Associazione Italiana dei Professori di Storia della Chiesa

Dizionario Storico Tematico La Chiesa in Italia
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Ambiente - vol. II


Autore: Simone Morandini

Scrivere della Chiesa italiana in relazione all’ambiente significa concentrarsi soprattutto sugli ultimi decenni, in cui giungono a maturazione alcuni elementi ricchi di significato già presenti in fasi precedenti. Ci si riferisce qui a quel secolare rapporto con la terra intrattenuto da molte comunità rurali, che dal 1950 aveva trovato espressione nella Giornata del Ringraziamento del 19 novembre; a quella relazione con l’ambiente boschivo che ha storicamente caratterizzato molte comunità religiose (basti citare il Monastero di Camaldoli); a quella radicata tradizione francescana, giustamente valorizzata dal Giovanni Paolo II nel 1979, con la proclamazione di Francesco d’Assisi a “patrono dei cultori dell’ecologia”.

È, però, negli anni ’80 che si fa strada in Italia una tematizzazione teologica della questione ambientale, soprattutto a partire da quella recezione critica di alcuni autori di area tedesca – J. Moltmann e, sul versante etico-teologico, B.Haering ed A. Auer – che è stata realizzata da diversi teologi moralisti e nell’Associazione Teologica Italiana (ATI). Spunti importanti vengono in quegli anni dal ricco Magistero di Giovanni Paolo II, che al rapporto tra uomo e creato dedica, tra l’altro, il Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990 Pace con Dio Creatore, pace con tutto il creato, come da quel processo ecumenico su Giustizia, pace e salvaguardia del creato, che culminerà nella I Assemblea Ecumenica Europea (I AEE, Basilea, 1989) e nella Convocazione Ecumenica Mondiale di Seul (1990). In tale contesto si colloca anche la Lettera Pastorale dei vescovi della Lombardia del 1988 su La questione ambientale, che ne coglie la fondamentale dimensione etica e religiosa.

Il testo resta abbastanza isolato per diversi anni: lo stimolo decisivo per il passaggio ad un’assunzione del tema a livello nazionale verrà solo nel 1997 dalla II AEE di Graz, che, nel raccomandare un impegno più attivo dei cristiani europei a protezione dell’ambiente, auspicherà la formazione di strutture e reti di cristiani impegnati in tal senso. La Conferenza delle Chiese Europee (KEK, che raccoglie il mondo ortodosso e protestante) sosterrà quindi l’ECEN (European Christian Environmental Network), cui si collegherà anche l’azione per l’ambiente del protestantesimo italiano. Per la parte cattolica, invece, il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE) promuoverà l’attivazione delle realtà ecclesiali nazionali, con la convocazione tra il 1999 e il 2004 di sei incontri per i delegati per l’ambiente delle varie Conferenze Episcopali.

La CEI – come le altre CE europee – si vede così chiamata a individuare figure che sappiano rispondere a tale invito, ma soprattutto avviare una pastorale del creato, fino ad allora praticamente inesistente a livello nazionale. Il compito è affidato all’Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali ed il Lavoro che, a partire dal 1999, avvia un gruppo sulla Responsabilità per il Creato, supportato anche dal Servizio Nazionale per il Progetto Culturale. A condurlo il direttore dello stesso Ufficio, mons. M. Operti, quindi dal 2000 mons. P. Tarchi, dal 2008 mons. A. Casile, cui si deve l’attuale denominazione “Custodia del creato”, dal 2013 mon.F.Longoni. Tra i soggetti coinvolti, da segnalare il fondamentale contributo di mons K. Golser (poi presidente dell’Associazione Teologica per lo Studio della Morale (ATISM) e quindi vescovo di Bolzano-Bressanone), ma anche il ruolo della Fondazione Lanza di Padova (Centro Studi in Etica), che già nel 1988 aveva avviato un progetto su “Etica e Politiche Ambientali”, affidato dal 1995 a M. Mascia.

Alla stessa Fondazione è affidata la costituzione e l’aggiornamento di un Database on-line di documenti ecclesiali (cattolici, di altre confessioni e del movimento ecumenico) sulla teologia della creazione e la salvaguardia del creato, che troverà spazio nel sito del Progetto Culturale. Per sensibilizzare la comunità ecclesiale italiana, poi, il gruppo opererà tramite Convegni e Giornate di Studio e con la pubblicazione di sussidi e materiali. Un particolare rilievo, in tal senso, avrà il volume Responsabilità per il creato. Un sussidio per le comunità del 2002, cui farà seguito nel 2005 Per il futuro della nostra terra. Prendersi cura della creazione. Dalla collaborazione con il Servizio Nazionale per l’Insegnamento della Religione Cattolica nascono poi nello stesso anno quattro fascicoli per una didattica della responsabilità per il creato nei vari ordini di scuola.

È in tale contesto che si colloca la forte attenzione per la dimensione ecologica che caratterizza nel 2005 la Nota pastorale della Commissione Episcopale della CEI per i Problemi Sociali Frutto della terra e del lavoro dell’uomo, sui cambiamenti del mondo rurale. Anche Caritas Italiana – tramite l’Ufficio Emergenze Ambientali – avvia un’attenzione per il tema, che trova espressione in una varietà di progetti, come nei quattro volumetti del 2005. Ma sono pure parecchie le Associazioni cattoliche (si pensi alle ACLI o a Coldiretti) che in questi anni inseriscono o potenziano la dimensione ambientale della loro azione.

