inizi della critica moderna, sono posti alla base dell’interpretazione della Bibbia, non solo per la ricerca degli studiosi, ma anche nella formazione dei seminari e degli altri istituti di formazione pastorale; si evidenzia il valore integrativo fondamentale dei metodi sincronici di analisi del testo biblico, per una corretta ed efficace comprensione della Bibbia; accanto a questi strumenti basilari sono presi in considerazione altri approcci, di varia origine e natura, che possono dare utili spunti per significativi approfondimenti del testo biblico, anche se la loro utilizzazione non è così strutturante come quella dei metodi diacronici e sincronici. Il recupero dell’esegesi e dell’ermeneutica biblica dei padri della Chiesa avviene in un contesto soprattutto inter-ecclesiale; è un’operazione necessaria, ma forse non è ancora chiarito al meglio il suo rapporto con l’esegesi moderna: si riconosce e si ribadisce il valore irrinunciabile dell’esegesi e dell’ermeneutica dei padri della Chiesa, ma non è chiaro il suo statuto epistemologico in rapporto all’esegesi scientifica moderna. Una linea recente tende a sviluppare un concetto di metodo nella tradizione patristica intorno al principio della relatività del testo scritto in quanto tale, di fronte al primato della Parola impressa nel cuore dell’uomo (G.I. Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica, Cinisello Balsamo 2009).

La dimensione ecumenica (cattolici, riformati e ortodossi) e interreligiosa (ebrei), ispirantesi al Vaticano II, si faceva strada nel mondo italiano con la La Bibbia Concordata (Milano 1968). Più avanti, nella Parola del Signore (Torino – Roma 1976-1985), una traduzione interconfessionale in linguaggio italiano corrente, si rifletteva in Italia qualcosa di una sensibilità già largamente corrente nel mondo francofono e nelle missioni: il ricorso agli «equivalenti culturali» di una lingua parlata nel tradurre la Bibbia; nel mondo italiano l’interesse per l’esperimento non è durato a lungo; corso effimero hanno avuto anche alcune traduzioni parziali o anche complete della Bibbia nei dialetti locali di alcune regioni italiane. Nel frattempo le prime due edizioni della traduzione della Bibbia, curate dalla CEI (1971; 1974) erano entrate effettivamente nell’uso corrente della chiesa italiana. L’arricchimento di materiale didascalico sulla base del testo della CEI proseguiva con la Bibbia di La Civiltà Cattolica (Roma 1974; 1978); Bibbia. Parola di Dio per noi, (Torino 1980, 3 voll.) e con la Bibbia per la formazione cristiana (Bologna 1993). La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali (Roma 1983) concludeva un iter editoriale iniziato nel 1967, offrendo di fatto un vero e proprio commentario all’intera Bibbia, come si è verificato anche per La Bibbia (Casale Monferrato, 1995).

Il progresso delle scienze bibliche e orientalistiche stava portando a maturare nuove ipotesi-quadro sulla formazione dei corpi letterari formanti la Bibbia, come dei singoli libri, fino a modificare profondamente alcune precedenti impostazioni, ormai di lungo corso. Nell’«Introduzione alla Torah» per la riedizione del 1995 delle Miqrā’ôt, in ebraico con traduzione italiana a fronte (D. Disegni, Torino 1960-1967), si tendeva invece a ritornare in modo troppo semplicistico e affrettato all’interpretazione tradizionale.

L’impegno pastorale e divulgativo della Bibbia, attraverso una selezione delle sue parti accurata, scientifica e accessibile al gran pubblico, ha trovato in E.R. Galbiati, coadiuvato da vari collaboratori, un autorevolissimo interprete in una trilogia: Il Vangelo di Gesù (Pessano 1966) La storia della salvezza nell’Antico Testamento (Pessano 1969), La Chiesa delle origini negli Atti degli Apostoli e nei loro scritti (Pessano 1972); i volumi, corredati da ottime illustrazione e opportune didascalie, con numerose riedizioni a larghissima tiratura e tradotti anche in altre lingue, sono stati adottati spesso come libri di testo nelle scuole e soprattutto per i pellegrinaggi in Terra Santa, contribuendo in modo decisivo a far conoscere la Bibbia al gran pubblico italiano in epoca post-conciliare.

Più recentemente, si è affacciata una nuova sensibilità per le antiche versioni della Bibbia attraverso edizioni di singoli libri, come il targum del Cantico dei cantici (cfr. U. Neri, Roma 1976), di Isaia (G. Lenzi, Genova 2004), di Rut (E. Poli, Genova 2010); oppure la Septuaginta del Pentateuco (L. Mortari, Roma 1999); o anche la sinossi con apparato critico per il testo masoretico, la Septuaginta e il targum dei Profeti Minori (S.P. Carbone – G. Rizzi, Bologna 1993-2001). La caratteristica comune di queste traduzioni, precedute o concomitanti ad altre imprese editoriali più cospicue di lingua francese, spagnola, tedesca e inglese, è di provenire da un unico contesto monastico, che pratica la lectio divina del testo biblico e l’omelia dialogata sui testi liturgici.

Più recentemente, ha preso corpo una versione italiana con il testo greco del corpus letterario della Septuaginta a fronte, sotto la direzione di P. Sacchi con molti altri collaboratori, nell’impresa editoriale presso la Morcelliana: a tutt’oggi sono stati pubblicati 4 volumi (Pentateuco 2012; Libri storici I-II 2016; Libri poetici 2013); manca ancora il volume sul corpus dei Libri profetici. L’edizione è corredata da introduzioni ai corpi letterari e ai singoli libri biblici, con note al testo della traduzione.

Largo riscontro sta incontrando anche l’edizione in corso in vari volumi della Bibbia Ebraica Interlineare, dove la traduzione italiana interlineare è affiancata dalla LXX e dalla Vulgata; l’iniziativa si rivela preziosa per gli studenti delle facoltà teologiche e dei seminari, ma anche nei gruppi ecclesiali con nuove esigenze culturali.

