Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Cattolicesimo liberale - vol. I


Autore: Fulvio De Giorgi

Origini anti-cesaristiche. Le origini del cattolicesimo liberale sono da rintracciarsi nell’opposizione cattolica al cesarismo napoleonico, di marca non reazionaria, ma con ascendenze nella cultura muratoriana e vichiana del XVIII secolo. Un tipico esempio, in questo senso, fu l’opera Le Notti romane di Alessandro Verri. Da questo anti-dispotismo si dipartono, per così dire, due sviluppi culturali e di ideali politici, i quali, ancorché contigui e, in qualche caso, sovrapposti, sono tuttavia da distinguersi: il cattolicesimo liberale in senso stretto e il guelfismo.

In Europa. Per cattolicesimo liberale in senso stretto va dunque inteso quel movimento, a raggio europeo, che accompagnò la progressiva affermazione di regimi liberali nell’Ottocento: si trattò dunque, in sintesi, dell’adesione di cattolici alle ideologie liberali. Il momento di emersione fu il 1830, con la rivoluzione di luglio in Francia e con la rivoluzione indipendentista in Belgio. Le figure più rappresentative furono i francesi Lamennais, soprattutto nella sua fase post-1830 (e correnti di lamennesismo si ebbero pure in Italia: il rappresentante più originale fu il teatino Gioacchino Ventura), Tocqueville e Montalembert. A questi possono essere accostati gli inglesi John E.E. Dalberg-Acton e il card. John Henry Newman. Il cattolicesimo liberale e, in particolare, le dottrine dell’“Avenir”, la rivista di Lamennais, furono condannati da Gregorio XVI con la Mirari vos (1832). Tale condanna sarebbe stata, più tardi, ripresa da Pio IX. In generale il liberalismo, come ideologia politica o politico-economica, è rimasto estraneo alla Chiesa cattolica contemporanea.

Neo-guelfismo e giobertismo. Dall’anti-cesarismo e, in particolare, dal mito che si sviluppò attorno al pontefice Pio VII e alla sua resistenza a Napoleone derivò pure un’altra corrente, in cui alla libertas Ecclesiae si legava strettamente la libertas Italiae: il Papato, cioè, era visto come paladino storico dell’indipendenza italiana. Si tratta di un indirizzo che, mutuando le sue definizioni dal medievalismo allora in auge, si dice guelfo e che indicava soltanto una prospettiva filoitaliana e antiaustriaca, che tuttavia poteva anche essere estranea o ostile al liberalismo (come in alcuni gesuiti). All’interno di tale più generale guelfismo, si distinse poi, con Gioberti e con la sua opera Del Primato morale e civile degli Italiani (1842), un più puntuale neo-guelfismo, che fu una delle correnti ideologiche fondamentali del Risorgimento e che può essere, non arbitrariamente, accostato al cattolicesimo liberale europeo, considerandolo come una sua variante italiana: esso mirava ad una Confederazione italiana, presieduta dal Papa. Nel 1846, con l’elezione di Pio IX e con le sue aperture sembrò, per un momento, che si realizzasse il disegno giobertiano, con un papa neo-guelfo. Ma le successive vicende della I guerra d’indipendenza e, soprattutto, della Repubblica Romana smentirono questa lettura. Dal 1849 Pio IX si attestò su rigide posizioni intransigenti: di condanna del liberalismo, del giobertismo, del neoguelfismo, in difesa del temporalismo papale e dello Stato pontificio.

I centri. I luoghi più importanti del cattolicesimo liberale o filo-liberale nella prima metà del XIX secolo furono Milano, Torino e Firenze. Milano era il centro culturalmente più innovativo e più aperto all’Europa. A Milano vivevano Giuseppe Arconati Visconti, Giulio Carcano e, soprattutto, Alessandro Manzoni che mostrava un cattolicesimo moderno, con inflessioni agostiniane (di ascendenza tardo-giansenista), ma coniugate all’eredità dell’illuminismo lombardo, di Beccaria e dei fratelli Verri. A Milano soggiornarono, per qualche tempo, Tommaseo e Rosmini. Torino, invece, subiva ancora il forte influsso della cultura di Francia, a cui era stata annessa durante il periodo napoleonico. Qui i cattolici guardavano a regimi costituzionali di libertà: Santorre di Santarosa e, soprattutto, con spirito più moderato, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio e poi Gioberti furono gli esponenti più importanti (ma sono da ricordare pure Federico Sclopis e Gustavo di Cavour). A Firenze infine gli ambienti cattolici erano sensibili all’influenza del protestantesimo liberale ginevrino, per la presenza di Vieusseux: Capponi e Lambruschini le personalità emergenti. A causa delle caratteristiche assunte dalla restaurazione borbonica, Napoli non fu invece un centro importante e vitale in cui fermentasse un’originale tendenza riportabile al cattolicesimo liberale, anche se si ebbero dei nuclei giobertiani.

Conciliatorismo. Un particolare aspetto o caratteristica dei cattolici liberali italiani fu un’aspirazione alla libertà politica ma come espressione di un più ampio e generale ideale di conciliazione tra cattolicesimo e civiltà moderna: così che forse, per l’Italia, sarebbe corretto parlare di cattolicesimo ‘conciliatorista’, piuttosto che di cattolicesimo ‘liberale’. Si pensi alla cultura romantica, alla rivista significativamente intitolata “Il Conciliatore”, a Silvio Pellico. Più eloquente ancora è il già ricordato caso di Alessandro Manzoni. Ma certo su questa linea anche altri intellettuali cattolici possono essere visti, in particolare gli storici, che avevano vivo il senso del progresso e dei cambiamenti dell’epoca moderna: così lo stesso Manzoni e la cosiddetta scuola ‘cattolico-liberale’ (Troya, Tosti, Cantù, Capecelatro).

Costituzionalismo. Il liberalismo mirava ad ottenere la Costituzione: così che i cattolici liberali erano spesso più favorevoli a regimi costituzionali di libertà che a regimi in senso stretto liberali. Tra coloro che lavorarono alla stesura dello Statuto Albertino vi erano pure cattolici. E cattolico costituzionale (più che cattolico liberale) può definirsi Rosmini, il quale stese pure dei progetti di Costituzione, su principi diversi da quelli del liberalismo francese, contro il quale polemizzava. In questo senso il rosminianesimo (> vedi) fu una variante alterna/interna del cattolicesimo liberale italiano. Molti cattolici costituzionali piemontesi (come Roberto d’Azeglio e Gustavo di Cavour, fratello di Camillo e seguace di Rosmini) si collocavano su tale lunghezza d’onda, per non parlare di alcuni prelati, come mons. Luigi Moreno, vescovo d’Ivrea. Rispettoso della Costituzione fu pure, nel Regno sabaudo, don Bosco: così che se anche non fu un cattolico liberale, tuttavia fu in relazione con Rattazzi e con esponenti della classe politica liberale e le sue posizioni furono pertanto diverse da quelle anti-liberali e anti-costituzionali di tanto intransigentismo cattolico. Costituzionali furono pure don Cocchi e Leonardo Murialdo.

Unità nazionale. Il Risorgimento italiano è stato sia un processo di nation-building (e dunque di sentimenti e passioni nazionalitarie) sia un processo di state-building (in senso liberale), pertanto le vicende del cattolicesimo liberale italiano si sono fuse con la rivoluzione nazionale, facendo sì che alcuni cattolici liberali entrassero nel ‘canone’ politico del Risorgimento con le loro opere e con la loro azione: così fu per le Speranze d’Italia di Cesare Balbo, per i diversi scritti (successivi al Primato) di Gioberti, per I casi di Romagna e per l’impegno di capo del governo di Massimo d’Azeglio. Ciò significò che ci si dovette scontrare con il problema del temporalismo. La riflessione sul potere temporale dei papi e sulla sua non essenzialità ai fini della vita spirituale della Chiesa divenne un’urgenza e si coniugò a forti istanze spirituali di “riforma cattolica” nel segno dell’anti-gesuitismo.

Pedagogia nazionale. La cultura di ascendenza cattolico liberale divenne dunque l’asse portante della cultura nazionale dopo l’Unità. In particolare, vista la particolare necessità pedagogica (“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, secondo la celebre espressione azegliana), il canone educativo nazionale fu permeato in tal senso: sia con Casati e con la legge del 1859 che delineava il sistema scolastico sia, sul piano degli indirizzi pedagogici, secondo una linea che da Rosmini e Lambruschini (e, anche qui, Gioberti) giungeva a Giovanni Antonio Rayneri, Domenico Berti, Giovanni Maria Bertini, ma anche a Antonino Parato, Giuseppe Allievo, Emma Perodi, Jacopo Bernardi, Pietro Baricco, Francesco Bonatelli, Francesco Acri. Un ambito particolarmente sensibile, poiché avversato dal cattolicesimo intransigente e dunque di grande portata ‘simbolica’, fu quello dell’educazione dell’infanzia: Ferrante Aporti e l’indirizzo aportiano rappresentarono, dunque, la proposta cattolico-liberale, per lungo tempo canonizzata come ‘metodo italiano’ (contrapposto al germanico froebelismo).

Dalla Destra storica ad un cattolicesimo di destra. La prima Destra storica post-unitaria costituì, comunque, un nuovo capitolo nella storia del cattolicesimo liberale (o, in questo caso, liberalismo cattolico e filo-cattolico) in Italia. Vi rientra in parte lo stesso Cavour, il cui separatismo ebbe forse matrici protestantico-ginevrine (Vinet) ma anche cattolico-liberali (Montalembert). E certo vi rientrano i capi del governo nazionale dopo Cavour: in particolare Bettino Ricasoli (con i suoi collaboratori Corsi, Borgatti, Cassani), con una forte carica di riformismo neo-piagnone toscano, e Marco Minghetti. Ma si possono ricordare anche Diomede Panteleoni, Pier Carlo Boggio, Luigi Carlo Farini, Ruggero Bonghi, Carlo Cadorna, Fedele Lampertico, Achille Mauri, il gruppo toscano (Tabarrini, Guasti, Conti). Una figura eminente fu quella dell’ex-gesuita Carlo Passaglia, che si adoperò, in senso filoitaliano, per una conciliazione con Roma, ma fu condannato dal Vaticano. Liberal-conciliatoriste furono pure, tra il 1859 e il 1864, le riviste “Il Conciliatore” e “Il Carroccio” di Milano, “Il Mediatore” (diretto da Passaglia) e “La Pace” di Torino, gli “Annali cattolici” (dal 1866 “Rivista Universale”) di Genova, “Esaminatore” di Firenze. Il motto di quest’area, favorevole allo Stato unitario liberale, era: “cattolici con il Papa, liberali con lo Statuto”.

Fonti e Bibl. essenziale

E. Passerin d’Entrèves, Religione e politica nell’Ottocento europeo, a cura di F. Traniello, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento, 1993; A. Pellegrini (a cura di), Tre cattolici liberali. Alessandro Casati, Tommaso Gallarati Scotti, Stefano Jacini, Milano, Adelfi, 1972; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano, Marzorati, 1970.


LEMMARIO




Cattolicesimo liberale - vol. II


Autore: Fulvio De Giorgi

Con la presa di Roma nel 1870 e con Quintino Sella, l’egemonia si spostò progressivamente su un laicismo massonico, che infine si espresse con vivacità nei governi della Sinistra storica. Del resto, i tentativi transigenti e conciliatoristi di Luigi Tosti (1887) e di mons. Geremia Bonomelli (1889) fallirono, per l’irrigidimento vaticano. Il nascente movimento cattolico organizzato (l’Opera dei Congressi) si attestava su posizioni intransigenti. Il cattolicesimo liberale non ebbe, da allora, mai più in Italia il grande ruolo storico che aveva avuto nella prima metà dell’Ottocento e fino al primo decennio post-unitario.

Con lo sviluppo delle correnti democratiche, repubblicane, radicali e infine socialiste, il liberalismo si spostò sempre più a destra: in qualche modo, anzi, il liberalismo di sinistra e che tendeva ormai alla liberaldemocrazia (Zanardelli, Giolitti, Nitti) esibiva un’identità laica, se non anticlericale. Il cattolicesimo liberale divenne sempre più una corrente politica conservatrice di destra: dagli sfortunati tentativi di dar vita ad un partito conservatore nazionale (con il torinese Sclopis, il lombardo Stefano Jacini sr., il gruppo romano di casa Campello) fino alle iniziative editoriali (il giornale “Lega lombarda”) e politiche (l’Associazione per gli interessi pubblici Religione e Patria) di Carlo Cornaggia Medici, eletto in parlamento dal 1904, vicino a Sonnino e a Salandra, favorevole alla guerra di Libia.

Un caso di grande valore culturale ma di relativa incidenza civile fu l’esperienza della rivista “Rassegna Nazionale” che coniugò un conservatorismo politico con un riformismo religioso. Essa rappresentò l’ideale passaggio alle nuove correnti primo-novecentesche, stimolate dal confronto con la giovane democrazia cristiana. Figure principali di questa transizione tra XIX e XX secolo furono due intellettuali – il giurista Contardo Ferrini e il romanziere di grande successo Antonio Fogazzaro, in cui confluivano rosminianesimo e cavourismo – e il sen. Tancredi Canonico, sensibile alla mistica di Towianski, molto più che i politici ‘gentilonizzati’ e clerico-moderati dell’età giolittiana.

Il nuovo Cattolicesimo liberale. Nell’eccitante rigoglio culturale del primo Novecento, quando il modernismo rappresentò la più seria ripresa di ideali tanto di conciliazione tra cattolicesimo e civiltà moderna quanto di riforma cattolica, si ebbe l’avvio di un nuovo cattolicesimo liberale, più aperto e progressivo, che guardava con simpatia al murrismo e dunque si evolveva in senso liberaldemocratico. La figura principale fu quella di Tommaso Gallarati Scotti, ma si possono ricordare anche Alessandro Casati e Stefano Jacini jr. Sul piano spirituale ebbe molta influenza il barnabita Semeria. La rivista “Il Rinnovamento” raccolse molti di questi nuovi spiriti, valorizzando pure l’eredità risorgimentale.

