Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
Dalle origini all'Unità Nazionale
Roma 2015
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Chierici Regolari - vol. I


Autore: Flavio Rurale

La nascita dei chierici regolari si colloca in una particolare stagione della storia della Chiesa. La maggior parte delle loro comunità sorse infatti in Italia nel XVI secolo, rappresentando la “vera sostanziale novità nell’ambito dell’organizzazione regolare cinquecentesca” (Rosa, Introduzione, 9): nel 1524 Gaetano da Thiene e Gian Pietro Carafa (futuro papa Paolo IV) istituirono i teatini, cui seguirono le fondazioni di barnabiti, gesuiti, somaschi, ministri degli infermi, chierici minori della madre di Dio o caracciolini (nel primissimo ‘600 gli scolopi, verso fine secolo i chierici mariani e nel primo ’700 i chierici scalzi di s. Paolo della Croce). In quei tormentati decenni la popolazione degli antichi stati italiani, al pari dell’intera Europa cristiana, visse un grande fermento religioso e, superata definitivamente l’emergenza protestante (che percorse con esiti drammatici parte della società e i nuovi ordini religiosi), consolidò la propria identità cattolica. Merito, indubbiamente, anche delle nuove congregazioni, immediatamente attive su molti fronti (educazione, predicazione, missioni, assistenza), in virtù di un’organizzazione interna meno vincolante rispetto a quella di monaci, canonici regolari e frati mendicanti (che fino al XVI secolo avevano condiviso la medesima denominazione di chierici regolari, termine di origine antica e significato rimasto a lungo generico, che identificava i chierici viventi in regola con i sacri canoni e perciò distinti dai canonici secolari, F. Andreu, Chierici regolari, 898).

Il loro contributo non va tuttavia esagerato: la maggior parte delle nuove congregazioni conservò dimensioni ridotte, entro valori di poche centinaia di unità (i barnabiti tra 1600 e 1700 passarono da 322 a 726 membri, i somaschi da 430 a 450, circa 500 erano i caracciolini alla fine del XVII secolo; un incremento straordinario, che ne spiega il successo su scala internazionale e l’assoluta peculiarità, lo conobbero solo i gesuiti: triplicati nel decennio successivo alla morte di sant’Ignazio (1556), già 8519 nel 1600, e ben 19998 nel 1700, J.P. Donnelly, The New Religious Orders, 287-288, 293). Ebbero inoltre scarsa diffusone in Europa, se si escludono i teatini (il cui incremento, dai 400 membri del 1600 ai 1400 del 1700 fu dovuto anche all’attività missionaria intrapresa fuori d’Italia), i barnabiti (presenti in Francia e Austria) e ovviamente i gesuiti (tra i più impegnati su scala mondiale: dalle Americhe, alla Cina, al Giappone).

Siamo forse lontani dal poter definire queste forze lo strumento principale di cui la Chiesa poté disporre per difendersi dall’attacco luterano (Inquisizione e commissari locali di appartenenza mendicante continuarono ad essere il perno attorno cui ruotò la risposta romana contro l’eresia; anche se, va notato, studi recenti hanno dimostrato il forte coinvolgimento iniziale dei teatini nelle pratiche di controllo, investigazione e denuncia dei reati di fede, Vanni, “Fare diligente inquisizione”, 15). Né, forse, è del tutto corretto definirli ordini della controriforma cattolica, se con tale formula intendiamo forze fresche istituite e organizzate da Roma secondo una precisa e coerente strategia per fronteggiare la sfida religiosa lanciata da Lutero. La loro origine, infatti, non fu direttamente legata alla Riforma: semmai «nacquero come risposta a bisogni religiosi di livello locale, per iniziativa di laici, uomini o donne, o di preti, raramente della gerarchia, mai del papato» (J. P. Donnelly, The New Religious Orders, p. 283).

Il giudizio di sintesi di J.P. Donnelly, seppure provocatorio per certi aspetti, apre prospettive interpretative di grande interesse, utili a meglio comprendere i caratteri delle nuove formazioni religiose. Non spuntarono dal nulla, frutto di piani di riconquista messi a punto a tavolino negli ambienti romani. Ebbero invece carattere di spontaneità e conobbero una lunga gestazione entro un clima di sperimentazione non priva di eccessi, attraversato da grandi passioni che coinvolsero l’intera società, uomini e soprattutto donne. Solo così si spiegano i sospetti nei loro confronti di chi, istituzioni romane e pontefici, venne poi chiamato a dare una veste istituzionale a quelle esperienze. Fu questo, per esempio, il destino dei barnabiti, legati alle vicende di Paola Antonia Negri e al suo processo milanese degli anni Trenta; o dei gesuiti: l’Inquisizione spagnola indagò ripetutamente su sant’Ignazio e i suoi scritti prima e dopo la fondazione della Compagnia del 1540.

L’iniziale rifiuto dei voti monastici e delle tradizionali regole, la vita in comune in case private, la convivenza sotto lo stesso tetto di laici e chierici, di uomini e donne, riuniti a discutere anche di questioni dottrinali, l’attività esterna di tipo assistenziale, come nel caso dei somaschi di Girolamo Emiliani e dei ministri degli infermi di Camillo de Lellis (frutto dell’esperienza tre-quattrocentesca della devotio moderna, spintasi anche in territorio italiano ad alimentare nuove forme di spiritualità, e dell’associazionismo a fini caritatevoli degli oratori del divino amore e della carità) sono aspetti importanti nell’originaria formazione dei nuovi sodalizi e dei loro adepti. Il loro destino rimase, in un certo senso, indefinito, aperto a molteplici sviluppi: successi ma anche fallimenti, e poi richieste di connubi con ordini già affermati per superare difficoltà e crisi sempre incombenti, cambiamenti di status giuridico (come i chierici della madre di Dio di s. Giovanni Leonardi, fondati nel 1574 ma trasformati da chierici secolari in chierici regolari nel 1614), infine lunghi e complessi iter per la stesura e l’approvazione di regole e costituzioni.

Uno degli aspetti più originali della loro storia (legata in molti casi a fondatori ancora laici al momento della concezione del loro progetto, P. Sannazzaro, Storia dell’ordine camilliano, 31) va individuato nella presenza, nella fase istitutiva come nel loro sviluppo, di figure femminili: protagoniste, come accennato, delle vicende fondative dei chierici di San Paolo; altre volte, nelle vesti di visionarie e sante vive, chiamate a legittimare la bontà delle nuove esperienze (evocarono le profezie della beata Francesca Panigarola i gesuiti milanesi); altre ancora capaci, come gentildonne o principesse, di convincere comunità, principi, autorità vescovili dell’utilità dei nuovi insediamenti (di cui furono patrone con donazioni di denari, terre ed edifici). Un rapporto, questo, destinato a consolidarsi nei secoli successivi anche in duraturi legami con le comunità femminili sorte nel medesimo contesto storico-geografico (i chierici regolari ne divennero in molti casi i direttori spirituali).

Questi caratteri contribuiscono a spiegare la prudenza e le resistenze iniziali talora manifestate nei loro confronti dalle autorità secolari ed ecclesiastiche, sollecite nel richiedere l’intervento delle magistrature competenti, dei tribunali vescovili, dei delegati locali del Sant’Ufficio, nell’interdire e scomunicare, nell’avviare processi. L’ostilità raggiunse espressioni davvero eclatanti nel caso della Compagnia di Gesù, quando i pontefici con carriera regolare e/o nel Sant’Ufficio (il teatino Paolo IV, il domenicano Pio V, il minore conventuale Sisto V) si applicarono per riformarne l’istituto: personali gelosie, concorrenza cultuale, contrasti di carattere teologico, ma soprattutto le novità istituzionali (il nome stesso, il generalato perpetuo, la complessità dei gradi e i tempi lunghi della professione, l’assenza di periodici capitoli generali, il vivere di rendita dei collegi contro il voto di povertà dei padri professi, i privilegi goduti nel contrastare l’eresia e nell’assolvere anche giudiziariamente con la confessione sacramentale) sollecitarono attorno al nuovo ordine, fin dai primi decenni della sua storia, dibattiti e polemiche. Dottrina, attività di apostolato, costituzioni (ora contestate e modificate ora ristabilite nella loro originaria formulazione) divennero oggetto di critica da parte di alcuni esponenti del clero secolare e soprattutto dei vecchi ordini mendicanti (domenicani). Un alone di sospetti, «quelle certe ombre vane» le definì s. Carlo Borromeo, andò delineandosi attorno a quei primi adepti, destinato a mettere radici in diversi settori della società italiana ed europea e a segnare periodicamente le vicende controverse della Compagnia di Gesù.

Conobbero non minori difficoltà sotto Urbano VIII e il suo successore gli scolopi, fondati da Giuseppe Calasanzio nel 1617 e dediti a un ministero scolastico popolare e gratuito. Le vertenze interne – la diversità di gradi e soprattutto la difficile convivenza tra fratelli coadiutori e chi era invece sacerdote o professo produceva quotidianamente gelosie e occasioni di conflitto, come era già accaduto tra i cappuccini e stava accadendo tra i gesuiti – portò il papa alla decisione di deporre il Calasanzio da generale, cui seguì con Innocenzo X «la regressione» della congregazione «a semplice unione libera di varie case tra loro indipendenti»; spettò poi a papa Clemente IX nel 1669 di riconfermarne lo status di ordine religioso con voti solenni (L. Picanyol, Chierici regolari poveri, 1440).