Un deciso salto di qualità per la Chiesa italiana si ha, però, nel 2006 quando la Conferenza Episcopale accoglie la proposta – inizialmente formulata nel 1989 dal Patriarca Ecumenico Dimitrios I di Costantinopoli e poi ripresa nel 1997 dalla II AEE – di celebrare annualmente anche in Italia la Giornata del Creato, affiancandosi a quanto già facevano diverse comunità evangeliche. La data è il 1 settembre (ecumenicamente significativa: inizio dell’anno liturgico ortodosso), ma con l’indicazione pastorale di una disseminazione dei relativi eventi sull’intero mese. L’attenzione per l’iniziativa, dapprima limitata a poche diocesi, si diffonde sull’intero territorio nazionale, assumendo spesso una connotazione ecumenica e dando luogo a momenti dalla forte portata simbolica (si pensi a quelli realizzati dalle quattro diocesi dolomitiche di Como, Belluno, Bolzano-Bressanone e Trento). Tale ricchezza trova alimento nei numerosi spunti del magistero di Benedetto XVI (si pensi ai nn. 48-51 di Caritas in Veritate e al Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2010 Se vuoi coltivare la Pace, custodisci il Creato) e successivamente di Francesco, così come nel Messaggio pubblicato annualmente per la stessa Giornata a firma del presidente della Commissione Episcopale per la Giustizia e la Pace e di quello della Commissione per l’Ecumenismo e il Dialogo (inizialmente mons. A. Miglio e mons. V. Paglia, cui succedono mons. G. Bregantini e mons. M. Bianchi). Se nel 2006 esso delinea un orizzonte generale (“Dio pose l’uomo nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse (Gn 2,15”), i successivi testi mediteranno specifici temi ambientali (acqua, terra, rifiuti, clima…). Espressione della stessa accresciuta percezione della responsabilità ecclesiale per la terra è pure la Rete Interdiocesana Nuovi Stili di Vita, sorta nel 2007 dall’incontro tra alcuni uffici di diocesi del Nord-Est impegnati nella formazione a stili di vita sobri e sostenibili. L’interesse del tema la estendono a coinvolgere decine di realtà (Caritas diocesane, Uffici Missionari, Uffici PSL…) sull’intero territorio nazionale: oltre quaranta nel 2011 le diocesi coinvolte nel nella Campagna “Acqua, dono di Dio e bene comune”.

Tale crescente sensibilità pastorale viene supportata, poi, a partire dal 2009 dal lavoro di approfondimento teologico realizzato nei seminari promossi da UNPSL e SNPC in collaborazione con ATI e ATISM e coordinati da S. Morandini. Alcuni primi frutti di tale ricerca nel volume Custodire il creato. Teologia, etica e pastorale del 2013.

L’attenzione per la custodia del creato resta ancora, comunque, in Italia un dato recente, anche rispetto ad altre Chiese europee e non stupisce che essa si esprima soprattutto in indicazioni per il rinnovamento teologico e per la formazione a stili di vita più sobri. Ancora parziale, invece, la loro integrazione nei percorsi di formazione ecclesiale, mentre appena incipiente – limitato a singole diocesi o comunità religiose – è il passaggio ad un’azione più strutturale, capace di tradursi, ad esempio, in una gestione sostenibile dei beni ecclesiastici. Quell’amore per la terra che si radica nella fede nel Creatore attende ancora di esprimersi appieno in pensieri ed in pratiche efficaci di cura del creato.

 Fonti e Bibl. essenziale

 J. Moltmann, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986 (ed. or. ted. 1985); A. Auer, Etica dell’ambiente, Queriniana, Brescia 1988 (ed. or. ted. 1984); B. Haering, Ecologia ed etica, in Id., Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, Vol. III Voi siete la luce del mondo, Paoline, Roma 1981, 216-263 (ed. or. ted. 1981); A. Autiero, Essere nel mondo. Ecologia del bisogno, in T. Goffi, G. Piana (edd.), Corso di Morale, Volume II, Diakonia, Etica della persona, Queriniana, Brescia 1983, 97-124; Conferenza Episcopale Lombarda, La questione ambientale, aspetti etico-religiosi, Centro ambrosiano di documentazione e Studi religiosi, Milano, 1988; P. Giannoni (ed.), La creazione. Oltre l’antropocentrismo?, Messaggero, Padova 1993; G. Colzani (ed.), Creazione e male del cosmo. Scandalo per l’uomo e sfida per il credente, Messaggero, Padova 1995; Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro della CEI, Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI (a cura), Responsabilità per il creato. Un sussidio per le comunità, Elledici, Leumann 2002; Idd. (a cura), Per il futuro della nostra terra. Prendersi cura della creazione, Gregoriana, Padova 2005; A. Giordano, S. Morandini, P. Tarchi (edd.), La creazione in dono. Giovanni Paolo II e l’ambiente, EMI, Bologna 2005; N. Doro (a cura), Responsabili per il creato, Elledici – Capitello, Torino 2005 (4 voll.); Commissione Episcopale della CEI per i Problemi Sociali, «Frutto della terra e del lavoro dell’uomo». Mondo rurale che cambia e Chiesa in Italia, 19 marzo 2005; Caritas Italiana, La riflessione e il confronto, Il percorso, I progetti, Strumenti per l’animazione e la preghiera, Roma 2005; S. Numico, M. Vogt (edd.), Salvaguardia del creato e sviluppo sostenibile: orizzonti per le chiese in Europa, Gregoriana, Padova 2007; Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, Responsabilità per il creato in Europa. L’impegno delle Conferenze Episcopali, a cura della Fondazione Lanza, Euganea, Padova 2007; Ufficio Nazionale per i Problemi Sociali e il Lavoro della CEI, Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI (a cura di), Custodire il creato. Teologia, etica e pastorale, EDB, Bologna 2013. Alcuni siti: sull’azione della CEI la sezione “Custodia del Creato” all’indirizzo www.chiesacattolica.it/lavoro ed il database tematico di documenti ecclesiali all’indirizzo www.progettoculturale.it, Sezione Collaborazioni. Sulla Rete Interdioscesana Nuovi Stili di Vita: http://reteinterdiocesana.wordpress.com/; sull’ECEN: http://www.ecen.org; sulla Commissione Globalizzazione ed Ambiente (GLAM) della Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane (FGEI): http://www.fedevangelica.it/comm/glam0.php.