Costituendo un filone minoritario dell’interventismo democratico, questa sensibilità di liberalismo rinnovato giunse al primo dopoguerra, non confluì nel Partito Popolare e si trovò accanto a Gobetti, ad Amendola, a Parri nell’esprimere un netto antifascismo, coniugato ad un liberalismo di sinistra (mentre alcuni anziani cattolici liberal-conservatori, come Cornaggia Medici, diventavano clerico-fascisti). Assieme a Gallarati Scotti vanno ricordate le figure di Giacomo Noventa, di Novello Papafava, di Alessandro Passerin d’Entrèves. Variamente emarginate nel periodo fascista, queste figure riemersero nel periodo resistenziale.

Nella Repubblica italiana. Costituitasi la Repubblica, con istituzioni democratiche, e affermatasi alla guida del governo italiano la Democrazia cristiana, come partito unitario dei cattolici, il cattolicesimo liberale praticamente scomparve come presenza politica, per quanto minoritaria e senza organizzazione unitaria. Ci furono, certo, alcuni membri autorevoli del Partito Liberale che nutrivano, nel privato della coscienza, una fede cattolica: il più importante di tutti fu Luigi Einaudi. Il vecchio fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, tornato in Italia dall’esilio, espresse tesi liberiste di politica economica. All’interno della Democrazia Cristiana, mentre comune era la tensione anti-totalitaria e liberaldemocratica, vi furono pure esponenti di area moderata, sensibili alla tradizione risorgimental-rosminiana o favorevoli ad una politica liberista: ma né loro né Sturzo si possono propriamente considerare cattolici liberali.

Sul piano delle elite culturali, una certa continuazione ideale del “nuovo cattolicesimo liberale” della prima metà del Novecento si ebbe sia nei cenacoli ex-azionisti e radicali (si veda la collaborazione di Arturo Carlo Jemolo a riviste come “Il Ponte” di Piero Calamandrei e “Il Mondo” di Mario Pannunzio) sia, soprattutto, in quel luogo di incontro tra intellettuali liberali di sinistra e cattolici ‘liberal’ (che cioè guardavano all’esperienza della cultura statunitense) che furono la rivista e l’editrice “Il Mulino” (dal 1951): Luigi Pedrazzi e, poi, Pietro Scoppola ed altri. Viva fu, in questi cenacoli, l’attenzione alla laicità delle istituzioni, all’autonomia delle scelte politiche, ai diritti civili. Negli anni ’70 molti di questi intellettuali sarebbero stati tra i promotori della Lega Democratica (1975-1987). Un particolare ambito intellettuale fu, poi, quello della storiografia. Alcuni storici si dedicarono cioè allo studio del cattolicesimo liberale italiano (dell’Ottocento, ma anche del primo Novecento e del modernismo) con atteggiamento simpatetico e, in forma diversa, con una identificazione ideale: Arturo Carlo Jemolo, Ettore Passerin d’Entrèves, Pietro Scoppola, Nicola Raponi, Francesco Traniello.

Alla fine del XX secolo e nell’avvio del XXI, il superamento del sistema politico nato nel dopoguerra (con la fine dell’unità politica dei cattolici e della DC e con la nascita di nuovi partiti di centro-destra) ha fatto emergere piccole formazioni politiche che si sono rifatte al cattolicesimo liberale.

Fonti e Bibl. essenziale

O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Bologna, Il Mulino, 1971; U. Gentiloni Silveri (a cura di), Cattolici e liberali. Manfredo da Passano e «La Rassegna Nazionale», Soveria M., Rubbettino, 2004; A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1949; E. Passerin d’Entrèves, Il cattolicesimo liberale in Europa e il movimento neoguelfo in Italia, in AA.VV., Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Milano, Marzorati, 1961, vol. I, 565-606; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Brescia, Morcelliana, 2002; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2007.


LEMMARIO




Cattolicesimo politico - vol. II


Autore: Andrea Ciampani

Le conseguenze socio-politiche della Rivoluzione francese e dell’Impero napoleonico produssero negli Stati della penisola italiana un dibattito sull’evoluzione delle strutture di antico regime e sugli scenari politici proposti dalle tendenze costituzionali. Mentre si costituiva una “Santa Alleanza” tra la Prussia protestante, l’ortodosso impero russo e il cattolico impero asburgico, la sovranità temporale del papato si era indebolita. Nel contesto della Restaurazione europea e della nascita di nuovi Stati costituzionali (come nel caso del Belgio del 1831), le classi dirigenti cattoliche e lo stesso clero si confrontarono con le proposte che tendevano ad affermare l’autonomia dell’azione politica dalla religione e, talora, l’interferenza della prima nella sfera d’azione della seconda. Nell’epoca romantica si segnalò, peraltro, come ricorderà Tocqueville ancora nel 1848, “un ritorno generale e quasi inatteso […] verso le cose religiose” di molti ceti nazionali.

Nella riflessione dottrinaria e nel concreto confronto pubblico della classe politica europea ottocentesca, comunque, era presente una significativa schiera di personalità cattoliche, espressione della società che rappresentavano. Anche all’interno delle élites degli Stati preunitari esponenti del cattolicesimo italiano animarono la discussione sui diversi profili del confronto politico e, naturalmente, sull’evoluzione dell’unificazione nazionale, partecipando anche ai moti del Risorgimento, cui presero parte anche sacerdoti e religiosi. Alcune figure si segnalarono non solo per aver indirizzato il dibattito del moderatismo liberale con i loro scritti, ma per il ruolo politico svolto, come al governo del Regno di Sardegna dopo la concessione dello Statuto albertino: tra gli altri, Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio e Vincenzo Gioberti, che disegnò i tratti ideologici di un neoguelfismo. In una ben diversa e più ampia prospettiva di rinnovamento ecclesiale, l’abate Antonio Rosmini giungeva a delineare nel 1848 un percorso di unità nazionale frutto di una federazione di Stati, secondo un “modo […] giusto ed onesto”, “quello che è al di sopra della politica”.

Durante il pontificato di Pio IX, intanto, emergeva l’esigenza di una sempre maggiore distinzione del governo della Chiesa cattolica dagli interessi temporali dello Stato pontificio, collocando l’autorità ecclesiale in una posizione superiore al congiunturale conflitto politico, nazionale e internazionale. Nel 1848 la concessione delle prime riforme statutarie nello Stato pontificio e la stessa allocuzione del 29 aprile sembravano assecondare tale dinamica. Nel novembre dello stesso anno, tuttavia, l’assassinio politico del costituzionalista posto a capo del governo pontificio, Pellegrino Rossi, bloccò il processo avviato: la drammaticità del nesso allora instauratosi tra la sorte politica dello Stato pontificio e il processo verso l’unità statuale italiana fu evidenziato dalla seguente fuga del papa a Gaeta e dall’effimero insediamento della Repubblica romana del 1849. Il prevalere della “guerra regia” sabauda sulla prospettiva di una “lega” italiana all’interno dello schieramento patriottico moderato e la rivendicazione politica di Roma capitale d’Italia, rafforzatasi dopo la spedizione garibaldina nel Mezzogiorno, influirono sulla riflessione dei gruppi dirigenti cattolici alla vigilia della costituzione dello Stato unitario del 1861. Ancora in quell’anno, mentre don Margotti sosteneva per la prima volta le ragioni di un astensionismo per le elezioni del primo parlamento italiano, Vito d’Ondes Reggio, già partecipe dei moti siciliani del 1848 e poi vicepresidente dell’Opera dei Congressi nel 1874, veniva eletto alla Camera dei deputati, esprimendovi aperto consenso alla proclamazione del regno d’Italia. Il congiungersi della politica ecclesiale dei governi italiani (riprovata dalla Chiesa) con il profilo anticlericale che assunse la questione romana porrà alcuni esponenti parlamentari di fronte al problema di conciliare rappresentanza delle istituzioni e fedeltà al papato, sollecitando una riflessione sulla possibilità di rappresentare politicamente l’opinione pubblica cattolica.

Nel confronto apertosi all’interno al mondo cattolico sui caratteri della società moderna, i credenti che operavano all’interno delle Camere parlamentari degli Stati costituzionali, sedendo spesso nei banchi della Destra (nel Belgio identificata tout court come “partito cattolico”), venivano additati come sostenitori di un cattolicesimo liberale. In tale situazione gli episcopati e le classi dirigenti cattoliche si rivolgevano sempre più frequentemente al Vaticano per avere un orientamento in una polemica dai confini incerti; nel 1864 la pubblicazione dell’enciclica “Quanta cura”, contenente il Sillabo degli errori della modernità, non portò a una definitiva chiarificazione sull’applicazione dei principi affermati circa le relazioni tra la Chiesa e lo Stato. In effetti, considerata la prassi politica ottocentesca, la questione della partecipazione cattolica all’elettorato attivo e passivo veniva ancora esaminata a Roma considerando il piano della personale condotta morale del credente all’interno delle congiunture politiche delineate dall’attività legislativa parlamentare e dalle iniziative governative. La congregazione della Penitenzieria apostolica acquisiva, in questi anni, un particolare rilievo in margine ai comportamenti delle personalità cattoliche coinvolte nella vita politica, svolgendo un ruolo centrale nel dibattito vaticano, avviato nel 1864, sull’accesso dei cattolici italiani al voto politico, ritenuto praticabile fino al novembre 1867. Solo dopo le leggi eversive dell’asse ecclesiastico e la spedizione garibaldina a Mentana si delineò uno scenario nel quale alla S. Sede apparve “moralmente impossibile col concorso alle elezioni procurare un rimedio e rimuovere i gravissimi mali”: nel gennaio 1868 per la prima volta la curia romana si espresse a favore del non expedit.

La questione di un orientamento pubblico dei cattolici italiani in politica, infine, assunse una propria dimensione dopo il 1870. In quell’anno il Concilio Vaticano I, che aveva proclamato il dogma dell’infallibilità pontificia ex cathedra, contestato dalle Potenze europee, venne interrotto dalla conquista militare di Roma da parte delle truppe italiane che poneva fine alla sovranità temporale del papa. Per sostenere la protesta pontificia e la rivendicazione della sua libertà e indipendenza, Pio IX rilanciò con forza il suo appello alla Chiesa universale e ai popoli cattolici. Gli episcopati incoraggiarono lo sviluppo di un sempre più articolato movimento cattolico, che tendeva ad assumere distinti orientamenti: al tradizionale conservatorismo politico delle classi dirigenti transigenti coinvolte nel processo e nella cultura liberal-costituzionale, si affiancava un movimento intransigente e socialmente avanzato, organizzato nella società civile e nelle parrocchie. Si spostava sul terreno politico il confronto, fino allora prevalentemente ecclesiale e pastorale, tra cattolici transigenti e intransigenti, e fuori d’Italia si sviluppava un movimento ultramontano a favore dei diritti del papato, che spesso la Santa Sede si troverà a dover moderare. Rafforzato in un primo tempo il non expedit per le elezioni politiche italiane, come protesta per i “fatti compiuti”, il Vaticano favorì l’irrobustirsi di un associazionismo cattolico, avviato negli anni Sessanta con la nascita della Gioventù cattolica, sostenendo nel 1874 la nascita dell’Opera dei Congressi cattolici, che fece propria la protesta di libertà per il pontefice privato di una sovranità territoriale. La questione romana, posta ora dalla S. Sede, veniva ad articolarsi in molteplici profili: la posizione del papa nel sistema internazionale; l’esercizio del magistero pontificio in Roma; l’intervento del movimento cattolico nelle responsabilità economiche, sociali e politiche del Regno d’Italia. L’interdipendenza tra questi differenti piani emerse nella congregazione cardinalizia che già nel 1876 delineò l’obiettivo del superamento del non expedit, ritenendo in linea di massima non solo essere lecito, ma anche essere “un dovere rigoroso dei cattolici di prender parte alle elezioni politiche”. Occorreva, tuttavia, creare un consenso nella curia romana sulle condizioni e sugli effetti di un tale intervento politico e predisporre l’opinione pubblica cattolica, per ottenere un positivo risultato dal concorso alle urne.

Con l’elezione di Leone XIII, così, nel 1878 si affermò un articolato “centro cardinalizio” in grado di attrarre intorno al papa esponenti moderati degli schieramenti intransigente e transigente, coniugando una ferma ortodossia in materia di fede con un’apertura alla partecipazione politica di esponenti cattolici nelle istituzioni italiane nel quadro di una mobilitazione del movimento cattolico rispettoso delle “esigenze altissime” della S. Sede; una posizione, questa, che fu sintetizzata in una distinzione tra tesi e ipotesi che ribadiva posizioni di principio e tollerava opportune sperimentazioni nell’operare. Tale attitudine avrebbe permesso anche un’azione unitaria del mondo cattolico italiano, preoccupazione fondamentale per una S. Sede che vedeva indebolirsi l’incidenza pubblica del magistero della Chiesa. Con l’avviarsi del dibattito sulle forme organizzative del cattolicesimo politico italiano si apriva un’appassionata discussione sulle modalità e sugli effetti di un eventuale partito cattolico in Italia. Le cosiddette riunioni di “casa Campello” nel 1879 chiarirono le difficoltà di un movimento conservatore nazionale che avrebbe subordinato un “partito cattolico” alla politica di una parte della Destra liberale. Piuttosto, negli anni seguenti, l’orientamento vaticano pro nunc non expedire offrirà una prospettiva politica agli “unionisti” romani che, col sostegno vaticano, nella lotta capitolina promossero una permanente associazione elettorale, giungendo a sostenere anche candidati liberali, buoni amministratori e rispettosi della religione, in qualunque partito militassero. Durante l’età della trasformazione dei partiti operata da Depretis, posta al riparo della Triplice Alleanza la stabilità internazionale del regno d’Italia, col consenso degli ambienti monarchico – costituzionali fu possibile all’Unione romana partecipare dal 1883 al governo municipale della Capitale; si realizzò, allora, un’esperienza esemplare per lo sforzo organizzativo del laicato cattolico e per la capacità di costruire alleanze con le componenti dei partiti liberali, presupposto per una proiezione nella politica nazionale del movimento cattolico connessa a possibili ipotesi di riconciliazione.

