Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
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Collegi - vol. I


Autore: Raffaele Savigni

I collegi universitari, nati come istituzioni sussidiarie dell’Università, rappresentano un’istituzione tipicamente rinascimentale e moderna. Nel Medioevo essi avevano svolto un ruolo piuttosto marginale, ospitando una minoranza di studenti (non più del 10-20 %). Il primo collegio documentato è quello fondato nel 1180 presso l’Hôtel-Dieu di Parigi, per studenti poveri, da un pellegrino inglese di ritorno dalla Terrasanta; a metà del ʼ200 il fenomeno si intensificò con la fondazione della “Maison de Sorbonne”, dotata di una ricca biblioteca ed ispirata al modello monastico, e di altri internati. Nei Paesi mediterranei i collegi non comparvero prima della metà del Trecento: a Bologna, grazie al lascito testamentario del cardinale Egidio Albornoz (1310-1367), sorse il collegio di S. Clemente, poi denominato Collegio di Spagna in quanto destinato ad ospitare una trentina di studenti spagnoli, scelti tra le famiglie nobili al fine di creare la classe dirigente della nazione. Il rettore era eletto a scrutinio segreto dagli studenti residenti, e successivamente confermato dal vescovo bolognese (più tardi dal governo iberico). I discenti erano tenuti ad una disciplina molto rigida: presenziare ai pasti, rientrare a sera, non accogliere donne. Dotato di una ricca biblioteca (la più antica biblioteca di collegio giunta sino a noi), il collegio di Spagna costituì un modello per altri collegi spagnoli, come quello dell’Università di Salamanca (1401).

A Bologna furono inoltre fondati i collegi Avignonese, Urbaniano e Gregoriano, e più tardi i collegi Ungaro-illirico (1553), e il collegio Montalto per studenti marchigiani (1586). I collegi universitari, spesso strettamente legati al mondo ecclesiastico, offrivano la possibilità di usufruire di borse di studio, di maestri e ripetitori interni, di ricche biblioteche. A partire dal ʼ400 essi accolsero una parte cospicua dei corsi e delle cerimonie universitarie, ospitando, accanto ai borsisti, studenti a pagamento, quindi di estrazione sociale elevata

Per integrare l’attività didattica dello Studium Urbis sorsero anche a Roma, nel ʼ400 (dopo precedenti tentativi), alcuni collegi studenteschi. Il cardinale Domenico Capranica (1400-1458) fondò nel 1457 l’omonimo Collegio (tuttora attivo come vivaio di ecclesiastici spesso approdati all’episcopato), per offrire la possibilità di una adeguata formazione al sacerdozio ai giovani meno abbienti della città di Roma. Esso fornì il modello di riferimento per la redazione degli statuti del Collegio Nardini, fondato pochi anni più tardi dal card. Stefano Nardini per formare teologi e canonisti, ma destinato a minore fortuna, in quanto la sua parabola si concluse intorno alla metà del ’700.

L’istituzionalizzazione di luoghi di formazione dell’élite di governo ecclesiastica e civile, come i Seminari ed i collegi destinati a specifici ceti e corpi sociali (i nobili, gli ecclesiastici, i militari), si accentuò in connessione col processo di disciplinamento sociale che caratterizza l’età della Riforma cattolica, e più in generale la prima età moderna. Tra i collegi ecclesiastici si segnalano quelli dei Gesuiti, il cui metodo d’insegnamento si ispirava a quello in uso alla Sorbona di Parigi, ma a poco a poco fu elaborata una Ratio studiorum, ossia un curriculum di studi tipicamente gesuitico, approvato, dopo alcuni tentativi e sperimentazioni, nel 1599. Nei collegi dei gesuiti si dava grande rilievo alla sistematicità e gradualità dell’apprendimento, alla memorizzazione, allo studio del latino e del greco, all’emulazione tra gli studenti; furono valorizzate le gare, le dispute, la recitazione ed il teatro.

Infine, la Compagnia prese a cuore la formazione del clero nei seminari da essa diretti, dando importanza alla formazione sia intellettuale (filosofica e teologica), sia spirituale, mediante la predicazione di Esercizi Spirituali e la pratica della direzione spirituale. Nel 1544 Francesco Borgia, che aveva già contribuito alla nascita del collegio di Valencia, ottenne da Paolo III il permesso di fondare un collegio a Gandía: fu il primo collegio in cui i gesuiti impartivano anche l’insegnamento e dove erano ammessi anche studenti non destinati a entrare nella Compagnia. Venne quindi fondato un collegio a Messina, che avrebbe dovuto porre rimedio alla diffusa ignoranza nel clero, e successivamente anche a Palermo, Napoli, Venezia, Bologna; il 22 febbraio 1551, con il sostegno economico del duca di Gandía, venne aperto il Collegio Romano. I collegi gesuitici aumentarono notevolmente di numero, da 160 (1580) a ben 444 (1626), raccogliendo soprattutto esponenti delle classi dirigenti, per quanto la gratuità ne garantisse in teoria l’accesso anche ai meno abbienti. Nel corso del ʼ600 ad essi si affiancarono convitti a pagamento per i nobili, che offrivano ai rampolli delle famiglie aristocratiche una solida istruzione classica ed altri insegnamenti (come scherma, equitazione, musica, danza, lingue straniere) utili a persone destinate a svolgere funzioni di governo e ad inserirsi nella vita di corte. Nei seminari dei nobili, oltre che nei collegi gesuitici, furono adottati testi come i trattati Del bene (1644) e Trattato dello stile e del dialogo di P. Sforza Pallavicino; e mediante il teatro veniva valorizzata la componente emotiva degli allievi.

Il Collegio senese dei Gesuiti, aperto nel 1676 da Celso Tolomei e strutturato sul modello dei seminaria nobilium (istituiti nel ducato di Parma e Piacenza all’inizio del ʼ600 con l’appoggio dei principi Farnese), ospitava chierici indirizzati al sacerdozio ma anche convittori esterni spesso provenienti dagli alti ranghi del patriziato cittadino; ed anche i collegi di Brera e di Milano forniscono un esempio di integrazione tra spiritualità gesuitica ed istanze della nobiltà, alla quale erano destinati manuali di “buone maniere” che coniugavano istanze evangelizzatrici e regole sociali. Le richieste educative dei ceti nobiliari trovarono una risposta efficace in questi collegi seicenteschi, che coniugavano l’istruzione con un preciso progetto educativo, integrando la formazione letterario-filosofica propria dell’Ordine con le istanze cavalleresco-militari: i giovani nobili apprendevano l’arte delle “buone maniere”, per diventare perfetti gentiluomini, secondo un modello suggerito dal Galateo di mons. Giovanni Della Casa (1503-1556).

Tra i collegi-convitti di educazione, che accoglievano, a pagamento, giovani nobili possiamo annoverare, a Bologna, l’Accademia degli Ardenti, fondata dal fratello del card. Paleotti e poi passata sotto il controllo dei Somaschi, e il Collegio S. Francesco Saverio, fondato dai Gesuiti; era invece indirizzato a esponenti di famiglie borghesi il Collegio S. Luigi di Bologna, nato in ambito gesuitico ma passato, dopo le soppressioni, ai Barnabiti e destinato a trasformarsi nel tuttora esistente ginnasio-liceo classico. A Modena il Collegio San Carlo nacque ai primi del Seicento per impulso di una Congregazione di laici devoti, guidata dal conte Paolo Boschetti; nel 1626 si trasformò in Collegio dei Nobili di San Carlo, con lo scopo di formare i giovani delle famiglie nobili secondo un modello pedagogico che aggiungeva ai classici studi teologici, letterari e filosofici, quelli scientifici e giuridici. Nel 1685 esso acquisì il titolo e le funzioni di Università, alla quale collaborarono intellettuali come Lazzaro Spallanzani. Nel 1581 fu istituito a Pavia il Collegio Borromeo, attivo dal 1581 e tuttora esistente: esso, destinato a studenti di umili origini, preparava nel ʼ600-ʼ700 soprattutto giuristi chiamati a svolgere funzioni amministrative nella Chiesa e nello Stato milanese, ma formò anche medici e scienziati.

Nella seconda metà del ʼ700 la vicenda di Carlo Michele d’Attems, arcivescovo di Gorizia, che intraprese gli studi nei seminaria nobilium e in collegi religiosi, prima a Graz, poi a Modena ed infine a Roma, attesta la solidità di un progetto educativo finalizzato alla formazione del gentiluomo e del vescovo-funzionario dell’Impero asburgico.

La Compagnia di Gesù proponeva, ricollegandosi alla tradizione umanistica ed al classicismo cinquecentesco, un codice religioso e di comportamento civile anche mediante le congregazioni mariane (un’istituzione nata nel Collegio Romano nel 1563 per opera di una giovane gesuita belga, G. Leunis), che divennero, insieme alle accademie studentesche, il supporto dell’insegnamento impartito nelle classi dei collegi, e si aprirono alle cerchie degli ex studenti ormai attivi nel mondo ecclesiastico e nelle diverse professioni. Attraverso l’impegno pedagogico dei Gesuiti la ratio studiorum classicistica si radicò profondamente, ispirando il liceo classico, istituito dalla legge Casati del 1859 e destinato a formare la classe dirigente del nuovo Stato unitario.

Nel ’500 sorsero inoltre numerosi conservatori femminili, finalizzati alla tutela delle fanciulle abbandonate, delle orfane, delle “malmaritate”, delle mendicanti ed anche delle “repentite”, ossia delle prostitute che intendevano reintegrarsi nella società. Il progetto educativo di tali istituti risulta però incentrato quasi esclusivamente sull’attività tecnico-professionale: è il caso del conservatorio di S. Maria del Baraccano di Bologna, che, sorto nella prima metà del ʼ500, comprende nei primi tempi una scuola di canto, musica e teatro, ma nel ʼ600-ʼ700 impegna le donne ospiti esclusivamente nel lavoro di tessitura e ricamo, mentre quello di S. Geminiano di Modena si trasforma in educandato per fanciulle benestanti, abbandonando le originarie finalità assistenziali a favore delle orfane.

In concomitanza col diffondersi di collegi maschili sorsero, a partire dalla seconda metà del ʼ500, sostituendosi gradualmente a forme di educandato monastico, collegi-convitto femminili ispirati al modello gesuitico e destinati a fanciulle nobili: il corpo insegnante era costituito «da donne nubili dedicate a Dio ma non soggette alla giurisdizione ecclesiastica» (Zarri, Recinti, 475). Spesso le educande rimanevano poi nell’istituto come educatrici, ed in questo quadro il nubilato femminile venne socialmente legittimato. Nel collegio delle Orsoline di Parma, istituito nel 1623 per le donzelle nobili, le educande, distinte dalle novizie e dalle religiose, studiavano e lavoravano: veniva così esteso al mondo femminile un modello educativo analogo a quello che aveva ispirato l’erezione dei seminaria nobilium. Un po’ meno elitario appare il collegio delle Orsoline di Ferrara, che, eretto alla fine del secolo XVII, comprendeva, oltre all’educandato, anche una scuola per allieve esterne. A Genova Camilla Medea Ghiglini (1559-1624), legata spiritualmente ai Gesuiti, e desiderosa di superare il modello della clausura monastica, fonda il collegio denominato “delle Medee”, per formare spiritualmente le donne insegnando loro (come recitano gli statuti del 1622) a «lavorare e leggere alevandole nel santo timore di Dio», nonché ad apprendere la dottrina cristiana: mediante il suo progetto educativo, che prevede classi distinte per le convittrici e le allieve esterne, viene promossa anche l’alfabetizzazione femminile, peraltro funzionale all’evangelizzazione ed alla formazione della donna «semplice e buona».

In Italia il primo vero e proprio educandato femminile fu fondato a Palermo nel 1779 da Ferdinando IV, ed altri furono aperti durante la dominazione napoleonica. Questi collegi, che svolsero un ruolo rilevante nell’età della Restaurazione (è il caso ad esempio dei collegi di Maria in Sicilia), subirono dopo l’unità d’Italia un lento e contrastato processo di laicizzazione: ad alcune ispettrici furono affidate dal Ministero funzioni di controllo e verifica delle condizioni in cui veniva gestita l’istruzione femminile negli istituti delle diverse regioni italiane, per lo più controllati da ordini religiosi che privilegiavano la formazione religiosa (tradizionalmente intesa come una serie di pratiche devote) rispetto a quella più propriamente culturale.

Nel corso del Novecento i collegi hanno progressivamente perduto il loro carattere di “istituzioni totali” fondate su una rigida disciplina interna per assumere piuttosto la funzione di residenze universitarie destinate ad accogliere, in un contesto più aperto, studenti provenienti da altre città.