LEMMARIO




Anticlericalismo - vol. I


Autore: Antonio Trampus

L’espressione anticlericalismo indica generalmente un complesso di idee e di atteggiamenti opposti polemicamente alle posizioni del clero cattolico espresse attraverso il clericalismo e il confessionalismo. L’aggettivo anticlericale, nel senso proprio di chi è ostile al clero, inizia a comparire nella lingua italiana alla metà del XIX secolo, divenendo poi di uso più comune negli anni sessanta e ottanta attraverso periodici come L’anticlericale. Giornale settimanale pubblicato dalla lega popolare anticlericale di Milano (1883) e il saggio di C. Lupano, La gran questione del nostro secolo: clericalismo e anticlericalismo (1889). In questo contesto il clericalismo era identificato nel governo temporale della Chiesa in Italia e l’anticlericalismo, quindi, rappresentava la sintesi delle posizioni di coloro che combattevano questo potere e si battevano per l’unità d’Italia attraverso la scomparsa dello Stato pontificio e con Roma capitale.

In senso più ampio, l’espressione anticlericalismo nella cultura contemporanea italiana ha finito per indicare retrospettivamente ogni atteggiamento critico nei confronti del clero cattolico e ogni sua tendenza a estendere la sua influenza nell’ambito della società civile e dello Stato, sin dal tardo Medioevo e dalla prima età moderna. Vi vengono riassunte, quindi, tutte le tendenze razionaliste confluite nella cultura libertina di fine Seicento e in quella illuministica del Settecento. Emblematico e precorritore delle idee anticlericali appaiono, in questo senso, gli orientamenti deisti da chi, come Voltaire, sosteneva la necessità di un credo morale, di una religione naturale e di una concezione di Dio che rifiutava tanto le Chiese organizzate, quanto il loro arbitrio sui temi della superstizione e della tolleranza nonché la corruzione e la cupidigia dell’ordine sacerdotale di Antico Regime. Si tratta di atteggiamenti presenti anche in una parte della cultura illuministica italiana e in particolare negli scritti di Carlantonio Pilati e nei suoi atteggiamenti, vicini al panteismo, espressi in Di una riforma d’Italia, ossia dei mezzi di riformare i più cattivi costumi e le più perniciose leggi d’Italia (1767), ove si rinviene un intero capitolo dedicato alla necessità di impedire al clero di abusare del suo potere a danno dello Stato e dei suoi cittadini.

Un diverso tipo di anticlericalismo è stato poi individuato storiograficamente nelle posizioni di quanti, in età moderna e dall’interno della Chiesa cattolica, si fecero portatori di esigenze di rinnovamento e di riforma che riportassero il cristianesimo ai suoi valori originari, recuperando i caratteri di umiltà e di carità propri del ministero ecclesiale e rivendicando l’immagine di una Chiesa semplice e povera, come sostenuto anche dai giansenisti.

Le origini politiche dell’anticlericalismo risalgono invece alla rivoluzione francese, quando per la prima volta venne costruito un ordinamento statale laico, divenuto nell’Ottocento un modello per quanti si trovarono a combattere l’alleanza fra il trono e l’altare e la coalizione militare rappresentata dalla Santa Alleanza.

In questo contesto l’anticlericalismo incontrò le istanze del laicismo e divenne strumento di lotta politica anche attraverso l’esperienza della Carboneria e della massoneria, soprattutto dopo la vicenda della Repubblica romana del 1848-49 e il rafforzamento dell’opposizione antipapale. Nel Regno di Sardegna, nell’agosto 1848, venne soppresso l’ordine dei Gesuiti e tutti i collegi vennero destinati ad usi militari, con una decisione ben presto imitata da altri Stati italiani

Posizioni anticlericali e antitemporaliste si ritrovano in scrittori come Giovanni Battista Niccolini, Francesco Domenico Guerrazzi e Giuseppe La Farina e nella dimensione filosofica e spirituale di Giuseppe Mazzini. Con le leggi Siccardi (1850, 1855) vennero poi aboliti i privilegi del clero nel Regno di Sardegna, tra cui il foro ecclesiastico, il diritto di asilo e la manomorta fino a che, nel 1855, si giunse su iniziativa di Cavour all’abolizione di tutti gli ordini religiosi privi di utilità sociale e al conferimento dei loro beni nella Cassa ecclesiastica. Le cosiddette leggi eversive degli anni 1866-1867 stabilirono infine incameramento nel Demanio dello Stato di tutti i beni appartenenti agli enti soppressi, fra cui le congregazioni religiose, e la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui per la vita religiosa con eccezione dei seminari, delle cattedrali, delle parrocchie e dei canonicati.

Con la questione romana l’anticlericalismo divenne un orientamento condiviso da differenti correnti politiche, sia liberali e moderate, sia democratiche, incrociando anche istanze provenienti dalla massoneria. In particolare, la polemica venne assumendo caratteri di radicalità concentrandosi sul potere temporale dei papi, sul clero regolare (specie i Gesuiti, ricostituiti con la Restaurazione) e sul controllo della scuola da parte del clero, almeno fino alla promulgazione delle leggi volute dalla Destra storica. Si tratta di atteggiamenti ripresi e resi popolari anche da Giuseppe Garibaldi attraverso le sue invocazioni a “liberare l’Italia dalla piaga dei preti” e dalla curia vaticana considerata il “governo di Satana”. Si comprendono perciò anche le posizioni assunte dalla massoneria italiana, attraversi il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, che nel 1886 poteva considerare il clericalismo come “destituito dal nerbo principale delle sue forze” e ormai finito “nell’agonia”.

L’anticlericalismo trovò poi significativo spazio nel movimento fascista delle origini e venne sostenuto da esponenti della cultura futurista tra cui Filippo Tommaso Marinetti che all’adunata nazionale dei fasci a Firenze del 9 ottobre 1919 auspicò lo “svaticanamento d’Italia”. Si tratta di posizioni sostanzialmente abbondante dal partito fascista in coincidenza con le trattative che portarono alla nascita dei Patti lateranensi (1929). Nel secondo dopoguerra l’anticlericalismo nella vita politica italiana venne espresso attraverso il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista e, soprattutto, attraverso il Partito radicale sorto nel 1955 con l’obiettivo principale di promuovere la laicità dello Stato italiano e una revisione dei Patti Lateranensi in accordo, dal 1973, con la Lega italiana per l’abrogazione del Concordato (LIAC). In questo quadro, e come parziale successo degli orientamenti anticlericali, viene posta anche la revisione dei Patti Lateranensi, avvenuta nel 1984, che ha portato ad abbondare la concezione del cattolicesimo come religione di Stato e ha reso facoltativo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Fonti e Bibl. essenziale