La politica di Crispi dell’autunno 1887, sotto il segno dell’anticlericalismo, frantumò gli equilibri raggiunti in Campidoglio, introducendo ulteriori diffidenze tra i governi nazionali e il movimento cattolico che aspirava a partecipare alla guida dei diversi settori della nazione. Nel protrarsi dell’irrisolto conflitto Chiesa-Stato, il rafforzarsi della presenza cattolica nei governi locali e nelle associazioni economico-sociali (particolarmente dopo la Rerum novarum del 1891), con un sempre più attivo ruolo del laicato alla formulazione di programmi e strategie d’azione, evidenziò una “politicizzazione” del movimento sociale cattolico. Si giunse, così, nel 1898 al momento più critico tra il governo italiano e l’associazionismo cattolico, oggetto di provvedimenti repressivi come organizzazione eversiva. All’interno dell’Opera dei congressi, intanto, sorgeva una divisione generazionale e di orientamento politico tra gli esponenti del primo intransigentismo e i sostenitori di un concetto cristiano di → democrazia a favore del popolo. Di fronte alla crescente questione sociale, nel giubileo del 1900, infine, si colse l’occasione di una prima tacita riconciliazione nazionale; tra l’enciclica Graves de communi del 1901 e lo scioglimento dell’Opera nel 1904, così, il movimento cattolico tornava a interrogarsi sul significato della democrazia cristiana e delle sempre maggiori brecce aperte dall’episcopato cattolico nel divieto ai credenti di partecipare alle elezioni politiche.

Incoraggiato dall’iniziativa di Giuseppe Toniolo, il mondo cattolico ricercò una rinnovata unione d’intenti nell’articolazione dell’Unione popolare, promossa dalla S. Sede nel 1904, come pure nell’avvio delle Settimane sociali dei cattolici italiani, sull’esempio di quelle francesi. Nel movimento democratico cristiano, in cui si segnalavano il lombardo Filippo Meda e il siciliano don Luigi Sturzo, si distinguevano i percorsi di coloro che immaginavano di riprendere il cammino degli accordi negoziati con candidati liberali (additati come clerico – moderati) e i sostenitori dell’affermazione di uno specifico programma socio-politico. In questo contesto, era stato eletto alla Camera un gruppo di “cattolici deputati”, che enfatizzavano la responsabilità personale e rifiutavano di farsi identificare in un partito confessionale. Profili religiosi e dinamiche politiche tornavano a sovrapporsi nel dibattito tra i cattolici italiani, intrecciandosi talora con la polemica sul modernismo: dopo aver costituito la Lega democratica nazionale, don Romolo Murri entrò in parlamento, tra il 1907 e il 1909, appoggiato da socialisti e radicali e condannato dal Vaticano.

A fronte dei blocchi popolari anticlericali, la finanza e la stampa cattolica come le organizzazioni cristiano – sociali, sviluppate nel movimento cooperativo e nei sindacati “bianchi”, aspiravano a veder riconosciuto il loro ruolo nelle istituzioni dell’Italia giolittiana in un Paese cattolico investito da un processo di secolarizzazione della vita pubblica. Nel 1913 si giunse, infine, a formulare le condizioni del “patto Gentiloni”, dal nome del presidente dell’Unione elettorale, perché l’elettorato cattolico nel suo complesso potesse influire, generalmente in senso moderato, sul risultato delle prime elezioni a suffragio elettorale maschile dell’epoca liberale: alcune rivendicazioni politiche (dal rispetto per le scuole cattoliche al rifiuto del divorzio) avanzate dal movimento cattolico sarebbero state sottoposte ai singoli candidati liberali che avrebbero richiesto il voto dei cattolici. Forte era la preoccupazione di Pio X, impegnato in un’ampia riforma della Chiesa, di mantenere in quella delicata congiuntura l’unione del popolo cattolico alla gerarchia, con l’intento di evitare una traslazione sul piano ecclesiale delle differenti scelte che si erano manifestate sul piano politico.

L’avvenuta “nazionalizzazione” del mondo cattolico italiano comportò, peraltro, il suo sostegno alla guerra di Libia e la condivisione dello sforzo bellico del primo conflitto mondiale, sebbene una parte significativa dell’opinione pubblica cattolica manifestasse inizialmente remore all’entrata in guerra: l’opzione di una “neutralità condizionata” prendeva le distanze dalla retorica nazionalista e promuoveva, contemporaneamente, un’identificazione tra le sorti dell’Italia cattolica e la politica dello Stato unitario che avrebbe dovuto facilitare la riconciliazione. In effetti, nel “fronte interno” i cattolici italiani contribuirono alla coesione sociale del Paese, mentre nelle zone di combattimento l’afflato religioso favorì la solidarietà nelle drammatiche sofferenze dell’“inutile strage” condannata da Benedetto XV. Alla fine del conflitto, peraltro, i colloqui parigini del 1919 tra mons. Bonaventura Cerretti e il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando mostravano accessibile un percorso di conciliazione tra Chiesa e Stato sulla base di negoziati accordi bilaterali.

Nel frattempo, inserendosi nella tendenza ad un’adesione di massa ai partiti politici del dopoguerra, nel novembre 1918 Luigi Sturzo aveva promosso nei locali dell’Unione romana la costituzione di un partito nel quale potessero riconoscersi tutte le componenti del movimento cattolico impegnato a recuperare una centralità nella vita politico-istituzionale nazionale e orgogliosamente partecipe delle sorti della patria italiana. Con l’appello a “tutti gli uomini liberi e forti” del gennaio 1919 nasce il Partito Popolare Italiano, che, ispirandosi “ai saldi principi del Cristianesimo”, mirava ad orientare con la sua presenza parlamentare i governi di un’Italia scossa dall’azione di un partito socialista massimalista e dalle convulsioni sociali della “vittoria mutilata”. La segreteria di Stato vaticano permise il tentativo del Ppi come partito aconfessionale, affiancato dal sindacato della Confederazione Italiana del Lavoro, rimarcando una chiara distinzione con l’Azione cattolica destinata ad assumere nel pontificato di Pio XI il carattere di un’associazione laicale di collaborazione all’apostolato gerarchico della Chiesa. Di fronte alla chiusura delle classi dirigenti liberali, all’aggressiva propaganda socialista e al sorgente squadrismo fascista, tuttavia, si manifestò presto la tendenza a sovrapporre la militanza cattolica con la contemporanea adesione alla Ac, alla Cil e al Ppi; così l’appartenenza all’azione cattolica sembrava identificarsi con l’azione dei cattolici più impegnati nella politica dei popolari.

Dopo la marcia su Roma del 1922 e la formazione di un gabinetto di coalizione da parte di Mussolini, si acuirono nel Ppi le tensioni irrisolte che laceravano il cattolicesimo politico italiano, portando alle dimissioni di Sturzo da segretario politico del Ppi, al dissenso di Guido Miglioli sulle lotte sociali, all’espulsione dal partito di esponenti dell’ala destra, come Egilberto Martire (nel 1924 nascerà un piccolo partito, il Centro nazionale, che fiancheggerà i fascisti fino al 1930). Riemergeva, così, la preoccupazione vaticana che caratterizzazioni d’indole puramente politica fossero portate in seno all’azione cattolica, rompendo la concordia dell’apostolato cristiano. L’atteggiamento di Mussolini, che affiancava le aperture al Vaticano alla violenza contro le opposizioni politiche e sociali, condurrà la gerarchia cattolica italiana a concentrare il proprio impegno nella difesa della presenza educativa e religiosa di fronte al tentativo avviato nel 1925 di edificare un regime totalitario. La difficoltà a sostenere uno scontro diretto con la Chiesa e la ricerca del consenso cattolico spinsero il fascismo a negoziare i Patti Lateranensi del 1929: il trattato internazionale e la convenzione finanziaria mettevano fine al conflitto tra Italia e S. Sede, mentre il concordato stabiliva le norme dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato. La tolleranza nel regime dell’organizzazione cattolica sul piano dell’eduzione religiosa, peraltro, provocò un latente conflitto tra fascisti e azione cattolica, che talora si acuiva come nello scontro con la Fuci del 1931. Arrestandosi di fronte alla “politica dell’altare”, comunque, il fascismo trovò un ostacolo deciso alla sua penetrazione nella vita sociale italiana.

Se gli ambienti del cattolicesimo conservatore inclinarono al filofascismo, enfatizzando le opportunità di restaurare una nazionale cattolica, sotto l’ombrello delle associazioni cattoliche si alimentava la speranza degli antifascisti ridotti al silenzio, mentre parte significativa della Chiesa italiana coltivava nell’afascismo un’alterità morale e religiosa che si asteneva dall’impegno socio-politico. Nelle associazioni cattoliche degli anni Trenta si formava, così, una “gioventù pura” affidata ai ritiri, alle catechesi, alle processioni e all’apostolato, dai tratti talora militareschi. Il varo delle leggi razziali contro gli ebrei nel 1939 incrinò l’instabile equilibrio raggiunto tra il regime e la Chiesa italiana, nel reciproco tentativo di delimitare i confini tra spazio politico e religioso. Durante la guerra i cattolici che avevano potuto giovarsi di proprie strutture educative erano in grado di avviare una fase di elaborazione di strategie per il periodo successivo ad un’eventuale caduta di Mussolini. Dopo il luglio 1943, mentre l’Azione cattolica si proponeva di dare un apporto alla ricostruzione civile del Paese, gruppi di cattolici parteciparono alla formazione dei Comitati di liberazione nazionale, agendo poi nella clandestinità come partigiani nella Resistenza.

Il partito della Democrazia cristiana, costituitosi attorno ad Alcide De Gasperi con l’ambizione di raccogliere insieme alla dirigenza popolare prefascista nuove generazioni di intellettuali e militanti cattolici, poteva organizzarsi col sostegno di ampi settori dell’episcopato. Tra continuità e fratture, comunque, occorreva misurarsi con l’eredità del Ventennio sull’impegno civile del cattolicesimo italiano nella vita democratica; un processo che si prolungò sino alla crisi degli anni Cinquanta. Maturavano differenti progettualità per declinare l’impostazione “morale” dell’impegno cristiano sul piano “temporale”: i principi del Codice di Camaldoli, disegnando nuovi scenari socio-politici, posero la questione di una distinzione tra la “professione d’apostolato” e il “fare professione politica”. Tra il 1944 e il 1946, intanto, numerosi giovani dirigenti dell’azione cattolica e della Fuci, come Giulio Andreotti, si formarono alla politica facendo politica nella Dc, mentre ancora nelle associazioni si coltivava un sospetto verso l’agire politico. Altri venivano attratti dal movimento dei Cattolici comunisti e dal Partito della sinistra cristiana di Franco Rodano, che nel 1945 confluì nel Pci, o dal socialismo cristiano che alimentò il Partito cristiano sociale di Gerardo Bruni tra il 1946 e il 1948.

Alla vigilia del referendum costituzionale e delle elezioni per l’Assemblea costituente, dunque, l’Azione cattolica s’impegnò ad educare gli associati (che raggiungevano i due milioni di iscritti) al superamento dell’apoliticità, mantenendo un’apartiticità che avrebbe conservato l’unione dei credenti. Dopo aver contribuito alla formulazione della Costituzione italiana tra il 1946 e il 1947, il mondo cattolico italiano percepì chiaramente l’importanza che per la sua attuazione avrebbero avuto le elezioni della prima legislatura repubblicana. Il costituirsi dell’alleanza politica social-comunista nel Fronte popolare fece maturare il convincimento che la Chiesa italiana dovesse contribuire all’emergenza politica costituita dalle elezioni del 18 aprile 1948. Si svolsero missioni religioso-sociali come campagna di “educazione civica” nelle diocesi italiane, coordinate infine da Giuseppe Lazzati, mentre si costituivano i Comitati civici, affidati a Luigi Gedda, per mantenere l’azione dei cattolici militanti a sostegno della propaganda democristiana su di un piano prepartitico. La vittoria della Dc e la sua conferma come perno di ogni possibile coalizione per il governo del Paese pose ben presto il cattolicesimo italiano di fronte a un’ulteriore questione: la centralità della politica democristiana nella vita politica repubblicana di un Paese aderente al sistema politico occidentale e atlantico nel confronto mondiale bipolare. Dal 1950 la presenza di De Gasperi accanto al francese Robert Schuman e al tedesco Konrad Adenauer tra i padri dell’integrazione europea giunse ad evocare l’idea di un’Europa vaticana.

Da allora, e fino al crollo del Muro di Berlino nel 1989, il dibattito sul cattolicesimo politico italiano coinciderà con le problematiche della Dc, sul piano interno (le formule di governo, le politiche di alleanze, la costituzione delle “correnti” democristiane) e sul piano delle relazioni internazionali (in particolare rispetto agli interlocutori statunitensi, alla politica mediterranea e mediorientale). Assunto il ruolo di “partito della nazione”, la Dc pure non rinunciava alla sua interlocuzione con la gerarchia cattolica, assumendo col tempo non solo un ruolo di mediazione degli interessi che questa esprimeva, ma anche una capacità di orientamento della presenza cattolica nella società: già negli anni Cinquanta, alcuni ambienti dell’associazionismo cattolico chiedevano al partito di non usare la Chiesa come organizzazione collaterale. Le classi dirigenti democristiane, nei ripetuti governi di Amintore Fanfani, di Aldo Moro e di Mariano Rumor, introdussero graduali riforme nell’Italia che s’industrializzava, in un sistema economico di economia mista, ricercando un sempre più ampio consenso politico delle forze liberali e socialiste, nell’impossibilità di un’alternanza di governo in presenza di un’opposizione guidata dal più forte partito comunista occidentale.