Fonti e Bibl. essenziale

C. Piana, Nuovi documenti sull’Università di Bologna e sul Collegio di Spagna, I-II, Publicaciones del Real colegio de Espana, Bolonia, 1976; G.P. Brizzi, La formazione della classe dirigente nel Sei-Settecento: i “seminaria nobilium” nell’Italia centro-settentrionale, Il Mulino, Bologna, 1976; Id., I collegi per borsisti e lo Studio bolognese: caratteri ed evoluzione di un’istituzione educativo-assistenziale fra XIII e XVIII secolo, Istituto per la storia dell’Università, Bologna, 1984; D. Maffei – H. De Ridder-Symoens (edd.), I collegi universitari in Europa tra il XIV e il XVIII secolo, Atti del Convegno di studi della Commissione internazionale per la storia delle università (Siena-Bologna, 16-19 maggio 1988), Giuffré, Milano, 1991; A. Bianchi, Scuola e lumi in Italia nell’età delle riforme, 1750-1780: la modernizzazione dei piani degli studi nei collegi degli ordini religiosi, La Scuola, Brescia, 1996; G. Zarri, Le istituzioni dell’educazione femminile, in Ead., Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000, 145-200; F. Sani, Collegi, seminari e conservatori nella Toscana di Pietro Leopoldo. Tra progetto pedagogico e governo della società, La Scuola, Brescia, 2001; X. Toscani, Seminari e collegi nello Stato di Milano fra Cinque e Seicento, edizioni dell’Ateneo, Roma, 2003; G. Tortorelli (ed.), Educare la nobiltà: atti del Convegno nazionale di studi (Perugia, 18-19 giugno 2004), Pendragon, Bologna, 2005; S. Franchini – P. Pozzuoli, Gli istituti femminili di educazione e di istruzione (1861-1910), Ministero per i beni e le attività culturali, Roma, 2005; L. Caminiti, Educare per amor di Dio: i collegi di Maria tra Chiesa e Stato, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; M. Turrini, Il giovin signore in collegio: i gesuiti e l’educazione della nobiltà nelle consuetudini del Collegio ducale di Parma, Bologna 2006; A. Bianchi – G. Rocca (edd.), L’educazione femminile tra Cinque e Settecento, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 14 (2007); A. Esposito – C. Frova (ed.), Collegi studenteschi a Roma nel Quattrocento: gli statuti della Sapienza Nardina, Viella, Roma, 2008; G.P. Brizzi – A. Mattone (edd.), Dai collegi medievali alle residenze universitarie, Clueb, Bologna, 2010; R. Folino Gallo, L’istruzione pubblica in Calabria: scuole regie, real collegi e real licei tra Settecento e Ottocento, Soveria Mannelli 2011; M. Batllori, L’ Universita di Sassari e i collegi dei gesuiti in Sardegna: saggio di storia istituzionale ed economica, Poliedro, Nuoro, 2012; L. Bravi – G. Rocchiccioli – C. Balsamini (edd.), La civiltà specchio della morale: galateo pei giovinetti e specialmente per gli alunni dei Collegi compilato dal p. Alessandro Serpieri delle Scuole pie Rettore del Nobil collegio convitto di Urbino, Argalia, Urbino, 2013.


LEMMARIO




Colonialismo - vol. II


Autore: Giampaolo Malgeri

Gli esordi dell’espansione coloniale italiana nell’ultimo ventennio del XIX secolo coincidono con una fase di particolare complessità dell’azione internazionale della Santa Sede, impegnata in un difficile processo di ridefinizione della propria azione internazionale all’indomani della perdita del potere temporale. In questo nuovo quadro gli orientamenti della Chiesa nei confronti della questione coloniale assunsero un particolare rilievo, investendo la questione centrale del ruolo universale della cattedra di Roma nel mondo e della sua azione missionaria. Lo sviluppo e l’estensione geografica di quest’ultima, infatti, pur procedendo, soprattutto, nella seconda metà dell’Ottocento, spesso in collegamento e sotto tutela dell’espansione coloniale europea, fu però ben lungi dall’identificarsi con essa. La sovrapposizione tra logiche coloniali e logiche missionarie trovava un netto limite non soltanto nella inconciliabilità, sul piano dei principi, tra la prospettiva universalistica propria della evangelizzazione e gli stringenti interessi nazionalistici delle potenze coloniali europee, ma altresì nella determinazione con cui la Chiesa cattolica si mostrava attenta a proteggere il proprio ruolo universale.

In Italia il giudizio nei confronti della politica coloniale del governo di Roma era reso ancora più complesso dalla Questione romana e dai rapporti della Chiesa con lo Stato italiano. Nel periodo liberale, clero e mondo cattolico esprimevano infatti una diversificazione di posizioni pro e contro il colonialismo che riproduceva – a grandi linee – la contrapposizione tra conciliatoristi e intransigenti.

In questo contesto, tuttavia, l’atteggiamento della Santa Sede fu attento a smarcarsi dalla polemica interna e a ricondurre il problema sul piano dei principi, evitando, in particolare, di riconoscere alle iniziative coloniali qualunque dimensione e fisionomia religiosa. In occasione della guerra di Libia, in particolare, di fronte all’enfasi nazionalistica che pervase anche una vasta componente del mondo cattolico e dell’episcopato, nel quadro di quel processo di riavvicinamento registrato nei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia nel corso del primo decennio del XX secolo, la Santa Sede fu ferma nel rivendicare con fermezza il ruolo universale della propria missione pastorale e la sua assoluta neutralità nel conflitto.

Questo nuovo approccio al tema dell’evangelizzazione veniva ripreso da Pio XI, anch’egli sensibile all’esigenza di separare gli interessi nazionali e quelli della Chiesa cattolica, come affermato nell’enciclica Rerum Ecclesiae, del 28 febbraio 1926. Un obiettivo che il nuovo pontefice perseguì anche attraverso una strategia di forte accentramento romano degli organi di governo delle missioni cattoliche, allo scopo di affrancarle dai condizionamenti delle politiche degli Stati ed enfatizzare la dimensione sovranazionale della Chiesa e la sua posizione di neutralità.

Anche nei confronti del colonialismo italiano Pio XI cercò di muoversi in coerenza con questa nuova prospettiva. Respinse nettamente, nel 1929, le pressioni del governo fascista per un coinvolgimento della Santa Sede nell’intensificazione del proselitismo cattolico in Eritrea funzionale ad un incremento dell’influenza italiana nell’area e cominciò, anzi, a promuovere una strategia di dialogo con la locale Chiesa copta, procedendo alla nomina di un vescovo autoctono, mons. Chidanè-Mariam Cassa, ad ordinario dei cattolici di rito etiopico dell’Eritrea

Di fronte allo scoppio della guerra d’Etiopia il pontefice apparve preoccupato per le negative ricadute che la vicenda poteva produrre sulla nuova strategia missionaria della Santa Sede. Mentre la gran parte del clero e del mondo cattolico italiano, ormai pienamente riconciliati con lo Stato nazionale, si schierarono in maniera piuttosto compatta a sostegno dell’impresa fascista, Pio XI, mosso dalla preoccupazione di tutelare il ruolo universale della Chiesa cattolica, si pronunciò in modo critico verso la guerra. Il pontefice sottolineò, in particolare, la necessità di evitare un approfondimento della frattura che divideva già il mondo occidentale dai cosiddetti “popoli di colore”, una frattura che egli giudicava nefasta per l’opera di evangelizzazione cattolica nel mondo.

Ma ormai un’epoca si veniva definitivamente chiudendo. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale l’Italia perdeva per sempre i propri domini africani, mentre su un piano più generale tutto il sistema coloniale europeo iniziava un processo di rapido sfaldamento, con effetti importanti sul ruolo della Chiesa. La decolonizzazione politica dei Paesi extraeuropei si accompagnò, infatti, ad una chiara decolonizzazione dell’azione internazionale e missionaria della Chiesa, giungendo così a definitiva maturazione quel processo di distacco dal colonialismo che era in corso ormai da mezzo secolo. La Santa Sede si sganciava una volta per tutte dal rapporto preferenziale con la vecchia Europa, accelerava la costituzione di Chiese locali, esaltando sempre più il proprio ruolo universale e sopranazionale. Come dichiarò Pio XII nel radiomessaggio natalizio del 1945: “La Chiesa è (…) la madre di tutte le nazioni e di tutti i popoli (…) ella si presenta come uno scambio di vita e di energie tra tutti i membri del Corpo Mistico sulla terra”.

 Fonti e Bibl. essenziale

A. Canavero, I cattolici di fronte al colonialismo, in A. De Boca (a cura di), Adua. Le ragioni di una sconfitta, Roma-Bari, Laterza, 1998, 91-114; L. Ceci, Il papa non deve parlare. Clera, fascismo e guerra d’Etiopia, Roma-Bari, Laterza, 2010; F. Fonzi, La presenza della Chiesa cattolica e dell’Italia in Africa e in Oriente nella seconda età dell’Ottocento, in Fonti e problemi della politica coloniale italiana. Atti del convegno Taormina-Messina, 23-29 ottobre 1989, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1996, vol. I, 438-463 A. Giovagnoli, Pio XII e la decolonizzazione, in A. Riccardi (a cura di), Pio XII, Roma-Bari, Laterza, 1984, 179-209; A. Giovagnoli, Il Vaticano di fronte al colonialismo fascista, in A. Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1991, 112-131; G. Sale, Libia 1911. I cattolici, la Santa Sede e l’impresa coloniale italiana, Milano, Jaca Book, 2011.


LEMMARIO




Colzani Gianni


 





Comunismo - vol. II


Autore: Fulvio De Giorgi

Chiesa italiana e comunismo. Nell’atteggiamento della Chiesa italiana verso il comunismo – come ideologia e come movimento storico – ebbe un notevole peso il magistero pontificio che, con una dimensione evidentemente non solo nazionale ma universale, affrontò di volta in volta la questione. Tale magistero fu sempre nel segno di una inequivocabile condanna: a partire dalle origini ottocentesche (Pio IX, Quanta cura, 1864, con annesso Sillabo; Leone XIII, Quod apostolici muneris, 1878) fino alle formulazioni novecentesche, successive alla rivoluzione russa (Benedetto XV, Bonum sane, 1920). Documento fondamentale fu l’enciclica Divini Redemptoris di Pio XI nel 1937. Nel secondo dopoguerra – quando l’egemonia sovietica aveva raggiunto paesi cattolici come la Polonia e il Partito Comunista Italiano era il più forte partito comunista dell’Occidente – ci fu la scomunica con un decreto del Sant’Uffizio del 1949. Ciò che era condannato era, innanzi tutto, il materialismo ateo.

I vescovi italiani e poi la stessa CEI, con le sue indicazioni elettorali, nonché la gran parte dell’elettorato cattolico assunsero posizioni anti-comuniste: molto forti in occasione delle elezioni del 1948; poi più sfumate, ma non meno ferme, dopo il Concilio Vaticano II (che non emise scomuniche, ma che criticò dottrina e regimi totalitari comunisti). La diversità del PCI, che si andava staccando dal comunismo sovietico, provocò nel 1976 lo scambio epistolare tra il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi e il segretario comunista Enrico Berlinguer, in seguito al quale il leader del PCI affermò che il suo partito non era ”né teista, né ateista, né anti-teista”. In questo contesto Aldo Moro, leader democristiano, aprì un confronto aperto con i comunisti italiani che portò ai governi di “solidarietà nazionale”, con il loro appoggio esterno. Lo scioglimento e la trasformazione del PCI, nonché il crollo del comunismo in Europa orientale, dalla fine degli anni ’80, segnarono la scomparsa dell’anti-comunismo nel magistero ecclesiale (se mai preoccupato dall’emergere di un capitalismo radicale), ma ci fu ancora una sua permanenza in alcuni settori dell’elettorato cattolico, che si tradusse in favore per i nuovi partiti di destra.

Comunismo e cattolicesimo italiano. I comunisti italiani riconobbero sempre un valore decisivo alla “questione cattolica”. Antonio Gramsci sviluppò un’analisi articolata della Chiesa, della sua gerarchia, del movimento cattolico italiano, anche nelle sue differenze regionali, considerando le espressioni politiche di ispirazione cattolica (come il Partito Popolare) sostanzialmente legate al mondo contadino e ad una visione democratica, destinata ad essere assorbita e superata dal movimento operaio e socialista. Tra le due guerre mondiali – e soprattutto nel 1936-38 – si promosse, da parte comunista, la politica della “mano tesa”, che ebbe una realizzazione particolare durante la Resistenza, con l’alleanza nel CLN, e poi nei governi dopo la Liberazione e fino al 1947 (quando De Gasperi, all’avvio della guerra fredda, estromise i socialcomunisti dal governo). Il frutto più importante di questa fase di convergenze e, in qualche modo, il suo culmine fu la comune stesura della Costituzione della Repubblica (con il forte passaggio simbolico dei discorsi di De Gasperi e Togliatti il 25 marzo 1947 e con il successivo voto del PCI, insieme alla DC, a favore dell’art. 7).

Togliatti, nell’aprile 1954, rivolse poi un appello ai cattolici per una reciproca comprensione per salvare la civiltà dal pericolo di una guerra nucleare. Questa impostazione togliattiana trovò la sua massima espressione nella conferenza di Bergamo del 1963 sul “destino dell’uomo”, in cui egli riconobbe che l’aspirazione alla società socialista poteva trovare uno stimolo nella coscienza religiosa (concetti che ritornarono ancora nel cosiddetto “Memoriale di Yalta”). Nella transizione post-togliattiana, mentre Giorgio Amendola guardava più ai partiti e ad un’unione di comunisti e socialisti in un partito unico, Pietro Ingrao si batteva per una linea alternativa, che ricercasse nella società l’alleanza con le masse cattoliche. Questa dialettica fu sintetizzata e superata, nel 1973, dal segretario Enrico Berlinguer, con la proposta del “compromesso storico” (cioè un’alleanza di governo tra PCI, DC e PSI). A fronte della grave crisi che l’Italia e il suo sistema politico vivevano in quegli anni, la DC – con Aldo Moro e Benigno Zaccagnini – rispose con una strategia dell’attenzione e del confronto, che portò, come si è detto, alla formazione dei governi di solidarietà democratica, con il PCI nella maggioranza. Tuttavia l’assassinio di Moro minò tale esperienza fin dal suo nascere. Il PCI ritornò all’opposizione. Berlinguer, nel discorso del 1983 al XVI Congresso del PCI, avvertì che i processi di secolarizzazione toccavano tanto il mondo cattolico quanto il mondo comunista. Nel 1991, con Achille Occhetto (il cui padre aveva militato nella Sinistra Cristiana) segretario, a fronte del crollo del comunismo nell’Europa orientale, si giunse alla fine del PCI e alla nascita del PDS, anche con il contributo di autorevoli esponenti del cattolicesimo democratico.