S. Pivato, Clericalismo e laicismo nella cultura popolare italiana, Milano 1990; F. Traniello, Clericalismo e laicismo nell’età contemporanea (1977), in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1990, 15-48; G. Miccoli, Leone XIII e la massoneria, in G.M. Cazzaniga – ed., Storia d’Italia. Annali 21. La Massoneria, Einaudi, Torino 2006, 193-243; A. Di Fant, Alcune considerazioni su polemica antiebraica e polemica anticlericale alla fine dell’Ottocento, in F. Ferrari – ed., Studi in onore di Giovanni Miccoli, Edizioni dell’Università di Trieste, Trieste 2004, 329-345; M. Casella, Anticlericali in Italia 1944-1947, il Mulino, Bologna 2009.


LEMMARIO




Anticlericalismo - vol. II


Autore: Belluomini Flavio

 

Il termine “anticlericalismo” è espressione di un fenomeno tipico dell’epoca contemporanea. Infatti, se attività anticlericali – cioè un agire contro clero – precedono questa epoca, esse non devono essere confuse con l’anticlericalismo che si sviluppa nel contesto dello Stato laico.

Analizzare le circostanze in cui sorge la parola “anticlericalismo” permette di comprendere le caratteristiche di quella realtà, sviluppatasi nel XIX secolo, di cui il lemma è espressione. Nel 1848, in Francia, i sostenitori della repubblica cominciarono ad usare l’aggettivo “clericale”, che fino ad allora designava chi apparteneva al clero distinguendolo dal laico, per indicare chi sosteneva la monarchia confessionale. L’aggettivo “clericale” fu sostantivato intorno agli anni ’60, facendo sì che il suo uso influisse sulla parola “laico” che, dal significare chi non era chierico, iniziò ad indicare chi assumeva un atteggiamento di autonomia dalla Chiesa o addirittura di ostilità verso di essa. Le parole “clericale” e “laico” subirono così un mutamento semantico, ricevendo una connotazione politica. In tale contesto, l’anticlericale era colui che, in contrapposizione al clericale, difendeva in modo deciso e polemico lo Stato laico. I termini “clericalismo” e “anticlericalismo” iniziarono ad esistere verso la fine degli anni ’60, indicando nella forma astratta la suddetta dimensione politico-polemica, nel contesto del II Impero francese.

La parola “clericale” fu utilizzata in Italia col suddetto significato nel Piemonte preunitario. Dal 1860 e nel successivo quindicennio, ossia nei primi anni del Regno d’Italia, troviamo il suo impiego nell’ambito politico. Su questa scia di progressivo utilizzo politico del termine “clericale”, lentamente si sarebbero affermati i termini “anticlericale” e la forma astratta “anticlericalismo”, già in uso in Francia.

Da quanto detto, ci accorgiamo che il lemma esprime la lotta per la laicità dello Stato che, sulla base dei principi della Rivoluzione francese, rivendicava la sua aconfessionalità e il conseguente separatismo. L’anticlericalismo, durante la storia del nostro paese, si espresse con idee, atteggiamenti e scelte giuridiche ostili alla Chiesa gerarchica e ai suoi tentativi d’influire sullo Stato, giungendo, in certi casi, a voler eliminare lo stesso sentimento religioso. Tale avversità dall’ambito politico si sarebbe riverberata in quello sociale, col sottrarre alla Chiesa servizi di utilità pubblica e culturale, volendo creare una mentalità laica. Il lemma quindi contiene in sé un atteggiamento di scontro con tutto quello che, in modo reale o presunto, è ritenuto il nemico principale dello Stato laico e cioè il clericalismo.

Vista la complessità e trasversalità dell’anticlericalismo è necessario prendere in considerazione alcuni esempi del suo esprimersi nella storia italiana.

Nei primi anni dell’Italia unita, i rapporti della classe dirigente con la Chiesa furono dominati dalla “questione romana”. La politica del governo italiano, pur prevedendo il separatismo, cercò di mantenere una linea conciliatorista, ritenuta utile anche per lo Stato. In questi primi anni solo una minoranza propose leggi decisamente ostili alla Chiesa, come quella di una costituzione civile del clero, presentata il 27 gennaio 1864, che però non fu nemmeno ammessa alla lettura nella Camera dei deputati. Dello spirito di questo periodo sono espressione scritti polemici contro la gerarchia cattolica, come Il Papato, l’Impero e il Regno d’Italia di Francesco Liverani e periodici del taglio dell’Emancipatore cattolico che insistono sulla rinuncia al potere temporale e ai privilegi ecclesiastici, presentati per altro come motivo di impedimento per una reformatio Ecclesiae. È un anticlericalismo religioso che rivendica la libertà di azione dello Stato, ma ammette la religione e non nega il suo influsso benefico sulla società. Da questo si distingue un anticlericalismo minoritario di ispirazione razionalistica, legato a Giuseppe Ferrari e Ausonio Franchi, che però darà i suoi frutti successivamente, quando le sue proposte confluiranno nelle società dei liberi pensatori.

La situazione sarebbe però peggiorata per motivi dottrinali e politici. L’8 dicembre 1864 l’emanazione del Sillabo da parte di Pio IX riaffermò il valore e la necessità del potere temporale, il rifiuto del separatismo e la netta negazione della libertà di coscienza. Di fronte a tale atto magisteriale si registrò un irrigidimento dei liberali e alcuni cattolici moderati si spostarono verso il liberalismo. La guerra del 1866, pur comportando per l’Italia l’annessione del Veneto, rivelò la debolezza del giovane Stato italiano. Il bisogno di consolidamento interno e il timore di un clero reazionario condussero il governo ad azioni più determinate. Un esempio di tale irrigidimento è offerto dalla legge del 17 maggio 1866, sul domicilio coatto, applicata con durezza negli anni successivi nei confronti dei cattolici e del clero, quando questi erano ritenuti presunti sostenitori dei regimi preunitari.