Negli anni Sessanta, peraltro, il mondo cattolico si trovò di fronte a nuove difficoltà per la trasformazione dei tradizionali modelli della famiglia e per i riflessi sull’esperienza politica dell’eco del Concilio Vaticano II. Così, mentre si radicava il primato dei partiti nella società, l’affermarsi della “terza generazione” di leader democristiani accompagnava l’inaridimento della formazione giovanile nel partito e l’ampliarsi del dissenso del mondo cattolico si proiettava nell’arena politica: all’opzione socialista nelle Acli seguirono le esperienze dell’Associazione di Cultura Politica (Acpol) e del Movimento Politico dei Lavoratori (Mpl), cui si affiancò l’esperienza dei Cristiani per il socialismo negli anni Settanta. Sotto il pontificato di Paolo VI non mancarono richiami all’unità politica dei cattolici di fronte all’affacciarsi di tematiche come il divorzio e l’aborto che spingevano a una nuova riflessione sul significato sulla presenza pubblica dei cattolici italiani. La stessa Dc non mancò di collegarsi con alcuni ambienti, come la Lega democratica e il Movimento popolare, che esprimevano una proiezione prepartitica di un rinnovato associazionismo cattolico, non più maggioritario nella società italiana. In effetti, la crisi della Dc non diede vita ad un rinnovamento interno della classe dirigente e della sua cultura negli anni Ottanta, frantumandosi il dibattito sugli assetti del partito, senza intercettare le modificazioni profonde della società italiana e le sue ripercussioni sui corpi intermedi promossi dal mondo cattolico.

La stessa Chiesa italiana, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, vide crescere il ruolo della Conferenza episcopale per suscitare nel laicato impegnato nella società civile una rinnovata etica politica e condivise risposte agli emergenti temi della biopolitica. Dopo l’esaurirsi dell’esperienza democristiana nel 1994, la collocazione di esponenti cattolici in diverse formazioni politiche ha aperto nuovi interrogativi sulla rappresentanza dei cattolici, in un contesto di cambiamento epocale delle dinamiche socio-economiche e degli scenari internazionali. L’occasione dei centocinquanta anni di storia d’Italia, peraltro, ha consentito di apprezzare l’incidenza storica della presenza dei cattolici nella vita pubblica dello Stato unitario. Ricordando che la Chiesa non ha “soluzioni tecniche da offrire” nell’arena politica e “non pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati” (così ancora nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI del 2009), dunque, il cattolicesimo italiano s’interroga sulle modalità con le quali esercitare una libertà responsabile a favore di “una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione”.

Fonti e Bibl. Essenziale

Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello e G. Campanini, vol. I, Tomi 1-2, Editrice Marietti, Torino, 1981; Aggiornamento 1980-1995, Marietti, Torino, 1997; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Studium, Roma 19824; K.-E. Lönne, Il cattolicesimo politico nel XIX e XX secolo, Il Mulino, Bologna, 1991; A. Canavero, I cattolici nella società italiana: dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, La Scuola, Brescia 1991; M. Casella, 18 aprile 1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Galatina, Congedo editore, 1992; C.M. Fiorentino, Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica, 1870-1876: il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1996; P. Scoppola, La repubblica dei partiti: evoluzione e crisi di un sistema politico, 1945-1996, Il Mulino, Bologna 1997; A. Ciampani, Cattolici e liberali durante la trasformazione dei partiti: la questione di Roma tra politica nazionale e progetti vaticani, 1876-1883, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 2000; N. Raponi, Cattolicesimo liberale e modernità. Figure e aspetti di storia della cultura dal Risorgimento all’età giolittiana, Morcelliana, Brescia 2002; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007; M. Belardinelli, Il Risorgimento e la realizzazione della comunità nazionale, Roma, Studium 2007; A. Ciampani, Il dibattito sulle origini di un partito cattolico in Italia e l’Unione romana, in “Archivio della Società romana di storia patria”, vol. 134 (2011), 81-126.


LEMMARIO




Cattolici del dissenso - vol. II


Autore: Angelo Manfredi

Sotto l’etichetta “cattolici del dissenso”, comoda e introdotta soprattutto dai mezzi di comunicazione, ma spesso rifiutata da coloro che sono protagonisti degli anni della contestazione, raggruppiamo quella varietà di fenomeni che non si esaurirono nella “contestazione” ma tentarono di proporre e dare durata a alternative all’interno dello stesso mondo ecclesiale.

Al di là dei problematici legami o “fili rossi” rispetto al modernismo di inizio XX secolo, già negli anni ’40-’50 emergevano nella Chiesa italiana figure e gruppi che per vari motivi non si sentivano interamente interpretati dal blocco della militanza di AC. Alcuni di essi daranno vita a realtà del dissenso, altri invece saranno all’origine di alcuni movimenti ecclesiali.

Il fenomeno del dissenso, tuttavia, difficilmente si può ricondurre a queste forme di insofferenza rispetto a un modello di presenza pastorale e sociale tipico dell’AC dei “tre Pii” (X, XI e XII). Molti degli esponenti del cattolicesimo della contestazione, alla conclusione del Concilio Vaticano II che portava con sé molte aspettative, produceva documenti di grande equilibrio ma vedeva gran parte dell’episcopato italiano in posizione di arretratezza e di diffidenza, fecero riferimento, più che alla “lettera” del concilio, percepita come inadeguata, a una sorta di “spirito” conciliare. In contemporanea, si diffondeva in tutto il mondo occidentale la contestazione giovanile, fenomeno sostanzialmente estraneo alla vita ecclesiale ed alle sue esigenze, ma che si saldò, per contemporaneità, sintonia nell’ambito della “rivoluzione” e dell’antiautoritarismo, sensibilità personali, con i fermenti di una parte del mondo cattolico, italiano e non solo.

Molti studiosi sembrano concordi sull’individuare, tra le caratteristiche prima della “contestazione” e poi del “dissenso” cattolico in Italia: la sensibilità giovanile verso i movimenti di liberazione del cosiddetto “terzo mondo”, come la guerra in Viet Nam e le guerriglie di sinistra in America Latina; la scelta di passare a un impegno politico diretto, mentre i gruppi che poi saranno all’origine dei “movimenti ecclesiali” si sganciarono dalla lotta politica; l’assunzione, variamente modulata, di categorie di pensiero di origine marxista per comprendere e vivere efficacemente la lotta politica scelta come impegno dei cattolici “nell’ora attuale”; infine la richiesta di riforme, anzi di una “rivoluzione” interna alla stessa Chiesa: “La presenza dei cristiani nella rivoluzione suppone ed esige la presenza della rivoluzione nella Chiesa, nei suoi modelli di vita, nelle sue abitudini di pensiero” (P. Ricoeur, M.-D. Chenu e altri teologi nel 1969, cit. in Martina 1977, 160).

Si potrebbero distinguere nel processo che denominiamo “dissenso cattolico” in Italia alcune fasi. Una prima fase, più direttamente di contestazione, vide una serie di eventi simbolici: nel 1967, l’occupazione studentesca dell’Università Cattolica di Milano; l’anno successivo, il “controquaresimale” degli studenti davanti alla cattedrale di Trento, l’occupazione della cattedrale di Parma, la lettera di solidarietà a queste vicende del parroco del quartiere fiorentino dell’Isolotto, don Enzo Mazzi, e la sua rimozione da parte dell’arcivescovo E. Florit. Una seconda fase è quella della formazione dei gruppi o comunità di base, quasi “antiparrocchie” e incarnazioni di una Chiesa del popolo. Una terza fase, tra il 1971 e il 1974, vide il nascere di alcuni movimenti propriamente politici come i “cristiani per il socialismo”, il “movimento 7 novembre” e la “scelta socialista” delle ACLI, con un impegno durante il referendum promosso dalla DC contro la “legge Fortuna” che per la prima volta in Italia autorizzava il divorzio.

Una delle differenze tra i “movimenti ecclesiali” rimasti poi in seno alla comunità cattolica e queste aggregazioni, è che i movimenti ecclesiali non politici riuscirono ad imprimere una durata alla propria aggregazione, mentre si può affermare che i cattolici del dissenso appartengano sostanzialmente a una generazione. Molti degli esponenti e dei militanti di quegli anni hanno vissuto drammatiche separazioni rispetto alla compagine ecclesiale e alla fede, altri al contrario hanno ripudiato la scelta marxista spesso assumendo posizioni polarmente opposte. Altri ancora hanno successivamente fatto riferimento a iniziative e ambiti che in vario modo interpretavano i loro antichi ideali, come ad esempio la piattaforma proveniente dai paesi tedeschi e denominata “Noi siamo Chiesa”.

Via via che il tempo pone la necessaria distanza critica rispetto al post-concilio in Italia, emergono punti di certezza, come ad esempio la rilevanza delle riviste impegnate del mondo cattolico, e questioni aperte, come il rapporto di questi gruppi con la realtà conciliare, lo spessore laicale o clericale della leadership, la realtà elitistica o di massa del fenomeno, la capacità della Chiesa italiana di recepire le istanze più autentiche della contestazione, le motivazioni dei singoli partecipanti e l’efficacia nell’incidere nel tessuto sociale, culturale e politico.

Fonti e Bibl. essenziale

1968: fra utopia e Vangelo. Contestazione e mondo cattolico, a cura di A. Giovagnoli, Roma (AVE) 2000; S. Burgalassi, Dissenso cattolico e comunità di base, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia (1860-1980), I/2, Torino (Marietti) 1981, 278-284; M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia (1945-2000), Bologna (EDB) 2001; Fr. Malgeri, La Sinistra Cristiana (1937-1945), Brescia (Morcelliana) 1982; G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni [1946-1976], Roma (Studium) 1977; D. Saresella, Dal concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968), Brescia (Morcelliana) 2005.


LEMMARIO




Cattolici di rito orientale - vol. II


Autore: Giovanni Coco

Italo-greci. L’avvento del Regno d’Italia segnò il declino delle residue e languenti comunità italo-greche. Mentre a Livorno ebbe inizio un processo di definitiva latinizzazione, gli ortodossi di Napoli, avvalendosi delle nuove opportunità offerte dall’estensione dello Statuto Albertino, si appropriarono della chiesa italo-greca dei SS. Pietro e Paolo, spodestandone il parroco (1865); ne seguì una lunga vertenza ma, nonostante tutti gli sforzi, la chiesa da quel momento divenne sede della parrocchia greco-ortodossa. Nel tentativo di emulare quanto accaduto citra Pharum, anche gli ortodossi di Messina, approfittando delle leggi eversive che avevano posto fine all’asse ecclesiastico dell’Archimandritato del SS.mo Salvatore (1866), che tra l’altro era sede vacante dal 1839, impugnarono il diritto di proprietà della chiesa di S. Maria del Grafeo, ma la comunità italo-greca, più saldamente costituita, riuscì ad opporsi con successo; inoltre, per consolidare la posizione della parrocchia cattolica, nel 1883 Leone XIII unì aeque principaliter la secolare istituzione dell’Archimandritato all’Archidiocesi di Messina. Tuttavia questi sforzi vennero vanificati dal disastroso terremoto del 1908 che distrusse la chiesa parrocchiale, sotto le cui macerie perì il parroco Daniele Stassi. La ricostruzione trascurò gli italo-greci che, rimasti privi di luogo di culto, si dispersero nella diocesi di rito latino; solo nel 1997 l’arcivescovo di Messina, Ignazio Cannavò, ha provveduto a ripristinare la parrocchia italo-greca di S. Maria del Grafeo, dotandola nel 1999 di un nuovo parroco (Antonio Cucinotta), ma per le celebrazioni la comunità si appoggia tuttora alla parrocchia latina di Santa Maria dei Miracoli.

Un moto in controtendenza si è rilevato solo a Roma dove, presso la chiesa di S. Atanasio del Pontificio Collegio Greco, a partire dagli anni ’20 si è costituita spontaneamente una piccola comunità di fedeli, di origine levantina o italiani simpatizzanti del rito bizantino che, pur non costituendo un’entità parrocchiale, assiste regolarmente alla Divina Liturgia domenicale in lingua greca.

Il monachesimo basiliano. L’impatto con la nuova realtà politica e sociale fu ancora più devastante per il monachesimo basiliano. La Congregazione Basiliana d’Italia, che nel 1861 risultava composta solo dai monasteri siciliani e da quello di Grottaferrata (Roma), aveva cominciato una difficile e tormentata riforma interna, che avrebbe dovuto finalmente garantire ordine e stabilità alle residue comunità monastiche, ma l’estensione delle leggi eversive a tutto il territorio nazionale (1866) portò alla soppressione dei monasteri di Sicilia, riducendo l’intera Congregazione al solo cenobio criptense; davanti a tale prospettiva i monaci siciliani preferirono la via dell’incardinazione nelle diocesi dell’isola, e i pur lodevoli tentativi di costituire nuove comunità locali fallirono per il mancato sostegno da parte di Roma, decretando in tal modo la fine del monachesimo italo-greco di Sicilia. Nel contempo, nella superstite Badia di Grottaferrata, dichiarata dallo Stato Italiano “monumento nazionale” e scampata alla soppressione grazie alla nomina di alcuni monaci a suoi custodi (1874), già dal 1870 era cominciata anche un’ardua riforma rituale che avrebbe dovuto riportare i basiliani all’osservanza del rito greco puro (costantinopolitano); contestata dall’abate Nicola Contieri e da larga parte dei monaci che – come i confratelli siciliani – erano diffidenti verso quelle novità, la riforma fu voluta da Pio IX e ancora più fortemente da Leone XIII, che intendeva trasformare Grottaferrata in un centro di irradiazione dell’unionismo cattolico in Oriente. Allontanato l’ostile Contieri (1877), venne nominato in sua vece l’erudito Giuseppe Cozza-Luzzi (1879), deciso fautore del rito greco puro, reintrodotto ufficialmente nel 1881, ma tale successo fu vanificato dalle forti contestazioni dei confratelli, che nel capitolo del 1882 gli preferirono come successore Arsenio Pellegrini, partigiano dei refrattari. Nella sua nuova posizione l’abate Pellegrini si prodigò con determinazione affinché la comunità monastica accettasse la contestata riforma, che venne definitivamente accolta negli anni del suo lungo ed energico governo, un successo che gli valse il personale favore di Leone XIII. Tuttavia, il ripristino del rito greco puro non portò automaticamente il cenobio criptense ad assumere quel ruolo di punta nell’unionismo leonino, sia per la mancanza di nuove vocazioni, sia per la marginalità del cenobio, di storica grandezza ma di fatto isolato nell’orbe cattolico. Per ovviare a tali difficoltà i monaci si rivolsero alle comunità italo-albanesi dell’Italia meridionale, da dove giunsero nuove vocazioni e nuova linfa per la vita dell’ordine. Nel 1920 i basiliani riaprirono il monastero siciliano di Mezzojuso, e fondarono i nuovi cenobi di San Basile in Calabria (1932) e di Piana degli Albanesi in Sicilia (1949); inoltre, durante il governo dell’abate Isidoro Croce (1930-1960), la Badia di Grottaferrata fu elevata al rango di abbatia nullius (1937), e una missione basiliana venne aperta in Albania (1939-1946). Tuttavia, a partire dagli anni ’70-’80, si sarebbe segnalato un nuovo periodo di stagnazione, conseguenza della mancanza vocazioni sia dalle comunità italo-albanesi che dal retroterra “italiano, che avrebbe prodotto lo spopolamento attuale degli altri tre monasteri periferici.