Cattolici comunisti. Con questo nome deve intendersi quel gruppo politico che, con successive denominazioni diverse (Movimento cooperativista sinarchico, Partito comunista cristiano, Sinistra giovanile cattolica, Movimento dei cattolici comunisti, Partito della sinistra cristiana), raccolse tra il 1937 e il 1945 alcuni giovani cattolici che intendevano il comunismo solo come realtà politica, perciò conciliabile con la fede cattolica. I più importanti esponenti furono Adriano Ossicini, Franco Rodano, Felice Balbo, Fedele d’Amico, Giorgio Ceriani Sebregondi, Gabriele De Rosa, Mario Motta. Diedero un notevole contributo alla Resistenza e pubblicarono le riviste “Voce operaia” e “Voce del Lavoratore”. Ebbero un interlocutore riservato in don Giuseppe De Luca e si illusero che gli esponenti della Curia romana (come Tardini o Ottaviani) favorevoli a più partiti cattolici potessero appoggiarli. Esplicitamente sconfessati – con articoli sull’“Osservatore romano” nel giugno 1944 e nel gennaio 1945 – decisero infine di sciogliersi, nel congresso straordinario del dicembre 1945, per confluire in gran parte (non però Ossicini) nel PCI.

Cattolici nel PCI. Nella sua settantennale storia (1921-1991) il PCI ebbe l’appoggio di molti cattolici: sia come elettori sia come militanti di base. Tale fenomeno fu certamente più diffuso nelle cosiddette ‘regioni rosse’, anche dopo la scomunica del 1949. Per quanto riguarda invece figure di spicco, vi furono innanzi tutto coloro che provenivano dal Partito della Sinistra Cristiana, come Balbo, Rodano, Ceriani Sebregondi, De Rosa e che militarono nel PCI dal 1946 ai primi anni cinquanta, dando anche vita alla rivista “Cultura e realtà” (1950-51). Tra il 1951 e il 1952 molti di loro (come Balbo, Motta, Ceriani Sebregondi, De Rosa) uscirono dal PCI, mentre altri (Rodano, Marisa Cinciari, Barca, Tatò) vi rimasero. Negli anni successivi e fino allo scioglimento del PCI il contributo cattolico interno più significativo fu quello dei ‘rodaniani’, anche attraverso la partecipazione ad alcune riviste (come lo “Spettatore Italiano”, tra il 1952 e il 1954, con esponenti dell’intellettualità crociana, e soprattutto come “Il Dibattito politico”, dal 1955 al 1959, con ex-democristiani, espulsi o usciti dalla DC fanfaniana, come i direttori Melloni e Bartesaghi, ex-gronchiani, e poi come Chiarante, Magri, Zappulli, Baduel, ex-basisti, entrati nel PCI) e la promozione di proprie (in particolare la “Rivista Trimestrale” con Claudio Napoleoni e i “Quaderni della Rivista Trimestrale”). L’influenza rodaniana sulla politica del PCI fu maggiore durante le segreterie Berlinguer (allora Rodano auspicò la confluenza di DC e PCI in un unico partito) e, in parte, Occhetto.

Alleati cattolici del PCI. In una posizione distinta dalle precedenti si devono considerare quei cattolici non comunisti che, in forma personale o associata, si allearono con il PCI o lo fiancheggiarono pubblicamente. Una figura di spicco, per la sua storica guida del ‘sindacalismo bianco’, fu quella di Guido Miglioli che nel 1945 pubblicò il volume Con Roma e con Mosca e che nel 1948 promosse, con Ada Alessandrini, Pio Montesi e altri, il “Movimento cristiano per la pace”, che entrò nel Fonte democratico popolare. Alessandrini promosse poi il “Movimento unitario dei cristiani progressisti”. Alcuni cattolici militarono pure nella successiva formazione dei Partigiani della pace, con i quali dialogarono anche Igino Giordani e don Primo Mazzolari.

Nel clima del Concilio Vaticano II (1962-65) e del post-concilio, si sviluppò la stagione del ‘dialogo’, che visse momenti diversi. Nel 1968 Adriano Ossicini divenne senatore (e lo fu ancora fino al 1992) della Sinistra Indipendente. Il culmine di questi processi si ebbe nelle elezioni politiche del 1976, quando un significativo gruppo di cattolici (Paolo Brezzi, Mario Gozzini, Raniero La Valle, Piero Pratesi, Angelo Romanò, Massimo Toschi e Tullio Vinai) si candidò, da indipendente, nelle liste comuniste. Dal 1978 La Valle promosse la rivista “Bozze” che dava voce agli ideali di quest’area.

Filosofi cattolici e marxismo. Una questione più particolare è quella dell’adesione di alcuni filosofi cattolici italiani al marxismo. Si possono ricordare Felice Balbo (1913-1964), che nel 1948, rifiutando il materialismo dialettico, leggeva il materialismo storico come ‘scienza’ politica (con un percorso analogo a quello compiuto in Francia da Althusser) e, più tardi, Giulio Girardi (1926-2012), autore del fortunato volume Marxismo e cristianesimo (1966).

Fonti e Bibl. essenziale

C.F. Casula, Cattolici-comunisti e sinistra cristiana (1938-1945), Bologna, Il Mulino, 1976; Ph. Chenaux, L’ultima eresia: la Chiesa cattolica e il comunismo in Europa: da Lenin a Giovanni Paolo II (1917-1989), Roma, Carocci, 2011; D.I. Kertzer, Comunisti e cattolici. La lotta religiosa e politica nell’Italia comunista, Milano, Angeli, 1981; F. Malgeri, La sinistra cristiana (1937-1945), Brescia, Morcelliana, 1982; D. Saresella, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2011.


LEMMARIO




Concili ecumenici - vol. I


Autore: Norman TannerImmagine

Dei ventuno concili (a partire da Nicea Iº del 325 al Vaticano II° del 1962-5) che trovano il loro posto nella lista tradizionale dei concili ecumenici della Chiesa Cattolica – ovvero, i concili che rappresentano l’intera Chiesa (in Greco “oikoumenike”) – nove si svolsero interamente od in parte in Italia. Quattro di essi vengono trattati in questo Dizionario separatamente: Basilea-Firenze (1431-45), Trento (1545-63), il Vaticano I e il Vaticano II. Il presente articolo si concentra sugli altri cinque, i quali tutti si tennero nella Basilica Lateranense (o nel Palazzo annesso) in Roma: il Laterano I° nel 1123, il Laterano II° nel 1139, il Laterano III° nel 1179, il Laterano IV° nel 1215 e il Laterano V° nel 1512-17. La basilica Laterano, dedicata a San Giovanni Battista, rappresentò una scelta naturale per questi concili della Chiesa cattolica in quanto essa era la Chiesa cattedrale della diocesi di Roma. Oggi, sfortunatamente, poche parti della basilica e del palazzo sopravvivono dall’epoca dei concili, a causa dei incendi e successive ricostruzioni.

Questi cinque concili costituiscono un tratto fondamentale della storia della Chiesa. In ognuno di essi, inoltre, la Chiesa italiana fu ben rappresentata. Situati tra i due eventi epocali dello scisma Oriente-Occidente del 1054 e della Riforma Protestante del 1517, essi costituiscono la metà dei 10 concili ecumenici della Chiesa cattolica durante il periodo medievale.

Ci fu una esitazione all’interno della Chiesa Cattolica durante il periodo medievale riguardante lo status di questi 10 concili, inclusi pertanto i cinque tenuti a Roma, riguardante il fatto se essi dovessero essere considerati concili ecumenici o meno, con status identico a quello dei primi otto concili (da Nicea primo nel 325 a Costantinopoli IV nel 869-70) o piuttosto concili generali della Chiesa occidentale. Questa esitazione era dovuta principalmente alla assenza dei rappresentanti della Chiesa ortodossa. C’era la speranza che lo scisma fra la Chiesa cattolica e la Chiesa Ortodossa – il quale iniziò nel anno 1054 – fosse risolto e poi ci sarebbe stato un nuovo concilio pienamente ecumenico. Seguendo questa linea, il concilio di Costanza nel 1417 (sessione 39) parlò in modo cauto de “i concili generali tenuti al Laterano, Lione e Vienne”, senza enumerarli, in contrasto con il linguaggio più preciso utilizzato per indicare “gli otto santi concili universali” (in Latino universalia) del primo millennio, che vengono nominati individualmente.

Il dubbio sembrava essere stato risolto attraverso l’edizione dei decreti conciliari, Editio Romana, 4 volumi, che vennero pubblicati a Roma con piena autorità papale tra il 1608 e il 1612. Questa edizione diede ai 10 concili medioevali (e a Trento) lo stesso stato ecumenico dei primi otto concili. L’argomento ritornò alla luce, tuttavia, nella seconda metà del ventesimo secolo, specialmente con gli studi di Victor Peri e di Yves Congar, ed in modo più autorevole quando Papa Paolo VI descrisse i concili medievali come “concili generali della Chiesa occidentale” (generales synodos in occidentali orbe) invece che concili ecumenici (Acta Apostolicae Sedis, 1974, 620).

Laterano I. Non sono arrivati fino a noi Acta di questo concilio – probabilmente non ne fu emesso nessuno – quindi numerosi dettagli ci rimangono oscuri. Il concilio si riunì nel 1123, probabilmente dal 18 al 27 marzo. Esso venne convocato, presieduto, e pare, direttamente organizzato, da papa Callisto II. Alcune stime presumono il numero di partecipanti pari a circa trecento vescovi, numerosi abbati ed altri ecclesiastici, della Chiesa occidentale. Il lavoro principale fu la ratificazione del concordato di Worms, concernente l’investitura, che era stata conclusa tra papa Callisto e l’imperatore Enrico V nel settembre 1122. Il concilio trattò la canonizzazione di Corrado di Costanza (morto nel 976), il riconoscimento del pallium all’arcivescovo Adalberto di Brema-Amburgo, la lotta tra le chiese di Genova e di Pisa al riguardo dell’episcopato in Corsica, e la disputa tra gli arcivescovi di Canterbury e di York al riguardo del primato in Inghilterra. Inoltre promulgò 22 (o, secondo alcuni, 25) canoni di natura disciplinare. Questi canoni confermavano una serie di argomenti che erano stati il centro della politica papale durante il movimento della Riforma Gregoriana, ed includevano l’insistenza sul celibato dei sacerdoti, diaconi e suddiaconi (canoni 7 e 21). I canoni cercavano di preservare la Chiesa ed i suoi servizi da una indebita interferenza laica, mentre promuovevano varie forme di esercizio della pietà popolare, principalmente i pellegrinaggi.

Laterano II. Lo scisma papale, sorto nel 1130 con le elezioni incompatibili di Innocenzo II e di Anacleto II, ebbe fine con la morte di quest’ultimo nel 1138. Papa Innocenzo presiedette il secondo concilio Laterano durante il periodo di aprile dell’anno successivo, cercando di appianare una situazione tormentata. I trenta canoni emessi dal concilio seguirono da vicino nello spirito quelli del primo concilio Laterano ed essi possono essere considerati una estensione ulteriore del movimento della Riforma Gregoriana. La maggior parte della legislazione fu tratta dai canoni di vari concili locali tenuti durante i pontificati di Gregorio VII (1073-85), Urbano II (1088-99), Callisto II (1119-24) ed Innocenzo II (1130-43). Subito dopo molti di questi canoni lateranensi vennero incorporati nel Decretum di Graziano. La maggior parte dell’attenzione è in essi diretta verso la crescita morale del clero, considerando però importante anche la cura della stessa caratteristica per i laici.

Gli argomenti / i titoli dei 30 decreti testimoniano le caratteristiche generali: 1. Contro la simonia. 2. Nulla può essere donato per ottenere benefici o vantaggi sacri. 3. Nessuno può ricevere coloro che sono stati scomunicati dal loro vescovo. 4. Coloro che non desiderano cambiare il loro modo di procedere, anche dopo avere ricevuto un avvertimento dal loro vescovo, devono essere privati dei loro benefici ecclesiastici. 5. I beni degli ecclesiastici morenti non possono essere confiscati. 6. I suddiaconi che hanno preso mogli o concubine devono essere privati della loro posizione e dei loro benefici. 7. Nessuno può assistere alle messe dei sacerdoti che hanno preso mogli o concubine. 8. Le suore non possono sposarsi. 9. I monaci ed i canonici regolari non possono apprendere né il diritto né la medicina. 10. I laici non possono tenere il possesso né di decime né di chiese. 11. Sacerdoti, chierici, monaci, pellegrini, mercanti, e contadini ed i loro animali, dovrebbero essere lasciati in pace. 12. I giorni di tregua devono essere osservati. 13 Sugli usurai. 14. I cavalieri non possono prendere parte a giostre e tornei. 15. Chiunque colpisca o eserciti violenza fisica su un rappresentante del clero, o chiunque si stia recando in una chiesa o un cimitero, deve essere scomunicato. 16. Nessuno può reclamare benefici per se stesso per diritto ereditario. 17. Le unioni tra consanguinei sono proibite. 18. Sugli incendiari. 19. Al riguardo di un vescovo che assolva qualcuno scomunicato per avere appiccato incendi. 20. I principi possono dispensare giustizia in consultazione con i vescovi. 21. Sui figli dei sacerdoti. 22. Sulla falsa penitenza. 23. Al riguardo di coloro che condannano i sacramenti. 24. Nessun prezzo può essere domandato per i sacramenti, l’olio sacro e la sepoltura. 25. Nessuno può ricevere benefici dalle mani di un laico. 26. Le suore non possono vivere in case private. 27. Le suore non possono cantare gli uffici nello stesso coro con i canonici ed i monaci. 28. Elezioni episcopali. 29. Contro gli utilizzatori delle balestre e gli arcieri. 30. Le ordinanze emesse dagli scismatici non sono valide.