Un contributo allo spirito anticlericale lo dette la massoneria che, con il Grande Oriente d’Italia costituitosi nel 1859, riuscì a stabilire un coordinamento tra i vari gruppi della penisola. Alla massoneria aderirono uomini di cultura e uomini politici. Questo fece sì che i massoni incidessero nella vita politica italiana, contribuendo alla nascita di associazioni anticlericali e influenzando la formulazione di leggi avverse alla Chiesa.

A metà degli anni ’60, nella classe borghese, si diffuse una mentalità razionalistica, grazie a gruppi, iniziative e periodici. Tra questi ultimi, Il Libero pensiero e Il Libero pensatore, pur esprimendo posizioni spesso alternative al governo, avevano nel loro programma la lotta alla religione e alla Chiesa, ritenute nemiche della ragione. In questo caso un anticlericalismo di matrice razionalistica propugnava un’avversione ad ogni religione rivelata, conducendo ad una visione nettamente atea. Questa non toccava solo la sfera politica, ma si estendeva anche a quella culturale, presentando la religione come un male in sé da debellare come tale.

Nel decennio che va dal 1866 al 1876 – il periodo della Destra storica – si manifestò un sentimento anticlericale che venne a formularsi nella durezza delle leggi. Il 7 luglio 1866 furono soppressi gli ordini religiosi e il 15 agosto 1867 si procedette all’incameramento dei beni ecclesiastici. Nel 1869 fu stabilito che gli ecclesiastici partecipassero alla leva militare, successivamente, nel 1873, vennero abolite le facoltà di teologia delle università statali.

Lo scontro tra il papato sostenuto dai clericali, da una parte, e il governo e gli anticlericali, dall’altra, fu alto e non venne a mutare con la celebrazione del Concilio Vaticano I. Nel concilio, iniziato l’8 dicembre 1869, fu ribadita la posizione del Sillabo di fronte alla società moderna e riaffermato l’assolutismo papale, fino a giungere alla proclamazione dell’infallibilità pontificia. Oltre a manifestare contro gli ecclesiastici che si recavano al concilio, le varie forze anticlericali, tra cui le società di libero pensiero, organizzarono un anti-concilio a Napoli con l’intento di celebrare la ragione e la libertà. Il Vaticano I si interruppe per la presa di Roma da parte dell’esercito italiano il 20 settembre 1870. La fine dello Stato Pontificio per l’opera delle truppe del Regno d’Italia – dichiarato dal papa «illegittimo e usurpatore» – approfondì il solco tra i cattolici e liberali. La frattura venne ad aumentare con il non expedit del 1874 che proibiva la partecipazione dei cattolici alla vita politica del nuovo Stato italiano.

L’anticlericalismo avrebbe continuato ad intervenire nella compagine del governo dopo l’avvento al potere della Sinistra Storica nel 1876. Alla formulazione di alcune leggi che risentivano dello spirito anticlericale, si aggiunsero manifestazioni esteriori con la partecipazione o il tacito assenso di esponenti del governo.

Riguardo alla legislazione del periodo della Sinistra, sono da evidenziare la legge Coppino sulla scuola e la legge sulle opere pie. La prima del 1877 stabiliva obbligatorietà e gratuità della scuola, ma interveniva anche abolendo la figura del padre spirituale e proponendo l’insegnamento di una morale laica. L’insegnamento religioso, a cui la legge non faceva cenno, era implicitamente soppresso nelle scuole secondarie, mentre nelle primarie restava facoltativo. Questa situazione creò confusione nell’applicazione della legge, dando occasione di contrasti tra clericali e anticlericali. La laicizzazione delle opere pie nel 1890 sottrasse alla Chiesa un ulteriore ambito di intervento aumentando i dissapori. Ad allargare la tensione si aggiungeva l’azione delle logge massoniche per sobillare l’opinione pubblica e ottenere la possibilità della legalizzazione del divorzio che però trovò un freno nell’Opera dei Congressi e nel sentimento del popolo ancora legato alla visione cattolica della famiglia.

Manifestazioni anticlericali potevano avvenire in occasione di feste religiose in modo pesante e blasfemo. Emblematico fu nel luglio 1881, l’attacco da parte di gruppi anticlericali alle spoglie mortali di Pio IX che dalla basilica vaticana veniva traslato, per espressa volontà del pontefice defunto, al Verano.

L’immagine plastica dell’anticlericalismo anticattolico e antipapale di codesto periodo è il monumento a Giordano Bruno, ideato dal Gran Maestro della massoneria ed eretto il l9 giugno 1889 a Roma, a Campo dei Fiori. Sventolando due bandiere con l’effige del demonio, cantando inni a Garibaldi, l’inno di Mameli e la Marsigliese, in sprezzo al pontefice e alla religione ritenuta nemica della libertà e del progresso, veniva esaltato il nome di Crispi che guidava il governo. Proprio sotto il governo di Francesco Crispi nel venticinquesimo anniversario della “breccia di Porta Pia”, su richiesta di movimenti laico-massonici, il 20 settembre divenne festa nazionale.

L’attività degli anticlericali, anche grazie al coinvolgimento della classe dirigente, pareva aver raggiunto il suo apice. L’affermarsi del socialismo, che in Italia divenne partito politico nel 1892, poneva però sulla scena un nuovo soggetto che avrebbe ridimensionato il vecchio anticlericalismo politico e ne avrebbe fatto sorgere un altro non meno incisivo.