Gli italo-albanesi. Le conseguenze del Risorgimento si fecero percepire anche nel risveglio della coscienza «nazionale» delle comunità italo-albanesi di Calabria e Sicilia, cattoliche di rito bizantino, da secoli identificate equivocamente come «greche»; questo sentimento ben presto rinforzò l’antica richiesta di avere finalmente diocesi e vescovi ordinari del proprio rito per non sottostare più alla giurisdizione dei locali vescovi “latini”, ponendo fine ad una forzata e subalterna convivenza che, in ossequio alla preastantia romani ritus, era stata spesso costellata da equivoci ed incomprensioni. Questo sentimento, cresciuto negli anni dell’unionismo leonino, si fece sentire più forte nei primi decenni del ‘900 ed ottenne il suo primo tangibile risultato nel 1919, allorquando Benedetto XV istituì l’eparchia greco-albanese di Lungro in Calabria, a cui sarebbero state aggregate le reisidue parrocchie greche di Lecce e Villa Badessa (Pescara), e nel contempo veniva nominato il suo primo ordinario, mons. Giovanni Mele. La positiva esperienza dei confratelli di Lungro indusse i siculo-albanesi ad insistere con maggiore forza nel perseguire il medesimo risultato, al quale tuttavia si opponeva la diversa distribuzione territoriale delle parrocchie: mentre infatti in Calabria i paesi e le parrocchie albanesi erano compatti e reciprocamente confinanti, in Sicilia le parrocchie greche erano disperse su un territorio più vasto, erano frammiste a quelle latine e, in più di un caso, nello stesso luogo coesistevano greci e latini. Tali ostacoli vennero superati per diretto intervento di Pio XI e del cardinale Eugène Tisserant, segretario della Congregazione Orientale, che vollero trasformare il caso dei siculo-albanesi in un manifesto programmatico dell’unionismo cattolico: nel 1937 venne eretta l’eparchia di Piana dei Greci (poi detta degli Albanesi), con co-cattedrale a Palermo (S. Nicolò dei Greci alla Maratorna), al cui ordinario greco sarebbero state sottomesse sia le parrocchie greche che quelle latine di Piana, S. Cristina Gela, Mezzojuso, Contessa Entellina e Palazzo Adriano. Inoltre, per ovviare alle proteste dei fedeli latini, come ordinario pro tempore fu nominato l’arcivescovo di Palermo, a cui venne affiancato un ausiliare di rito greco nella persona di papás Giuseppe Perniciaro, creato vescovo titolare d’Arbano, che solo nel 1967 avrebbe assunto la guida diretta dell’eparchia. Da quel momento il vescovo greco sarebbe stato l’unico ordinario per i due riti, perpetuando sotto diversa luce una convivenza che non ha cancellato diversi aspetti del suo antico retaggio.

Altre comunità. Oltre alla storica presenza armena a Venezia testimoniata dal cenobio mechitarista di San Lazzaro (1717), la cui preziosa funzione continua al presente, la prima significativa comunità cattolica “allogena” comparve sul territorio nazionale negli anni tra le due guerre, come conseguenza del moto di emigrazione dovuto alla Rivoluzione russa. Costituitasi a Roma e formata in gran parte da elementi convertitisi a condizione di mantenere il rito bizantino, la comunità russo-cattolica ebbe il suo baricentro nella chiesa di Sant’Antonio Abate all’Esquilino (1928) che, ricostruita nel 1932, sarebbe stata anche la chiesa del Pontificio Collegio Russicum, retto dai padri gesuiti di rito slavo. Più avanti fu la presenza a Roma del cardinale ucraino Josif Slipyj (1963), esule dopo anni di dura prigionia nei Gulag sovietici, a stimolare il costituirsi di un piccolo nucleo greco-cattolico con sede nella cattedrale di Santa Sofia alla Boccea, che negli anni ’90 sarebbe divenuto un centro di attrazione per il sempre crescente flusso dell’immigrazione ucraina.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Coco, Pio XI e l’Unità dei Cristiani: le Chiese d’Oriente in «La sollecitudine ecclesiale di Pio XI», a cura di C. Semeraro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, 260-312; D. Como, L’Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 1981; G.M. Croce, La Badia greca di Grottaferrata e la rivista “Roma e l’Oriente”: Cattolicesimo e Ortodossia fra Unionismo ed Ecumenismo, 1799-1923, II voll., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990; E. Fortino, La Chiesa bizantina albanese in Calabria: tensioni e comunione, Bios, Cosenza 1994; E. Fortino, S. Atanasio: la liturgia greca a Roma, Roma 1970; Ines Murzaku, Returning Home to Rome. The Basilian Monks of Grottaferrata in Albania, Monastero di Grottaferrata, Grottaferrata 2009; J. Pelikan, Confessor between East & West: a portrait of Ukrainian Cardinal Josyf Slipyj, William B. Eerdmans, Grand Rapids 1990; C. Simon, Russicum: pioneers and witnesses of the struggle for Christian Unity in Eastern Europe, II voll., Opere religiose russe, Roma, 2001-2002.


LEMMARIO




Cavallotto Stefano


Dottore in teologia e laureato in Filosofia, è stato borsista dell’Institut für Europäische Geschichte di Mainz e dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna. Dal 1987 al 2012 ha insegnato Storia del Cristianesimo e delle chiese presso l’Università di Roma Tor Vergata. Dal febbraio 2000 è membro del Collegio dei Docenti per il dottorato di ricerca in “Storia del cristianesimo e delle chiese” ed ha fatto parte della Commissione giudicatrice nei concorsi per l’ammissione a questo dottorato. Dal 2010 è membro del Consiglio del “Centro Studi e Documentazione su Religioni e Istituzioni Politiche nella società post-secolare” dell’Università di “Tor Vergata”. Dal 2013 è professore incaricato di Storia della Chiesa presso l’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense.

I campi della sua ricerca riguardano sostanzialmente tre ambiti cronologici.

  1. Umanesimo-Riforma-Controriforma

Ha rivolto i suoi interessi scientifici ad Erasmo, e precisamente all’Elogio della Follia (in vista dell’ed. italiana dello scritto presso le Ed. Paoline), per studiarne la portata riformatrice in relazione allo stato della società e della chiesa del sec. XVI. Di Erasmo ha studiato anche la critica al tradizionale culto dei santi e dei testi agiografici tardo-medievali. Curando l’edizione italiana di vari scritti pastorali e devozionali di Lutero, si è interessato ad aspetti poco studiati della personalità del riformatore, quali la pastoralità e la spiritualità quotidiana; così come nel pubblicare in traduzione italiana i sermoni universitari di Filippo Melantone, ha approfondito l’attività “pastorale” di predicatore del Praeceptor Germaniae, e puntualizzato gli elementi fondamentali del suo pensiero ecclesiologico. Un momento centrale della Riforma, a cui ha dedicato particolare attenzione, è la Dieta di Augusta del 1530, approfondendo – in vista della pubblicazione presso la Claudiana della traduzione italiana della Vermahnung an die Geistlichen – il contributo critico di Lutero alla stesura del testo confessionale. Ha condotto e conduce inoltre ricerche su tematiche agiografiche, indagando il tema del culto dei santi e dell’agiografia nel protestantesimo del primo ‘500 (indagine confluita nel volume pubblicato da Viella Santi nella Riforma. Da Erasmo a Lutero) e il sorgere dei martirologi protestanti nella seconda metà del XVI finalizzati alla rifondazione dell’identità politica e culturale degli Stati europei protestanti. Ai numerosi protagonisti delle vicende del Cinquecento di ambito cattolico e protestante ha dedicato indagini specifiche per la redazione di numerosi voci enciclopediche come quelle stilate per il Lexikon. Dizionario dei teologi (ed. Piemme 1998) e per il Dizionario dell’età delle riforme 1492-1622 (ed. Città Nuova 2006), che ha diretto assieme al prof. Mezzadri.

  1. Epoca dei Lumi

Ha analizzato altresì i conflitti di religione, le correnti spirituali del Seicento francesce con speciale riferimento alle fondazioni di Vincenzo Depaul (Dame di carità, Figlie della carità, Lazzaristi) e in maniera più estesa il rapporto religione/rivelazione naturale-religione/rivelazione soprannaturale nell’“Era dei Lumi”, collaborando ad una Storia della teologia (ed. Dehoniane, Roma 1996-98, 3 voll.).

  1. Secolo XX

Per il periodo più contemporaneo ha studiato specialmente il Concilio Vaticano II, a cui ha dedicato il volume: La “nuova Pentecoste” di papa Giovanni. Il concilio Vaticano II: preparazione primo periodo (1959-1963), ed i problemi della sua ricezione nella Chiesa cattolica con particolare riferimento alle posizioni tradizionaliste e allo scisma lefebvriano.





Cazzulani Guglielmo


 





Censura ecclesiastica - vol. I


Autore: Gigliola Fragnito

Fin dalle sue origini la Chiesa esercitò forme di controllo sull’ortodossia dottrinale attraverso le deliberazioni dei concili. Ma tra Due e Trecento la vigilanza sulla produzione libraria divenne più rigorosa per il moltiplicarsi di botteghe di copiatura e l’ampliarsi del pubblico dei lettori ai docenti, studenti, chierici e regolari in seguito alla nascita delle università e degli ordini mendicanti insediatisi entrambi nei centri urbani. Sorse allora un problema che avrebbe attraversato gran parte dell’età moderna: a quale autorità spettava definire l’ortodossia? Ai concili, ai vescovi o alle università, come ad esempio pretendeva la facoltà di teologia di Parigi? Problema non irrilevante destinato ad assumere nuove dimensioni sia con l’invenzione a metà ’400 della stampa e il suo straordinario sviluppo, sia con la diffusione nei primi decenni del ’500 della Riforma protestante. La necessità di verificare l’ortodossia dei testi prima della stampa fu all’origine di due bolle papali: la Inter multiplices di Innocenzo VIII (1487) che introduceva la censura preventiva affidandola ai vescovi e, a Roma e nel suo distretto, al Maestro del S. Palazzo, e la Inter sollicitudines di Leone X (1515) che riservava a vescovi e inquisitori la concessione dell’imprimatur. Era questa la normativa in vigore, anche se largamente disattesa, quando penetrarono in Italia le dottrine luterane. Impreparata a contrastare la diffusione di opere eterodosse e turbata da profondi dissidi, Roma tardò a dotarsi di istituzioni e strumenti nuovi: non a caso prime a pubblicare in Europa e in alcuni Stati italiani elenchi di opere vietate furono le autorità civili, le università e le inquisizioni nazionali. Solo dopo la creazione della Congregazione romana dell’Inquisizione (1542) alla persecuzione di chi professava dottrine eterodosse si associò la caccia agli scritti che le divulgavano.

Sebbene la bolla Licet ab initio non conferisse alla Congregazione competenze in materia di censura, fin dal 1543 questa si arrogò il controllo sulla stampa, emanando un editto che, estromettendo i vescovi, incaricava propri delegati di ispezionare biblioteche, botteghe di tipografi e librai, case private, conventi e monasteri e di sequestrare e bruciare i libri proibiti rinvenuti. L’esecuzione di tali direttive trovava, però, un limite invalicabile nella mancanza di liste ufficiali di interdizioni, la cui predisposizione venne avviata alla fine degli anni ’40. Affidata dapprima al Maestro del S. Palazzo, poi ai generali di alcuni Ordini, venne trasferita da Paolo IV all’Inquisizione che promulgò il primo indice romano il 30 dicembre 1558. Da questo momento la storia della censura ecclesiastica è intimamente legata a quella degli indici. Il primo catalogo si rivelò di difficile applicazione: severità e approssimazione delle condanne; esclusione dei vescovi dall’esecuzione; ostracismo delle autorità civili; rigore delle pene comminate ai trasgressori, colpiti dalla scomunica prevista dalla In coena Domini solo per chi avesse letto o posseduto scienter libri di eretici e, quindi, costretti a ottenere l’assoluzione nei due fori, costituirono ostacoli insormontabili. Alla morte di Paolo IV (agosto 1559) Pio IV affidò al concilio, allora riunito a Trento, la redazione di un nuovo indice. Stilato da una commissione di vescovi e promulgato con la bolla Dominici gregis (24 marzo 1564), rispetto al primo – non incorporato nel nuovo – l’indice tridentino manteneva la divisione in tre classi (autori di cui veniva condannata l’opera omnia, autori di cui solo alcuni scritti erano vietati, e scritti anonimi) e introduceva 10 regole relative ad alcune categorie di opere, ma presentava molti elementi di moderazione: cassava o attenuava molte condanne; consentiva l’espurgazione dei testi sospesi; restituiva ampie competenze ai vescovi e distingueva tra lettori e detentori di opere eretiche, sottoposti alle sanzioni della In coena Domini, e lettori e detentori di opere proibite non eretiche, la cui assoluzione spettava al vescovo, sottoponendo alla sua giurisdizione la maggior parte dei colpevoli.