Le traduzioni curate dalla CEI. La pubblicazione di La Bible de Jérusalem a cura dei professori dell’École Biblique et archéologique française di Gerusalemme (Parigi 1948-1953, 43 voll.; in formato manuale 1955; 1973; 1998) è stata la conclusione della lunga e controversa evoluzione degli studi biblici e orientalistici in area cattolica, severamente messa alla prova dalle polemiche «moderniste» e «antimoderniste». Con essa si era raggiunta un’opinione comune più consolidata ed equilibrata, ormai desiderosa di avere una Bibbia tradotta direttamente dalle lingue originali, corredata di introduzioni e note, che illustrassero il senso storico-letterale originario dei testi biblici, accogliendo i dati aggiornati dell’esegesi moderna. L’autorevolezza e l’influsso di questa impresa editoriale sul mondo non solo cattolico fu enorme. In Italia la nuova traduzione divenne di dominio pubblico in concomitanza con il Concilio Ecumenico Vaticano II e anche la seconda edizione della traduzione italiana della Bibbia curata dalla CEI (1974) ne tenne esplicitamente conto, soprattutto per le introduzioni e le note esplicative ai testi biblici.4

Nel 1965 la segreteria della CEI aveva iniziato a progettare una nuova traduzione italiana della Bibbia dalle lingue originali dei testi, che fosse adatta all’uso liturgico, secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II (Dei Verbum 22); si voleva esattezza teologica, in conformità con le interpretazioni della Sacra Scrittura fatte lungo i secoli da Tradizione e Magistero e in accordo con la Vulgata; modernità e bellezza della lingua italiana; eufonia della frase per favorirne la proclamazione; ritmo che permettesse la possibilità di musicare, cantare, recitare i testi, in particolare i Salmi e gli inni contenuti negli altri libri biblici; introduzioni e note esplicative che accogliessero adeguatamente i dati dell’esegesi moderna. Si ritenne più agevole avvalersi della traduzione già esistente curata da E.R. Galbiati, A. Penna e P. Rossano (Torino 1963); si arrivò all’Editio princeps in 2 voll. (Roma 1971): il primo conteneva la traduzione; il secondo le note al testo, senza alcun carattere di ufficialità.

L’uso della nuova traduzione ne fece emergere anche i limiti, che si cercò di correggere nella seconda edizione, curata dalla CEI (1974). La nuova traduzione trovò subito uno sbocco editoriale di larghissima diffusione nell’edizione dell’EDB (Bologna 1974, con una trentina di riedizioni), che desumeva introduzioni e commenti da La Bible de Jérusalem (1973), traendone anche titoli e le referenze marginali per i passi paralleli; un gruppo di biblisti italiani, sotto la direzione di F. Vattioni, curava le note di critica testuale, soprattutto là dove l’edizione della CEI aveva scelto una lezione diversa da La Bible de Jérusalem, offrendone le motivazioni. L’edizione bolognese divenne il testo più diffuso in Italia per la catechesi, per il gruppi ecclesiali, nei seminari e negli altri istituti di formazione per la vita pastorale, per i religiosi e le religiose. L’influsso francese proseguiva nella traduzione italiana della Traduction Oecuménicque de Bible (TOB), con testo della CEI (Torino 1976-1979).

La larghissima diffusione e il prolungato uso della traduzione della CEI del 1974 nelle edizioni, che vi avevano fatto ricorso, ne stava mettendo in risalto anche i limiti, così che la CEI cominciò a progettarne nel 1986 una terza edizione, che giunse a termine nel 2008, dopo aver consultato anche la Federazione delle chiese Evangeliche d’Italia e l’Assemblea dei Rabbini d’Italia.5

Con l’edizione del 2008 si è cercato di costruire, nell’ambito propriamente religioso, uno specifico patrimonio lessicale mantenendo in italiano vari calchi dei termini biblici originari, attraverso il latino o il greco, per non impoverire concetti importanti, conservando per quanto possibile una terminologia religiosa specifica, ormai attestata grazie alle precedenti traduzioni. Rispetto alle precedenti edizioni, la traduzione del 2008 presenta un testo corredato da introduzioni concise, sobriamente modificate in base all’evoluzione degli studi, con pochissime note, limitando le indicazioni dei passi biblici paralleli a quelli tra 1-2Re e 1-2Cr e dei Vangeli Sinottici. Alcune importanti interpretazioni nuove sono emerse per l’AT e per il NT.

Tra le novità più rilevanti c’è lo spazio nuovo dedicato all’antica versione della Septuaginta: il libro di Ester, comprendente anche sei ampie sezioni deuterocanoniche provenienti dalla Septuaginta, è stato accolto nella chiesa cattolica fino al Vaticano II in una forma comprendente la traduzione dal testo ebraico, mettendo invece in appendice le parti deuterocanoniche. Le due precedenti edizioni della CEI avevano integrato queste sezioni negli specifici punti del testo di Ester, così da offrire un traduzione continuata del libro mescolando il testo ebraico con quello greco. Secondo la chiesa cattolica, entrambe le forme testuali, ebraica e greca, sono da considerarsi canoniche, così che nell’ultima revisione la CEI ha scelto di tradurre entrambe integralmente, ponendo nella parte superiore della pagina la traduzione del testo greco e in quella inferiore la traduzione del testo ebraico. In nota sono segnalate le differenze con la Nova Vulgata.

Il libro del Siracide è stato trasmesso in due forme testuali in greco, una più lunga e una più breve; è nota anche una tradizione testuale in ebraico in due forme diverse incomplete; il siriaco presenta una traduzione completa dal testo ebraico, che non coincide al meglio con quanto conosciamo del testo ebraico, e una traduzione dal testo greco; la tradizione cristiana ha utilizzato una versione latina tratta dal testo greco più lungo, ma con varie aggiunte. La revisione del 2008, ha adottato il più autorevole testo greco corto, ma pone in corsivo le aggiunte presenti nel testo greco lungo; nelle note si segnalano alcune differenze con l’ebraico e passi in cui ci si distacca dalle scelte della Nova Vulgata.6

Questo genere di scelte editoriali porterebbe riaprire questioni importanti, come il ruolo di testo ispirato della Septuaginta anche per gli altri libri della Septuaginta, tradotti dall’ebraico e non solo per per le parti deuterocanoniche, assenti nei libri appartenenti al testo ebraico del canone cristiano dell’AT, e per i libri deuterocanonici (Tobia, Giuditta, 1-2 Maccabei, Baruc e Lettera di Geremia, Sapienza e Siracide). D’altra parte, il recente documento della Pontificia Commissione Biblica, Ispirazione e verità della Sacra Scrittura (2014) non ha voluto trattare esaustivamente tutte le questioni connesse all’ispirazione della Sacra Scrittura, cercando invece di esemplificare nel modo più chiaro e semplice possibile i problemi aperti sulla storicità della Bibbia nei suoi variegati generi letterari emergenti dagli studi diacronici e sincronici dei testi biblici, con specifica attenzione ai temi della violenza e dello statuto sociale della donna nella Bibbia.

A un anno di distanza dall’edizione della Bibbia CEI 2008, è uscita una nuova edizione della Bibbia di Gerusalemme (EDB, Bologna 2009), giunta ora all’ottava ristampa (marzo 2017), che presenta il testo italiano dell’edizione della CEI 2008, ma si avvale delle note e dei commenti di La Bible de Jérusalem (1998); gli aggiornamenti delle introduzioni e delle note, adattate queste ultime da un gruppo di biblisti italiani alla nuova versione della CEI, tengono conto dell’evoluzione attuale degli studi biblici e delle scienze orientalistiche.