Le difficoltà nelle relazioni con la curia papale non misero in discussione il ruolo che i maggiori esponenti dei nuovi ordini (in particolare gesuiti) svolsero nella battaglia anti-ereticale e a difesa della cultura cattolica e dell’autorità pontificia: con la pubblicazione di libri, pamphlet, vere e proprie “guerre delle scritture” (come avvenne tra il servita Paolo Sarpi e il gesuita Roberto Bellarmino durante l’interdetto scagliato su Venezia da Paolo V nel 1606), l’attività educativa (soprattutto nei collegi delle aree di confine col mondo protestante) e l’impegno missionario nelle città e nelle campagne italiane ed europee, ed oltreoceano. Anche se non mancarono, in particolare da parte dei religiosi impegnati a corte come confessori e teologi, occasioni per vertenze e conflitti in cui i chierici si trovarono contrapposti alla curia romana, al pontefice e al suo entourage.

La loro mobilità e il loro irrefrenabile dinamismo, «a un grado senza precedenti se si escludono gli ordini religioso-militari» dell’epoca delle crociate (J.P. Donnelly, The new religious orders, 285), sono ben rappresentati dalla rinuncia alla recitazione corale dell’ufficio liturgico (conservata dai barnabiti), alle penitenze personali e alla spiritualità contemplativa previste dalle regole tradizionali, appunto inadatte al loro attivismo senza precedenti, misto di ascesi e azione. Scelte e comportamenti, questi, che nel panorama religioso dell’epoca furono motivo di profonde polemiche, insieme con alcuni questioni di carattere dottrinale. Gli scontri tra gli ordini teologicamente più vivaci si prolungarono fino al Sei e Settecento: sul ruolo della Grazia nel percorso verso la salvezza eterna, sulla dottrina morale, sull’organizzazione delle missioni americane e asiatiche, sulle modalità di conversione dei popoli di quelle terre.

Il coinvolgimento dei chierici nella diretta gestione dei loro beni (l’attività delle congregazioni si fondò, come per la maggior parte degli istituti di perfezione, su una base patrimoniale frutto sia di donazioni di beni mobili e immobili, sia dell’attività di compravendita di case e terreni, sia di operazioni creditizie verso privati ed enti pubblici), e il loro ruolo nella formazione delle elite d’antico regime, negli affari di stato e nel dibattito scientifico (portato fin nelle celle dei singoli religiosi) fecero degli istituti sorti nel Cinquecento degli spazi di discussione non solo teologica ma anche politica e culturale, dei veri e propri microcosmi in cui fu possibile un proficuo scambio di idee e la sperimentazione scientifica a stretto contatto con i maggiori rappresentanti europei della repubblica delle lettere.

Con il Settecento gli equilibri maturati tra i chierici regolari nei secoli precedenti si modificarono in parte a favore di congregazioni fino allora meno affermate. Come nel caso degli scolopi, che ampliarono la loro presenza e i loro insediamenti scolastici, o dei somaschi (già diffusi precedentemente laddove altre congregazioni avevano subito l’ostracismo dei governi: a Venezia, dove i gesuiti nel 1606 furono costretti all’esilio, la loro presenza si consolidò anche in seguito alla «maggior malleabilità della congregazione […] ai desiderata del Senato veneto, teso a “venetizzare” sempre più l’ordine»). La recente storiografia, del resto, ha mostrato «un maggiore dinamismo di barnabiti somaschi scolopi durante il XVIII secolo sotto il profilo intellettuale: e questo non solo nel campo della pubblicistica di carattere scientifico, ma pure in quella a sfondo letterario», così come «nel campo degli studi umanistici e filologici, tradizionalmente legati all’indagine degli studiosi della Compagnia [di Gesù] […] Si accumula dunque sotto questo profilo un ulteriore ritardo dei gesuiti, che per essere valutato appieno deve necessariamente venire bilanciato da una più profonda conoscenza delle opere degli studiosi appartenenti agli altri ordini religiosi insegnanti (e non solo)» (M. Sangalli, Le congregazioni religiose insegnanti, 43, 39). Tali cambiamenti furono l’esito anche del manifestarsi di alcuni punti deboli del “modo di procedere” degli ordini che fino allora avevano conosciuto maggiore successo, come appunto i gesuiti, colpiti nel frattempo su più fronti: in ambito teologico (la morale probabilista), sulla questione dei riti cinesi, a causa dell’arretratezza dei loro programmi educativi e della spettacolarizzazione ormai giudicata eccessiva delle missioni rurali.

Nel Sette-Ottocento anche le congregazioni dei chierici regolari (prima fra tutte la Compagnia di Gesù, momentaneamente soppressa dal papato nel 1773, ma oggetto di numerosi interventi repressivi dopo la ricostituzione voluta da Pio VII nel 1814) subirono le conseguenze patite dagli altri ordini religiosi a causa dei provvedimenti di riforma e abolizione presi prima dai governi delle monarchie europee e degli stati italiani, poi dalle forze rivoluzionarie e risorgimentali. Se travagliata fu, nel contesto italiano e nel percorso verso l’unificazione, la vicenda dei gesuiti, maggior fortuna conobbero altri chierici regolari come i barnabiti e gli scolopi. Nella situazione di incertezza giuridica propria delle comunità vecchie e nuove alcuni chierici regolari ebbero infatti più fortuna di altri. Per sopravvivere, per sfuggire alla soppressione e agli incameramenti fu necessario organizzarsi non come regolari a tutti gli effetti (vietato dalle leggi emanate tra il 1866 e il 1873) ma come “semplici riunioni di ecclesiastici, senza vincoli di voti, senza rinunzia ai propri averi”, come società private, come cittadini che conservavano i propri diritti e dunque potevano acquistare, vendere, lasciare e adire eredità. Poterono così sfuggire “alla confisca e continuarono più o meno tranquillamente la loro attività varie case dei barnabiti e degli scolopi, che figuravano di fronte alla legge come amministratori di opere pie”. Di nuovo ciò accadeva con esiti differenti a seconda della collocazione geografica delle singole comunità: “in Sicilia le case degli scolopi vennero tutte disperse”. E non fu estraneo a questi destini così diversi anche il comportamento dei vescovi: “l’episcopato assunse un atteggiamento un po’ vario: mentre i vescovi delle Marche e dell’Emilia protestavano energicamente contro le soppressioni, difendendo i religiosi, quelli dell’Italia meridionale e soprattutto quelli della Calabria non mostrarono troppa preoccupazione” per la loro sorte (Martina, Gli istituti religiosi in Italia, 236, 241-242).

Nel complesso, tuttavia, i chierici regolari vennero colpiti duramente: al pari dei gesuiti lo furono per esempio i caracciolini e i camillini (ministri degli infermi), privati in molti casi delle loro case e dispersi. Fu compito di Roma richiamare allora i singoli religiosi, laddove fu possibile, a una vita comunitaria sotto gli ordini di un superiore, alla conservazione dell’abito e all’attaccamento alla vocazione (Ibidem, 246, 254). Fu compito dei ministri generali anche dei chierici regolari, nonostante le leggi eversive, dare direttive precise e accorate al fine di ricostituire le antiche comunità, riacquisire le antiche case (facendo mutui, trattando coi vincitori di aste, beneficiando della solidarietà di benefattori laici), fondarne di nuove. Come avvenne di fatto, gesuiti in testa, nei decenni finali del secolo, complici l’applicazione fallimentare delle leggi stesse e le urgenze educative e assistenziali che reclamavano una loro rinnovata presenza nella società.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Tentorio, Saggio storico sullo sviluppo dell’ordine somasco dal 1569 al 1650, Archivio Storico Padri Somaschi, Roma 2011 (tesi di laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano a.a. 1940-41); L. Picanyol, Chierici regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole pie (scolopi), in Enciclopedia Cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Città del Vaticano 1949, III, 1438-1441; F. Andreu, Chierici regolari, in DIP, Edizioni Paoline, Roma 1975, II, 898-909; P. Sannazzaro, Storia dell’ordine camilliano (1550-1699), Edizione Camilliane, Torino 1986; G. Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ’400 e ’600, Rosenberg & Sellier, Torino 1990; M. Firpo, Paola Antonia Negri monaca angelica (1508-1555), “Barnabiti studi”, VII (1991), 7-66; M. Rosa, Introduzione, in Idem (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1992, 3-41; J. P. Donnelly, The New Religious Orders, 1517-1648, in Th. A. Brady, Jr. – H.A. Oberman – J.D. Tracy (edd.), Handbook of European History 1400-1600. Late Middle Ages, Renaissance and Reformation, II, E. J. Brill, Leiden – New York – Köln 1995, 283-315; E. Bonora, I conflitti della Controriforma. Santità e obbedienza nell’esperienza religiosa dei primi barnabiti, Le Lettere, Firenze 1998; S. Pavone, I gesuiti dalle origini alla soppressione, Laterza, Roma-Bari 2004; M. Sangalli, Le congregazioni religiose insegnanti in Italia in età moderna: nuove acquisizioni e piste di ricerca, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2005, I, 25-47; G. Mongini, Per un profilo dell’eresia gesuitica. La Compagnia di Gesù sotto processo, “Rivista Storica Italiana”, CXVII (2005), 26-63; F. Favino, Scienza ed erudizione nei collegi degli ordini religiosi a Roma rea Sei e Settecento, Cheiron, 43-44, 2006, 331-370; I. Fosi – G. Pizzorusso (eds.), L’Ordine dei Chierici Regolari Minori (Caracciolini): religione e cultura in età postridentina, Atti del convegno (Chieti 11-12 aprile 2008), Studi medioevali e moderni, XIV (2010); A. Vanni, “Fare diligente inquisitione”. Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini, Viella, Roma, 2010.