Tramite i propri giornali, L’Avanti e Critica sociale, i socialisti offrivano proposte sociali a vantaggio dei lavoratori e criticavano la classe dirigente. Gli uomini di Stato erano contestati perché ritenuti responsabili della tragica situazione del proletariato. Il timore che scaturiva da tali critiche portò i liberali a prendere in seria considerazione l’avanzata socialista e a modificare il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa e del Vaticano. L’irruzione sulla scena politica del socialismo attenuò l’anticlericalismo dei liberali. Ma anche il socialismo era pervaso da idee anticlericali e, in questo caso, esse erano di impianto decisamente ateo. Critica sociale sosteneva che la religione doveva essere considerata come un fatto privato. La religione e la Chiesa non dovevano incidere sulla società e avrebbero trovato la loro conclusione naturale grazie al progresso, alla scienza e alla nuova condizione economico sociale dei lavoratori. La Chiesa poi era presentata come alleata dei ricchi e il messaggio cristiano, basato sulla speranza ultraterrena, era mostrato come un mezzo della classe privilegiata per mantenere i poveri in stato di soggezione. Da tale visione ne derivava il disprezzo per la religione cristiana in sé e un’accesa critica alle iniziative sociali dei cattolici. La critica dei socialisti si rendeva particolarmente aspra nei confronti del magistero papale e l’enciclica sociale Rerum Novarum, promulgata da Leone XIII nel 1891, fu presentata come una concessione di qualche diritto al lavoratore nel vecchio stile paternalistico. La stampa socialista contribuì sicuramente a far entrare l’anticlericalismo nella sfera della vita quotidiana dei militanti socialisti e quindi anche della classe bassa della società. Accanto all’impegno a vantaggio del mondo del lavoro, la scuola laica diventava uno degli obiettivi del socialismo. Essa doveva essere liberata dall’influsso della Chiesa e da ogni dogmatismo.

Come abbiamo visto, il socialismo, percepito come un nemico comune, contribuì a promuovere un processo di ravvicinamento tra liberali e cattolici. In conseguenza, questi ultimi ripresero ad essere presenti sulla scena politica. L’enciclica Il fermo proposito, emanata da papa Pio X nel 1904, permetteva infatti delle eccezioni al non expedit e il “patto Gentiloni” del 1913 portava un’attiva presenza dei cattolici in parlamento. Quello però che avrebbe condotto a un più concreto riavvicinamento fu lo scoppio della prima guerra mondiale. Le avversità del periodo bellico dettero motivo al popolo italiano di unirsi, venendo a rafforzare l’ideale di patria anche in ambito cattolico. Il sostegno morale verso i soldati al fronte e verso le loro famiglie da parte del clero durante il periodo bellico e la dichiarazione di Benedetto XV sull’«inutile strage» posero la Chiesa e il papato in un legame più stretto con la nazione e ne fecero crescere il prestigio a livello internazionale.

Dopo la Grande Guerra, il sentimento anticlericale, pur presentandosi nelle componenti tradizionali del socialismo e manifestandosi nei Fasci di Combattimento e nei Futuristi che avevano sostenuto dal 1918 la legge sul divorzio e la piena laicizzazione della scuola, non riuscì a prevalere. Il timore di una propagazione a Occidente del comunismo fece percepire la Chiesa come garante dei valori tradizionali e della coesione sociale, portando l’anticlericalismo a ridursi. A questa distensione contribuì, a partire dal 1919, l’azione del Partito Popolare che, pur muovendosi nel solco della dottrina della Chiesa, si presentava svincolato da una visione confessionale, facendo della vita nazionale il centro della sua azione. La mancanza di coesione interna nel Partito Popolare, oltre alla proibizione che questo ricevette dal Vaticano di allearsi con i socialisti, fece sì che il partito non reggesse il confronto col fascismo che in quegli anni si stava affermando. Si aprì così la strada al regime totalitario e in esso si giunse ai Patti Lateranensi del 1929 che permisero la conciliazione tra il Regno d’Italia e la Santa Sede. La suddetta conciliazione non segnò comunque la fine dell’anticlericalismo che si espresse nel movimento fascista in modo più o meno esplicito. Già dopo la firma dei Patti Lateranensi, Benito Mussolini, nei discorsi fatti alle camere, sostenne che la Chiesa aveva libertà perché offertale dallo Stato. La visione fascista prevedeva un monopolio sulle coscienze che partiva dall’educazione nelle scuole e nelle associazioni giovanili. Nel 1931 il duce stabilì lo scioglimento e la perquisizione delle associazioni giovanili cattoliche, cui fece eco l’accesa protesta di Pio XI con l’enciclica Non abbiamo bisogno. In essa il pontefice denunciava le pretese totalitarie dello stato fascista, ribadendo i diritti naturali della famiglia e quelli soprannaturali della Chiesa nell’educazione.

In questo clima di una riconciliazione piena di contrasti, si giunse alla II guerra mondiale. Durante la guerra, la Chiesa e il papa dettero prova di vicinanza nei confronti del popolo italiano, soprattutto nel periodo che seguì il 25 luglio 1943. Il Vaticano non riconobbe la Repubblica di Salò e molti cattolici, tra cui esponenti del clero, parteciparono alla liberazione d’Italia. Alla fine della guerra, le critiche rivolte al Vaticano in relazione al legame con il fascismo, riferite soprattutto ai Patti Lateranensi, non trovarono un ampio terreno. Tra cattolici e laici si stabilì invece un rapporto che avrebbe posto le basi per superare la vecchia visione anticlericale e per costruire l’Italia del dopoguerra. Se nell’Ottocento e nei primi del Novecento i cattolici erano percepiti come l’ostacolo per la tenuta dell’unità italiana, ora, vista la loro maggioranza in parlamento, essi erano i protagonisti dell’Italia che stava rinascendo dopo il lungo periodo bellico. Il voto sull’art. 7 della Costituzione, cui aderì anche il PCI, sancì la sconfitta degli anticlericali e ne evidenziò la marginalità. Proprio questa situazione di forte presenza dei cattolici in parlamento portava però alcuni gruppi politici a riprendere le armi dell’anticlericalismo per il timore delle interferenze vaticane, soprattutto tramite la DC, nella costruzione dell’Italia, ormai divenuta una repubblica. Le forze anticlericali si espressero attraverso periodici come Don Basilio, Il Mercante e Il Pollo. Quest’ultimo vide il direttore socialista Ruggero Maccari condannato a due anni di carcere per offesa alla religione e al clero e per pubblicazioni ritenute oscene. Tali giornali furono interpreti e, nello stesso tempo, fomentatori di un anticlericalismo che, tra il 1946 e il 1947, si manifestò anche con la nascita di circoli ed associazioni. Le pubblicazioni anticlericali, come quelle altrettanto pungenti della parte clericale – tra cui il giornale satirico Il Rabarbaro – contribuirono all’affermarsi di opinioni differenti sulla vita politica e sociale nella nuova realtà democratica.