Fonti e Bibl. Essenziale

Edizioni: Biblia Sacra iuxta vulgatam versionem, a cura della Commissione pontificia per la revisione della Vulgata, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1926-1995; La Sacra Bibbia, Tradotta dai testi originali con note, a cura del Pontificio Istituto Biblico di Roma, Salani, Firenze 1943-1958; Biblia Sacra iuxta Vulgatam versionem, a cura di R. Weber – B. Fischer – J. Gribomont – H.F.D. Sparks – W. Thiele, Deutsche Bibel Gesellschaft, Stuttgart 1983; Nova Vulgata Bibliorum Sacrorum Editio, sacrosancti oecumenici Concilii Vaticani II ratione habita, iussu Pauli PP. VI recognita, auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgata, Editio typica altera, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998; La Sacra Bibbia, Tradotta in lingua italiana e commentata da G. Diodati, a cura di M. Ranchetti – M. Ventura Avanzinelli, Mondadori, Milano 1999; La Bibbia di Gerusalemme, Testo biblico di La sacra Bibbia della CEI 1971, Note e commenti di La Bible de Jérusalem (1973; 1984), Edizione italiana e adattamenti a cura di un gruppo di biblisti italiani sotto la direzione di F. Vattioni, EDB, Bologna 200017; La Sacra Bibbia, CEI-UELCI, Libereria Editrice Vaticana, 2008. Documenti: Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1993; Pontificia Commissione Biblica, Ispirazione e verità della Sacra Scrittura. La parola che viene da Dio e parla di Dio per salvare il mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2014. Cataloghi: Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le infomazioni bibliografiche, Bibbia, Catalogo di edizioni a stampa (1591-1957), Roma 1983. Studi: R.E. Brown – T.A Collins, Pronunciamenti della Chiesa, in Nuovo Grande Commentario Biblico, a cura di R.E. Brown – J.A. Fitzmyer – R.E. Murphy, edizione italiana a cura di F. Dalla Vecchia – G. Segalla – M. Vironda, Queriniana, Brescia 1997, 1535-1445; G. Rizzi, Edizioni della Bibbia nel contesto di Propaganda Fide. Uno studio sulle edizioni della Bibbia presso la Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana, voll. I-III, Urbaniana University Press, Roma 2006; G. Rizzi, Le antiche versioni della Bibbia. Traduzioni, tradizioni e interpretazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009; M. Gilbert, Il Pontificio Istituto Biblico: cento anni di storia (1909-2009), traduzione dal francese di C. Valentini, PIB, Roma 2009; G. Rizzi, Le versioni italiane della Bibbia. Dalla Bibbia del Malermi (1471) alla recente versione della CEI (2008), San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2010; La Bibbia di Gerusalemme, Testo biblico di La Sacra Bibbia della CEI (editio princeps 2008), Note e commenti di La Bible de Jérusalem (1998), Direzione editoriale A. Filippi, EDB, Bologna 2017; G.I. Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica. Una introduzione a una letteratura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009.

Immagini: 1) Carlo Vercellone: frontespizio delle Variae lectiones Vulgatae latinae (1864); 2) Giovanni Semeria (Coldirodi, 26/9/1867 – Sparanise, 15/3/1931); 3) Nova Vulgata: Bibliorum Sacrorum Editio, Libreria Editrice Vaticana 1986; 4) Enrico Rodolfo Galbiati  (Giussano, 4/2/1914 – Verano Brianza, 4/3/2004); 5) Edizione elettronica su Tablet della Bibbia secondo l’edizione curata dalla Conferenza Episcopale Italiana (2008); 6) Pontificia Commissione Biblica, documento sull’ispirazione e verità della Sacra Scrittura (2014).


LEMMARIO




Biblioteche - vol. I


Autore: Federico Gallo

La Chiesa ha conservato libri sin dalle sue origini. In primo luogo la Sacra Scrittura e gli scritti apostolici, necessari alla celebrazione liturgica e alla catechesi. A questo nucleo fondamentale si aggiunsero nel corso dei primi secoli gli atti dei martiri e gli scritti dei Padri; di questi ogni comunità doveva possedere almeno i libri indispensabili e più letti. La condizione di totale o parziale clandestinità impediva però l’esistenza di raccolte pubbliche; si può dunque immaginare che i libri sacri e liturgici fossero conservati presso abitazioni private, verisimilmente presso i ministri del culto. Non va dimenticato che insieme ai libri erano conservate le carte, i documenti delle comunità primitive: essi non erano così numerosi da richiedere un deposito archivistico distinto da quello bibliotecario.

Dopo la svolta costantiniana, i cristiani cominciarono a poter disporre di luoghi propri per la vita delle comunità. Fu dunque possibile raccogliere gli scritti in modo più ufficiale e organizzato. Quando le quantità lo consentivano, le carte d’archivio venivano conservate in un ambiente differente da quelle dei volumi; la possibilità che un medesimo luogo servisse da archivio e da biblioteca fu tuttavia costante, specie per le istituzioni più piccole, sino al termine del primo millennio. Le prime biblioteche sorsero così presso le residenze dei vescovi. Esse contenevano i testi biblici e le opere di commento e di supporto ad essi, le opere degli autori ecclesiastici ed anche quelle degli scrittori profani: utili, questi ultimi, ad apprendere il “bello stile”.

Peculiare fu la situazione di Roma, dove sin dal III secolo le chiese raccolsero, tra le “carte” da conservare, gli atti dei martiri, e dove Damaso (366-384) fu il primo papa a creare una biblioteca della Chiesa di Roma; circa un secolo dopo papa Ilaro (461-468) fondò una biblioteca con un’aula destinata ai libri greci ed una a quelli latini, secondo la scansione già in uso nella Roma imperiale. Altri interventi importanti si dovettero ad Agapito I (535-536), Gregorio Magno (590-604) e Zaccaria (741-752). La presenza di biblioteche e scuole di lingua greca nella città dei papi fu caratteristica nei secoli VII e VIII.

Accanto alle biblioteche ecclesiastiche istituzionali vanno ricordate quelle di singoli uomini di cultura cristiani, che avevano la stessa formazione intellettuale dei loro coevi pagani. Non pare che in Italia si siano sviluppati luoghi di raccolta libraria intesi come un cenacolo di dotti studiosi, alla stregua di quanto avvenne ad Alessandria, Antiochia e Cesarea, dove fiorirono scuole teologiche e filologiche con esponenti del calibro di Clemente, Eusebio ed Origene. Unica eccezione fu il monastero di Vivarium, il fervido centro di erudizione voluto da Cassiodoro dopo il 554 nella sua nativa Calabria, presso Squillace. Mosso dall’ideale dell’unione armoniosa delle scienze sacre e profane, Cassiodoro elaborò un piano di studi e di letture organico e completo; da questo progetto scaturì anche un’importante attività di ricerca testuale, produzione di codici e traduzione dal greco.