Con l’elezione di Pio V (1566), artefice del primo indice, la questione della censura ecclesiastica si intrecciò con quella cruciale dei poteri ai vertici della Chiesa. Il progetto di revisione dell’indice tridentino, infatti, non mirava solo al ripristino dei divieti del 1558, ma anche e soprattutto alla riaffermazione della preminenza dell’Inquisizione sul Concilio in materia di definizione dell’ortodossia. Dopo alcuni interventi che svuotavano la legislazione conciliare, Pio V nominò una commissione cardinalizia per la revisione dell’indice tridentino, eretta da Gregorio XIII con la bolla Ut pestiferarum opinionum in Congregazione dell’Indice (13 settembre 1572). Destinata a rimanere in vita fino al 1917, essa si affiancava, senza una ridefinizione delle rispettive competenze, all’Inquisizione e al Maestro del S. Palazzo. Composta da un numero variabile di cardinali, dal Maestro del S. Palazzo, da un segretario e dai procuratori degli ordini mendicanti, che ne erano tutti membri ex officio, nonché da un numero variabile di consultori, la Congregazione doveva preparare un nuovo indice e emendare le molte opere sospese donec corrigantur in vista della pubblicazione di un index expurgatorius. Non aveva però poteri di intervento sul territorio, né era legittimata a emanare divieti. Ciò consentì al Sant’Ufficio di mantenere un monopolio pressoché incontrastato sulla circolazione libraria e al Maestro del S. Palazzo di estendere la propria giurisdizione oltre i propri confini: dai loro uffici vennero inoltrate agli inquisitori locali e ai vescovi liste sempre più consistenti e confuse di proibizioni, spesso contrastanti con l’indice tridentino ancora formalmente in vigore, ma avallate, quantomeno nei primi anni di esistenza, dalla Congregazione dell’Indice. Questa pluralità di organi deputati alla censura era però destinata ad alimentare un alto tasso di conflittualità che ebbe riflessi sul terzo indice: dopo varie stesure solo il 27 marzo 1596 Clemente VIII poté promulgarlo e inviarlo a tutta l’Europa cattolica, ma poco dopo l’Inquisizione ne impose la sospensione. Erano venuti al pettine tutti i nodi che si erano aggrovigliati nei 25 anni di lavori preparatori. Orientamenti divergenti in seno alla Congregazione stessa, pressioni esterne dei papi dettate dalla loro provenienza o meno dalle file dell’Inquisizione, interferenze di questa sulle scelte dell’Indice avevano rallentato i lavori. I contrasti riguardavano non soltanto cosa si dovesse condannare, ma anche chi dovesse condannare e chi dovesse applicare la normativa, se i vescovi o gli inquisitori. La sospensione dell’indice, con la pretesa dell’Inquisizione di inserirvi i divieti del 1558 e di imporre la clausola secondo cui i propri divieti passati e futuri non potevano essere abrogati dai pontefici, evidenziava la durezza dello scontro. La clausola, che avrebbe inferto un grave colpo alla plenitudo potestatis sancendo la totale autonomia del tribunale in materia di tutela e definizione dell’ortodossia, non passò, ma il papa dovette cedere sulla proibizione di alcuni scritti, tra cui le traduzioni della bibbia nelle lingue materne.

L’indice clementino riproduceva quello tridentino, aggiungendo in coda a ogni lettera dell’alfabeto le successive proibizioni e mantenendo la suddivisione per classi, e introduceva nuove regole. Rivalutava i poteri dei vescovi restituendo loro un ruolo primario nell’esecuzione dell’indice, nella censura preventiva e in quella espurgatoria, affidate a congregazioni “locali” dell’Indice da loro presiedute. La bolla Sacrosanctum catholicae fidei di Clemente VIII affrancava la censura dal Sant’Ufficio, dando incarico all’Indice di sovrintendere all’esecuzione del terzo catalogo, che fu condotta con tempi lunghi, ma con inusitata efficacia, nonostante intralci degli inquisitori che non cessarono con la fine delle operazioni. Il Sant’Ufficio infatti continuò a intervenire sui suoi ministri perché sequestrassero opere non ancora formalmente proibite e ad avallare Syllabi locali che spesso ripristinavano proibizioni del 1558 e interpretavano arbitrariamente le regole. Tali iniziative vennero bloccate nel 1621 dall’Indice, che nel 1613 era riuscita a ottenere da Paolo V l’autorizzazione a sottoscrivere e pubblicare decreti che avrebbero riunito le proprie condanne e quelle pronunciate dall’Inquisizione e dal Maestro del S. Palazzo. Se questa parvenza di razionalizzazione contribuì ad attenuare le tensioni, vi concorse anche l’appannato prestigio dell’Indice a seguito del fallimento dell’attività espurgatoria, sintetizzabile nel ritiro del primo e unico tomo dell’index expurgatorius apparso nel 1607 ad opera di G.M. Guanzelli detto Brisighella. Al termine dell’esecuzione del clementino, la Congregazione tornò, quindi, a occuparsi di aggiornamenti e di stesura di nuovi indici, di espurgazione di testi sospesi e di esame di opere sospette, mantenendo esilissimi rapporti con la periferia, ormai rigorosamente controllata dal Sant’Ufficio. Non stupisce che il card. P.C. Sfondrati suo prefetto decidesse di trasferirsi in diocesi, avendogli «la esperienza […] mostrato che si fa tanto poco in questa Congregatione dell’Indice per varii rispetti […], che mi pare al fine che né questa, né altra Congregatione mi habbia da levare, per quanto si può, dalla residenza» (lettera a Bellarmino, 24 aprile 1615, cit. da P. Godman, 174). Alla promulgazione di ben tre indici in meno di 40 anni, seguì un lungo periodo di ordinaria amministrazione, in cui il problema più controverso riguardò la stampa di aggiornamenti che rendessero più chiara la percezione dei titoli proibiti. In tale attività si distinse il segretario F. Capiferro Maddaleni con compilazioni non ufficiali del 1619, 1624, 1625 e 1632.

Dagli anni ’50 si avvertì l’esigenza di un nuovo indice, ma i tentativi dei segretari di dargli una nuova struttura e di modificare le regole, incontrarono le resistenze dei cardinali. Promulgato solo il 5 marzo 1664 con la bolla Speculatores di Alessandro VII e rivelatosi strumento concepito più per gli addetti ai lavori che per il comune lettore, ne venne pubblicata nel 1665 una nuova versione più sintetica e funzionale, che eliminava le classi sostituendole con l’elenco alfabetico per nome e cognome dell’autore e per prima parola del titolo dell’opera o con l’indicazione opera omnia, un impianto che verrà mantenuto negli aggiornamenti e negli indici successivi. La sostanziale inefficacia della censura, la confusione nata da proibizioni della stessa opera rese note in tempi diversi dalle due Congregazioni, ma anche la volontà di rafforzare «la riputatione di quella poco accreditata Congregatione dell’Indice» (lettera a A.M. Querini, dicembre 1740, cit. da E. Rebellato, 201) indussero Benedetto XIV a emanare la costituzione Sollicita ac provida (9 luglio 1753), che segnò una svolta nella storia della censura. Stampata in apertura dell’indice del 1758, essa ridefinì le procedure sostituendo alla dura repressione di autori cattolici la pratica dell’autocensura; rese più ponderato l’esame di un’opera prima della condanna e più accorta la scelta degli esaminatori, e limitò l’intervento del Sant’Ufficio alle materie «gravioris momenti». Queste norme “garantiste”, peraltro spesso violate come testimonieranno le condanne di Rosmini e Gioberti, rimarranno in vigore fino alla Officiorum ac munerum di Leone XIII (1897) che, non condannando più la libertà di stampa ma solo le sue degenerazioni e affidando il controllo della stampa e della lettura ai vescovi, preludeva allo scioglimento della Congregazione dell’Indice.

Nonostante alcune scelte moderate di Benedetto XIV (permesso di lettura di versioni bibliche nelle lingue materne approvate da Roma, omissione dei divieti dei libri copernicani, sfoltimento di molte vecchie proscrizioni), l’indice colpì gran parte della produzione illuministica, non riuscendo a impedirne la diffusione né a bloccare l’accelerazione della politica giurisdizionalista degli Stati della penisola, avviata già nel Seicento, concretizzatasi nella statalizzazione della censura e nel progressivo smantellamento dei tribunali dell’Inquisizione. Priva del “braccio secolare” al di fuori dello Stato pontificio, la Chiesa ripiegò sui vescovi sollecitati a dissuadere i fedeli dalla «perniciosa lettura» e affidò a brevi ed encicliche papali e ad aggiornamenti dell’indice del 1758 interventi sempre più intolleranti dopo l’ondata rivoluzionaria e il decennio napoleonico. Se durante la Restaurazione si ristabilirono la tradizionale alleanza tra trono e altare e la collaborazione in materia di censura, nel 1848 l’art. 28 dello statuto albertino (esteso nel 1861 a tutto il Regno), prevedendo la libertà di stampa con l’eccezione di bibbie, catechismi, libri liturgici e di preghiere, sottoposti all’imprimatur del vescovo, pose le premesse per ulteriori irrigidimenti. Con articoli dai toni apocalittici contro la dilagante secolarizzazione, il pensiero liberale, la libertà di culto e la libertà di stampa, causa di disgregazione sociale e morale, la «Civiltà Cattolica», fondata dai gesuiti nel 1850, ispirò molte proibizioni, ma suscitò anche aspri conflitti in seno all’Indice tra moderati e intransigenti, sostenuti questi ultimi dal Sant’Ufficio e destinati, come in passato, a prevalere. Si susseguirono aggiornamenti corposi dell’indice del 1758 sotto Pio VI (1787), Pio VII (1819), Gregorio XVI (1835 e 1841), Pio IX (1852 e 1879) e Leone XIII (1881 e 1887) il quale promulgò nel 1900 un nuovo indice. Accerchiati dagli attacchi di una incontenibile produzione editoriale, minacciati dalla perdita dello stato temporale, sempre più consapevoli dell’inefficacia degli indici, ma decisi a ribadire che la Chiesa, in quanto custode del “depositum fidei” e dell’ordine morale, era l’unica autorità legittimata al controllo della cultura, i papi ricorsero spesso a encicliche che condannavano i principi della libertà di coscienza e di opinione, l’anticlericalismo, l’orientamento laicista dei governi postunitari, tra le quali la celebre Quanta cura con l’annesso Sillabo degli errori di Pio IX (8 dicembre 1864), difesa del primato dell’ordine sovrannaturale e dell’autorità pontificia e denuncia senza appello della cultura moderna.

Nati come risposta alla Riforma protestante e finalizzati allo sradicamento di ogni forma di dissenso teologico, gli organi censori e gli indici dei libri proibiti trasformarono nel giro di pochi decenni la censura da attività episodica in struttura stabile che – debellata l’eresia teologica – invase ogni campo del sapere e della morale e cercò di penetrare nell’intimo delle coscienze e delle menti, sottomettendole a stringenti direttive culturali, religiose e ideologiche. A organismo di indubbia modernità fu affidato un progetto, destinato a trovare applicazione praticamente solo in Italia, che puntò a controllare la produzione libraria italiana ed europea e a vietare espressamente opere “nocive” o intere categorie di scritti attraverso regole dalla formulazione così generica da prestarsi a ogni arbitrio. Con un costante aggiornamento dei divieti alla temperie culturale, alle correnti dissidenti interne alla Chiesa, ai mutamenti politici, sociali e comportamentali, e con un adeguamento alla mutevole fisionomia dei lettori la censura si abbatté sui settori ritenuti volta a volta più dannosi. La tutela di un ordine immutabile portò a un ampliamento senza confini degli ambiti di intervento: la difesa dagli attacchi contro l’ortodossia della fede e la morale si estese a quelli contro il potere spirituale e temporale dei papi, le istituzioni ecclesiastiche, il clero secolare e regolare, i suoi privilegi e le sue immunità, e alle pretese fondamenta storico-giuridiche su cui essi poggiavano. Attenuatasi a fine ‘500 la propaganda protestante (destinata a risorgere nell’’800 grazie alle società bibliche), oggetto di condanna furono i testi a sostegno dell’autonomia della politica dalla morale, quelli contro le interferenze della Chiesa nella sfera pubblica, i classici del giurisdizionalismo settecentesco, le opere ispirate a principi liberali e democratici o che contestavano la difesa a oltranza del potere temporale. Sotto la scure della censura caddero anche le opere letterarie per i toni anticlericali e i contenuti immorali; quelle scientifiche e filosofiche perché scardinavano il sistema aristotelico-scolastico; quelle storiche perché non subordinavano la conoscenza del passato alle esigenze apologetiche della Chiesa. Sul piano teologico, oltre ad opere di critica testuale applicata ai testi sacri, a essere investita fu la ricca produzione originata dalle controversie intorno al rapporto tra grazia e libero arbitrio, nelle sue varie articolazioni, e dalle correnti mistiche. Ma fu l’emergere tra gli intellettuali europei dalla metà del ‘600 dei principi di autonomia della ragione e di separazione tra religione, da un lato, morale, scienza e politica dall’altro e il loro sviluppo e la loro divulgazione a opera dei philosophes nel ‘700 ad allarmare come mai in precedenza i censori. Rivendicazione dei diritti della ragione umana, della libertà di coscienza e di espressione, negazione sul piano politico della teoria dell’origine divina del potere e sul piano religioso della rivelazione in nome della tolleranza, lotta alla superstizione e all’oscurantismo, attacchi alla religione stessa capaci di favorire incredulità e ateismo e di promuovere una morale sociale laica, difesa dei diritti dello Stato contro le ingerenze della Chiesa, rappresentarono una minaccia dirompente al suo tradizionale sistema di valori, aggravata dalla dilagante stampa periodica, accessibile a un più esteso pubblico di lettori, che vi attingevano le esecrate idee illuministe, massoniche, liberali, democratiche, socialiste e comuniste.