LEMMARIO




Chiese Ortodosse - vol. I


Autore: Soler Jaume

Intendendo per ortodossia l’insieme dei fedeli e del clero che, dopo lo Scisma di 1054, rimasero fuori della comunione con il Papa di Roma, si deve segnalare che la sua presenza in Italia prima dell’unità nazionale è stata scarsa e divisibile in due zone e periodi cronologici.

Dagli inizi del VIII fino all’invasione normanna del XI secolo, le provincie della Puglia, Calabria e Sicilia sono state ecclesiasticamente sotto la giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli, e hanno ricevuto ripetutamente ondate di migranti greci che fuggivano sia dell’iconoclastia che dell’iconodulia, il che diede alla Chiesa in quelle provincie un carattere decisamente bizantino in tutti gli aspetti. In questi stessi secoli, il papato richiamò in diversi momenti la sua giurisdizione su questi territori. La situazione cambiò profondamente dopo l’occupazione normanna di quei territori e la firma, nel 1059, del Concordato di Melfi, che nel campo religioso comprendeva l’impegno che i normanni prendevano per la latinizzazione dei territori su dei quali Papa Niccolò II gli riconosceva la sovranità. In seguito, iniziò un processo di riforma latinizzante, limitando i rapporti della popolazione greca con la sede costantinopolitana e favorendo i cambiamenti liturgici e sacramentali. Questo processo, definitivo dopo il Sinodo di Bari del 1098, ebbe effetti diversi nelle diverse provincie.

L’Italia fu punto di approdo per i greci fuggitivi anche dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, con due centri principali di stabilimento, la Repubblica di Venezia e il Regno di Napoli.

Nelle provincie meridionali della penisola arrivò un numeroso gruppo di famiglie, fra le quali diverse procedenti della nobiltà bizantina, intellettuali ed ecclesiastici, il che provocò una fiorita di nuovi centri di culto ortodossi, i quali ricevettero la protezione delle autorità locali, come lo provano i numerosi decreti e concessioni, come quello del 30 agosto di 1488, di Ferdinando il Cattolico, per il quale potevano celebrare liberamente i loro riti ed essere governati secondo le proprie leggi. La comunità greca ortodossa, dopo queste misure favorevoli, crebbe e fiorì nell’Italia meridionale. Fra i greci migrati in Campania distacca la presenza di Tommaso Assani Paleologo, nipote di Costantino XI Paleologo, vero organizzatore della comunità, fondatore della prima associazione di greci e del prima cappella per il culto greco ortodosso nel 1561. Fra gli ecclesiastici è notevole la presenza del Metropolita Benedetto di Coroni, che conseguì da Papa Paolo III una bolla molto favorevole ai greci ortodossi nel 1536. La presenza greca ortodossa si organizzò presto in delle potenti confraternite, presenza visibile nella società di quella popolazione, che continuava unita al Patriarcato di Costantinopoli. Questa situazione fiorente della popolazione ortodossa cambiò progressivamente lungo il XVII secolo, nel quale queste comunità, pur conservando il rito e la prassi sacramentale bizantina, passarono alla giurisdizione cattolica, specialmente dopo la fondazione del Pontificio Collegio Greco di Roma, nel 1577, in seguito alla creazione della Congregazione per i Greci, istituita da Papa Gregorio XIII nel 1573, e dal Seminario Italo-Albanese di Palermo, voluto da Papa Clemente XII nel 1734, il quale nel 1732 aveva provveduto alla nomina di vescovi destinati all’ordinazioni di sacerdoti per i cristiani di rito bizantino. La situazione mutò definitivamente dopo il Trattato di Verona, del 22 luglio 1822, per il quali tutti i sovrani della Penisola Italica s’impegnavano nel promuovere che tutti i suoi popoli abbracciassero la fede cattolica romana. Questo trattato fu il preludio dei decreti emanati da Francesco I nel 1829, che introducevano definitivamente il cattolicesimo nelle confraternite greche, pur conservando il rito bizantino. In seguito a questa nuova situazione, con il passo effettivo di tutti i greci alla giurisdizione romana, la popolazione di rito greco fu dotata da due eparchie, quelle di Lungro (1919) e di Piana degli Albanesi (1937).

La presenza ortodossa greca a Venezia data anche di prima della caduta di Costantinopoli nel 1453, quando il commercio e la minaccia turca portava numerosi greci a migrare verso i territori della Repubblica di Venezia. Dopo la sconfitta definitiva dell’impero bizantino, la migrazione aumentò, arrivando, verso il 1479, la popolazione greca di Venezia alle quattromila persone.

Il principale problema che dovette affrontare la comunità fu quello della pratica religiosa, che fino all’unione stabilita dal Concilio di Firenze nel 1439, fu proibita pubblicamente dalle autorità venete. Con l’unione, la Repubblica accordò la concessione ai greci ortodossi di una cappella nella chiesa di S. Biagio e, nel 1456, il permesso per incominciare la costruzione di una chiesa, che fu, però interdetto nell’anno successivo dal Consiglio dei Dieci.

La volontà della comunità greca di stabilire un centro di culto ortodosso nella città di Venezia, ebbe come effetto la fondazione nel 1498 della Confraternita dei Greci Ortodossi, con sede nella chiesa di S. Biagio. Grazie all’influsso dei soldati greci, che con la sua contribuzione alle guerre fra Venezia e i Turchi godevano di un grande rispetto, il 4 ottobre 1511 la comunità greca ottenne il permesso del Consiglio dei Greci di acquistare un terreno ed edificare una chiesa, che si doveva dedicare a s. Giorgio, il quale permesso fu confermato dallo stesso doge nel 1514. Anche di Leone X ottenne la comunità delle bolle, per le quali potevano costruire una chiesa e usare un cimitero, mentre che Clemente VII li concesse l’esenzione della giurisdizione del patriarca di Venezia, appartenendo in tutto momento sotto la giurisdizione del Patriarca di Costantinopoli.

Nel 1536 s’iniziò la costruzione dell’attuale chiesa di S. Giorgio, che fu ultimata nel 1577, essendo insediato, nello stesso anno, il primo metropolita ortodosso della città, Gabriele Seviros, al quale era stato concesso il titolo di metropolita di Filadelfia dal Patriarca di Costantinopoli. Il resto di metropoliti, successori di Seviros, ostentarono lo stesso titolo.

L’opera della confraternita greca incluse l’apertura, nel 1593, di una scuola di lettere greche e latine e la fondazione, nel 1599, di un monastero femminile greco, dedicato a funzioni educative.

L’occupazione napoleonica di Venezia nel 1797 significò anche la decadenza della comunità greca della città, i cui beni furono confiscati dalle nove autorità. Gli avvenimenti del periodo e la nascita della Grecia indipendente provocarono di nuovo la migrazione dei greci veneziani, rimanendo in città una comunità molto ridotta.

Notevole è stata anche la vicenda della comunità greco ortodossa di Livorno, dove la presenza di greci data dal tempo di Cosimo I di Medici. L’esistenza, dentro della stessa comunità greca, di elementi cattolici e ortodossi provocò numerosi scontri fino che, a metà XVIII, Francesco I concesse agli ortodossi la possibilità di edificare una chiesa, la prima acattolica della Toscana, consacrata nel 1760.

Fonti e Bibl. Essenziale

Aa. Vv., La Chiesa greca in Italia dal VIII al XVI secolo. Atti del Convegno Storico Interecclesiale, Padova 1973; Panessa, G., Le comunità greche a Livorno. Vicende fra integrazione e chiusura nazionale, Livorno 1991; Tiepolo, M. F. et Tonetti, E., I greci di Venezia, Venezia 2002; Vergotti, G., Comunità Ortodosse nella Penisola Italiana, Tessalonica 1989; Zervos, G., I Greci Ortodossi in Campania d’Italia dalla caduta di Costantinopoli sino all’Unità d’Italia ed a Garibaldi, Tessalonica 1999.