In Italia, più che altrove, la cultura cristiana si innestò su quella romana; quasi per continuazione naturale le istituzioni culturali ecclesiastiche ereditarono e riformularono i modelli e le abitudini culturali del mondo imperiale. Se a Marziano Capella dobbiamo l’ordinamento delle materie profane, per quelle ecclesiastiche si devono i primi ordinamenti appunto a Cassiodoro (485 ca.–580 ca.) e a Gelasio I (492-496), cui è attribuito il cosiddetto decreto «De recipiendis et non recipiendis libris». Tali modelli vennero acquisiti dalla scuola e costituirono così la base della tassonomia dei campi del sapere, secondo scansioni che sono state tramandate e rimodellate per secoli.

A partire dalle prime biblioteche legate al vescovo nacquero così, nel primo Medioevo, le biblioteche “cattedrali” (anche dette, con sfumature non irrilevanti, “episcopali” o “capitolari”). Esse si affiancavano alla scuola cattedrale, per lo studio e la consultazione, e costituirono poco alla volta raccolte di manoscritti ancor oggi notevoli: si pensi alle biblioteche cattedrali di Vercelli, Novara, Ivrea, Pavia, Milano, Cremona, Verona, Modena, Lucca, Arezzo. Anch’esse, seppur già ricche della tradizione romano-cristiana, godettero della stagione fortunata di Carlo Magno, che le volle importanti centri di cultura, e furono costantemente arricchite da doni e lasciti librari di vescovi e prelati.

Contemporaneamente nasceva e si sviluppava anche in Italia la vita monastica. Nei monasteri i libri furono indispensabili dapprima soltanto per la liturgia, lo studio biblico e la meditazione, ma nel corso del tempo si ampliò lo spettro delle letture dei monaci, seguendo il nuovo modello culturale carolingio, e nacque l’uso di un locale appositamente deputato all’attività di copiatura e alla conservazione dei libri. Anche in ambito monastico, dunque, vennero a crearsi raccolte inestimabili di manoscritti: basti citare anzitutto Bobbio, Nonantola, Montecassino e Farfa, e poi Pomposa, S. Michele in Val di Susa, Fruttuaria, Lucedio, Novalesa, Fonte Avellana, Cava dei Tirreni. Anche le biblioteche monastiche di tradizione bizantina dell’Italia meridionale furono influenzate dal modello benedettino. Come è noto, l’acquisizione di libri avveniva soprattutto, benché non esclusivamente, per opera dei copisti interni al monastero, i monaci cosiddetti “amanuensi” che lavoravano nello scriptorium. Fu il mondo autonomo dei monasteri, insieme a quello delle scuole cattedrali, a trasmettere e salvare gran parte del patrimonio letterario antico, poi riscoperto proprio in queste biblioteche dagli umanisti.

Un secondo momento importante fu la nascita degli ordini mendicanti, contestuale a quella delle università. Anche i conventi si dotarono di biblioteche ben fornite; esse dovevano soddisfare sia le esigenze del curriculum di studi filosofici e teologici affrontato dai frati studenti e sostenuto dai frati docenti, sia quelle della cura d’anime da parte dei frati impegnati nella predicazione e nelle confessioni. Tra le molte insigni biblioteche conventuali che vennero formandosi anche in Italia, si possono ricordare anzitutto quella francescana ad Assisi, e a Firenze le domenicane S. Marco e S. Maria Novella, la francescana S. Croce e l’agostiniana S. Spirito; altre importanti biblioteche conventuali vennero create ad esempio anche a Torino, Venezia, Padova, Bologna, Pisa, Siena, Todi, Napoli. L’acquisizione di libri poteva avvenire secondo una quadruplice modalità: opera di copiatura da parte di frati, commissione presso copisti di professione, acquisto sul mercato librario, donazioni di privati. L’importanza dello scriptorium interno andò comunque calando progressivamente, sino all’invenzione della stampa.

Nelle biblioteche monastiche a partire dal XI secolo e poi in quelle conventuali vi erano solitamente due fondi. Il primo era quello della biblioteca vera e propria, dedicata allo studio, la libraria communis, una grande aula a tre navate in cui i libri si trovavano cathenati ai banchi sui quali erano letti. La disposizione dei banchi è ancora oggi visibile in due biblioteche non ecclesiastiche: la Malatestiana di Cesena e la Laurenziana di Firenze. I banchi sono disposti in due file, accanto alle finestre, uno dietro l’altro. Nelle scansie, legati ad una lunga catena, stanno i libri, che possono esserne estratti per essere appoggiati sul leggìo inclinato del banco e venire così letti. La collocazione nei banchi costituisce una prima “segnatura” e consente di organizzare una disposizione organica e coerente dei libri in base al loro contenuto. Tale biblioteca era percepita come esterna, ossia aperta anche alla scuola e alla consultazione. L’altra, la parva libraria o minus armarius, era invece quella interna, costituita dai libri vagantes ossia senza catena; essi erano destinati all’uso personale dei singoli religiosi. Ove siano sopravvissuti inventari di epoca medievale o umanistica delle biblioteche è possibile e molto interessante studiarne la ricostruzione.

Occorre rilevare anche la presenza di elementi iconografici all’interno delle biblioteche ecclesiastiche. Se già in epoca romana imperiale, come testimonia Plinio, le biblioteche erano arricchite da statue ritraenti insigni autori e, in posizione d’evidenza, la dea Atena, le biblioteche cristiane del secondo millennio furono sovente dotate di una teoria di ritratti di personaggi eminenti nella sala di lettura, e in evidenza il Crocifisso o il santo fondatore. I personaggi effigiati non erano solo prelati e pastori, bensì anche e soprattutto autori ecclesiastici e profani; essi guardavano idealmente i religiosi durante lo studio, ispirando in questi ultimi emulazione, incoraggiamento, rettitudine di intenti.

L’Umanesimo e il Rinascimento diedero forte impulso agli studi classici e alla cultura in generale. Questo poté trovare riflesso anche nelle biblioteche ecclesiastiche, che si arricchirono di testi di umanisti e ritennero da allora irrinunciabile la lettura di molti autori classici prima meno conosciuti. Celebre è la raccolta di testi greci dell’erudito cardinale Bessarione, donata alla Repubblica di Venezia nel 1468 e custodita nella Biblioteca Marciana. Fu poi la Riforma cattolica a suggerire nuovi passi nel campo delle biblioteche della Chiesa; esse in Italia non subirono danni, cosa che invece accadde in molti paesi europei. Il rigore nella dottrina, nella disciplina e negli studi, fondati su una solida ossatura classica, ispirò la creazione delle biblioteche dei nuovi ordini religiosi: ne sono un esempio la Biblioteca Vallicelliana degli Oratoriani a Roma e le numerose biblioteche dei Gesuiti. Una particolare fioritura di biblioteche fu quella dei seminari, che il Concilio di Trento aveva istituito nel 1563. Per l’educazione dei nuovi sacerdoti furono allestite ricche raccolte librarie, che permettessero una formazione solida, documentata, ampia; sovente ai seminari era legata una tipografia. Esemplari in questo senso le biblioteche del Collegio urbano de propaganda Fide a Roma (1627), e del seminario di Padova per volontà di Gregorio Barbarigo (1671). Anche i pii sodalizi vollero dotarsi di un buon corredo librario, per la lettura dei suoi membri. Furono anche i collegi retti dai religiosi a disporre di ottime biblioteche funzionali alla ratio studiorum. Un testo molto influente sulle scelte bibliografiche per tutto il Seicento fu la Bibliotheca selecta del gesuita Antonio Possevino (1533-1611).