Forti polemiche anticlericali si riaccesero poi quando la Chiesa, con un decreto del Sant’Uffizio del 1949, condannò con la scomunica l’ideologia comunista e chiunque votasse candidati comunisti o sostenesse il PCI. Anche in questo caso si contestò l’ingerenza vaticana, visto che, stando al decreto, solo i partiti e candidati che garantivano la difesa della Chiesa e il suo insegnamento nella sfera privata e pubblica potevano essere votati.

A partire dal 1949, il settimanale Il Mondo, che vedeva tra i fondatori e primo direttore Mario Pannunzio, spingeva per un avvicinamento dell’Italia alle democrazie più evolute, biasimando contemporaneamente l’incidenza clericale e il totalitarismo comunista. La Chiesa era presentata come una delle principali cause dell’arretratezza in cui si trovava l’Italia. Il Mondo insieme a L’Espresso, divennero veicolo per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica per una cultura laica. Ai periodici si aggiunsero alcune iniziative, come i convegni degli Amici de Il Mondo. Nel giugno 1950, su Il Ponte, Piero Calamandrei parlò di «Repubblica pontificia», denunciando l’ingerenza clericale del Vaticano nelle scelte politiche tramite la DC.

La nascita del Partito Radicale segnò un’ulteriore tappa. Con le proposte di Ernesto Rossi, il partito fece dell’anticlericalismo una delle realtà principali della sua azione negli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta. Rossi scrisse sui suddetti giornali d’ispirazione laica e promosse la pubblicazione della collana Stato e Chiesa, di cui uscirono quindici volumi negli anni 1957-1962. Dopo la crisi interna del 1962, il Partito Radicale vide come figura di riferimento Marco Pannella che mirò a promuovere le riforme laiche che non erano state possibili, né nell’Italia liberale, né nel periodo repubblicano.

Negli anni tra il 1962 e 1965, la Chiesa cattolica celebrò il Concilio Vaticano II. L’assemblea ecumenica assunse un atteggiamento di dialogo con il mondo, facendo emergere la necessità di una inculturazione del dato rivelato nella contemporaneità. I temi della partecipazione attiva dei fedeli al culto e alla vita della Chiesa e della libertà religiosa avrebbero influito sulla Chiesa e sul suo porsi in rapporto con il mondo moderno, disarmando alcune frange dell’anticlericalismo. Dai documenti conciliari emergeva una Chiesa intesa come «mistero» e come «popolo di Dio», modificando l’impostazione bellarminiana di Ecclesia societas perfecta, intesa come alternativa allo Stato, giunta fino al codice di diritto canonico del 1917. Per inciso, è opportuno notare che nei documenti conciliari si usarono i sostantivi laico e chierico, come pure l’aggettivo clericale nella forma originaria. Ne deriva che l’insistenza nella Chiesa postconciliare, fino ai nostri giorni, sul protagonismo dei laici e sulla necessità di una Chiesa meno clericale non ha a che fare con l’anticlericalismo: in questo caso si può piuttosto parlare di declericalizzazione, cioè di un fatto interno alla Chiesa stessa.

Quello che restava come motivo di scontro e di cui si fecero interpreti soprattutto i Radicali erano i temi inerenti alla famiglia, alla biogenetica, alla scuola. Questi, ancora una volta, chiamavano in causa la rivendicazione della laicità dello Stato di fronte alla Chiesa che desiderava continuare ad incidere sulle coscienze e in certi casi sulle stesse istituzioni per sostenere la sua dottrina.

Insieme ad alcuni socialisti, nel 1965, il partito radicale promosse la Lega italiana per il divorzio e, nel 1967, proclamando l’«anno anticlericale», ribadì il fatto che la battaglia per la laicizzazione dello Stato era sempre in corso. Non erano comunque solo le forze anticlericali che si adoperavano perché passasse la legge sul divorzio. Ormai anche i cattolici avevano maturato una mentalità che li portava a pensare ad uno Stato laico e quindi accogliente di una pluralità di pensiero. Nel dicembre 1970, l’approvazione della legge Fortuna introdusse il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano, confermato quattro anni dopo dal referendum popolare. L’offensiva dei Radicali per la laicità dello Stato si mosse anche con il desiderio di abrogare il Concordato, attraverso la proposta, nel 1969, di un referendum popolare, fino alla costituzione, nel febbraio 1971, della Lega italiana per l’abrogazione del Concordato. La legge sull’interruzione volontaria di gravidanza del 1978 vide la Chiesa impegnata nel sostenere il referendum abrogativo. La legge venne confermata nel 1981.

Negli anni a seguire, l’anticlericalismo avrebbe continuato a manifestarsi in modo trasversale a realtà politiche o culturali con la denuncia dell’invadenza vera o presunta della Chiesa nella politica e nella società civile. Quello però che caratterizzerà la situazione italiana negli anni seguenti sarà una crescente indifferenza al dato religioso più che un anticlericalismo. A livello istituzionale, i rapporti tra lo Stato italiano e la Santa Sede sono stati ridefiniti con il concordato del 1983, criticato dai Radicali come ripresentazione aggiornata di quello del 1929, e proseguono tutt’ora senza evidenti difficoltà.

L’anticlericalismo ha perso vitalità anche perché la laicità dello Stato è ormai parte della vita dei cattolici italiani ed è accolta dalla Chiesa gerarchica. In alcune occasioni però si sono presentati casi di manifestazioni anticlericali, come la protesta contro la Lectio magistralis di Benedetto XVI nel 2008 all’università la Sapienza di Roma, che costrinse il papa a rinunciare all’invito fattogli dal rettore dell’ateneo romano. In un articolo di La Civiltà Cattolica del 2008, col titolo È inevitabile per un laico essere anticlericale?, Giandomenico Mucci, di fronte al perdurare di un atteggiamento anticlericale nella stampa, fa osservare come, da parte della Chiesa, l’intenzione di incidere nel contesto attuale non passi più attraverso una costrizione legale o sociale, ma attraverso l’illuminazione delle coscienze. Per questo egli ritiene l’anticlericalismo anacronistico e pretestuoso, intollerante verso il sentimento religioso stesso.