LEMMARIO




Chiese Ortodosse - vol. II


Autore: Giovanni Coco

I greci. Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, vi fu un progressivo ricambio nella presenza e consistenza delle comunità greco ortodosse. Le antiche e languenti comunità di Ancona, Livorno e Venezia colsero le opportunità offerte dall’estensione dello Statuto Albertino e, con diversa fortuna, riorganizzarono le primitive confraternite, assicurando con maggiore regolarità il servizio religioso, spesso precario nel passato. Altrove, come a Napoli, i greco-ortodossi si emanciparono dal controllo dei cattolici e ottennero il controllo della chiesa parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo (1865), mentre a Roma venne eretta la chiesa di Sant’Andrea Apostolo come cappella della Legazione greca presso il Quirinale. Nel 1922, con l’istituzione dell’esarcato di Thyatira per l’Europa centrale ed occidentale sotto la direzione del metropolita Ghermanos Strinopoulos (1871-1951), il Patriarcato ecumenico riorganizzava le comunità d’Italia, alle quali si sarebbe aggiunta Milano (1925). L’ortodossia greca avrebbe conosciuto una seconda fase di stallo negli anni del secondo dopoguerra, ma un ulteriore sviluppo sarebbe sopraggiunto negli anni postconciliari grazie al clima più disteso creato dal dialogo ecumenico. Le nuove comunità, più diffuse sul territorio e di carattere più eterogeneo che in passato, si presentavano composte non solo elementi greci ma anche di italiani che, per interesse personale o per matrimonio misto, si erano avvicinati alla Chiesa ortodossa. Nel 1970, su proposta del patriarca Atenagora I, il sacerdote Ghennadios Zervós venne eletto vescovo ausiliare con il titolo di Cratea, e l’anno seguente fu consacrato in Napoli, dove rimase per due decenni a svolgere il ministero pastorale, primo vescovo ortodosso in Italia dopo 257 anni. Nel 1991 il Patriarcato ecumenico istituiva l’Arcidiocesi ortodossa d’Italia e Malta, con cattedrale nella storica chiesa di San Giorgio a Venezia, sede di cui il vescovo Zervós diveniva il titolare con il rango di metropolita; da quel momento si sono moltiplicate nella penisola le parrocchie e le comunità ellenofone, con un significativo sviluppo anche di piccoli centri monastici.

Una menzione a parte merita il caso di Montaner, comune italiano sito in diocesi di Vittorio Veneto. Nel 1967, in seguito alla nomina di un nuovo parroco da parte di mons. Albino Luciani, al tempo vescovo diocesano, la popolazione si ribellò a quel provvedimento con veri e propri atti di violenza che le costarono l’interdetto; per ritorsione una parte dei fedeli passò all’Ortodossia, costituendo una comunità che, dopo tristi vicissitudini, è stata infine incardinata nell’Arcidiocesi ortodossa d’Italia.

I russi. Nel corso del XIX l’Italia divenne sempre più meta di soggiorno dell’aristocrazia, dell’intellighenzjia e dell’alta borghesia mercantile russe, e questo fattore fu determinante per lo sviluppo di una presenza religiosa che, avvalendosi del più robusto ed influente sostegno dell’apparato statale e diplomatico di San Pietroburgo, nonchè del supporto economico del mecenatismo statale e privato, poteva rapidamente conquistare il vuoto lasciato dai confratelli greci. Una piccola chiesa russa (San Nicola il Taumaturgo), cappella dell’Ambasciata russa a Roma, era stata aperta al culto sin dal 1823, ma fu nel 1898 che l’archimandrita Kliment Vernikovskij propose la costruzione di un edificio di culto ortodosso nel cuore della “capitale del Cattolicesimo romano”. La progettazione e l’esecuzione richiesero tuttavia più decenni e la chiesa, eretta come parrocchia nel 1921 dall’archimandrita Simeon Narbekov, venne ultimata solo nel 1932. Inoltre, sotto la spinta del dinamico e discusso vescovo Vladimir Putjata, altre comunità russe si organizzarono sul territorio nazionale, e vennero erette le chiese parrocchiali di San Nicola a Firenze (1899-1903), e di Cristo Salvarore a Sanremo (1912-1913), mentre a Bari fu costruita la chiesa di San Nicola con annessa foresteria per i pellegrini russi (1912-1913). La presenza russa rimase immutata sino al 1918, quando gli eventi rivoluzionari in Russia e il sopraggiungere di numerosi esuli, tra i quali molti piccoli aristocratici, ecclesiastici o funzionari statali rovinati dalla Rivoluzione, cambiò definitivamente l’assetto delle comunità, scosse al loro interno una profonda crisi che, dal punto di vista religioso, culminò nel distacco dalla giurisdizione della chiesa madre di Mosca e nell’aggregazione all’Esarcato russo (oggi Arcidiocesi) in Europa occidentale, creato nel 1926 dal metropolita Evloghij Gheorghievskij (1864-1946) e posto sotto la tutela del patriarcato ecumenico (1930). Inoltre non mancarono crescenti difficoltà sul piano pratico ed economico; emblematica fu la vicenda della chiesa di Bari che, oltre alla chiusura, rischiò persino di essere ceduta al governo sovietico, provvedimento scongiurato anche grazie all’energico intervento di Pio XI, che ne chiese ed ottenne la destinazione al demanio italiano (1937). Unica eccezione in questo desolante panorama fu l’erezione di una chiesa a Milano, centro di attrazione per le nuove correnti di emigrazione. Dal 1945 sino al 1990, a causa del mancato ricambio generazionale, la presenza russa subì una flessione, ma a partire dagli anni ’90, grazie ai nuovi flussi migratori provenienti dagli stati dell’ex-Unione Sovietica, le comunità russofone si sono moltiplicate in quantità e numero. Al presente le comunità ortodosse russofone si presentano organizzate in due distinte giurisdizioni: il decanato d’Italia dell’Arcidiocesi russa per l’Europa occidentale, sotto la tutela del patriarcato di Costantinopoli, e il decanato d’Italia della diocesi di Cherson, appartenente al patriarcato di Mosca. Fanno eccezione la chiesa romana di Santa Caterina sul Gianicolo e di San Nicola di Bari, restituita al culto ortodosso nel 2008, che dipendono direttamente dal patriarcato russo. Inoltre singolare è la posizione della parrocchia di San Marco d’Efeso a Palermo, fondata nel 1985 dal prebistero Gregorio Cognetti: posta inizialmente sotto la giurisdizione di Mosca, attualmente è incardinata nell’Arcidiocesi d’Italia del patriarcato ecumenico.

Altre comunità. Negli ultimi anni il Patriarcato di Bucarest ha istituito sul territorio italiano una vasta diocesi (2007) per assistere i numerosissimi fedeli giunti in Italia, e significativa è anche la presenza di comunità copte, al punto che il Patriarca Shenouda III di Alessandria nel 1995 ha costituito due diocesi (Roma e Torino).

Fonti e Bibl. essenziale

G. Battaglia, L’ortodossia in Italia: le sfide di un incontro, Edizioni Dehoniane, Bologna 2011; A. Cazzago, Il cristianesimo orientale e noi. La cultura ortodossa in Italia dopo il 1945, Jaca Book, Milano 2008; V. Ciciliot, Il caso Montaner. Un conflitto politico tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa, Venezia – Ca’ Foscari, 2004; R.G. Roberson, The Eastern Christian Churches: a brief survey, Orientalia Christiana, Roma 2008; Marija Šurgina, Vsja pravoslavnaja Italija ot Milana do Sicilii: spravočnik-putevoditel’ po monastyrjam i chramam: istorija i architektura; žitija, čudotvornye ikony, mošči, adresa, telefony, Blago Russkij chronograf, Moskva 2007; M. Talalay, Russkaja tzerkovnaja žizn’ i chramostroitel’stvo v Italii, Kolo, Sankt-Peterburg 2011; B.C. Wojcik, An Anthology of Orthodox Churches in Italy, University of Minnesota, Minnesota 1992.


LEMMARIO




Ciampani Andrea


 





Cipollini Francesco


 





Ciriello Caterina


 





Cito Davide


 





Civiero Tiziano


 





Clero secolare - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Con «clero secolare» s’intende l’insieme di tutti quei chierici, dai semplici tonsurati fino agli stessi vescovi, che, vivendo nel «secolo» (nella società, a contatto diretto e quotidiano con i laici), sono incardinati in una diocesi o in una chiesa particolare, senza l’obbligo di seguire la regola di un ordine regolare e professare i voti di povertà, obbedienza e castità. Nella storia del clero diocesano, il Concilio di Trento costituisce uno spartiacque fra il Rinascimento e il periodo successivo, fino alle soglie della Rivoluzione francese, benché non siano mancate trasformazioni anche fra gli inizi del XVII secolo e la fine del XVIII; tuttavia questi processi non costituirono una vera novità, ma furono lo svolgimento di una svolta iniziata già nella seconda metà del Cinquecento. Nel corso del basso Medio Evo all’interno della Chiesa cattolica le istituzioni ecclesiastiche diocesane, al cui servizio erano addetto prevalentemente questi chierici, si erano andate conformando con ritmi e modi diversi da regione a regione al modello del «beneficio», ma il sistema beneficiale parve crollare durante l’età rinascimentale. Nel secolo e mezzo precedente il Concilio di Trento, la Chiesa cattolica aveva attraversato una stagione di anarchia istituzionale vissuta all’insegna della caccia ai benefici ecclesiastici, per accumulare rendite sacre e per usare i poteri ecclesiastici secondo finalità politiche. Un simile disordine aveva prodotto danni gravissimi nell’amministrazione dei sacramenti, nella cura d’anime e nella giurisdizione spirituale, precipitati in una condizione di confusione generalizzata, con ampie aree caratterizzate dal vuoto istituzionale in ambito ecclesiastico e dall’assenza di sacerdoti. Mentre nel Basso Medio Evo gli uffici ecclesiastici territoriali erano stati tenuti e gestiti da un clero secolare in grande prevalenza di estrazione locale, in età rinascimentale questi uffici furono occupati da un gran numero di forestieri o di chierici cittadini, che, detenendo la titolarità formale dei benefici, ne consumavano le rendite e i beni dotali, facendosi sostituire solo raramente da preti mercenari di dubbie qualità morali e intellettuali. Questa situazione era legittimata dalla Curia romana, che dispensava, a pagamento, dall’osservanza delle norme canoniche: divieto di cumulo degli uffici, residenza, possesso degli ordini sacri maggiori (irrinunciabili), rispetto dei diritti di collazione e patronato.