Al periodo della Riforma cattolica dobbiamo anche una particolare novità, ossia l’istituzione della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti, la cui azione ebbe inevitabile riflesso per le biblioteche nella scelta dei nuovi libri da acquisire e di quelli da espellere o da purgare. Va tuttavia notato che molte biblioteche possedevano i libri “proibiti”, consentendone la lettura soltanto a coloro che ne ottenevano il permesso per ragioni di studio. A questa istituzione si deve l’esistenza di un’importante mole documentaria: si tratta degli elenchi dei libri delle biblioteche dei religiosi, richiesti dalla Congregazione dell’Indice nel 1597-1603. La maggior parte dei monasteri e dei conventi inviò a Roma tali elenchi, la cui ricchezza si è recentemente imposta all’attenzione degli studiosi.

Una storia a se stante è quella della Biblioteca Apostolica Vaticana, che, da sempre esistente come biblioteca dei papi a Roma e in altre sedi pontificie, ebbe travagliate vicende nel corso del Medioevo. Essa ricevette grande impulso da Niccolò V (1447-1455) e da Sisto IV (1471-1484), che la aprì al pubblico, rendendola un cenacolo di studiosi. Fu poi Sisto V (1585-1590) a creare il grandioso edificio che ancor oggi la ospita, e Paolo V (1605-1621) a separare definitivamente da essa l’Archivio. La Biblioteca Apostolica Vaticana, ricca di un patrimonio unico al mondo, annovera tra i suoi prefetti e bibliotecari alcuni uomini celeberrimi per la loro erudizione, come Cesare Baronio e Angelo Mai.

Nel corso del Seicento si assistette alla nascita di importanti biblioteche, germinate dalla dote di un prelato e progressivamente arricchite da altri lasciti. Nel 1604 l’agostiniano Angelo Rocca fondò a Roma la prima biblioteca europea aperta al pubblico tout court (la Bodleiana di Oxford, aperta nel 1602, aveva invece destinazione più accademica); essa prese da lui il nome di Biblioteca Angelica. Nel 1609 fu la volta della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che il cardinale Federigo Borromeo volle aperta «a gloria di Dio e per la pubblica utilità», dotandola di un patrimonio straordinariamente ricco e di un collegio di Dottori, ossia di ecclesiastici completamente dediti allo studio, all’aggiornamento, al servizio degli studiosi. Una pagina assai eloquente che descrive il fervore di Federigo a favore dell’apertura della biblioteca per un servizio “universale” è quella che Alessandro Manzoni, nel XXII capitolo de «I promessi sposi», dedica proprio all’Ambrosiana. Vennero poi altre biblioteche di questo genere come l’Alessandrina (1667) e la Casanatense (1701), entrambe a Roma. Va rilevata, già a partire dal periodo dell’Umanesimo, l’importanza delle raccolte librarie di molti altri personaggi ecclesiastici, lasciata in eredità a biblioteche maggiori o ad altri eruditi.

Il primo periodo illuminista trascorse senza imporre particolari cambiamenti alle biblioteche ecclesiastiche; furono piuttosto gli archivi a risentire del clima culturale del tempo. Comunque, nelle biblioteche si registrò, in quel periodo, un’attività culturale molto vivace, i cui protagonisti erano di norma ecclesiastici, anche nelle biblioteche laiche. Tra costoro ci furono personaggi del calibro di Ludovico Antonio Muratori, Antonio Maria Querini e Domenico Passionei. Le soppressioni cosiddette “teresiane” e “giuseppine”, che ebbero luogo nei territori italiani governati dalla monarchia asburgica a danno dei religiosi contemplativi, prevedevano in genere che i fondi librari incamerati venissero trasformati in biblioteche pubbliche o universitarie, secondo il principio illuminista di “utilità”. Fu il caso, ad esempio, della Biblioteca Teresiana di Mantova. Soppressioni simili avvennero nella Repubblica di Venezia, nel Granducato di Toscana e nel Regno delle Due Sicilie. Storia a sé fu quella della soppressione e ricostituzione dei gesuiti: se vi fu una restituzione dei libri confiscati, essa in ultima analisi risultò in perdita; casi più lineari furono invece quelli delle biblioteche dei gesuiti rese d’autorità nazionali o universitarie, come a Milano, Genova, Messina e Palermo.

Una tempesta orribile stava però per abbattersi sull’intero patrimonio librario ecclesiastico italiano: la calata di Napoleone Bonaparte e la confisca dei beni ecclesiastici decretata da costui. Egli non solo si avventò con ingordigia sui beni della Chiesa, ma arrivò a concepire il progetto di concentrare a Parigi tutte le opere letterarie, artistiche e storiche più importanti d’Europa. Mise così in atto un ampio processo di sottrazioni, ruberie, spogliazioni, confische che squassarono la Penisola da cima a fondo: furono scompaginati fondi plurisecolari, disperse collezioni preziosissime, sottratte al loro legittimo luogo libri di ogni genere; le istituzioni religiose furono maggiormente colpite rispetto a quelle diocesane. Si darebbe un quadro parziale della bufera napoleonica se si concentrasse l’attenzione soltanto sui libri preziosi, celebri o rari inviati da Napoleone in Francia, inseguendone le vicende. Fu invece enorme anche la quantità di libri meno preziosi che semplicemente sparirono ad opera degli emissari napoleonici. Alla confisca di una casa religiosa faceva immediatamente seguito la requisizione dei suoi beni. Essi, e dunque anche i libri, finivano in mano ai francesi, che, se non li destinavano ad una biblioteca di raccolta, li facevano vendere all’asta o semplicemente li destinavano altrove a loro capriccio. Molti libri accatastati in attesa di raggiungere una biblioteca centrale furono suddivisi e dirottati verso altre istituzioni. Esemplare fu il destino, per citare un esempio tra i molti, dei libri della biblioteca conventuale agostiniana di S. Maria Incoronata di Milano. Questa antica raccolta, iniziata nel 1455 e costantemente arricchita, tanto da divenire una delle più importanti della Provincia, non fu intaccata dalla riforma di Giuseppe II, che nel 1787 commutò il convento in parrocchia: i libri restarono al loro posto. Quando invece arrivò Napoleone nel 1797, soppresse tutto: i libri furono confiscati e destinati al Fondo di Religione dell’Archivio di Stato; tra un trasloco e l’altro svanirono e, sino ad oggi, di essi non si sa più nulla.