Se queste interdizioni, indirizzate prevalentemente ma non solo ai ceti colti, colpivano coscienze sempre meno sensibili alle sanzioni ecclesiastiche, altre incisero in maniera assai più duratura su donne e uomini di tutti gli strati sociali avvicinatisi alla parola scritta grazie alla stampa e al crescente uso delle lingue vernacolari. Questo mondo ai confini tra oralità e scrittura, digiuno di latino, si vide precluso l’accesso a due settori di largo consumo: le traduzioni della bibbia e soprattutto i libri devozionali di contenuto biblico in volgare (Ufficioli della Madonna, Vite di Cristo e della Madonna, Meditationi della Passione, raccolte dei salmi, storie sacre, tragedie, ecc.) e gran parte della letteratura italiana cui si aggiunse nel Settecento quella europea, che ricadevano sotto le regole generali degli indici. I cosiddetti “semplici” vennero privati di testi con i quali dal tardo medioevo avevano avuto un’intensa familiarità e sui quali avevano spesso acquisito in casa e a scuola i primi rudimenti della lettura e la prima formazione religiosa, sostituiti dall’apprendimento mnemonico del catechismo e dalla recita delle preghiere in latino.

Gli effetti della censura ecclesiastica non possono, quindi, essere misurati sul numero di titoli espressamente messi all’indice e sulla distruzione di un enorme patrimonio librario nei periodici roghi. Vanno valutati anche tenendo conto dell’incisività delle regole; dell’autocensura cui gli autori dovettero sottoporsi; delle mutilazioni e degli stravolgimenti (spesso non dichiarati) di un’infinità di opere emendate; del riorientamento di interi settori della produzione libraria in funzione di una sempre più dilatata nozione di eresia; del numero rilevante di scritti sottratti alla circolazione, ma non inseriti negli indici per motivi politici. Né d’altro canto possono essere ignorati gli effetti complessivi e di lunga durata della tenace azione condotta dalla Chiesa per scoraggiare la lettura non solo dei libri vietati, ma di qualsiasi libro, associandola intimamente all’idea di peccato e di reato, e le conseguenze che essa ebbe nel nostro paese ostacolandone la crescita intellettuale e rallentando i processi di alfabetizzazione e di unificazione linguistica.

Fonti e Bibl. essenziale

F.H. Reusch, Die Indices librorum prohibitorum des sechzehnten Jahrhunderts, Tübingen, Letterarischer Verein in Stuttgart, 1885; J. Hilgers, Der Index der verbotenen Bücher in seinem neuen Fassung dargelegt und rechtlich-historisch gewürdigt, Freiburg, Herderische Verlagshandlung, 1904; Index des livres interdits, a cura di J.M. De Bujanda, Sherbrooke-Genève, Centre d’Études de la Renaissance-Librairie Droz, 11 voll., 1984-2002; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna, il Mulino, 1997; Church, Censorship and Culture in Early Modern Italy, G. Fragnito (ed.),  Cambridge, Cambridge University Press, 2001; P. Godman, The Saint as Censor. Robert Bellarmine between Inquisition and Index, Leiden, Brill, 2000; M.I. Palazzolo, I libri il trono l’altare. La censura nell’Italia della Restaurazione, Milano, Franco Angeli, 2003; G. Fragnito, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, il Mulino, 2005; Ead., Un archivio conteso: le “carte” dell’Indice tra Congregazione e Maestro del Sacro Palazzo, in «Rivista Storica Italiana», CXIX, 2007, pp. 1276-1318; P. Delpiano, Il governo della lettura. Chiesa e libri nell’Italia del Settecento, Bologna, il Mulino, 2007; E. Rebellato, La fabbrica dei divieti. Gli Indici dei libri proibiti da Clemente VIII a Benedetto XIV, Milano, Sylvestre Bonnard, 2008; S. Ricci, Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma, Roma, Salerno, 2008; Catholic Church and Modern Science. Documents from the Archives of the Roman Congregations of the Holy Office and the Index, vol. I, ed. Ugo Baldini and Leen Spruit, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2009; M.I. Palazzolo, La perniciosa lettura. La Chiesa e la libertà di stampa nell’Italia liberale, Roma, Viella, 2010; M. Cavarzere, La prassi della censura nell’Italia del Seicento tra repressione e mediazione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011; R. Savelli, Censori e giuristi. Storie di libri, di idee e di costumi (secoli XVI-XVII), Milano, Giuffrè, 2011; La congregazione dell’Indice e la cultura italiana in età moderna, a cura di V. Frajese, numero monografico di «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1.2012, 5-328; M. Palumbo, «D’alcuni libri che potrebbero permettersi corretti, ed espurgati». La censura romana e l’espurgazione dei lessici, in Lessici filosofici dell’età moderna: linee di ricerca, a cura di E. Canone, Firenze, Olschki, 2012, pp.1-27; G. Fragnito, La censura ecclesiastica romana e la cultura dei «semplici», in «Histoire et civilisation du livre. Revue internationale», IX, 2014, pp. 85-100.


LEMMARIO




Censura ecclesiastica - vol. II


Autore: Davide Cito

A metà dell’Ottocento l’assetto del sistema sanzionatorio ecclesiale, che si era andato via via formando soprattutto a partire dai secoli successivi alla riforma gregoriana, appariva, come del resto l’insieme della normativa canonica, come un grande comulo di norme sparso in numerose e antiche fonti il cui accesso e comprensione risultava difficile. Ciò peraltro non impedì che molti dei protagonisti del Risorgimento italiano fossero colpiti e assolti a più riprese da censure ecclesiastiche. Pio IX con la costituzione Apostolicae Sedis del 1869 aveva codificato un elenco dettagliato di 63 censure latae sententiae da considerarsi in vigore, con l’abrogazione di tutte le altre, ma tuttavia mancava un quadro organico del diritto penale ecclesiale che si avrà solo con il Codice del 1917.

Frutto soprattutto dei contributi dei canonisti F.X. Wernz e J. Hollweck, il libro V del Codex Iuris Canonici del 1917 si presentò come una trattazione completa del diritto penale canonico, nel quadro dell’ecclesiologia dell’epoca che poggiava sulla nozione di societas perfecta e pertanto facendo ricorso anche alle tecniche giuridiche sviluppatesi in quegli anni in ambito secolare. Esso ruotava intorno ai concetti di delitto e di pena, cui faceva seguito una particolareggiata elencazione dei comportamenti delittuosi. Allo stesso tempo questi concetti erano permeati dallo spirito proprio del diritto ecclesiale: innanzitutto il fatto che la sanzione penale non fosse l’unico né il principale rimedio al quale il legislatore canonico doveva far ricorso; il diritto penale, infatti, era all’interno di un codice che prevedeva tanti altri mezzi di ordine spirituale, sacramentale, morale e disciplinare. In secondo luogo l’esercizio della potestà coercitiva penale andava intesa entro la più ampia azione pastorale, come venne richiamato dal Concilio di Trento e riportato nel Codice del 1917 laddove si ricordava ai Vescovi e agli altri Ordinari che erano principalmente pastores non percussores. Si confermò anche la secolare vigenza delle pene latae sententiae, che in modo automatico colpiscono il reo di determinati gravi delitti anche occulti. Tra le pene, che principalmente privano il fedele di beni spirituali tra cui in particolare dell’amministrazione e ricezione dei sacramenti, si confermò la tradizionale divisione tra le censure e le pene vendicative. La differenza tra queste due categorie di sanzioni canoniche si basava sulla diversa finalità prevalente che le caratterizzava, vale a dire dirette all’emendamento del reo per le censure, che dal concilio Lateranense IV (1215) erano circoscritte alla scomunica, all’interdetto ed alla sospensione; dirette invece alla punizione del delitto erano le pene vendicative. Questa differenza di finalità prevalente si manifestava nel loro differente regime giuridico e in particolare sulla loro durata che, per quanto riguarda le censure, era sempre a tempo indeterminato ossia fino all’emendamento del reo e, per quanto riguarda la loro remissione o assoluzione, vigeva l’istituto della riserva, che concedeva solo a determinati soggetti la potestà di assolvere da esse tranne il caso del pericolo di morte.

La riforma del diritto ecclesiale, che fece seguito alla celebrazione del concilio Vaticano II, vide notevoli discussioni riguardanti il diritto penale. Attraverso i dieci principi direttivi stabiliti nel 1969 per guidare la revisione del diritto canonico, si ebbero alcune risposte alle problematiche sollevate. Innanzitutto venne rigettata la proposta della soppressione del diritto penale in quanto irrinunciabile da parte della Chiesa. Si affermò al contempo il principio della riduzione delle pene stabilite; inoltre si stabilì la direttiva che le pene in linea generale fossero ferendae sententiae, ossia da irrogare e rimettere solo con la relativa procedura. Si mantenne tuttavia l’istituto delle pene latae sententiae, ossia automatiche, da limitare però soltanto a pochissimi e gravissimi casi.

Da un raffronto con il Codice del 1917 balza subito agli occhi la drastica diminuzione dei canoni rispondente all’applicazione del principio di ridurre le pene nella vita della Chiesa. Un  altro motivo va ricercato nella semplificazione o abolizione di parecchi istituti come quelle relativi alla riserva della pena, delle pene latae sententiae, della remissione delle pene. Complessivamente la struttura della materia ricalca la codificazione pio-benedettina con le sottolineature relative allo spirito di mitezza e di misericordia, al ricorso allo strumento penale solo come ultima ratio una volta esauritesi inutilmente tutte le vie dettate dalla  giustizia, all’emendamento del reo (cf. can. 1341).

Il sistema penale vigente contenuto nel Codice di Diritto Canonico del 1983 conserva la distinzione tra pene medicinali o censure e le pene espiatorie (non più vendicative) con effetti e regime giuridico analogo al sistema precedente. Si afferma però che destinatari delle pene canoniche possono essere solo le persone fisiche e non più i collegi o i luoghi. Accanto alle pene troviamo altri strumenti quali le penitenze che sottolineano la dimensione emendativa sempre presente nelle sanzioni canoniche.

La normativa penale successiva al codice del 1983 è stata caratterizzata soprattutto dalle problematiche relative al delitto di abuso sui minori perpretrato da chierici che ha giustificato numerosi interventi pontifici di San Giovanni Paolo II di Benedetto XVI e di Francesco, tra i quali spicca il m.p. Sacramentorum sanctitatis tutela del 2001 aggiornato nel 2010, relativo ai delicta graviora di competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Fonti e Bibl. Essenziale

F.X. Wernz, Ius decretalium, T. VI, Ius poenale Ecclesiae catholicae, ex officina libraria Giachetti, Prati 1913; G. Michiels, De delictis et poenis: Commentarius libri V Codicis Juris Canonici, 3 voll., Typis Societatis S. Joannis Evangelistae, Pariis, Tournai, Romae, Neo Eboraci 1961; R. Metz, Il diritto penale nel codice di diritto canonico del 1917, in Concilium 11, fasc. 7 (1975)  49-60; V. De Paolis – D. Cito, Le sanzioni nella Chiesa, Urbaniana University Press, Roma 20012; C. Cardia, La Chiesa tra storia e diritto, cap. VII “Il diritto penale”, Giappichelli, Torino 2010, 311-361; J. Bernal, voce Censura, in Diccionario General de Derecho Canónico, vol. II, Thomson Reuters Aranzadi, Pamplona 2012, 49-51; B.F. Pighin, Diritto Penale Canonico, Marcianum Press,Venezia 20142; A. D’Auria – C. Papale (Cur.), I delitti riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede, Urbaniana University Press, Roma 2014.


LEMMARIO




Centri culturali - vol. II


Autore: Maria Teresa Falzone †

I centri culturali cattolici hanno svolto e svolgono un ruolo rilevante nella storia della Chiesa in epoca contemporanea, ora favorendo la ricomposizione della frattura tra fede e cultura, instaurando un dialogo aperto tra la Chiesa ed il mondo, ora sostenendo le posizioni ufficiali del Magistero, ora invece mantenendosi nella retroguardia, ponendosi anche a volte in posizione critica, più o meno apertamente, nei confronti dell’orientamento magisteriale. Oggi in modo particolare si costituiscono come forum pubblici, per la riflessione sulle sfide culturali del tempo e ricerca creativa di risposte ispirate dalla fede. Costituiscono una realtà ricca e diversificata, sia per quanto riguarda le denominazioni (centri o circoli, associazioni, accademie, istituti, ecc.) sia per gli orientamenti intorno a cui essi si muovono.

Dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra. Tanti e svariati sono i centri cattolici in tutto il mondo, ma indiscusso ne è il numero elevato in Italia, dove già da tempo essi sono una realtà viva, con un notevole crescendo dall’Unità d’Italia ai nostri giorni. C’è però da rilevare una differenza tra le prime deboli realizzazioni e la ricchezza ed efficienza dei molti centri dell’epoca odierna. A cominciare dalla torinese Amicizia cattolica di Bruno Lanteri, laicale, in cui nel 1817 sfociò l’anteriore Amicizia cristiana, ambedue espressione del movimento alfonsiano, lontane ancora dall’organizzazione di massa e dallo spirito che distinguerà poi il laicato cattolico. Pure negli anni sessanta, anche sotto l’influenza de «La Civiltà cattolica», ci fu un pullulare di associazioni, soprattutto a Bologna, Firenze e Roma; da ricordare soprattutto la bolognese Società cattolica italiana per la difesa della libertà della Chiesa in Italia (1865), che però ebbe vita breve, sciolta in seguito alla legge Crispi del 1866, sfociando poi nella Società della Gioventù cattolica.