Laterano III. Così come era avvenuto col Laterano II, lo scisma papale formò una parte del contesto del terzo concilio Laterano. Papa Alessandro III, che era stato eletto nel 1159, dovette contendere con numerosi rivali prima di emergere vittorioso da tale contesa proprio poco tempo prima di convocare il concilio. Pace e riconciliazione si possono considerare i motivi chiave della convocazione del concilio; sebbene Alessandro abbia dovuto contendere con un ulteriore antipapa prima della sua morte, nel 1181. Il concilio si riunì nel marzo 1179 ed approvò 27 canoni, che erano stati preparati in precedenza da Alessandro e dalla curia papale. La lista sopravvivente di partecipanti portava i nomi di circa trecento vescovi e numerosi abbati. La rappresentazione territoriale era estremamente ampia, inclusi, tra i prelati italiani, alcuni ecclesiastici provenienti dalla Francia, dalla Germania, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Dalmazia, Spagna, Danimarca, Ungheria e dagli stati delle crociate. Inoltre molti partecipanti vennero inviati da governanti cristiani.

Sebbene siano presenti chiare similitudini tra il Laterano III ed i due precedenti concili Laterani in quanto la tipologia del materiale è in gran parte disciplinare piuttosto che dottrinale, il Laterano III sia chiaramente più canonico nell’approccio e nella formulazione. La metà del 12º secolo aveva visto lo sviluppo del diritto canonico come disciplina, soprattutto all’Università di Bologna, e la compilazione del Decretum di Graziano. Papa Alessandro III era egli stesso un noto canonista, essendo stato in precedenza professore di diritto canonico a Bologna (1139-42) ed autore di un commentario sul lavoro di Graziano. Tuttavia, i decreti conciliari rappresentano, per la maggior parte, il diritto canonico al suo apice con le maggiori qualità pastorali, così come indicato da alcuni dei titoli: 3. Le qualità richieste in coloro che vengono scelti per governare la Chiesa. 4. Come i prelati siano tenuti a risiedere nello stesso territorio delle persone a loro soggette. 12. I clerici non dovrebbero intraprendere la gestione di affari secolari. 14. Nessuno può gestire più di una chiesa. 18. I prelati devono provvedere ai bisogni dei maestri di scuola. 21. Sulla osservanza delle tregue. 23. I lebbrosi possono avere le loro proprie chiese ed i propri cimiteri. Il tono di alcuni altri canoni è più severo: 20. I tornei sono proibiti. 26. I cristiani non possono vivere insieme agli ebrei o ai saraceni. 27. Sugli eretici.

Laterano IV. Di tutti i cinque concili laterani – anzi di tutti i dieci concili medievali ecumenici-generali – il quarto concilio Laterano fornì la legislazione più comprensiva e fu il più influente. Esso venne convocato da Papa Innocenzo III, un papa italiano nato ad Anagni, eletto al soglio pontificio alla giovane età di 37 anni. Innocenzo era nel completo controllo del papato quando il concilio si riunì nel 1215. Esso era stato annunciato due anni prima, ma se molta preparazione ebbe luogo presso le chiese locali fuori di Roma – così come era stato richiesto dal papato – è difficile da comprendere. Sembra chiaro, sebbene la precisione sia impossibile poiché non ci sono documenti Acta sopravvissuti del concilio, che i 71 decreti approvati infine dal concilio fossero stati stesi da Papa Innocenzo e dalla curia papale prima dell’inizio del concilio e che vennero accettati – in modo essenziale e solo con alcuni emendamenti – dal concilio. Il concilio ebbe luogo dall’11 al 30 novembre 1215. Ci furono solamente tre sessioni solenni: una sessione di apertura l’11 novembre, una seconda sessione in cui ci fu un animato dibattito riguardante i due candidati all’impero di Germania, e una terza sessione il 30 novembre quando i decreti furono approvati per acclamazione. I vescovi presenti erano circa quattrocento, rappresentanti ogni parte del cristianesimo occidentale, inoltre erano presenti abbati e priori, inviati di governanti cristiani, e rappresentanti di città.

Papa Innocenzo fu un canonista sia per inclinazione che per gli studi eseguiti. I decreti conciliari vennero incorporati nei Decretalia, la autorevole collezione di canoni della Chiesa occidentale che era stata pubblicata da Papa Gregorio IX nel 1234. Essi rimasero altamente influenti e normativi per la regolazione della vita della Chiesa attraverso tutto il periodo medievale. I decreti erano pastorali e spirituali tanto quanto canonici in senso stretto, anche se il loro linguaggio può apparire severo per i moderni ascoltatori. Il primo canone, un credo, introdusse la parola “transustanziazione” riguardante l’azione del sacerdote durante la messa. Inoltre esso conteneva questo linguaggio forte che il Vaticano II trovò difficile da riconciliare: “esiste pertanto una sola Chiesa universale di fedeli, al di fuori della quale nessuno può salvarsi”. La maggior parte degli altri canoni sono disciplinari piuttosto che dottrinali. 3. Istanze urgenti spinsero lo Stato e la Chiesa a cooperare nella condanna e nella espulsione degli eretici; il che indica un forte senso di cosa fosse l’eresia, una grave minaccia per il bene della comunità cristiana. 4. Il biasimo fu applicato allo scisma Oriente-Occidente e, in modo evidente, sulla Chiesa Ortodossa. 10. e 11. Si poneva come urgente il bisogno di una istruzione: fornire predicatori e stabilire scuole per l’insegnare a “clerici ed altri scolari poveri” la teologia e la scrittura tanto quanto “la grammatica ed altre branche degli studi”; una inclusiva e completa istruzione religiosa. 13. Si cercò di restringere il numero di nuovi ordini religiosi. 14-18. Ci si rivolse alla buona condotta del clero diocesano, includendo una rinnovata enfasi sul celibato. 19-20. Si focalizzò su un’adeguata manutenzione ed un buon ordine nelle chiese parrocchiali. 21. Si sottolineò il doppio compito dei laici riguardante la confessione annuale e l’effettuazione della comunione. 22. Ci si interessò alla cura spirituale dei morenti. 27. Si rinforzò il canone 11 relativo al bisogno di istruire coloro che si apprestavano ad essere ordinati al sacerdozio. Una serie di decreti seguiva su vari argomenti di diritto canonico.

Furono importanti i canoni 50 e 51, che rimangono ancor oggi basilari per la regolazione del matrimonio, in particolare insistendo sulla importanza delle pubblicazioni e sul fatto che la cerimonia dovesse essere eseguita esclusivamente dal parroco. 62. Si comandò di preservare e venerare in modo proprio le reliquie. L’argomento degli ebrei venne trattato nei canoni 67-70, che vennero intitolati “Sulla usura dei Giudei”, “Dovrebbe essere possibile distinguere gli ebrei dai cristiani in base ai loro vestiti”, “Gli ebrei non possono tenere pubblici uffici” e “Gli Ebrei convertiti alla fede cristiana non possono mantenere i loro vecchi riti”. Questi quattro canoni influenzarono profondamente l’attitudine cattolica nei confronti degli ebrei per molti secoli ed essi non possono facilmente riconciliarsi con l’insegnamento attuale. Tuttavia l’altro estremo della loro interpretazione dovrebbe essere evitato: non viene dato nessun ordine di uccidere gli ebrei, piuttosto essi devono essere protetti se vivono in pace con i cristiani.

Il decreto finale 71 dava indicazione per una nuova crociata per recuperare la Terrasanta e liberarla dall’occupazione mussulmana. Tale giusta guerra doveva essere considerata come difensiva, volta a recuperare una terra che una volta era appartenuta ai cristiani, come un dovere nei confronti di Gesù Cristo poiché essa era, secondo le parole del decreto, “La Sua Terra”.

Laterano V. Il quinto concilio Laterano ebbe luogo poco prima della Riforma Protestante. La sua convocazione fu il risultato di una controversia. In base alla giustificazione che il decreto Frequens del concilio di Constance (1414-18) – che autorizzò la regolare convocazione dei concili ecumenici – non era stato osservato per numerosi anni, alcuni cardinali italiani e francesi, supportati da re Luigi XII di Francia, convocarono un concilio che si riunì a Pisa dal 1511 al 1512. Allo scopo primario di aggirare questo concilio, piuttosto che soddisfare immediatamente i bisogni dottrinali o disciplinari, Papa Giulio II convocò il quinto concilio Laterano, che si riunì la prima volta nel 1512 e continuò sotto il suo successore Papa Leone X fino al 1517. Il concilio ebbe successo nel rimuovere la minaccia di Pisa. Ma sotto altri profili i suoi decreti appaiono modesti, in termini sia di riforma morale che di bisogno di rinnovamento dottrinale. Essi furono carenti nel rendersi conto della tempesta imminente della Riforma. Così, nel suo decreto finale, emesso solo sette mesi prima che Martin Lutero pubblicasse le sue 95 tesi a Wittemberg, il concilio dichiarò ciò che segue, nella quasi incredibile incoscienza di ciò che sarebbe seguito: “Infine, viene riportato a Noi (Papa Leone X) in numerose occasioni, dai cardinali e dai prelati dei tre comitati (del concilio), che non è rimasto nessun argomento da discutere a loro parere e che ormai da numerosi mesi nulla gli è stato riportato da nessuna persona”. Numerose delle prime sessioni del concilio furono dedicate ai decreti che condannavano il concilio scismatico di Pisa. Altri decreti condannavano la “Sanzione Pragmatica” del 1438 in cui il clero francese aveva dichiarato misure sostanziali di indipendenza rispetto al papato. Il filosofo italiano Pomponazzi fu condannato per la sua ottica scorretta sull’immortalità dell’anima. Furono emessi vari decreti contro l’abuso della simonia, sulla riforma della curia e del collegio dei cardinali, sulla predicazione e sulla stampa dei libri, sulla promozione della pace tra i regnanti cristiani, sulle crociate “contro i nemici della fede cristiana”, sulle cooperative di credito (Montes Pietatis) fondate per aiutare i poveri, e sugli ordini religiosi. Il Laterano V finì così poco tempo prima dell’inizio della Riforma Protestante. Tale fatto aiuta a spiegare come mai il papato non desiderasse convocare un altro concilio subito dopo la frattura provocata dalla Riforma nonché, come risultato, perché siano stati necessari quasi trent’anni prima che finalmente il concilio di Trento avesse inizio.

Fonti e Bibl. essenziale

G. Alberigo e altri (eds.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta: edizioni bilingue (Bologna, Edizioni Dehoniane, 1991), 187-271 e 593-655, contiene i testi Latini originali dei decreti dei cinque concili Laterani insieme ad una traduzione italiana. Gli stessi testi Latini, insieme con un apparato critico leggermente più ampio, ma senza una traduzione italiana, si trovano in G. Alberigo e A. Melloni (eds.), Conciliorum oecumenicorum generaliumque decreta: edizione critica, 3 vols. (Turnhout: Brepols, 2006-2013), voll. II.1 e II.2. Ambedue le edizioni contengono una introduzione (in inglese per l’edizione di 2006-13) e una bibliografia per ciascuno concilio. Anche utile è G. Dumeige (ed.), Storia dei concili ecumenici (Libreria Editrice Vaticana, 1994-2001), voll. 5 e 9. Tra le corte narrazioni storiche, le seguenti possono essere raccomandate: G. Alberigo (ed.), Storia dei concili ecumenici (Brescia: Queriniana, 1990); N. Tanner, I concili della Chiesa (Milano: Editrice Jaca Book, 1999), e per il contesto più ampio, idem, Nuova breve storia della chiesa cattolica (Brescia: Queriniana, 2012), cap. 3; Storia dei Concili ecumenici. Attori, canoni, eredità, O. Bucci – P. Piatti (edd.), Città Nuova 2014.