Fu il Congresso di Vienna a permettere un parziale recupero dell’immensa quantità di materiale bibliografico sottratto ai legittimi proprietari dai francesi: sarebbe stato impossibile un lavoro di restituzione completo e preciso. Gli Stati italiani di allora inviarono a Parigi i loro incaricati per recuperare quanto più possibile delle opere d’arte sottratte: dunque anche codici, incunaboli e stampati di valore; per lo Stato Pontificio fu Antonio Canova ad assolvere questo compito. Le biblioteche ecclesiastiche, mutilate o trasferite, rinacquero poco alla volta, come poterono. Gli istituti soppressi e non rinati non poterono mai reclamare quanto loro sottratto, che restò in Francia. Questo il panorama alla vigilia dell’unificazione politica della Penisola.

Fonti e Bibl. essenziale

Biblioteca, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Istituto Giovanni Treccani, Roma 1930, VI, 942-969; Biblioteca, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia cattolica e il libro cattolico, Città del Vaticano 1949, II, coll. 1591-1617; G. Cavallo, Libro e pubblico alla fine del mondo antico, in G. Cavallo (ed.). Libri, editori e pubblico nel mondo antico, Laterza, Bari 1975, 83-162; E. Bottasso, Storia della biblioteca in Italia, Editrice Bibliografica, Milano 1984; G. Cavallo (ed.). Le biblioteche nel mondo antico e medievale, Laterza, Bari 1988; G. Cavallo (ed.). Libri e lettori nel Medioevo, Laterza, Bari 1989; A. Serrai, Storia della bibliografia, Bulzoni, Roma 1988-2001; G. Lombardi – D. Nebbiai Dalla Guardia (edd.), Libri, lettori e biblioteche dell’Italia medievale (secoli IX-XV). Fonti, testi, utilizzazioni del libro (Atti della Tavola rotonda italo-francese. Roma, 7-8 marzo 1997), Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane, Roma 2000; E. Barbieri – D. Zardin (edd.), Libri, biblioteche e cultura nell’Italia del Cinque e Seicento, Vita e Pensiero, Milano 2002; R.M. Borraccini – R. Rusconi (edd.), Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice (Atti del Convegno Internazionale, Macerata 30 maggio – I giugno 2006), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006; A. Serrai, Breve storia delle Biblioteche in Italia, Sylvestre Bonnard, Milano 2006; A. Ledda, Uno sguardo sulle biblioteche ecclesiastiche in Italia tra Settecento e Ottocento, in E. Barbieri (ed.), Chiesa e cultura nell’Italia dell’Ottocento, EDB, Bologna 2009, 119-140; E. Barbieri – F. Gallo (edd.), Claustrum et armarium. Studi su alcune biblioteche ecclesiastiche italiane tra Medioevo ed Età moderna, Bulzoni, Milano 2010; A. Rita, Biblioteche e requisizioni librarie a Roma in età napoleonica, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2012 (Studi e testi, 470).


LEMMARIO




Biblioteche - vol. II


Autore: Federico Gallo

L’Unità d’Italia si aprì con un capitolo dolorosissimo per le biblioteche ecclesiastiche. Il governo dei Savoia infierì sui patrimoni e i possessi ecclesiastici, confiscando una quantità immensa di beni mobili ed immobili appartenenti alla Chiesa. Queste manovre ebbero inizio nel regno sabaudo nel 1855, quando furono soppresse le comunità religiose che non fossero impegnate in attività di assistenza sociale, incamerandone i beni; tale legge fu applicata all’intero territorio del nascente Regno d’Italia nel 1860-1861. Un regio decreto del 1866 estese le soppressioni a tutte le comunità religiose di vita comune; nel 1873 anche Roma subì il medesimo destino. I libri appartenuti agli enti religiosi furono incamerati dallo Stato e finirono nel Fondo per il culto; rimasero in loco soltanto le biblioteche delle grandi istituzioni abbaziali, ad esempio Montecassino e Subiaco. Come già al tempo delle spoliazioni napoleoniche, furono risparmiate le biblioteche appartenenti ad istituzioni diocesane, ossia episcopî, capitoli, parrocchie, seminari.

Fortunatamente fu scelto di non confiscare i libri dando loro una destinazione di tipo centralizzato, bensì di lasciarli nella provincia di appartenenza. La sorte di tale patrimonio bibliotecario fu dunque non tanto la perdita del legame con il proprio luogo di appartenenza, che pure ci fu, quanto invece la destinazione a biblioteche laiche, le quali, generalmente, non erano in grado di valorizzare quel tipo di patrimonio librario e si limitavano a tenerlo accatastato nei propri locali. Emblematica a questo riguardo la frequente destinazione dei libri delle case religiose soppresse alle biblioteche comunali di competenza. Tali biblioteche ricevettero molti manoscritti e volumi di contenuto non utile, o non adatto alla fruizione del pubblico: opere di contenuto teologico o canonistico, delle quali erano chiaramente ricche le biblioteche ecclesiastiche, non potevano trovare lettori a loro interessati negli italiani di media cultura che accedevano o avrebbero potuto accedere alle biblioteche del loro comune di residenza. Tali opere subirono dunque un vero e proprio esilio, dal quale non sono mai ritornate.

Oltre a questa situazione impropria, le soppressioni sabaude causarono anche uno sviluppo disomogeneo e disarmonico nelle biblioteche ecclesiastiche rimaste in vita o ricreatesi. Derubate del loro patrimonio storico, esse dovettero poco alla volta ricostituirsi ex novo senza poter contare sulla sedimentazione di materiale acquisito nel corso dei secoli, patendo talvolta evidenti squilibri dal punto di vista della completezza di panorama nella scelta delle materie. Lo stesso accadde per le biblioteche ecclesiastiche permesse dal governo (quelle dei seminari, ad esempio) che in qualche maniera riuscirono ad ereditare i libri delle biblioteche soppresse. In questi casi si verificò una sorta di innesto su un corpo estraneo, per esempio facendo confluire nella biblioteca di un seminario diocesano o di un episcopio un vasto fondo proveniente dalla casa soppressa di un ordine religioso. Ancora una volta, con un risultato disarmonico e disomogeneo.