Proprio da questo periodo emerge un’incipiente divaricazione nelle fortune dei chierici delle due grandi aree italiane: poiché presso la Curia romana erano attive le succursali dei banchieri del Centro-Nord, i chierici di quest’area erano facilitati nell’affrontare le pratiche finanziarie per impadronirsi dei benefici. Inoltre, alcuni stati territoriali delle medesime regioni cominciarono a istituire uffici pubblici per controllare l’accesso agli uffici ecclesiastici. All’inizio si trattò di misure adottate per finalità politiche: impedire ai propri avversari di accedere agli uffici e favorire partigiani, clienti e familiari. Tuttavia, per stati territoriali centralizzati e autocefali questa prassi governativa poteva accrescere le occasioni occupazionali del clero locale, che ricorreva al potere politico per ostacolare le nomine in favore di concorrenti stranieri. Infine, un altro segnale è offerto dalla presenza di sacerdoti corsi, sardi e siciliani nelle regioni tirreniche: un personale che, pur possedendo un livello culturale al limite dell’analfabetismo, era impiegato nella cura d’anime e nell’amministrazione dei sacramenti in sostituzione dei rettori cumulatori e assenteisti. La disoccupazione cronica dei sacerdoti sardi dipendeva non tanto da una miseria congenita delle loro terre, bensì dall’usurpazione degli uffici cittadini da parte dei chierici d’origine iberica e dall’«ammensamento» dei benefici rurali a favore dei più forti corpi ecclesiastici urbani. Anche se fra il XV e il XVI secolo questo fenomeno interessò tutte le diocesi italiane, e non solo quelle sarde, probabilmente i suoi effetti furono meno gravi nell’Italia continentale. Qui, era più difficile legittimare su larga scala simili operazioni, a causa delle stesse caratteristiche degli insediamenti umani e dei rapporti di produzione esistenti sul territorio, e il reticolo più fitto dei centri urbanizzati favorì la persistenza dei benefici curati negli edifici religiosi dislocati sul territorio.

La nascita di associazioni di ecclesiastici diocesani, come i Preti Secolari di Genova, sul finire del Quattrocento, e, nella prima metà del secolo successivo, i Preti del Buon Gesù di Ravenna, i Preti Contemplativi di Parma o i Preti Riformati di Tortona testimonia la presenza anche nel clero secolare d’istanze di autoriforma ecclesiale testimonia   . Dediti all’attività sacramentale e all’istruzione religiosa di chierici e laici, questi sacerdoti diocesani costituirono il primo esempio di un fenomeno che si ripresentò anche altre volte nell’età moderna, almeno alla fine del Cinquecento e poi ancora un secolo dopo. Nell’età della Controriforma l’iniziativa più nota e fortunata fu intrapresa a Milano dall’arcivescovo Carlo Borromeo con i suoi Oblati di S. Ambrogio, dai quali agli inizi del XVIII secolo germinarono gli Oblati missionari di Rho; ma vanno ricordate pure le associazioni ecclesiastiche secolari sorte a Novara e a Pescia, e soprattutto la società dei Pii Operai, fondata a Napoli dal sacerdote Carlo Carafa. Nell’età innocenziana i vescovi manifestarono un visibile sostegno a questi istituti: così, per esempio, su stimolo degli stessi Pii Operai e con il favore degli ordinari, anche a Capua nacque una congregazione di sacerdoti diocesani dediti alla predicazione delle missioni popolari.

Nonostante questi fermenti di autoriforma, il quadro del clero secolare che emerse ancora alla fine del Cinquecento in occasione delle visite pastorali e apostoliche era assai negativo. Il clero appariva culturalmente inadeguato al proprio ruolo, per la diffusa incapacità a comprendere e tradurre in volgare i testi scritti in lingua latina e per la presenza di sacche di analfabetismo. Spesso le celebrazioni liturgiche erano ufficiate senza la lettura del messale (assente in molte chiese), pronunciando formule incomplete e prive di significato, secondo schemi memorizzati nell’apprendistato presso qualche sacerdote, senza aver frequentato le lezioni di un maestro, oppure una vera scuola ecclesiastica. Fra i sacerdoti più assidui nella residenza non pochi erano coinvolti nelle forme meno ortodosse della religiosità popolare: preti disposti a seguire i fedeli nelle pratiche considerate superstiziose, ad assisterli in riti non ammessi dalla gerarchia, a offrire la stessa materia dei sacramenti per funzioni religiose intrise di superstizioni. Sul piano dei comportamenti morali i chierici si differenziavano poco dai laici: gli uni come gli altri erano violenti sia nei rapporti sociali, sia negli affetti e nella sessualità fondata sulla prepotenza: i fedeli, infatti, apprezzavano i parroci conviventi more uxorio con una sola donna, secondo il modello tradizionale latino dell’uomo onesto e ben costumato, mentre criticavano i chierici che, con gli atteggiamenti prevaricatori e disordinati tipici di nobili e facinorosi, turbavano la quiete domestica altrui. Il programma disciplinatore della Controriforma cattolica impose al clero secolare un forte elevamento culturale: la trasmissione orale del sapere religioso e della pratica liturgica doveva essere sostituita da una preparazione teologica e letteraria codificata, fondata sulla pratica della lettura-scrittura e sulla conoscenza della lingua latina, pena la bocciatura agli esami imposti per accedere per gli uffici ecclesiastici con cura d’anime davanti alle commissioni diocesane composte da canonici laureati in utroque iure e da monaci e frati esperti in teologia (gli «esaminatori sinodali»). A tal fine in ogni diocesi doveva sorgere un seminario vescovile, nel quale gli aspiranti all’ordine sacro avrebbero ricevuto l’istruzione letteraria di base e la preparazione teologica e liturgica, ma questo precetto ebbe una scarsa applicazione nel Cinquecento perché i vescovi italiani erano privi dei mezzi finanziari sufficienti per fondare, dotare e mantenere le scuole-convitto capaci di preparare una quota consistente del clero secolare. Solo tardivamente, nella seconda metà del Settecento, fu realizzata la costruzione di una rete di seminari diocesani: fallito il progetto di utilizzare i patrimoni dei cosiddetti «conventini» per dotare i seminari alla metà del Seicento, questo successo del riformismo settecentesco fu reso possibile dalla scelta politica di impiegare in questo delicato settore una parte delle risorse rastrellate con la soppressione di molte case degli ordini regolari. L’attenzione alla qualità nella formazione del clero diocesano interessò i governi illuminati degli stati italiani, ma assunse un aspetto particolare nel ducato di Milano, dove Giuseppe II dette vita nel 1787 a un’istituzione centralizzata: il Seminario Generale di Pavia, sottoposto direttamente al governo e finalizzato a una rigorosa uniformizzazione della preparazione spirituale del clero lombardo. Eppure, già dal Seicento si nota una crescita del livello culturale del clero diocesano impegnato nella cura d’anime e dei membri dei capitoli cattedrali. Mentre la generazione in servizio all’atto del Concilio riuscì in un modo o in un altro a salvaguardare la propria condizione precedente per lungo tempo, le nuove generazioni s’industriarono per trovare a proprie spese i mezzi per imparare a leggere e scrivere in volgare e in latino. In questo processo di elevazione culturale un ruolo fondamentale fu svolto non solo dalle nuove congregazioni regolari, nate proprio con queste finalità e operanti prevalentemente nelle città, ma anche dalla rete distesa a maglie strette su tutta la Chiesa italiana dagli ordini regolari tradizionali. Sono fenomeni complessi, difficili da decifrare prima ancora di quantificarli, ma certamente la presenza di piccoli insediamenti di frati mendicanti nelle campagne ebbe un effetto positivo anche sul versante della formazione del clero secolare rurale: anche in questo ambito intervenne la diffusa presenza dei Regolari, che già supplivano alle deficienze del clero diocesano sul pulpito, sulla cattedra e nel confessionale.