Immagine: Innocenzo III convoca i vescovi al Conclio Laterano IV (Chronicon Major, di Matthew Paris (+1259), manoscritto del XIV secolo, Courtauld Institute, London)


LEMMARIO




Concili, Sinodi - vol. I


Autore: Gaetano Greco

Con i termini sinodo e concilio s’intendono le assemblee di ecclesiastici, nelle quali sin dai primi secoli dell’affermazione del Cristianesimo sono stati discussi e deliberati aspetti e problemi riguardanti il governo della Chiesa, nella sfera spirituale (osservanza dell’ortodossia, amministrazione dei sacramenti, disciplina ecclesiastica, cura delle anime, cerimonie sacre e loro liturgia, culto dei santi ecc.) e temporale (come la distribuzione dei carichi fiscali, difesa dei privilegi, relazioni con le autorità civili ecc.). I due termini sono equivalenti, ma con il passare dei secoli è invalso l’uso di indicare con maggiore precisione con l’espressione “sinodo diocesano” l’assemblea dei sacerdoti (ma per lungo tempo anche dei laici più importanti per ruolo politico) di una diocesi presieduta dal vescovo e con l’espressione “sinodo provinciale” (o anche “concilio provinciale” o particolare) la riunione dei vescovi di una provincia ecclesiastica presieduta dal suo metropolita. Sulla base di questa distinzione la dottrina della Chiesa cattolica si è attestata nel negare all’assemblea sinodale diocesana una potestà legislativa, pur nel solo ambito della Chiesa locale, attribuendo questa potestà solo al vescovo: l’assemblea avrebbe solo una funzione consultiva e, di fatto, servirebbe al vescovo per pubblicare e illustrare il diritto vigente nella Chiesa universale e in quella locale (più recentemente, cf. l’Istruzione sui sinodi diocesani della Congregazione per i Vescovi e della Congregazione per l’evangelizzazione dei Popoli del 19 marzo 1997, e il Direttorio per il Ministero Pastorale dei Vescovi Apostolorum successores del 22 febbraio 2004). Da parte sua, sin dagli inizi dell’età moderna la ricerca storica è impegnata nel reperimento di fonti e notizie sullo svolgimento di sinodi diocesani e concili provinciali: edizioni di fonti, dalla raccolta generale intrapresa nella prima metà del Settecento da Giovanni Domenico Mansi sulla scia del Merlin, del Labbé, del Coleti e altri ancora, a collezioni di testi locali, sia per iniziativa diretta di vescovi (come il Synodicon della Chiesa beneventana, pubblicato dall’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini all’inizio del Settecento), sia per iniziativa di eruditi (come nel caso dei sinodi lucchesi editi da Paolino Dinelli); individuazione ed edizione di testi dimenticati dalla memoria locale; reperimento di tracce documentarie anche al di fuori delle fonti documentarie. Lavori ancora in corso, che riguardano non solo le epoche più lontane, ma anche i secoli dell’età moderna, quando non tutti gli atti dei sinodi diocesani raggiunsero la dignità di una pubblicazione a stampa, vuoi per carenza di risorse finanziarie da parte dei vescovi, vuoi per gli ostacoli e le dilazioni imposte dagli uffici della Curia romana in disaccordo su questo o quel punto delle norme sinodali, sia per timore di possibili turbative alla preminenza papale e curiale, sia anche su istigazione di componenti della Chiesa locale, colpite dalle decisioni vescovili.

Probabilmente i sinodi diocesani nacquero e si affermarono nelle regioni e nei periodi storici, nei quali i concili provinciali o non si affermarono o entrarono in crisi (Longhitano). I primi documenti scritti ne fanno menzione già agli inizi del VI secolo (Lex Romana Visigotorum) e nei secoli successivi non mancarono assisi diocesane, convocate dal vescovo per affrontare particolari problemi locali, anche di tipo giudiziario, ma solo nel Concilio Lateranense IV del 1215 l’istituto sinodale ebbe un pieno riconoscimento e una normazione: in quella sede fu previsto che i sinodi diocesani dovessero svolgersi con cadenza annuale, sotto la presidenza del vescovo o di un suo rappresentante. Col tempo si andarono stabilizzando le materie oggetto dei sinodi: l’integrità della dottrina, l’amministrazione dei sacramenti, l’ordine delle feste ecclesiastiche e le regole per il rispetto dei luoghi sacri, la disciplina dei chierici e dei laici, il conferimento e l’amministrazione degli uffici ecclesiastici. Quanto ai partecipanti, le assemblee furono ristrette al solo clero, e più in particolare ai canonici, ai vicari forensi, ai pievani e agli altri curati; nel contempo i vescovi chiedevano la partecipazione anche degli abati e degli altri prelati della diocesi, suscitando – ancora fino alla fine dell’età moderna – la resistenza di questi ecclesiastici, che erano ben consapevoli del fatto che la loro semplice presenza poteva significare l’accettazione del diritto promulgato in quella sede dall’ordinario diocesano.

Fra Quattro e Cinquecento la documentazione sulle assemblee sinodali locali e provinciali è scarsa, e persino lo stesso Concilio provinciale fiorentino del 1516-18, indetto da Giulio de’ Medici (poi papa Clemente VII) sulla scia del V Concilio Lateranense, pare che non abbia dato alcun risultato sul piano di una riforma disciplinare della Chiesa della provincia fiorentina e delle diocesi contermini, assoggettate al governo politico dei parenti dello stesso Giulio. La situazione cambiò radicalmente dalla metà del XVI secolo. Nel 1960, nel suo catalogo bibliografico degli atti sinodali italiani a stampa padre Silvino Da Nadro ha schedato 1762 titoli, partendo da un sinodo bolognese del 1535 e giungendo fino al sinodo torinese del 1878: dopo la conclusione del Concilio di Trento si ebbero quasi 460 sinodi nel cinquantennio successivo e altri 430 nel mezzo secolo seguente; poi si verifica una lieve flessione (234 nel 1716-1765), seguita da un crollo nel periodo compreso fra l’età delle riforme illuministiche e gli anni della rivoluzione. Nella XXIV sessione (1563), in effetti, il Concilio intervenne con decisione su questa materia, confermando l’obbligo per ogni vescovo di celebrare di persona il sinodo diocesano almeno una volta l’anno (così anche a Basilea nel 1433) e per i metropolitani di radunare ogni tre anni i concili provinciali da troppo tempo trascurati. Cominciò allora una ricca stagione sinodale e conciliare, non priva di ricadute concrete, anche se non immediate né uniformi ed esaustive, nella disciplina dei chierici e dei laici, nella riorganizzazione e nel rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche locali (dai capitoli alle parrocchie, dai monasteri femminili alle confraternite laicali), nella repressione dei persistenti residui e delle nuove forme di paganesimo, nell’emarginazione civile degli ebrei, nella cristianizzazione dei riti individuali e comunitari. In questa fase d’intensa attività assunse un ruolo di guida il card. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, con i suoi Acta Ecclesiae Mediolanensis, nei quali fu pubblicato il ricco corpus legislativo emanato nel corso dei sei concili provinciali celebrati fra il 1565 e il 1582: questi costituiranno nei decenni successivi il modello esplicito di riferimento per l’attività sinodale dei vescovi italiani. Tuttavia, almeno per tutta l’età moderna, l’analisi particolare permette di rilevare il persistere di modelli diversificati, anche in relazione alle differenti condizioni socio-economiche e culturali delle regioni italiane: «Ci sono sinodi che si rifanno al modello borromeano e sinodi che di rifanno a modelli di epoche successive anche se tutti si riferiscono essenzialmente ai decreti tridentini […] Ci sono sinodi che riflettono direttamente la realtà religioso-sociale a livello diocesano; ci sono sinodi prescrittivo-normativi strettamente aderenti ai dettati del Concilio di Trento senza nulla aggiungere o togliere; sinodi in cui prevale l’aspetto giuridico-formale e quelli più intimamente legati alla realtà religiosa riscontrata dai vescovi nelle loro visite pastorali; ci sono sinodi stereotipi e sinodi più aderenti ai tempi ed all’evoluzione della società» (Cestaro).

Lo studio delle singole situazioni locali permette di individuare l’impegno dei vescovi in questo settore dell’azione pastorale (come nel caso delle visite), ma consente anche di individuare anche l’esistenza di ostacoli politici alle iniziative dei vescovi e, più ancora, dei metropoliti: la non coincidenza fra province ecclesiastiche e confini statali frenava o impediva la convocazione dei concili provinciali (per es., gli arcivescovi di Pisa non hanno mai riunito in epoca moderna i vescovi corsi loro suffraganei, perché la Corsica dipendeva dalla Repubblica di Genova). Con gli inizi del Seicento, poi, sopravvenne una lunga fase di stasi: gli atti sinodali a stampa del periodo ripetono stancamente le medesime formule. Negli ultimi decenni dello stesso secolo e nei primi del Settecento s’intravedono netti i segni di un rinnovato impegno da parte dell’episcopato italiano nella cura pastorale e nella riforma disciplinare, segnato da una nuova ondata di sinodi diocesani, spesso editi a stampa con un ricco corredo di decreti vescovili, di documenti pontifici e di provvedimenti emanati dalle congregazioni romane. Sempre alla prima metà del Settecento risalgono il concilio provinciale romano del 1725 (voluto dall’Orsini, ora papa Benedetto XIII) e la pubblicazione di due opere, che avrebbero dovuto costituire il riferimento essenziale per la celebrazione dei sinodi diocesani: il Promptarium Synodale di Giovanni Battista Braschi (1727), e il De Synodo Dioecesana di Prospero Lambertini, scritto durante l’episcopato bolognese e pubblicato nel 1748 (sarà poi accresciuto e parzialmente modificato nelle edizioni successive). Strumento di pronto uso per i vescovi, il primo, e analisi problematica in un’ottica giuscanonista e curiale, il secondo, queste due opere sono la testimonianza del punto di arrivo e del consolidamento di una tradizione gerarchica, che utilizzava l’assemblea sinodale non già come occasione di consultazione, discussione e condivisione di temi e soluzioni fra il vescovo e il suo clero, bensì come catena di trasmissione di decisioni assunte nel centro della cattolicità e trasferite alla lettera nelle periferie per il tramite dei vescovi. In effetti, nel sinodo diocesano era assai limitata anche quell’autorità episcopale, che pure nella sede assembleare appariva come assoluta, poiché in essa il vescovo promulgava e pubblicava leggi, sulle quali i presenti avevano tutt’al più un diritto di consultazione. D’altronde, l’angustia dei poteri normativi dei vescovi emerge in più punti proprio dall’opera di Lambertini, che costellò la sua opera di paletti e di ostacoli, per impedire agli ordinari diocesani di sottrarre prerogative acquisite da secoli dalla Curia romana o, persino, di portare a conoscenza dei loro fedeli materie e soluzioni adottate, con il consenso dei pontefici, in altre regioni della cattolicità (come nel caso del matrimonio dei cattolici con acattolici). Non è casuale che durante il suo episcopato, esteso anche nei primi anni del suo pontificato, Lambertini non convocò mai un’assise sinodale, preferendo fare sentire e leggere i suoi voleri tramite quelle Notificazioni, di cui fece stampare una ricca silloge.

Pochi decenni dopo il vescovo giansenista di Prato e Pistoia Scipione de’ Ricci definì «pestifero» il libro di Lambertini e «zibaldone alla beneventana» quello del Braschi. Nelle sue memorie il Ricci collegava questi «due zibaldoni o repertorii di legali forensi» a una lettera convocatoria sinodale del vescovo Mancini di Fiesole, nella quale questi «si affatica malamente […] per istruire i parrochi di quel che non debbono fare né esaminare, e molto meno decidere in punto di dottrina e di disciplina ecclesiastica; in modo che, dopo aver detto che i concili erano utili tanto e necessari nella primitiva Chiesa, viene a provare il contrario pei tempi presenti, e dissuade indirettamente il clero e i parrochi dallo intervenire all’adunanza per cui gli invita» (Ricci, vol. I p. 401-402). In aperto contrasto con questa tradizione, nel Sinodo diocesano pistoiese del 1786 lo stesso Ricci giunse a proporre, nel contesto di un ampio progetto di riforma religiosa che spaziava dalla preparazione dottrinale del clero fino agli aspetti liturgici dell’espressione pubblica del sacro, un nuovo modello ecclesiologico fondato sulla cooperazione e l’interazione del vescovo con i suoi parroci. Condannato nel 1794 da Pio VI con la bolla Auctorem fidei, questo Sinodo ha rappresentato l’espressione più avanzata del riformismo interno alla Chiesa locale, in virtù della presenza nel suo programma di alcune istanze, che sono sopravvissute a lungo, seppure nascostamente, in alcune componenti della cultura cattolica italiana fino al Concilio Vaticano II. Intanto, nel 1787 si tenne per volontà del granduca Pietro Leopoldo una grande assemblea dei vescovi del Granducato, con il duplice intento di fondare una “Chiesa nazionale” e di accelerare le riforme ecclesiastiche grazie all’esplicito consenso della gerarchia episcopale toscana. Nell’un caso come nell’altro la politica granducale subì un’apparente sconfitta, perché i vescovi toscani, sotto l’accorta guida dell’arcivescovo di Pisa Angelo Franceschi, riuscirono a bloccare le proposte ritenute più eversive. Ma questo risultato ufficiale andrebbe poi verificato sulla base di ricerche locali, diocesi per diocesi: qui, infatti, i vescovi toscani mostrarono spesso di essere degli affidabili collaboratori del sovrano nell’applicazione concreta delle sue riforme. Anzi, Pietro Leopoldo non doveva certo essere insoddisfatto del suo episcopato, se gli affidò la gestione effettiva di tutte le nomine dei curati, già spettanti agli enti pubblici, e se nella complessa ristrutturazione di tutto il sistema della giustizia ecclesiastica regionale, seguita all’abolizione del Tribunale d’appello presso la Nunziatura Apostolica a Firenze, pose al suo vertice proprio quei tre arcivescovi di Firenze, Siena e Pisa, che pure avversavano pubblicamente le componenti “gianseniste” del riformismo religioso toscano.