Restarono in vita le biblioteche di pertinenza diocesana; quelle monastiche, conventuali e religiose rinacquero con le difficoltà or ora esposte; proseguirono il loro cammino le grandi istituzioni come la Vaticana e l’Ambrosiana; altre, come la biblioteca dell’Università pontificia «La Sapienza», passarono di proprietà allo Stato. Tra le biblioteche particolarmente significative dell’Italia unita vi furono quelle dei seminari. Esse vennero sempre accrescendosi e ammodernandosi, per accompagnare la formazione dei futuri pastori con strumenti copiosi e adatti. Una biblioteca molto ricca e celebre è quella del Seminario Arcivescovile di Milano, che ha attualmente sede a Venegono Inferiore (Varese). Furono altrettanto interessanti e idealmente complementari le biblioteche “popolari” cattoliche, sórte soprattutto nelle parrocchie sùbito dopo l’Unità d’Italia a servizio dei fedeli, con una diffusione non omogenea sul territorio nazionale e con caratteristiche altrettanto disomogenee per estensione, periodo di attività e tipologia di libri. La Federazione italiana delle biblioteche cattoliche nacque a Milano nel 1904. Vanno annoverate anche le biblioteche delle Congregazioni religiose moderne, come pure quelle degli istituti missionari.

Un settore molto importante nato, o perlomeno sviluppato in modo nuovo, nel Novecento riguarda le biblioteche degli atenei. Sorte contestualmente all’istituzione, esse ne sono parte essenziale e vivace. Vi sono anzitutto le Università pontificie romane con i loro numerosi Istituti: Gregoriana, Lateranense, Urbaniana, Angelicum, Salesiana, Santa Croce, Antonianum, Anselmianum, Regina Apostolorum; e le Facoltà Teologiche Seraphicum, Teresianum, Marianum. Fuori Roma vi sono le Facoltà Teologiche di Torino, Milano, Padova, Bologna, Firenze, Bari, Palermo, Cagliari. Vanno inoltre menzionate le biblioteche degli Istituti di Scienze religiose; esse talvolta, oltre al patrimonio di testi per lo studio della teologia, sono ricche anche di opere di interesse religioso. Oltre agli atenei delle facoltà e degli istituti teologici, sono da annoverarsi altri enti cattolici: in primis l’Università Cattolica del Sacro Cuore, con le sue sedi e relative biblioteche a Milano, Brescia, Piacenza, Cremona, Roma, Campobasso. Vi sono poi le biblioteche degli istituti culturali, delle riviste e delle pubblicazioni cattoliche, dei centri culturali, dei collegi vescovili e delle associazioni cattoliche.

Per quanto concerne la legislazione ecclesiastica riguardante le biblioteche, nulla si può trovare nei Codici di Diritto Canonico del 1917 e del 1983, che legiferano invece a proposito degli archivi. Delle biblioteche si occuparono alcune lettere circolari della Santa Sede dirette ai vescovi italiani, la prima delle quali fu emanata da Leone XIII nel 1902; essa contiene una serie di indicazioni molto puntuali di carattere biblioteconomico. A questa lettera ne seguirono altre sotto i pontificati successivi, segno che le esortazioni ad una migliore e più moderna gestione delle biblioteche venivano puntualmente disattese, oppure che al progredire della dottrina biblioteconomica non sapeva tenere il passo l’impegno dei vescovi, specie nel periodo delle due Guerre Mondiali. Particolarmente ricche e particolareggiate sono le lettere circolari redatte negli anni dal 1942 al 1950 dal prefetto della Biblioteca Vaticana Giovanni Mercati.

L’urgenza della salvaguardia del patrimonio culturale ecclesiastico, prima ancora che di una sua corretta vita di studio e di incremento, sollecitò una lettera circolare della Sacra Congregazione per il Clero nel 1971 e un documento della CEI nel 1974: entrambi riguardavano l’intero patrimonio storico e artistico della Chiesa in Italia.

A partire dal 1978 le biblioteche ecclesiastiche possono contare su un’associazione che tutte le riguarda: l’ABEI (Associazione Bibliotecari Ecclesiastici Italiani). Essa sorse in quell’anno con l’intento di enumerare tutti gli istituti bibliotecari di natura ecclesiastica, di qualificarne il profilo professionale, di favorire l’adeguamento alle norme biblioteconomiche e di raccordare esperienze ed iniziative; fu riconosciuta dalla CEI nel 1990, anno in cui fu pubblicato un primo elenco delle biblioteche, suddiviso per regioni d’Italia, oggi costantemente aggiornato e consultabile all’indirizzo elettronico dell’ABEI.

La revisione del Concordato lateranense firmata nel 1984 stipulò che per la conservazione e la consultazione delle biblioteche ecclesiastiche si dovessero comporre delle intese tra gli organi competenti; l’esecuzione dell’intesa fu firmata poi nel 1996. Nel 1988 fu creata la Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio artistico e storico della Chiesa e nel 1989 la Consulta nazionale per i beni culturali ecclesiastici; nel 1992 fu emanato un documento della CEI relativo ai beni culturali della Chiesa. Molto rilevante per le biblioteche fu l’intesa tra lo Stato e la CEI firmata nel 2000; tale documento mette esplicitamente a tema i punti di importanza fondamentale per le biblioteche, ovvero la loro conservazione, consultazione e valorizzazione.

Il bibliotecario ecclesiastico odierno necessita di alcune caratteristiche precise. Anzitutto egli deve possedere una formazione qualificata, che lo renda in grado di occuparsi del patrimonio librario con competenza, frutto di una preparazione scientifica in campo bibliografico e biblioteconomico: la conoscenza sempre aggiornata e l’utilizzo consapevole dei moderni criteri di gestione e di conservazione sono oggi irrinunciabili. In secondo luogo egli deve conoscere la storia e le caratteristiche dell’istituzione ecclesiastica presso la quale opera: un’antica biblioteca capitolare non richiederà le medesime attenzioni della moderna biblioteca di un istituto teologico, ad esempio, e viceversa. Inoltre, il bibliotecario ecclesiastico deve sapersi porre in relazione con le realtà ecclesiastiche alle quali la sua istituzione è correlata: l’appartenenza ad una diocesi o a un ordine religioso non sono caratteristiche estrinseche.

Al servizio della formazione di bibliotecari e di archivisti, anche ecclesiastici, sono attive due scuole pontificie: la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, fondata nel 1884 da Leone XIII, e la Scuola Vaticana di Biblioteconomia, fondata nel 1934 da Pio XI, che era stato Prefetto della Biblioteca Ambrosiana prima e della Biblioteca Vaticana poi. La Scuola di Paleografia intende offrire una formazione soprattutto per gli archivisti e per coloro che lavorano nel campo dei manoscritti; la Scuola di Biblioteconomia è rivolta più specificamente ai bibliotecari.

Le odierne biblioteche ecclesiastiche – a differenza delle biblioteche monastiche e conventuali di un tempo – non richiedono soltanto la presenza di personale qualificato per il loro funzionamento e per la valorizzazione e la tutela del patrimonio librario; esse necessitano sin dalla loro fondazione anche di un’attività amministrativa, che ne assicuri il sostentamento e il regolare incremento.