Quanto ai comportamenti morali, il programma cattolico di disciplinamento dei chierici si caratterizzò per la netta distinzione nei confronti dei laici per evidenziare la sacralità insita nella persona ecclesiastica. Alla distinzione nei costumi esteriori (vesti, attività manuali e intellettuali, ecc.) si doveva accompagnare una più rigorosa separazione dai laici, astenendosi dai luoghi e dalle occasioni della socialità umana (piazze, osterie, locande, teatri, «veglie», banchetti, balli, feste nuziali, serenate), «praticando» solo altri ecclesiastici ed evitando le «pericolose conversazioni» con i laici. Questo ideale clericale di stampo monastico non si adattava alle effettive condizioni materiali di vita dei maschi. A parte chi era necessitato a ricorrere alla manodopera femminile per i servizi domestici, molti sacerdoti dovevano e volevano adempiere alle responsabilità di ogni maschio italiano, prendendosi cura di madri, sorelle, cugine, cognate e nipoti: nei casi di parentela stretta, la nostra tradizione imponeva la solidarietà e la convivenza sotto il medesimo tetto. Anche il risultato effettivo della repressione della sessualità degli ecclesiastici è opinabile: l’insistenza delle autorità ecclesiastiche nei confronti della sollicitatio ad turpia da parte dei confessori fa pensare che i chierici abbiano avuto gli stessi comportamenti dei loro coetanei laici. Maggior successo ebbe la lotta contro il concubinato del clero: nonostante la tradizione giuridica e sociale favorevole alle relazioni stabili fra le persone non coniugate con altri, grazie all’accordo fra la gerarchia ecclesiastica e i poteri politici i sacerdoti dovettero rinunciare alle convivenze pubbliche more uxorio, limitandosi a relazioni segrete, possibilmente con donne residenti in altre località, tranne in alcune aree periferiche (Alpi, dorsale appenninica, Maremma) e nelle isole, dove la vigilanza delle gerarchie era meno efficace. Tuttavia, pur marginale è rimasto un elemento di contraddizione, destinato a crescere nei nostri giorni in virtù della massiccia presenza d’immigrati euro-orientali di rito cattolico-unito: nelle comunità grecaniche e albanesi della Sicilia, della Calabria, della Puglia e di Cargese in Corsica il culto sacro era officiato secondo l’antico rito greco-cattolico da sacerdoti che conservavano dell’antica disciplina ecclesiastica orientale il diritto di sposarsi prima di assumere gli ordini sacri maggiori. La latinizzazione delle comunità grecaniche, perseguita dalla gerarchia episcopale per eliminare lo «scandalo» della differenza di disciplina, riuscì nelle zone dove maggiore era la contiguità con le popolazioni latine, come in Puglia, ma fallì dove la Chiesa di rito greco era arroccata in paesi più isolati o dove, come nella stessa Venezia o nei domini genovesi e nella Livorno medicea, i governi avevano adottato politiche protettive nei confronti di chi manteneva relazioni con i popoli delle coste orientali del Mediterraneo.

Per quanto riguarda l’obbligo della residenza nella sede d’ufficio, mentre ai chierici secolari di estrazione urbana fu concesso lo sfruttamento dei benefici posti nelle chiese cittadine e di molti benefici rurali ridotti a cappellanie semplici e privati della cura d’anime, nelle campagne si liberarono numerosi uffici curati, ormai divenuti scarsamente appetibili da parte dei chierici cittadini, poiché richiedevano la residenza personale sul luogo dell’ufficio. A questo punto la professione ecclesiastica tornò a offrire prospettive valide sia per i giovani, sia per le loro famiglie, disponibili a investire mezzi finanziari ed energie nella professione sacerdotale, facendo affidamento sul godimento dei diritti di patronato privato e comunitario. Nel contempo, anche le comunità rurali, che non avevano mai cessato di vigilare con attenzione sulla qualità dei servizi religiosi ritenuti essenziali, ripresero a investire nel sacro con la sicurezza che le risorse impiegate non sarebbero state asportate da chierici forestieri residenti altrove. Il flusso d’investimenti da parte degli enti pii e delle comunità andò a vantaggio sia del mantenimento di un personale ecclesiastico locale, sia di un livello più elevato di funzioni religiose, come la celebrazione di una seconda messa nei giorni festivi, la presenza di un secondo sacerdote nel confessionale, la predica durante la Quaresima e l’Avvento, o il suono dell’organo a canne per accompagnare la liturgia sacra. L’esistenza di una massa di legati pii si tradusse nella crescita del cumulo delle messe: la loro celebrazione era ricompensata con l’«elemosina manuale» o «tassa», stabilita periodicamente dall’ordinario diocesano locale, per adeguarla al costo della vita. D’altronde, questo ingombrante numero di oneri sacri alimentava la crescita del personale ecclesiastico, creando una ragionevole aspettativa di lavoro nel sacro: grazie alla celebrazione di queste messe non sarebbe mancato il mezzo per procacciarsi il pane quotidiano esercitando il mestiere di sacerdote. Infine, nelle regioni centro-settentrionali borghi e comunità rurali istituirono «condotte» di cappellani-maestri di scuola: furono stipendiati sacerdoti che insegnavano ai bambini i rudimenti della lettura, della scrittura e dell’aritmetica e celebravano la seconda messa domenicale nella chiesa parrocchiale, oltre ad assistere il parroco nel ministero della confessione e nell’istruzione della dottrina cristiana.

Questa situazione in movimento trovava il suo fondamento in due presupposti: da un lato, una forte difesa delle «pertinenze laicali» da parte del potere politico statale, indipendentemente dal vantaggio immediato per gli alleati, i clienti, i familiari, i partigiani e via dicendo (e proprio in ciò si potrebbe constatare il salto di qualità rispetto allo stato rinascimentale); dall’altro lato, un’incidenza assai ridotta dell’immunità fiscale e personale dei chierici, tale da poter escludere o minimizzare la rilevanza di questo specifico incentivo per coloro che intraprendevano la carriera ecclesiastica. Questi fenomeni si saldarono con i risultati conseguiti dal programma di disciplinamento del clero secolare nelle regioni centro-settentrionali: senza diventare casti e pii e senza abbandonare del tutto le «pericolose conversazioni» con i laici, i sacerdoti assunsero, comportamenti più riservati e non «scandalosi». Sullo sfondo si stagliano nettamente quelle «strategie familiari» e comunitarie, nelle quali le finalità economiche s’intrecciavano con motivazioni di prestigio e onorabilità sociali, cumulando eredità patrimoniali con non meno importanti «eredità immateriali». Ideare e perseguire simili strategie, nelle quali il sacerdozio si presentava sotto il profilo della «professione», richiedeva la presenza di regimi politici stabili, intenti a salvaguardare l’ordine sociale interno all’interno delle garanzie del diritto tradizionale, sufficientemente autonomi dalle pressioni della Curia romana e privi di reali interessi a favorire forestieri o sudditi provenienti da altre regioni o nazioni: proprio il contrario di quanto avveniva nei domini spagnoli.

Questo sistema, infatti, non ebbe successo nell’Italia centro-meridionale e insulare, per la quale si può parlare di sacerdozio come «condizione». Qui continuarono a trovare applicazione le cosiddette «regole di Cancelleria» della Curia romana, comprese la provvisione apostolica ai benefici ecclesiastici locali e l’imposizione di pesanti pensioni sulle rendite beneficiali a favore di forestieri, a danno dei chierici del posto e dei loro patroni, disincentivati a finanziare le Chiese locali . Una maggiore impermeabilità alle ingerenze esterne fu dimostrata dalle chiese «ricettizie» a massa comune indivisa, quando riuscivano a impedire che l’ordinario diocesano locale s’intromettesse nel controllo dei patrimoni, nella gestione degli uffici, nella nomina dei chierici «partecipanti». Ancora nel Settecento la difesa dell’autonomia del clero ricettizio nei confronti della giurisdizione vescovile costituì un caposaldo della politica giurisdizionalistica dei Borboni nell’alveo della tradizione anticuriale, perché chiudere la porta all’intrusione dei vescovi significava anche sbarrare l’accesso alle provvisioni apostoliche nei mesi «riservati» alle nomine della Curia romana. A differenza del Centro-Nord, nel Mezzogiorno i chierici in minoribus costituirono sempre un’ampia aliquota del clero secolare, al quale si aggiungevano i «chierici coniugati» o «salvatici», i «diaconi selvaggi», i «varas», i «monazillos» e altri ancora, che godevano i privilegi clericali con il matrimonio e la famiglia. Allo stesso modo degli oblati delle congregazioni regolari e delle «bizzoche», in cambio dei loro servizi come sagrestani, come «procuratori» delle chiese, come «cursori» vescovili, come guardie armate, questi tonsurati chiedevano alla Chiesa solo la duplice protezione del privilegio clericale: l’esenzione dai tributi fiscali e l’immunità personale nei confronti delle corti giudiziarie civili. Nella Chiesa meridionale, la pratica dell’ordinazione a titolo di patrimonio personale e l’uso di attribuire ai figli chierici la titolarità del patrimonio domestico raggiunsero dimensioni altrove sconosciute, scatenando una forte conflittualità sociale all’interno di ogni comunità, nonché la reazione dei baroni, allarmati dalla diminuzione dei soggetti fiscali. Infatti, poiché il regime fiscale d’antico regime si basava sulla ripartizione delle imposte fra le comunità e i feudi, l’assegnazione legale di patrimoni privati ai chierici consentiva alle loro famiglie di eludere l’imposizione fiscale civile, con la conseguenza di accrescere il carico dei tributi gravante sulle famiglie prive di chierici. D’altronde, nel Meridione e in Sicilia sin dalla prima metà del Seicento – quindi assai prima dell’esplosione di un fenomeno analogo negli stati centro-settentrionali – era imponente anche il numero dei chierici che permanevano negli ordini sacri minori, senza ascendere al sacerdozio: chierici inutili per il servizio sacro, non impiegabili in alcuna funzione religiosa e pronti a tornare allo stato laicale con il semplice consenso di un vescovo compiacente.