Dopo la parentesi napoleonica, riprese l’attività sinodale dei vescovi italiani, pur con moderazione: Silvino da Nadro ha rintracciato centoventi edizioni di atti sinodali diocesani fino al 1878. Il sinodo pistoiese e l’assemblea dei vescovi della Toscana avevano fatto emergere due “tentazioni” fortemente invise all’ecclesiologia “romana”, decisamente assestata su una concezione gerarchica e centralistica: il parrochismo nei sinodi diocesani e il conciliarismo episcopalista nelle assisi dei vescovi su base statale. La ritrovata alleanza fra trono e altare nella Restaurazione, prima, e, dopo, il dichiarato non-interventismo dello Stato liberale negli affari interni della Chiesa consentirono alla Santa Sede di spegnere queste aspirazioni e di utilizzare i sinodi diocesani e i concili provinciali come strumento di trasmissione del diritto romano dal centro alle periferie. Come ha scritto Silvio Ferrari, «il “figurino” sinodale è unico, ispirato ad una ecclesiologia di stampo giuridico che esalta il momento gerarchico della comunità cristiana. Dopo il definitivo tramonto degli aneliti riformisti del clero parrocchiale settecentesco i vescovi sono rimasti i soli padroni del terreno sinodale: ma – sotto l’azione combinata delle spinte accentratrici interne alla Chiesa cattolica, della rigida politica di nomine episcopali inaugurata da Pio IX e del declino degli interventi sovrani nella scelta dei vescovi – questa vittoria si è risolta in una marcata tendenza ad importare ed applicare a livello locale le direttive provenienti dal centro, depotenziando il rilievo della realtà socio-religiosa diocesana che può essere colta, nei sinodi, soltanto attraverso una attenta lettura in filigrana di costituzioni largamente uniformi».

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Concili, Sinodi - vol. II


Autore: Carlo Pioppi

Il concilio provinciale è un istituto assai antico nella vita della Chiesa: esso è la riunione solenne, convocata e presieduta dal metropolita, dei vescovi di una stessa provincia ecclesiastica, e ha come scopo la produzione di una legislazione canonica locale, volta a offrire una migliore struttura pastorale e disciplinare dell’organizzazione e dell’attività ecclesiastiche, nonché a incrementare e difendere la fede dei cristiani e a migliorarne i costumi. Nell’età moderna e contemporanea una norma tridentina (sess. 24a, decr. di riforma, can. 2) stabiliva che tali raduni di vescovi dovessero essere convocati ogni tre anni (la frequenza fu portata a 20 anni dal can. 283 del Codice del 1917), ma essa fu quasi ovunque disattesa, risultando nella pratica impossibile o troppo gravosa; dal 1588 al 1967 gli atti, decreti, costituzioni di questi concili furono inviati alla S. Congregazione del Concilio (dal 1850 ca. al 1908 affiancata dalla Congregazione Speciale per l’Esame dei Concili e delle Adunanze Provinciali) per il processo di recognitio: ricevuta l’approvazione romana, essi erano pubblicati e divenivano una guida pratica per il clero nell’adempimento del suo ministero pastorale.

Con l’unificazione politica della penisola, la Chiesa italiana si trovò ad affrontare notevoli difficoltà, per lo più dovute al radicale cambiamento ambientale avvenuto per il passaggio da sistemi politici di Ancien Régime a uno stato liberale: il tutto fu poi aggravato dallo scontro dovuto all’irrisolta Questione Romana, che rese spesso tesi i rapporti tra autorità civili ed ecclesiastiche. Questa situazione insicura e avversa, insieme con numerosi casi di sedi diocesane vacanti, riconducibili anch’essi allo scontro in atto, fece sì che i concili provinciali – già non numerosi nella prima metà del sec. XIX – divenissero assai rari. Infatti, a fronte di sette concili provinciali convocati prima dell’unificazione (Firenze, Pisa e Siena nel 1850; Ravenna nel 1855; Capua, Urbino e Venezia nel 1859), tra la proclamazione del Regno d’Italia e lo scoppio della 1a Guerra Mondiale si rinvengono solamente due concili provinciali: quello di Cagliari del 1886 e quello di Milano del 1906; quest’ultimo ebbe la sua causa nello zelo pastorale del card. A.C. Ferrari che, ispirandosi al modello borromaico, dispiegò una grande attività in termini di adunanze conciliari e di visite pastorali. Inoltre va ricordato quello di Benevento del 1895, riguardo al quale però non è chiaro se vi sia stata o meno l’approbatio romana. Va ricordato anche il diffondersi della più agile figura dei conventus episcoporum, o conferenze episcopali, che nacque e si sviluppò proprio nel sec. XIX: essa permetteva ai vescovi di zone vicine d’incontrarsi in maniera informale, aggirando in tal modo le difficoltà spesso poste dai governi liberali, mostratisi di solito, in continuità con precedenti tradizioni regaliste, sospettosi verso i concili provinciali.

Dopo la Grande Guerra si assiste invece a una fioritura conciliare che sarebbe durata sino al Vaticano II, dovuta in primis alla promulgazione del Codice nel 1917 e alla necessità di adeguarvi la legislazione locale. Il codice (cann. 281-282) prevedeva, accanto al concilio provinciale, la figura di quello plenario, riunione di vescovi di varie provincie ecclesiastiche vicine presieduta da un legato pontificio. Al fine di dare un impulso a quest’attività conciliare, la Congregazione Concistoriale nel 1919 divise l’Italia in 15 regioni ecclesiastiche (escludendo però Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, dove sarebbero stati ancora convocati concili provinciali); si ebbe così, fino al Vaticano II, una serie di 16 concili plenari di tali regioni: 1° Siciliano 1920 (Palermo), Umbro 1923 (Assisi), Sardo 1924 (Oristano), Abruzzese 1924 (Chieti), 1° Salernitano-lucano 1925 (Salerno), 1° Piceno 1928 (Loreto), Pugliese 1928 (Molfetta), Campano 1932 (Napoli), Emiliano 1932 (Bologna), Etrusco 1933 (Firenze), 1° Calabrese 1934 (Reggio), 2° Siciliano 1952 (Palermo), Laziale Superiore 1953 (Viterbo), 2° Salernitano-lucano 1955 (Salerno), 2° Piceno 1956 (Loreto), 2° Calabrese 1961 (Reggio). Mancarono quindi all’appello tre delle 15 regioni: Beneventano, Lazio Inferiore e Romagna; a Benevento però fu tenuto nel 1927 un concilio provinciale. Nelle quattro zone rimaste esenti dal regime regionale-plenario, si tennero i concili provinciali di Milano nel 1934 e di Genova nel 1950. In Piemonte, invece, si tenne alla fine un plenario, che includeva le provincie ecclesiastiche di Torino e Vercelli, nel 1927; lo stesso avvenne nel Veneto, dove si tennero due plenari: nel 1923 (con le provincie di Venezia e Udine) e nel 1951 (Venezia, Udine e Trento). Un’attività conciliare così intensa è un fenomeno piuttosto singolare nel panorama ecclesiale europeo del periodo tra le due guerre.

In totale, tra il 1861 e il 1961, si tennero 24 concili plenari e provinciali (senza contare il beneventano del 1895), così distribuiti per regioni: 4 in Campania-Lucania; 2 in Lombardia, Veneto, Marche, Calabria, Sicilia e Sardegna; uno in Piemonte, Liguria, Emilia, Umbria, Toscana, Lazio, Abruzzo, Puglia.

Un caso a parte è il Sinodo Intereparchiale di Grottaferrata del 1940; questo, voluto da Pio XI, ebbe come scopo di riunire gli ordinari dei tre territori di rito bizantino presenti in Italia: il Monastero Esarchico di Grottaferrata e le eparchie di Lungro e Piana degli Albanesi. Gli atti e decreti del concilio furono approvati in questo caso dalla Congregazione Orientale, e non da quella del Concilio. Il Secondo Sinodo Intereparchiale si è riunito nel 2004-2005.

Dopo il Vaticano II, i concili plenari e provinciali nella penisola divennero eventi alquanto rari, forse in quanto furono soppiantati dall’attività della Conferenza Episcopale Italiana, sorta nel 1954 come Conferenza dei Vescovi Presidenti delle Regioni Conciliari e trasformata in conferenza plenaria nel 1964. Tale situazione fu per così dire assunta dal Codice del 1983, che nel can. 440 rinunciò a esigere la cadenza ventennale. Una caratteristica che contraddistingue i plenari tenuti dopo il Vaticano II rispetto ai precedenti è la loro lunga durata, come il Concilio Marchigiano del 1985-1988; e quello Sardo, annunciato nel 1987, indetto nel 1992 e concluso nel 2001.

Il sinodo diocesano è la riunione del clero di una diocesi sotto la guida del vescovo. Il Concilio di Trento (sess. 24a, decr. di riforma, can. 2) prevedeva che il sinodo fosse convocato ogni anno: anche in questo caso si trattò di una norma non praticabile; se il Codice del 1917 impose una frequenza decennale (can. 356), quello del 1983 (can. 461) non determina scadenze. Ovviamente si tratta di riunioni molto più facili da organizzarsi rispetto ai concili provinciali e plenari e dunque se ne riscontra un numero notevolmente più elevato. S. Ferrari ha censito per l’Italia, dal 1860 al 1959, 401 sinodi diocesani: 185 tra il 1860 e il 1914 (nel suo studio v’è una discordanza di dati: egli propone il numero di 195, ma la somma della distribuzione per regioni ammonta a 185), e 216 tra il 1915 e il 1959. La ripartizione geografica per regioni amministrative attuali è la seguente: 11 in V. d’Aosta, 37 nel Piemonte, 17 in Liguria, 47 in Lombardia, 1 nel Trentino-A.Adige, 26 nel Veneto, 5 nel Friuli-V.Giulia, 37 in Emilia-Romagna, 35 in Toscana, 22 nelle Marche, 11 in Umbria, 27 nel Lazio, 17 in Abruzzo, 6 nel Molise, 36 in Campania, 21 in Puglia, 3 nella Basilicata, 13 in Calabria, 19 in Sicilia e 10 in Sardegna. Accorpando i dati, si trova dunque un’attività sinodale che presenta 181 sinodi al nord, 105 al centro e in Sardegna e 115 al sud.

La frequenza di sinodi in una diocesi dipende da diverse variabili: la presenza o meno di una consolidata tradizione sinodale (in genere poco presente nel sud, vuoi per un’incompleta recezione del Tridentino, vuoi per l’influsso del giurisdizionalismo borbonico); un secondo fattore è l’importanza concessa ai sinodi da singoli vescovi, come Gastaldi a Torino, Ferrari a Milano, Ciceri a Pavia, Scalabrini a Piacenza; una terza variabile è la connessione tradizionale tra visita pastorale e sinodo diocesano, convocato al termine di quella.

Negli ultimi decenni l’attività sinodale diocesana è rimasta abbastanza vivace. Dal 1960 al 2011 sono stati portati a termine almeno 119 sinodi; essi si caratterizzano per una durata più lunga dei precedenti. Effettivamente, sia i plenari che i provinciali e i diocesani, prima del Vaticano II, erano eventi piuttosto brevi. Ciò era dovuto a due fattori: d’un lato v’era un preciso e particolareggiato lavoro di preparazione e consultazione precedente la convocazione, nel quale praticamente si redigevano già i decreti, dall’altro un atteggiamento dirigistico delle curie che lasciava poco spazio, sebbene non lo escludesse del tutto nei provinciali e nei plenari, al dibattito durante il concilio stesso. L’aumento della durata dopo il Vaticano II va letto alla luce di una volontà di trasformare l’evento sinodale in un vero e proprio momento di riflessione, studio e dibattito di tutta la compagine ecclesiale; nella stessa linea va anche l’intervento di rappresentanti del laicato alle assise. Un’altra caratteristica dei sinodi postconciliari consiste nell’abbandono del terreno del diritto per rivolgersi alla esposizione di orientamenti pastorali giuridicamente poco delineati: segno di tale evoluzione è anche il mutamento dei documenti finali da una forma simile al codice verso espressioni diverse, caratterizzate comunque da minore precisione in campo normativo.

Tutti questi eventi conciliari hanno avuto come funzione quella di raccordare alle diverse situazioni ed esigenze locali il diritto canonico generale (o di livello superiore); per questo il loro studio è importante nell’ambito degli studi sulle Chiese locali; d’altro canto è utile, soprattutto in caso di un’attività sinodale intensa, studiare e verificare similitudini o dipendenze: a volte infatti gli atti di un concilio erano presi a modello da altri in tempi e/o luoghi diversi; un esempio è il Concilio di Cartagena (Colombia) del 1902, che presenta una singolare dipendenza dal Sinodo Diocesano di Pavia del 1878, fatto che si spiega con la presenza di un metropolita di origini lombarde, P.A. Brioschi.