Vi sono due biblioteche la cui storia ed entità garantisce loro una struttura particolarmente articolata: la Vaticana e l’Ambrosiana. La Biblioteca Apostolica Vaticana, affidata sin dal Medioevo ad un bibliothecarius, a partire dal 1550 è presieduta da un cardinale, che porta il titolo di Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Da esso dipendono il Prefetto e il Vice Prefetto, che presiedono al lavoro dei Direttori dei dipartimenti. Completano l’organico gli scriptores, i curatori, gli assistenti, l’economo, il segretario, gli addetti ai molteplici servizi. La Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano è retta dal Collegio dei Dottori, tutti ecclesiastici, coordinati dal Prefetto; ai diversi servizi sono deputati gli addetti. La Congregazione dei Conservatóri, presieduta dal Presidente e assistita dal Segretario Generale, si occupa della gestione amministrativa.

La vita delle biblioteche ecclesiastiche odierne presenta problemi e prospettive. Anzitutto necessita, come già detto, che il personale sia qualificato; esso può essere affiancato da volontari, oggi piuttosto disponibili sullo scenario italiano, ma soltanto per quelle mansioni e responsabilità che non richiedano competenze specifiche. In secondo luogo, il personale deve sì occuparsi della conservazione e dell’aggiornamento del patrimonio librario secondo la scienza biblioteconomica, ma occorrono anche indicazioni diocesane e nazionali e una rete coordinata di rapporti tra biblioteche e istituzioni culturali. Vi è poi il problema concreto delle sedi antiche da mantenere e di quelle nuove da aprire, così come della dotazione di strumenti moderni e funzionali di consultazione. Infine, la possibilità di studio nelle biblioteche ecclesiastiche presenta talvolta, presso le realtà più periferiche o senza personale, difficoltà notevoli; da questo scaturisce la necessità di una particolare attenzione da parte degli organi superiori, nel campo dei patrimoni librari, verso le ricchezze e le potenzialità più nascoste e neglette, perché non vadano ammalorandosi o scomparendo per disattenzione.

Fonti e Bibl. essenziale

Biblioteca, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Istituto Giovanni Treccani, Roma 1930, VI, 942-969; Biblioteca, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia cattolica e il libro cattolico, Città del Vaticano 1949, II, coll. 1591-1617; G. Vigini, Le biblioteche parrocchiali, NED, Milano 1979; E. Bottasso, Storia della biblioteca in Italia, Editrice Bibliografica, Milano 1984; A. Serrai, Storia della bibliografia, Bulzoni, Roma 1988-2001; Associazione Bibliotecari Ecclesiastici Italiani, Annuario delle biblioteche ecclesiastiche italiane, Editrice Bibliografica, Milano 1990; Le biblioteche ecclesiastiche alle soglie del Duemila. Bilancio, situazione, prospettive, Atti del Convegno (Salerno, 22-23 giugno 1999), a cura di M. Guerrini, Palermo, L’Epos, 2000 (De charta, 3); Circolare della CEI sull’Intesa 18 aprile 2000 per la conservazione e la consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche, in Bollettino di informazione ABEI 10 (2001) 1, 15-23; La biblioteca ecclesiastica del Duemila. La gestione delle raccolte, Atti del Convegno (Trento, 20-21 giugno 2000), a cura di M. Guerrini e F. Ruggeri, Palermo, L’Epos, 2001 (De charta, 4); A. Petrucciani – P. Traniello (edd.), La storia delle biblioteche. Temi, esperienze di ricerca, problemi storiografici (Convegno nazionale. L’Aquila, 16-17 settembre 2002), Associazione italiana biblioteche, Roma 2003; Le carte della Chiesa. Archivi e biblioteche nella normativa pattizia, a cura di A.G. Chizzoniti, Bologna, Il Mulino, 2003 (Religione e società, 26); La biblioteca centrale diocesana. Obiettivi, organizzazione, servizi alla luce dell’Intesa del 18 aprile 2000, Atti del Convegno (Trani, 26-27 giugno 2001), a cura di F. Ruggeri, Milano, Lampi di stampa, 2004 (Saggi e documenti, s.n.); A. Serrai, Breve storia delle Biblioteche in Italia, Sylvestre Bonnard, Milano 2006; A. Ledda, Uno sguardo sulle biblioteche ecclesiastiche in Italia tra Settecento e Ottocento, in E. Barbieri (ed.), Chiesa e cultura nell’Italia dell’Ottocento, EDB, Bologna 2009, 119-140; E. Barbieri – F. Gallo (edd.), Claustrum et armarium. Studi su alcune biblioteche ecclesiastiche italiane tra Medioevo ed Età moderna, Bulzoni, Milano 2010; Archivi e biblioteche ecclesiastiche del Terzo millennio: dalla tradizione conservativa all’innovazione dei servizi, Atti della 18. Giornata nazionale dei beni culturali ecclesiastici (Roma, 18 maggio 2011), a cura dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della CEI, Roma, Gangemi, 2012; P. Traniello, Storia delle biblioteche in Italia. Dall’Unità a oggi, Bologna, Il Mulino, 2014 (2° ed.); Biblioteche universitarie ecclesiastiche: nuove sfide e nuovi servizi nel 25. anniversario di URBE, Atti della giornata di studio (Roma, 9 giugno 2016), a cura di S. Danieli e M. Guerrini, Roma, Marianum, 2017.


LEMMARIO




Boaga Emanuele †


 





Bocci Maria


Nata nel 1964, Maria Bocci si è laureata in Lettere presso l’Università degli Studi di Milano con il massimo dei voti. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 1997. Dal 1990 al 2000 ha partecipato all’attività didattica e scientifica della cattedra di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Milano, collaborando con Giorgio Rumi. Dal 1998 insegna Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, inizialmente per conferimento di contratti annuali. Nel 2000 ha vinto un concorso per ricercatore di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica. Nel 2002 ha conseguito l’idoneità come professore di seconda fascia (settore scientifico-disciplinare M-STO/04 Storia contemporanea) e nel 2003 è stata chiamata dalla Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica. Dal 2006 è professore di prima fascia presso la stessa Facoltà. Dal 2004 ha fatto parte di un gruppo di lavoro che, su mandato rettorale, ha progettato e realizzato la Storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, con un programma articolato su diversi anni. Dal 2008 è direttore del Dipartimento di Storia dell’economia, della società e di Scienze del territorio “Mario Romani”. Dallo stesso anno è direttore dell’Associazione culturale duca Marcello Visconti di Modrone per lo studio della storia dell’industria. Dal 2010 è direttore scientifico dell’Archivio generale per la storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dal 2012 fa parte del Consiglio scientifico delle Edizioni Studium e dell’International Scientific Board della rivista «History of Education & Childrens Literature». Dal 2012 al 2013 è stata membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione «Il Vittoriale degli Italiani», con sede in Gardone Riviera (BS), su designazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.