L’emigrazione dei preti dalle campagne verso le città e da una regione all’altra d’Italia è un altro capitolo fondamentale nella storia del clero secolare. Accanto ai due modelli indicati, con le loro varianti (la «coloniale» sarda e l’«indisciplinata» còrsa), vi era tutta una molteplicità di aree, geograficamente assai diverse ma assimilabili sotto la categoria di «periferia». Qui, dove i poteri politici erano frammentati e non vi era una precisa coincidenza fra le circoscrizioni diocesane e i distretti civili o addirittura gli stati, i vescovi non riuscivano a controllare i propri chierici, né potevano verificare il conferimento degli ordini sacri maggiori, ottenuto non a titolo di beneficio, bensì a titolo di patrimonio personale: un patrimonio spesso fittizio, perché concesso all’ordinando solo temporaneamente da parenti compiacenti. Questa finzione favoriva la crescita di un clero secolare composto da sacerdoti pronti a emigrare per guadagnarsi la vita nelle regioni più ricche con gli strumenti del mestiere: la celebrazione della messa e, ottenuta la licenza da parte degli ordinari locali, l’amministrazione di altri sacramenti, come la confessione. Dopo un rallentamento nei decenni del post-Tridentino, questo flusso di mercenari del sacro si riattivò nel Seicento a causa della persistenza degli uffici di vicari amovibili e della ripresa di fondazioni sacre. Fra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento la richiesta di manodopera sacramentale fu alimentata dall’accentuarsi del fenomeno di «non-sacerdotalizzazione» dei chierici titolari di benefici semplici e fruitori di rendite ecclesiastiche secondo modalità meramente parassitarie, proprio mentre esplodeva la «clericalizzazione» della società italiana con conseguenze disastrose per la disciplina di un corpo ecclesiastico divenuto pletorico. La crescita del numero dei chierici secolari rese chimerico il progetto di un clero secolare differenziato e separato dal suo contesto sociale, impedì ai vescovi la gestione della preparazione culturale dei chierici e fece riemergere costumi e comportamenti tipicamente laicali. Sullo scorcio del secolo, nell’«età innocenziana», spinta dalle congregazioni romane e dai pontefici, la gerarchia episcopale rinnovò la sua attenzione nei confronti della formazione e dei costumi del clero diocesano. Inasprite le verifiche al momento delle ordinazioni sacre e degli esami sinodali per la collazione dei benefici, furono imposte a tutti i chierici la frequenza alle conferenze sui «casi di coscienza» e agli «esercizi spirituali»; furono incoraggiate le attività delle congregazioni regolari e secolari dedite all’istruzione del clero e la nascita di nuove associazioni sacerdotali; fu intensificata l’attività ispettiva delle visite pastorali, rivolta soprattutto al controllo delle funzioni sacramentali e amministrative degli ecclesiastici, furono favorite le missioni popolari che intervenivano con particolare attenzione sui costumi e sui comportamenti dei chierici. Il rinnovato impegno di alcuni vescovi si protrasse per alcuni decenni, grazie anche all’intervento propulsivo delle congregazioni romane e di pontefici come Benedetto XIV, e confluì nell’alveo del riformismo cattolico di stampo muratoriano. Più incisivi, però, furono gli interventi governativi, ancorché non omogenei fra stato e stato. Per esempio, nel Sud borbonico e nel Piemonte sabaudo si puntò a frenare la crescita del clero aggravando i requisiti per le ordinazioni ecclesiastiche, mentre nella Lombardia e nella Toscana lorenesi si mirò prima a disincentivare le fondazioni di nuovi benefici non curati e a incardinare tutto il clero nelle chiese curate, ponendolo al servizio dei parroci. Nell’insieme si avviò così un processo di «sacerdotalizzazione» del clero secolare, che, sospinto a procedere nell’ordinazione sacra, fu obbligato a lavorare «nella vigna del Signore», impegnandosi nelle funzioni religiose e nell’assistenza alla cura d’anime. Nel complesso, anche per il clero secolare iniziò una fase discendente sul piano dei numeri: come per i regolari, a questo fenomeno contribuì la diffusione di una cultura secolarizzata, in larga misura di provenienza ultramontana ma non estranea alla nostra tradizione umanistica.

La sacerdotalizzazione del clero secolare superò i drammi della Rivoluzione e le illusioni passatiste della Restaurazione, diventando un fatto acquisito. Lo scontro frontale tra i nuovi ideali, e la dottrina della Chiesa cattolica relegò in secondo piano le antiche «strategie familiari» e le antiche forme di composizione sociale, con il ruolo essenziale assunto dal parente prete e/o dai patrimoni degli uffici sacri. In ambito ecclesiastico la rivoluzione sostituì a questo sistema nuove motivazioni ideologiche e con esse una nuova «vocazione» sacerdotale, basata sulla scelta individuale fra «il rosso» e «il nero».

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Clero secolare - vol. II


Autore: Maurilio Guasco

Particolarmente numeroso nel corso del XVIII° secolo, anche il clero avrebbe subito le conseguenze dei rivolgimenti avvenuti in Europa durante il XIX° secolo. Verso la metà di questo secolo, i preti secolari e i religiosi assommano in Italia a circa 100.000 unità, per una popolazione di 23 milioni di abitanti. Tale cifra è però destinata a diminuire a partire dagli anni Cinquanta, causa i molti abbandoni dello stato clericale determinati dagli eventi politici, dalle leggi eversive e dall’incameramento dei beni ecclesiastici. Questo era dovuto in parte da una formazione religiosa e culturale alquanto carente, sia dalle possibilità che la nuova situazione offriva a quanti, dotati di una buona formazione, delusi dello stato sacerdotale o coinvolti nelle varie speranze rivoluzionarie, avevano la possibilità di trovare una lavoro soprattutto in campo scolastico. Casi come quelli di Bertrando Spaventa o Roberto Ardigò erano emblematici, ma non erano i soli. Lo stesso Giosuè Carducci avrebbe espresso un certo stupore per la rilevante presenza nelle scuole di preti che avevano abbandonato lo stato sacerdotale.

Non va neppure dimenticato che, nonostante il crescente conflitto tra lo Stato e la Chiesa, spesso le autorità locali si appoggiavano ai parroci, che continuavano a svolgere un ruolo fondamentale sia per l’educazione delle popolazioni, sia anche per facilitare alle stesse popolazioni l’accettazione della nuova situazione. Era spesso, come è noto, il canto del Te Deum in chiesa a legittimare i passaggi territoriali alle nuove autorità. Tutto questo mentre a livello nazionale si accentuava il conflitto tra Stato e Chiesa, con l’atteggiamento intransigente del pontefice, ma anche con l’autorità politica che non concedeva ai nuovi vescovi gli exequatur, incamerava i beni ecclesiastici e cercava di esercitare un controllo sulla vita religiosa e sui seminari.

Per meglio opporsi a simili atteggiamenti da parte dello Stato, diversi preti avrebbero fondato associazioni allo scopo di rivendicare i propri diritti. Si trattava di atteggiamenti che avrebbero impensierito anche l’autorità ecclesiastica, che temeva che i preti assumessero atteggiamenti rivendicativi anche nei suoi confronti, rompendo la prassi che vedeva un clero del tutto sottomesso all’autorità superiore, che regolava ogni aspetto della vita di quello che qualcuno avrebbe definito quasi un “proletariato di Chiesa”. Tra l’altro, le varie associazioni troveranno nel 1917 un punto di arrivo con la nascita della FACI (Federazione tra le Associazioni del Clero Italiano).

Il secondo Ottocento però vede anche una modifica profonda nei modelli ecclesiastici. Scompaiono alcune figure caratteristiche, tipo il precettore di famiglia, per lasciare il posto a un prete che si dedica maggiormente alle diverse attività pastorali, considerando tali anche le attenzioni dedicate alle problematiche sociali, un’attenzione fortemente diffusa nel mondo cattolico in generale, causa anche il rifiuto della partecipazione alla vita politica nel nuovo Stato, decisa da Pio IX per protesta contro l’occupazione di Roma. Se sono molto noti i “preti sociali” piemontesi, tipo don Bosco, Cottolengo e Murialdo, si può dire che in ogni città sono presenti figure analoghe di preti.

Lentamente, ma quasi inesorabilmente, si discuterà di un possibile ritorno alla vita politica: ed è emblematico che i primi veri e propri partiti politici siano fondati da due preti, Romolo Murri che dà inizio nel 1901 alla Democrazia cristiana e Luigi Sturzo nel 1919 al Partito Popolare. L’attività sociale e il dibattito sul ritorno alla vita politica determina anche, soprattutto a fine Ottocento, la nascita di molti settimanali diocesani, in massima parte diretti da preti.