Lo schema tipico di concili e sinodi presenta una suddivisione nelle seguenti parti: fede; sacramenti; persone; beni ecclesiastici. Almeno sino alla 1a Guerra Mondiale la parte sulla fede risulta di solito interessante e originale, in quanto vi sono presentate le tendenze del luogo e del tempo che possono condurre i fedeli alla sua perdita e gli strumenti per mantenerla salda: di solito in tale sezione si nota il disagio del mondo ecclesiastico di fronte a una società non più ufficialmente cattolica e un certo rifugiarsi in una mentalità da “fortezza assediata”; tracce del difficile rapporto fra politica e religione si rinvengono anche nelle parti concernenti i beni ecclesiastici. Dopo la codificazione la sezione sulla fede tese a scomparire dagli atti dei sinodi diocesani, ma non dei plenari, e non di rado si seguì lo schema del codice; dopo la 1a Guerra Mondiale si nota anche una variazione di toni dovuta alla soluzione del conflitto tra stato e Chiesa, e si trovano formule innovative nello spazio concesso all’associazionismo laicale; dopo il conflitto 1939-1945 si approdò gradualmente a una ripartizione più libera delle materie.

Fonti e Bibl. Essenziale (abbreviazioni da IATG3)

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Sitografia

Annuarium Historiae Conciliorum: http://ahc.pusc.it/


LEMMARIO




Concilio di Trento - vol. I


Autore: Elena Bonora

Fu convocato a Mantova nel 1536, poi a Vicenza e nel 1542 a Trento, città dell’Impero al di qua della Alpi sottoposta all’autorità del principe-vescovo, e quindi luogo adatto alla mediazione con i protestanti, ma fu subito sospeso a causa della guerra tra Carlo V e il re di Francia. Dopo tanti rinvii, indetto nuovamente da Paolo III Farnese con la bolla Laetare Jerusalem nel novembre 1544, fu solennemente aperto il 13 dicembre 1545 a Trento. Di qui nel marzo del 1547 fu trasferito a Bologna, città pontificia. La traslazione, motivata da Roma con il diffondersi di un’epidemia, provocò la protesta ufficiale di Carlo V. Mentre i vescovi filoimperiali restavano a Trento e tra gli osservatori contemporanei si diffondeva il timore dello scisma, la sguarnita assemblea conciliare si prolungò stentatamente a Bologna sino alla morte del papa nel novembre 1549 (prima fase). Riaperto a Trento da Giulio III Del Monte nel maggio 1551 e nuovamente sospeso un anno dopo per la ripresa delle ostilità franco-asburgiche (seconda fase), il concilio non fu riconvocato durante il pontificato dell’intransigente Paolo IV Carafa, impegnato in una rovinosa politica anti-imperiale e anti-spagnola. Fu riaperto a Trento solo il 18 gennaio 1562 sotto il successore, il milanese Pio IV Medici, e portato a termine a tappe forzate il 4 dicembre 1563 (terza fase). Vi parteciparono, oltre ai vescovi, anche un folto numero di teologi e canonisti privi del diritto di voto, i generali e gli abati degli ordini regolari nonché, in qualità di osservatori, gli ambasciatori delle grandi potenze che avevano un forte peso sui loro episcopati. I lavori si svolsero sotto il saldo controllo di cardinali legati pontifici. Se durante le prime due fasi l’affluenza dei vescovi era stata scarsa e prevalentemente italiana, nella terza vi fu una consistente partecipazione anche di spagnoli e francesi.

Le due massime autorità dell’Europa cristiana – il papa e l’imperatore – guardavano al concilio da diverse prospettive. Nelle intenzioni dell’imperatore esso avrebbe dovuto in via preliminare affrontare le questioni disciplinari con una severa riforma dei costumi ecclesiastici e della corte romana: ciò avrebbe permesso di dividere e indebolire il fronte dei principi protestanti organizzati nella lega di Smalcalda contro i quali era imminente la guerra, ponendo nel contempo le premesse per una conciliazione della cristianità. Il pontefice invece, temendo un attacco alla propria autorità e al sistema ecclesiastico-istituzionale su cui si basava, premeva per la definizione delle questioni teologiche contro le dottrine di Lutero. A Trento si decise di trattare simultaneamente i due ordini di problemi, ma sin dalla prima fase furono approvati una serie di decreti che sancirono la rottura con il mondo riformato.

Nonostante le voci dissenzienti, il prevalere delle posizioni teologiche dei grandi ordini mendicanti condusse al decreto del gennaio 1547 che ribadì il valore salvifico delle opere contro la giustificazione sola fide dei protestanti. La volontà di una netta definizione dell’ortodossia e l’irrigidimento delle posizioni confessionali furono evidenti anche sul nodo decisivo delle fonti della Rivelazione. Contro il sola Scriptura dei luterani si stabilì infatti l’eguale importanza della tradizione orale amministrata dalla Chiesa; fu fissato il canone della bibbia; si dichiarò che la Vulgata di s. Girolamo era la sola traduzione latina autorizzata. La dottrina del peccato originale fu parimenti definita in chiave anti-protestante; i sacramenti (dei quali si ribadì il significato di «segni efficaci della grazia», cioè il valore salvifico per il fedele) furono confermati nel numero di sette contro i due ammessi dalla dottrina luterana (battesimo ed eucaristia). Furono decretati il carattere di sacrificio della messa e l’uso del latino nella liturgia. Più avanti furono riaffermati l’esistenza del Purgatorio, la validità delle indulgenze, il culto dei santi e della Vergine.

I decreti relativi alla riforma delle strutture ecclesiastiche non riguardarono gli organi di governo romani, vertici mai neppure lambiti dai dibattiti tridentini, ma la riorganizzazione delle chiese locali attraverso il potenziamento del ruolo dell’episcopato. Ciò avvenne soprattutto nella terza fase, allorché la consistente partecipazione di vescovi francesi e spagnoli rese più difficile per la curia romana il controllo dei dibattiti conciliari, come mostrano gli aspri scontri sull’obbligo della residenza che, qualora dichiarato di diritto divino, avrebbe privato i dicasteri romani e il papa della possibilità di concedere dispense in deroga.

Al fine di combattere il diffuso fenomeno dell’assenteismo si vietò il cumulo dei benefici con cura d’anime, imponendo l’obbligo della residenza per vescovi e parroci. Si decretò l’erezione di seminari per la formazione del clero diocesano, cui furono imposti con nuova rigidità il celibato ecclesiastico e l’abito talare allo scopo di instaurare quella separatezza tra chierici e laici che la dottrina luterana del sacerdozio universale negava. Richiamando in vigore antiche prescrizioni si rinnovarono l’obbligo per l’ordinario o i suoi collaboratori di effettuare le visite pastorali; si prescrisse la convocazione triennale dei concili provinciali e quella annuale dei sinodi diocesani.

Sinodi e concili erano le sedi per l’esercizio delle funzioni legislative e di governo delle chiese locali sotto l’autorità del vescovo, mentre le visite pastorali rappresentavano il momento della verifica e del controllo oltre che degli ecclesiastici, anche della vita religiosa dei fedeli. Nei loro confronti, i parroci furono incaricati di organizzare scuole per insegnare la dottrina cristiana, della redazione dei registri parrocchiali dove annotare battesimi, matrimoni sepolture e della compilazione degli status animarum (stati delle anime) dove veniva registrato l’assolvimento dei precetti religiosi da parte dei parrocchiani tenuti alla confessione e alla comunione annuali. L’imposizione di forme rituali (i sacramenti) rigidamente definite e controllate dalla Chiesa e la clericalizzazione delle tappe fondamentali della vita umana modificarono, non senza tenaci resistenze, pratiche sociali diffuse e consolidate, come dimostra il profondo cambiamento della disciplina matrimoniale introdotto dal decreto conciliare Tametsi dell’11 novembre 1563.

A conclusione dei lavori, l’assemblea affidò al papa alcune importanti integrazioni tra le quali la pubblicazione dell’indice dei libri proibiti (1564), la redazione del catechismo per i parroci (1566) e la riforma dei libri liturgici (1568-1570). Nel caso del catechismo, però, il progetto di un agile e chiaro testo su modello erasmiano auspicato da molti padri a Trento trovò ben diversa realizzazione nel Catechismus romanus, ponderosa sintesi teologica redatta da tre domenicani.

Il decreto tridentino del 1546 aveva stabilito contro il libero esercizio della critica testuale di filologi e umanisti che la Vulgata era l’unica traduzione latina della bibbia ammessa dalla Chiesa. Solo nel 1592 e dopo varie traversie l’edizione ufficiale fu pubblicata e imposta d’autorità ai cattolici. Un’altra integrazione alla normativa conciliare fu la professio fidei (14 novembre 1564), ossia la professione di fede obbligatoria per ecclesiastici ma anche per medici e maestri all’atto di assunzione del loro ufficio, che riassumeva i principi dottrinali fissati dal concilio e si concludeva con la promessa di obbedienza all’autorità papale.

Nel corso delle ultime delicate battute del concilio era fallito il progetto (utilizzato da Roma anche come strumento di pressione politico-diplomatica) di affrontare la «riforma dei principi», ossia di far approvare misure atte a salvaguardare la giurisdizione ecclesiastica rispetto ai poteri civili. I sovrani opposero privilegi e diritti dei loro stati, rafforzati da quei concordati e concessioni papali che tra Quattro e Cinquecento avevano accentuato il carattere nazionale delle loro Chiese e la subordinazione di queste all’autorità del re. Di tali aspetti occorre tener conto nel valutare la ricezione europea del concilio. Prontamente accolta dagli stati regionali italiani, dal Portogallo e dalla Polonia, la normativa conciliare fu infine ufficialmente approvata da Filippo II di Spagna ma con limitazioni verso quei decreti considerati lesivi delle prerogative regie. Nell’Impero la pubblicazione del concilio si rivelò impossibile così come in Francia dove si scontrò con la tradizione gallicana, largamente condivisa dalle massime istituzioni civili del regno e dallo stesso clero francese, nonché con gli assetti giuridico-istituzionali originati dalle guerre di religione. Il re di Francia quindi non confermò i decreti tridentini neppure quando furono infine approvati dall’Assemblea del clero nel 1615.

Con la bolla Benedictus Deus (30 giugno 1564) Pio IV promulgò i decreti tridentini avocandone l’interpretazione alla congregazione cardinalizia del Concilio appositamente istituita per risolvere i problemi e i dubbi che le innovazioni avrebbero creato nella loro applicazione, e in seguito incaricata anche di valutare la congruità con la normativa tridentina della produzione legislativa dei vescovi a livello locale.

Si trattava di una straordinaria affermazione del centralismo romano ottenuta attraverso la secretazione e il monopolio dell’interpretazione delle norme conciliari. La Santa sede bloccò infatti la già annunciata edizione degli atti (che fu realizzata solo a partire dal 1901) e vietò tassativamente di stampare senza autorizzazione papale ogni commento o glossa ai suoi decreti, cui si aggiunse in seguito la proibizione di pubblicare senza licenza i decreti della congregazione cardinalizia del Concilio.

Negli anni successivi il disegno di rinnovamento basato sul rafforzamento della funzione episcopale e della parrocchia si dovette confrontare oltre che con le tenaci resistenze provenienti dalla società e dalle autorità civili, anche con gli ostacoli frapposti da logiche e componenti interne all’istituzione ecclesiastica. L’esigenza strutturale del papato di impiegare gli ordinari negli incarichi istituzionali connessi al governo della Chiesa e dello stato pontificio fu spesso all’origine dell’inadempienza dell’obbligo tridentino della residenza. Lo strumento della deroga di concessione papale incise anche sulle facoltà di reclutamento del clero diocesano da parte del vescovo, dal momento che attraverso il meccanismo della resignazione molti cardinali nel rinunciare a un vescovato non solo trattenevano una parte preponderante delle sue entrate, ma potevano riservarsi il diritto di nomina ai benefici vacanti di collazione vescovile nella diocesi cui avevano rinunciato. La stessa selezione dei vescovi fu accentrata in curia e condotta sulla base delle informazioni provenienti dai nunzi delegati papali, laddove invece il Tridentino aveva attribuito un importante ruolo ai concili provinciali nel vaglio dei candidati.

Per aggirare il divieto del cumulo di benefici fissato dal concilio, le mense episcopali furono gravate di pensioni istituite a vantaggio di terzi accordate direttamente dal papa che ne decurtavano l’entità in misura ben superiore alla percentuale massima (1/3) consentita dai canoni conciliari. In questo modo le entrate per mezzo delle quali i vescovi avrebbero dovuto finanziare le riforme (ad es. l’erezione dei seminari) venivano dirottate a favore di cardinali, di curiali e persino dei tribunali inquisitoriali, secondo una logica da cui emerge come i pontefici privilegiassero il rafforzamento del proprio patronage e il consolidamento degli apparati coercitivi della Chiesa piuttosto che il rinnovamento tridentino delle chiese locali.

Occorre inoltre ricordare come l’esercizio delle prerogative dell’Inquisizione, progressivamente allargatesi dall’eresia teologica al campo del controllo sociale, interferisse sovente in modo conflittuale oltre che con l’attività giudiziaria svolta dai tribunali episcopali, anche con il governo pastorale del vescovo e con i progetti di riforma fondati sulla sua autorità. Ma soprattutto, i vescovi non potevano contare sull’appoggio della Santa sede contro quanti – chierici e laici – continuamente si rivolgevano ai dicasteri centrali (come la congregazione dei Vescovi e regolari) o ai tribunali delle nunziature rivendicando esenzioni e privilegi per sottrarsi alla giurisdizione dell’ordinario. E se i ricorsi a Roma erano di norma in grado di legare le mani ai vescovi, specie a quelli più deboli ed esposti dell’Italia meridionale, le dilazioni e i ritardi con i quali in curia si ratificavano gli atti sinodali (diocesani e provinciali) alla lunga riuscirono a fiaccare lo slancio riformatore anche degli ordinari post-tridentini più zelanti e agguerriti.