Dopo Porta Pia la situazione slittò sempre più verso le forme intransigenti del Movimento cattolico >. Ma pur deboli furono le organizzazioni intorno al ’70, quando, all’esplosione della pubblicistica cattolica non corrisponde un’organizzazione di gruppi culturalmente costituiti; non si può infatti del tutto classificare sotto il titolo di “centro culturale” la Federazione Piana, che pur svolse a Roma un ruolo importante sotto i pontificati di Pio IX e di Leone XIII; fondata nel 1872 aggregava oltre venti società cattoliche romane, che operavano «a difesa della Fede e dei diritti della Chiesa» (Statuto). Così pure con certa titubanza possiamo fare cenno alle cosiddette riunioni di Casa Campello (1878), che ebbero protagonisti cattolici conservatori nazionali che intendevano accettare “i fatti compiuti” e che, fortemente osteggiati da «La Civiltà Cattolica», finirono presto il loro corso. C’è però da osservare che non pochi quotidiani e periodici cattolici del tempo, principalmente la rivista dei gesuiti, fecero da fulcro per un grande e vivace movimento culturale. Impiantata l’Opera dei Congressi, vi si incentra tutto il movimento cattolico nelle forme proprie dell’organizzazione. Pare però interessante, all’interno di essa, la formazione cristiano-sociale del Circolo di studi romani e la padovana Unione cattolica per gli studi sociali (1889), un centro che intendeva muoversi in modo autonomo nei confronti dell’Opera. Sciolta l’Opera dei Congressi, sbocco dell’interesse per gli studi sociali sarà il piccolo Centro di studi sociali (1904), divenuto poi Istituto cattolico di scienze sociali (Bergamo, 1910).

Il modernismo vede sorgere le prime organizzazioni nel campo del femminismo cattolico, sia pure alquanto osteggiate in campo ecclesiale, a cominciare dal vasto movimento di idee sollevato da Elena da Persico attorno alla rivista «Azione Muliebre» (Milano 1901-1949), inteso a scuotere le coscienze femminili. Ancor più stimolante l’azione della milanese Adelaide Coari, che promosse la nascita di associazioni femminili ed animò circoli di studio a sostegno ed a favore della donna, tra cui soprattutto il Cenacolo di Lentate, con un corso di didattica per le maestre impegnate nelle campagne. A Torino intanto nasceva l’Associazione Pro Cultura Femminile (1911) da un coraggioso gruppo di donne che si prefiggevano di “fare” cultura al femminile, costituendo un’apposita biblioteca dall’ampio patrimonio librario nel vasto panorama della cultura europea e sviluppando progressivamente anche interessi politici e musicali.

L’immediato primo dopoguerra vide un incremento dell’interesse culturale organizzato in appositi centri dalle dimensioni sempre più ampie ed impegnate, tra cui la monzese Procultura dei barnabiti (1921), la milanese Associazione Cardinal Ferrari, ma soprattutto l’Istituto Toniolo di studi superiori, sorto a Milano nel 1920, poco dopo la morte del grande sociologo, che si accompagnerà alla nascita dell’Università cattolica del S. Cuore, ambedue cooperanti alla formazione di una soda cultura cattolica universitaria. Progressivamente l’Università cattolica si andrà diramando e decentrando in varie località periferiche, opportunamente coordinate: oltre alle cinque sedi regionali, sono oggi tredici in tutta Italia i centri collegati in sistema stellare di rete istituzionale dell’Ateneo, finalizzati a creare nel territorio forme qualificate di formazione permanente. Sempre nei primi del Novecento nascevano anche non pochi centri che esprimevano la propria aderenza all’Azione cattolica, coordinati al Movimento ecclesiale d’impegno culturale, iniziato nel 1932-33 con il nome “Movimento laureati di Azione Cattolica” ed oggi diffuso in quasi tutte le regioni d’Italia, mentre, nell’alveo dell’Azione cattolica femminile, sorgevano i Convegni di cultura Maria Cristina di Savoia (Roma, 1937) quale “opera” dipendente dall’Unione Donne di Azione Cattolica, d’ispirazione monarchica e con scopi di formazione cristiana delle aderenti; costituiscono tuttora una rete non indifferente di centri in tutta Italia.

Fiorente e non raramente informata a spirito critico si presenta l’azione dei centri culturali durante il Fascismo, che vi esercitava un pesante controllo. Da ricordare la reazione dei gruppi dell’Università Cattolica >, a cui faceva anche riferimento la riunione settimanale in casa Padovani (1940), un gruppo sorto per iniziativa di Agostino Gemelli, oltre ad altre riunioni del genere in casa Spataro, Gonella, ecc., che in germe saranno la futura Democrazia Cristiana. Antifascista fu poi il Circolo “Dante e Leonardo” che, fondato a Roma prima dell’avvento del fascismo da dirigenti del Partito Popolare, fu negli anni del regime sede di incontri improntati al dialogo e che si rivelerà di notevole importanza per quel che riguarda le vicende interne della Sinistra cristiana e, più largamente, per le dinamiche politiche dell’intero movimento cattolico. Da ricordare i «Corsi sociali» istituiti in varie diocesi sotto l’egida dell’ICAS (Istituto Cattolico di Azione Sociale), in cui si trattavano i postulati della dottrina sociale della Chiesa, mentre di notevole rilievo appare il gruppo dei laureati cattolici di Piacenza che radunava buona parte della intellighentia cattolica, il cui organo era la rivista «Studium», gruppo definito da un rapporto della polizia fascista «il più pericoloso» tra le associazioni cattoliche. A Firenze contemporaneamente operava il gruppo di Giorgio La Pira, con un dibattito sulla posizione politica dei cattolici. Sarà l’humus in cui matureranno le scelte dei cattolici della Resistenza. Ad Assisi nel 1939 nasceva la Pro Civitate Christiana, la “Cittadella”, nella logica del consenso al regime, che pur diverrà laboratorio di confronto e di dialogo, fermento di cultura cristiana.

Intorno al Vaticano II. Tutto questo movimento culturale sfocia nel secondo dopoguerra in una grande ricchezza di centri culturali. Il card. Schuster, in collaborazione con Giuseppe Lazzati, fonda a Milano nel 1948 l’Ambrosianeum, strumento di dialogo e d’incontro, spazio di cultura cristiana. Giuseppe De Luca dà il via alla sua raccolta di fonti letterarie che porterà alla fondazione dell’Archivio per la storia della pietà (Roma, 1951) con il supporto delle Edizioni di storia e letteratura e con la fondazione dell’Istituto Sturzo (1951), che troverà in Gabriele De Rosa il più autorevole propulsore. Intanto molti centri nascono e si diramano in tutta Italia: il Centro culturale “S. Luigi di Francia” a Roma ad opera di J. Maritain (1945), oggi istituto francese d’insegnamento, l’Associazione A.I.A.R.T. ispirata all’Azione cattolica (1953), l’Akropolis di Roma e l’Istituto internazionale “Jacques Maritain” (1957), Veritas (Venezia, 1958), il Laurentianum dei cappuccini e tanti altri orientati alla cultura sacra in genere, alla musica, all’arte, alla letteratura, alla storia.

L’epoca conciliare ed immediatamente post-conciliare (1963-1980) vide un fiorire di centri che, recependo man mano le istanze del Concilio Vaticano II >, si aprivano a problematiche più ampie, provocati anche dai cambiamenti che caratterizzano via via la società e la Chiesa del tempo: crisi delle ideologie, problematica giovanile, bipolarismo in politica, globalizzazione, secolarizzazione, internazionalismo ed interculturalità. Non pochi si ponevano in modo nuovo nel confronto con i laici, credenti e non, non raramente in apertura al nuovo rapporto che si andava profilando con il cristianesimo orientale, nascendo pertanto anche come luoghi di incontri per il dialogo ecumenico. L’incremento, poi, degli anni successivi, fino ai nostri giorni, denota una grande estensione ed una notevole capillarità di presenza nel territorio nazionale, oltre all’ampiezza ed alla vastità delle tematiche in studio, che più frequentemente si imperniano su teologia, filosofia, educazione, arte, storia, ecumenismo, magistero della Chiesa, in riferimento agli orientamenti sociali, politici ed economici. Molti dei centri poi, ma non tutti, aderiscono al Progetto culturale della Chiesa italiana orientato in senso cristiano (1996), che si pone come uno dei compiti affidati al Pontificio Consiglio della Cultura onde facilitare il dialogo Chiesa-culture.

Da rilevare anzitutto la tipologia di massima: pur nella varietà – in rapporto all’origine, finalità e modalità espressiva – si possono sommariamente evidenziare tematiche ricorrenti, orientate a dare risposte illuminanti ai numerosi e stimolanti interrogativi che si pone l’uomo di oggi rispetto al modus vivendi ed alle finalità di vita che lo rimandano alla storia, lo pongono innanzi alle problematiche attuali e lo proiettano verso il futuro.

Oltre ai grandi fondatori poi ed alle figure eminenti degli istituti, religiosi e non, nel cui alveo sorgono alcuni centri – cappuccini, domenicani, francescani, gesuiti, focolarini, Comunione e Liberazione, ecc. -, varie sono le personalità di spicco a cui essi si ispirano e molto spesso si intitolano: Maritain, Peguy, Bachelet, La Pira, Escrivà, Tommaso d’Aquino, Rosmini, Toniolo, Frassati, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Sturzo, Lazzati, Kolbe, ecc. Costituiscono l’ottica con cui essi guardano al mondo ed al territorio circostante, cercando di porre argine al pensiero debole imperante e proponendo uno sviluppo cristiano alla luce di una data esperienza spirituale eminente.

Mappa geografica dei centri. C’è poi da considerare la distribuzione geografica di tali centri, che evidenzia l’impronta di un’Italia che, benché segnata da disparità tra una zona e l’altra, dimostra una pur ricca e varia vivacità culturale. Da evidenziare soprattutto la Lombardia, con la stragrande quantità di centri, di Milano soprattutto, che da soli totalizzano più della metà dei centri italiani; oltre ai sopra ricordati, basta accennare al Centro francescano Rosetum (1964), al San Dionigi (1975), alla Fondazione Lazzati (1989), al San Fedele (1994) d’ispirazione gesuitica, al Centro Studi Paolo VI di Brescia, ecc. Il Piemonte, particolarmente con le diocesi di Cuneo e Torino che ne sono più dotate, accentua l’orientamento educativo. Ampio e vivace il movimento culturale nei molti centri del Veneto, tra cui particolarmente Padova e Venezia con l’attenzione alle comunicazioni sociali, oltre alle tematiche teologiche e culturali in genere, come pure alle ricerche storiche e socio-religiose. Da ricordare soprattutto Trento con l’Istituto storico italo-germanico, che molto deve all’impulso di Paolo Prodi, e con i tanti altri suoi centri. Né v’è da tralasciare la Liguria, soprattutto con il Centro studi culturali e politici Giuseppe Dossetti.

L’Italia centrale, pur non competendo con il Nord, è dotata di un grande numero di centri, e non pochi di notevole rilievo, quali soprattutto quelli dell’Emilia-Romagna, che nel dopo concilio sviluppa una ricca gamma di realtà culturali incentrati soprattutto a Bologna, ma pure sparsi per le altre province, ispirandosi anche ai movimenti o a spiritualità d’istituti religiosi. La Toscana continua in epoca contemporanea la vivacità culturale che l’ha caratterizzata in epoca fascista, principalmente con il Centro internazionale studenti “Giorgio La Pira” (Firenze, 1978), sviluppando notevolmente un confronto intellettuale inteso pure a conservare e valorizzare il patrimonio culturale del territorio. Da ricordare anche il Centro internazionale celestiniano de L’Aquila (1982), con la “Perdonanza” celebrata annualmente a Collemaggio. S’impone Roma, ed il Lazio in genere, per il numero e la qualità dei centri, ispirati a varie finalità culturali, non pochi nati anche da particolari spiritualità d’istituti religiosi.

Il Meridione d’Italia esprime anche coi suoi centri una vivacità intellettuale che, se non può equipararsi al Nord per il numero di essi, ne rileva una valenza che raramente gli è inferiore, particolarmente viva anche per le tematiche meridionaliste che pur vi vengono affrontate. Basti pensare ai centri campani, tra cui non ultimo il Centro di cultura “Mons. Raffaele Calabria” di Benevento, riferibile per la fondazione all’Università Cattolica (1971), attento anche al mondo rurale oltre alla trattazione di temi di ordine generale; il recente Centro studi sociali Bachelet (2005), ecc. Tra i molti e qualificati centri della Puglia ricordiamo soprattutto il Centro Studi storici di Bari (1989), dall’imponente collana di volumi finora pubblicati. La Calabria promuove pure non pochi centri di notevole rilievo, tra cui è da ricordare soprattutto l’équipe guidata e coordinata da Maria Mariotti, che opera in appoggio alla Deputazione di Storia patria per la Calabria, con l’approvazione della Conferenza Episcopale Calabra. La Sicilia infine offre un quadro non certo povero di interventi culturali. Basti pensare al Centro Studi per la cooperazione “A. Cammarata” (S. Cataldo, Caltanissetta), rigoglioso e fiorente di attività editoriali e culturali in genere, l’Istituto per la Documentazione e la Ricerca S. Paolo di Catania (1982), attento ad incrementare la cultura in Sicilia, con le sue molte pubblicazioni ed il suo organo «Synaxis»; l’Officina di studi medievali di Palermo, portato avanti dai conventuali, l’Istituto di formazione politica “P. Arrupe” dei gesuiti, il Centro Siciliano Sturzo e tanti altri sparsi per l’isola.

È una forte potenzialità che la Chiesa italiana possiede attraverso i tanti centri culturali che intessono il territorio italiano, quali punte di diamante della sua missione in un mondo che essa si impegna di impregnare evangelicamente.

Fonti e Bibl. essenziale

A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Apud aedes Universitatis Gregorianae, Romae 1958; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia dalla Restaurazione all’età giolittiana, Editori Laterza, Roma-Bari 1976; G.B. Guzzetti, Il movimento cattolico italiano dall’Unità ad oggi, Edizioni Dehoniane, Napoli 1980; Storia del Movimento Cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, 6 voll., Il Poligono editore, Roma 1981; Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, a cura di F. Traniello e G. Campanini, 5 voll., Marietti, Casale Monferrato 1981-1994; Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. Aggiornamento 1980-95, Marietti, Casale Monferrato 1997; P. Poupard, I Centri Culturali Cattolici. Idea, esperienza, missione, Città Nuova, Roma 1996; Conferenza Episcopale Italiana, Servizio Nazionale per il Progetto culturale, Centri culturali cattolici, voll. 4, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2003; Pontificium Consilium de cultura, Centres culturels catholiques, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 20054; G. Salvini, I centri culturali cattolici in Italia, «La Civiltà Cattolica» 160 (2009) II, 477-482.


LEMMARIO