Causa la proibizione da parte del pontefice nel primo caso, e la scomparsa dei partiti voluta dal regime fascista nel secondo, quelle organizzazioni politiche avranno vita breve, ma restano come il segno di un nuovo impegno dei preti nella vita del paese. Ma la proibizione che ferma Murri è anche causata dalla crisi modernista, mentre per Sturzo sarà la scelta, sostanzialmente obbligata, da parte della gerarchia cattolica di non accentuare i conflitti con il nascente regime fascista. Il risultato sarà lo spostamento da parte del clero verso un’attività più specificamente spirituale, nelle parrocchie o nelle associazioni, a loro volta impedite di fare attività che non sia di carattere eminentemente spirituale.

Fra le due esperienze però se ne colloca un’ altra, che segnerà fortemente il clero italiano, il trauma della prima guerra mondiale. Saranno 15.000 i preti richiamati alle armi, e tra questi 2.500 svolgeranno il ruolo di cappellani militari. La condivisione della vita dei soldati li porterà a scoprire nuove dimensioni del loro impegno pastorale; per alcuni invece sarà la premessa di simpatie verso il movimento nazionalista e poi fascista, che alimenterà le scelte di non pochi preti italiani.

Un’altra guerra avrà forti conseguenze sul clero di ogni regione e tendenza. Scarsamente coinvolto, come d’altronde non pochi italiani, negli entusiasmi bellicosi del fascismo, molti preti si ritroveranno coinvolti in un’opera di assistenza morale e materiale delle popolazioni, soprattutto negli ultimi due anni del conflitto. Sarà proprio l’opera di carità svolta verso tutti uno dei segni caratteristici della vita del clero italiano, in non pochi casi coinvolto o nella lotta di Resistenza contro il nazi-fascismo, o nella direzione ed assistenza di popolazioni abbandonate dalle autorità locali.

Anche l’opera di ricostruzione avrebbe coinvolto i preti a diversi livelli. Se persiste e si rafforza il modello pastorale, in tale modello molti includono anche l’attività politica che si sarebbe sviluppata collateralmente al partito considerato quasi il partito cattolico, la Democrazia cristiana, spesso tramite l’organizzazione dei Comitati civici, un’associazione che aveva come scopo evidente la collaborazione con la Democrazia cristiana soprattutto nell’opera di propaganda elettorale. Non poche sezioni di tale organismo avrebbero trovato la loro sede proprio nelle parrocchie.

Come quasi sempre in epoca di ricostruzione (o restaurazione), anche negli anni Cinquanta il clero italiano avrebbe avuto un forte aumento numerico, grazie alla forte crescita degli ingressi nei seminari. Continuava però un tipo di formazione molto tradizionale, con un clero quindi spesso molto ubbidiente e devoto, ma forse privo di quegli strumenti culturali che gli avrebbero permesso di risentire meno della crisi che avrebbe coinvolto anche le istituzioni ecclesiastiche negli anni successivi al Concilio.

Vi erano logicamente figure che proponevano modelli diversi di impegno pastorale. Tra queste, si può ricordare don Zeno Saltini, fondatore della comunità di Nomadelfia, o uno dei modelli più significativi di parroco, don Primo Mazzolari, o infine uno dei preti più discussi ma anche più significativo nel suo impegno per la formazione dei ragazzi più poveri, don Lorenzo Milani.

In quegli stessi anni poi cambiava la mentalità missionaria del clero. Si era diffusa, grazie a padre Paolo Manna, l’Unione missionaria del clero, ma non era previsto che un prete diocesano potesse partire per i territori di prima evangelizzazione senza entrare in una Congregazione religiosa. Pio XII, con l’enciclica Fidei donum del 1957, chiedeva alle diocesi europee di mettere a disposizione per un tempo determinato qualche prete che aiutasse le giovani Chiese a crescere e diventare autonome. Tale enciclica avrebbe spinto vari preti, indicati appunto con il termine di Fidei donum,verso territori di missione per un impegno a tempo. Una scelta che apriva orizzonti diversi anche alla formazione del clero, e contribuiva a creare un legame organico tra la diocesi da cui partiva il prete e quella in cui operava.

Il Concilio Vaticano II avrebbe segnato gli anni Sessanta, anche se i documenti concernenti il clero non erano molto innovativi. Sarebbe stato comunque non il Concilio, come non pochi hanno voluto sostenere, ma i cambiamenti sviluppatisi nella società che sfociarono negli eventi del 1968 ad accentuare una crisi generale che si andava diffondendo, determinando un forte abbandono del ministero sacerdotale da parte di molti preti e un’altrettanto forte crisi di identità che coinvolse anche quanti restarono nel ministero. Furono almeno 1.300 i preti italiani che abbandonarono il ministero tra il 1969 e il 1979, un fenomeno anche maggiore nei diversi paesi occidentali, con una punta massima nei Paesi Bassi, mentre sarebbe crollato il numero di giovani che entravano nei seminari. E non furono pochi i preti rimasti ai loro posti a vivere una forte crisi di identità, mentre alcuni di loro davano origini alle diverse comunità di base. Di fronte alla contestazione, che metteva in causa anche il celibato dei preti, Paolo VI il 24 giugno 1967 avrebbe ribadito la dottrina tradizionale con l’enciclica Sacerdotalis caelibatus.

Dalla Francia arrivavano gli echi di una delle vicende più significative della storia religiosa di quel paese, la storia dei preti operai, iniziata nel periodo finale della guerra, cresciuta dopo il 1945 e andata in crisi negli anni Cinquanta, fino alla sospensione del 1954 e alla definitiva chiusura del 1959. Il Concilio però aveva modificato le decisioni romane, lasciando aperta la possibilità di un lavoro salariato anche per i preti. Ma la prima esperienza francese avrebbe solo in parte segnato quanto si sarebbe svolto in Italia: fu don Sirio Politi a seguire l’esempio francese, ma senza grande seguito.

Verso la fine degli anni Sessanta però anche in Italia, dove rimane maggioritaria la presenza dei cappellani di fabbrica, si verifica il passaggio al lavoro di un numero non rilevante di preti, non sempre in accordo con l’autorità ecclesiastica. La scelta non era sempre originata, come era avvenuto in Francia, dalla ricerca di nuovi strumenti per la evangelizzazione della classe operaia, ma piuttosto dal desiderio di sentirsi membri di quella classe, che sembrava destinata a diventare il vero motore della trasformazione della società.

Al di là dei dibattiti che tale vicenda avrebbe suscitato, essa però aveva il merito di mettere in causa quel modello tridentino di sacerdozio che sembrava immodificabile e quasi eterno. Se il modello tridentino, di un prete la cui vita era tutta segnata dall’attività pastorale, rimaneva il modello maggiormente diffuso, si poteva parlare di modi diversi di vivere lo stesso sacerdozio, in un presbiterio che era nel suo insieme incaricato dell’evangelizzazione di un determinato territorio, e che in vista di questa poteva chiedere ai preti di svolgere delle funzioni diverse da quelle tradizionali, in una società diventata pluralista e complessa.

La promulgazione del nuovo codice di diritto canonico, avvenuta nel 1983, e la modifica dei patti lateranensi, ratificata nel febbraio 1984, prevedevano anche delle novità importanti per il clero, a partire dalla diversa organizzazione del suo sostentamento materiale, che contribuiva a superare quelle forti differenze, anche di carattere economico, che si erano formate tra i preti, anche se la garanzia della sicurezza economica toglieva ai preti la possibile scelta di una vita segnata dalla radicalità del messaggio evangelico.

Negli ultimi anni la situazione è ulteriormente cambiata. Alla difficoltà a ricoprire tutti gli incarichi pastorali, conseguenza della forte crisi numerica del clero italiano, sembra in parte ovviare la crescente presenza di preti provenienti dall’Africa, dall’Asia o dall’America latina. Questo aprirà un capitolo del tutto nuovo nella storia del clero in Italia.

Fonti e Bibl. Essenziale

P. Crespi, Prete operaio. Testimonianze di una scelta di vita, Edizioni Lavoro, Roma 1985; A. Erba, “Proletariato di Chiesa” per la cristianità. La FACI tra curia romana e fascismo dalle origini alla Conciliazione, 2 voll., Herder, Roma 1990; M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Pagus, Paese (Tv) 1991; F. Garelli (ed.), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Il Mulino, Bologna 2003; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1997; M. Lupi, Clero italiano e cura pastorale in età contemporanea. Fonti e dibattito storiografico, in “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, LX (2006), n.1, 69-89; R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Studium, Roma 1980; L. Pacomio, G. Ravasi, B. Maggioni (ed.), I preti. Da 2000 anni memoria di Cristo tra gli uomini, Piemme, Casale Monferrato 1991; M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992; R. Zecchin, I sacerdoti Fidei donum. Una maturazione storica ed ecclesiale della missionarietà della Chiesa, Pontificie Opere Missionarie, Roma-Padova 1990; M. Guasco, Il clero curato: modelli e sviluppi, in Cristiani d’Italia, II, Roma 2011, 869-880.


LEMMARIO