A Trento i vescovi avevano tentato di limitare il monopolio detenuto dagli ordini religiosi sulla predicazione nonché i tradizionali privilegi ed esenzioni che li sottraevano al controllo degli ordinari diocesani. Ciononostante i regolari mantennero un’importanza centrale nella cura d’anime e nella vita religiosa: nella predicazione, nell’assistenza, nella confessione, nell’educazione e nell’organizzazione delle devozioni. Ciò avvenne grazie alla riconferma e all’ampliamento dei loro privilegi ed esenzioni da parte dei pontefici post-tridentini, per i quali la struttura gerarchica e centralizzata degli ordini e i vincoli d’obbedienza che la percorrevano costituivano un capitale prezioso da valorizzare e di cui servirsi rispetto alle tendenze autonomistiche dei vescovi e all’intreccio di fedeltà che spesso legava il titolare di una diocesi alle autorità civili.

Il progressivo depotenziamento operato dalla Santa sede delle soluzioni e degli strumenti operativi emersi dai dibattiti conciliari nonché delle aspirazioni di riforma che ne erano all’origine si accompagnò già all’indomani della chiusura del concilio a una precoce esaltazione agiografica e di maniera del Tridentino. L’uso strumentale del tridentinismo ai fini dell’autorappresentazione della Chiesa post-conciliare, il suo diventare categoria ideologica e di maniera entro una realtà che invece aveva seguito altre direzioni furono lucidamente analizzati da Paolo Sarpi nell’Istoria del concilio tridentino (Londra, 1619).

Solo a partire dalla fine del Seicento e nel corso del secolo successivo il confronto con le profonde trasformazioni operanti nella cultura e nella società, nonché la necessità di rispondere con strutture e uomini adeguati agli attacchi delle autorità civili e delle loro sempre più sviluppate burocrazie, condussero progressivamente la Santa sede a fare assegnamento sulla centralità degli episcopati e sulle riforme tracciate dal Tridentino.

Fonti e Bibl. essenziale

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LEMMARIO




Concilio Vaticano I - vol. II


Autore: Alexandra von Teuffenbach

Il Concilio Vaticano I fu annunciato da papa Pio IX ai soli cardinali di curia – con la richiesta di indicare le loro opinioni – in una seduta della congregazione dei riti il 6.12.1864, due giorni prima della promulgazione dell’enciclica Quanta cura e del Sillabo. Fino a marzo 1865 avevano risposto in modo dettagliato solo quindici porporati, quasi tutti italiani: si contavano 13 favorevoli e 2 contrari, di cui uno riteneva però la decisione di convocare un Concilio di diritto esclusivo del papa. Il papa istituì quindi una Commissione, la “congregazione speciale direttrice per gli affari del futuro Concilio generale”, composta inizialmente da cinque cardinali: Costantino Patrizi, Antonio M. Panebianco, Giuseppe Andrea Bizzarri, Prospero Caterini e Karl August von Reisach, unico tedesco della congregazione, che risiedeva a Roma già dal 1856. A loro si aggiunsero nel tempo anche Alessandro Barnabò, Luigi Bilio, Annibale Capalti e Antonio de Luca. Fu nominato segretario della Commissione il vescovo titolare Pietro Giannelli che fin dalla prima seduta non fece mistero dell’avversione che provava per la “rivoluzione” che era in atto in Italia e per gli impedimenti che ne sarebbero derivati alla libera circolazione e alla partecipazione al Concilio dei vescovi italiani, tanto da sostenere che esso sarebbe potuto essere sufficientemente rappresentativo anche senza i vescovi italiani. Sulla scelta della sede di Roma ci furono varie perplessità, anche di natura politica.

Su suggerimento della commissione centrale il papa chiese a 36 vescovi latini di varie diocesi del mondo, tra cui 11 italiani, di indicare i temi che secondo loro si sarebbero dovuti trattare al Concilio. Successivamente la domanda fu rivolta anche a molti vescovi orientali.

La preparazione del Concilio ebbe una battuta d’arresto a causa della terza guerra d’indipendenza che non rese possibile l’attuazione del progetto originario, di indirlo cioè per il 29 giugno 1867 – a 1800 anni dal martirio di Pietro e Paolo. La situazione politica di Roma intanto era diventata instabile. Dopo il plebiscito che portò – grazie all’aiuto dei francesi – Venezia e Mantova alla casa piemontese, Vittorio Emanuele aveva espresso chiaramente l’intenzione di voler conquistare anche lo Stato Pontificio. L’11.12.1866 le truppe francesi lasciarono Roma e lo Stato Pontificio rimase sotto la protezione di Vittorio Emanuele. Il papa, seppure consapevole di quello che la mutata situazione poteva significare, invitò i vescovi di tutto il mondo alle solenni celebrazioni per l’anniversario del martirio di Pietro e Paolo.

Le continue scaramucce dei Garibaldini nei territori pontifici indussero Napoleone III – dal 30.10.1867 – a riportare lo stato pontificio sotto la protezione delle truppe francesi. Il Concilio poteva quindi celebrarsi con relativa sicurezza. Fin dall’inizio della preparazione del Concilio fu dichiarata più volte l’intenzione di coinvolgere esperti di tutto il mondo. Fu richiesto il parere di 96 consultori, di cui però solo 35 non erano romani.

Il Concilio iniziò l’8.12.1869 e vi parteciparono 774 padri, tra cui 49 cardinali e 10 patriarchi. Gli italiani erano il gruppo maggioritario, sia tra i cardinali, sia tra i 529 vescovi, di cui ben 122 erano italiani; per questo furono mosse alcune critiche relative alla sua insufficiente internazionalità. Molti romani, soprattutto le famiglie nobili dell’urbe, diedero ospitalità ai vescovi più poveri – anche italiani che avevano visto confiscati i loro beni – mettendo a disposizione dei futuri padri conciliari stanze e case.

Oltre ai padri Conciliari, per il funzionamento del Concilio, era necessaria la presenza di numerose persone, tra queste i presidenti del Concilio che erano tutti italiani in quanto von Reisach morì subito dopo l’inizio del Concilio e fu sostituito da Filippo de Angelis. Gli altri presidenti furono scelti tra i cardinali della congregazione centrale che aveva preparato il concilio: de Luca, Bizzarri, Bilio, Capalti. Come Custodi del Concilio furono nominati due nobili romani, rappresentanti delle famiglie Colonna e Orsini. Gli altri ufficiali del Concilio furono tutti italiani ad eccezione di Joseph Fessler, segretario del Concilio e vescovo di St. Pölten in Austria e di alcuni stenografi, scelti appositamente tra le varie nazioni. Era italiano anche l’architetto – Virgino Vespignani – che allestì la parte di basilica di San Pietro che fu adibita ad aula Conciliare.

Il giorno di apertura del Concilio sulla tribuna d’onore c’erano italiani come la famiglia reale di Napoli e il granduca di Toscana. Mancavano, chiaramente, i regnanti piemontesi. Fin da subito si formarono delle “fazioni” che criticarono il regolamento del Concilio e che composero delle liste in cui inserire nomi di prelati “infallibilisti” o “antiinfallibilisti” per pilotare l’elezione di candidati nella deputazione della fede e avere così la maggioranza in essa. Nelle liste che furono preparate risulta un vescovo italiano, Mons. Ghilardi di Mondovì. Furono poi eletti in quella deputazione anche i mons. d’Avanzo di Calvi e Teano, Cugini di Modena, Zinelli di Treviso e Cardoni vescovo di Edessa. Anche il presidente della deputazione, il card. Bilio, era italiano.

Il Concilio iniziò con la discussione dello schema sulla dottrina cattolica; dei 35 oratori 7 erano vescovi di diocesi italiane e 4 vescovi con titoli di diocesi orientali. Lo schema fu poi inviato alla deputazione della fede per essere completamente rivisto. Successivamente furono trattate alcune costituzioni disciplinari, sia sui vescovi e sui sinodi e vicari generali e sulla sede episcopale vacante (parlarono 37 padri di cui 10 italiani); sull’onestà dei Chierici (38 oratori, di cui10 italiani); infine fu discusso lo schema sul catechismo minore (41 oratori tra cui 9 italiani).

Passarono tre mesi dall’inizio del Concilio senza che esso avesse prodotto alcun risultato, per questa ragione il 20 febbraio fu presentato un nuovo regolamento con norme più rigide, contro cui furono fatte svariate proteste da parte dei vescovi d’oltralpe ed anche di un nutrito gruppo di vescovi del nord d’Italia.

Nella lunga pausa tra quelle che possono essere considerate come la prima (fino al 22.2.) e la seconda parte del Concilio (iniziata il 18.3.), venne ristrutturata l’aula conciliare per migliorarne l’acustica, ma fu anche completata la rielaborazione della costituzione sulla dottrina, ora chiamata “de fide catholica”, con la partecipazione di teologi gesuiti altoatesini e tedeschi, ma residenti a Roma come Franzelin, Schrader e – in questa fase – Kleutgen e il vescovo Gasser di Bressanone. Lo schema fu ripresentato in aula e trovò il plauso generale, anche degli italiani. Fu promulgato nella terza sessione pubblica il 24.4.1870.

Già a fine gennaio era stato distribuito ai padri conciliari lo schema sulla Chiesa, chiedendogli di mandare, per iscritto, la loro opinione. Allo schema fu aggiunto, dopo quello sul primato, un dodicesimo capitolo sull’infallibilità pontificia, dietro ampia richiesta di vari gruppi di padri. Il documento, nonostante il divieto assoluto di pubblicazione, fu dato alla stampa e provocò la reazione negativa di molti governi. In Italia però – e soprattutto a Roma – le idee gallicane non avevano potuto mettere radici e quindi questa problematica fu meno sentita. In seguito al Concilio furono pubblicati degli scritti polemici tra cui quello di Pomponio Leto, e qualche rivista critica, ma per quanto riguarda la stampa non si riscontrò in Italia il fermento e l’ostilità che caratterizzarono gli altri paesi. A questo proposito non è certo da sottovalutare il ruolo della Civiltà Cattolica da sempre su posizioni esplicitamente vicine alla maggioranza conciliare.

Tra gli anti infallibilisti, che non ritenevano fosse il momento adatto per promulgare un dogma sull’infallibilità, inizialmente non c’erano italiani, anche se nella stessa presidenza del Concilio non mancavano perplessità su tale promulgazione. Più tardi troveremo tra loro i vescovi Guttadauro di Reburdone di Caltanisetta, Montixi di Iglesias, Moreno di Ivrea, Losanna di Biella e l’arcivescovo di Milano Nazari di Calabiana. Tutti però aderirono al dogma entro l’anno successivo alla sua promulgazione. Tra i vescovi della maggioranza, in favore quindi della promulgazione del dogma, l’apporto italiano fu fondamentale, non tanto per la presenza di figure di spicco quanto per una generale, solida e costante adesione alla dottrina da promulgare.

A maggio 1870 uno degli ultimi attacchi degli anti infallibilisti fu sventato grazie al giudizio del consultore Sanguineti sj che sostenne la non necessaria unanimità dei padri conciliari nel definire questioni di fede. Dopo la promulgazione del dogma, recepito con favore in Italia, la guerra franco prussiana rese impossibile la prosecuzione del Concilio con un numero sufficiente di vescovi e dopo l’estate, ad un mese dalla fine dello Stato Pontificio, papa Pio IX lo sospese a tempo indefinito.

Fonti e Bibl. essenziale

Fonti: Joannes Dominicus Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, vol. 48-51, Parigi 1901-1927; Acta et Decreta sacrorum conciliorum recentiorum. Collectio lacensis, vol. 7, Friburgo 1890. Opere generali: T. Granderath – K. Kirch, Geschichte des Vatikanischen Konzils von seiner ersten Ankündigung bis zu seiner Vertagung, 3 vol., Freiburg i.Br. 1903-1906; K. Schatz, Vaticanum I, 1869-1870, 3 vol. München-Paderborn 1992-1994; E. Cecconi, Storia del Concilio Ecumenico Vaticano: scritta sui documenti originali, 4 vol., Roma 1873-1879; Roger Aubert, Vatican I, Paris 1964. Opere diverse: J. Friedrich, Documenta ad illustrandum Concilium Vaticanum anni 1870, Nördlingen 1871; A.B. Hasler, Pius IX. (1846-1878), päpstliche Unfehlbarkeit und das l. Vatikanisches Konzil: Dogmatisierung und Durchsetzung einer Ideologie, 2 vol., Stuttgart 1977; F. Nobili Vitelleschi, Otto mesi a Roma durante il Concilio Vaticano: impressioni di un contemporaneo per Pomponio Leto, Firenze 1873. Diari: K. Schatz, Ein Konzilszeugnis aus der Umgebung des Kardinals Schwarzenberg: das römische Tagebuch des Salesius Mayer O. Cist. (1816-1876), Königstein 1975; L. Dehon, Diario del Concilio Vaticano I, a cura di V. Carbone, Vaticano 1962; C. Butler, The Vatican Council: the story told from inside, in bishop Ullathorne’s letters, 2 vol., London 1930, V. Tizzani, Il Concilio Vaticano I: diario di Vincenzo Tizzani (1869-1870), a cura di L. Pásztor, Stuttgart 1991.


LEMMARIO