L’anticlericalismo e, del resto, il clericalismo, come abbiamo visto, si presentano in modi diversi e in situazioni anche opposte. Lo scontro tra le due realtà ideologiche è ciò che ne permette la reciproca esistenza.

Di fatto se si vuole conoscere la storia dell’Italia unita è necessario approfondire questo scontro ideologico nei suoi passaggi, visto che lo stesso ha inciso sull’esistenza del nostro paese. Non si può comunque sostenere che tale scontro sia finito. Ormai la Chiesa e lo Stato hanno risolto ampiamente problemi territoriali e sono concordi nella collaborazione sulle questioni sociali. Il problema però resta ancora quando vengono affrontati temi che riguardano la bioetica, la sessualità, la famiglia. La Chiesa fonda il suo insegnamento sul dato rivelato e sulla legge naturale e questo sarà sempre un possibile motivo di contrasto con lo Stato laico.

Fonti e Bibl. essenziale

Bada J., Il clericalismo e l’anticlericalismo, Milano 1998; Caimi L., «Laicità», in Dizionario delle idee politiche, a cura di E. Berti – G. Campanini, Roma 1993, 419-427; Casella M., Anticlericali in Italia. 1944-1947, Bologna 2009; Conti F., Breve storia dell’anticlericalismo, in Cristiani d’Italia. Chiese, Stato e società, 1861-2011, a cura di A. Melloni, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2011, 667-683; Mangio G., «Clericalismo», in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino, Torino 2004, 114-115; Martina G., Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, III, L’età del liberalismo, Brescia 1995 (ristampa 2006), 311-348; Mucci G., È inevitabile per un laico essere anticlericale?, «La Civiltà Cattolica» 2 (2008), 318-324; Scoppola P., Laicismo e anticlericalismo, in Chiesa e religiosità dopo l’Unità, (1861-1878), Atti del IV convegno di storia della Chiesa. La Mendola 31 agosto-5 settembre 1971, Relazioni, II, Milano 1973, 225-274; Spadolini G., Per una storia dell’anticlericalismo, in I repubblicani dopo l’unità, Firenze (1960) 19632, (appendice); Verucci G., L’Italia laica prima e dopo l’unità, 1848-1876, Bologna, 1981; Id., Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nel movimento operaio e socialista italiano, (1861-1878), in Chiesa e religiosità dopo l’Unità, (1861-1878), Atti del IV convegno di storia della Chiesa. La Mendola 31 agosto-5 settembre 1971, Relazioni, II, Milano 1973, 177-223; Id., «Anticlericalismo», in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino, Torino 2004, 16-17.

LEMMARIO




Antigesuitismo - vol. I


Autore: Sabina Pavone

L’antigesuitismo nacque contestualmente alla Compagnia di Gesù allorché il riconoscimento come ordine religioso da parte di Paolo III con la bolla Regimini militantis Ecclesiæ (1540) la rese oggetto di critiche proprio all’interno dell’establishment romano. La struttura peculiare della Compagnia – con l’abolizione della preghiera corale e di un abito distintivo – la fece apparire come un ordine “ermafrodito” (definizione di uno dei suoi più celebri detrattori, Etienne Pasquier): né secolare né religioso. Il quarto voto di obbedienza al papa circa missiones moltiplicò i timori di un’eccessiva autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica così come i dubbi sull’ortodossia di Ignazio di Loyola – accusato di contiguità con l’alumbradismo – insospettirono una parte della curia romana. Al tempo stesso, il ruolo assunto rapidamente nella Chiesa della Controriforma e la conseguente identificazione con Roma rese la Compagnia uno dei bersagli preferiti della propaganda protestante. Diversi tipi di antigesuitismo si vennero così a sommare, alimentati da contesti diversi ma propensi a utilizzare un arsenale polemico composto dai medesimi stereotipi: il desiderio di conquista del mondo, l’avidità di potere politico ed economico, la capacità di circonvenzione dei più deboli, la moralità assai dubbia e rilassata. Si trattò dunque di un fenomeno di lunga durata, non solo europeo ma globalizzato, poiché coinvolse tutti quei paesi nei quali i gesuiti esercitarono la loro influenza come confessori, educatori, teologi e missionari.

In Italia le critiche alla Compagnia di Gesù vennero formalizzate nel 1564 dal vescovo Ascanio Cesarini in un libello dal titolo Novi advertimenti inviato al cardinal Saraceno. In quell’anno Pio IV aveva deliberato di affidare la gestione del nuovo Seminario romano proprio ai gesuiti e Cesarini, già personalmente in conflitto con i padri, attaccò la decisione pontificia che tollerava che il clero venisse formato da tedeschi e spagnoli, nient’altro cioè che da «eretici ed ebrei». Il carattere spiccatamente internazionale della Compagnia attirò dunque gli strali del vescovo e, forse per la prima volta, i gesuiti vennero definiti una «diabolica setta». Il pamphlet fece propri tutti quei temi declinati poi, insieme o separatamente, nei secoli successivi: la sete d’oro e dunque la scelta di favorire nell’accesso al noviziato i giovani di famiglie ricche, l’accusa di essere cristiani nuovi, il settarismo, la perversione sessuale, il desiderio di dominio del mondo, il disprezzo delle leggi comuni della Chiesa. Tali accuse si propagarono oltre i confini italiani e, su sollecitazione del cardinale Otto von Truchsess, Pio IV impegnò una commissione di cardinali per esaminarle: se i religiosi vennero discolpati, si suggerì però loro di scrivere un testo di chiarimento e fu così che prese forma, in quello stesso anno, l’Apologia Societatis Jesu contra episcopum Cæsarinum apud cardinales di Jerónimo Nadal (cf. Monumenta Historica Societatis Iesu, Nadal IV, 148-165), archetipo delle tante difese composte negli anni dai gesuiti per reazione ai molteplici attacchi subìti.

Sin dal Cinquecento, d’altronde, lo scontro interno alla Compagnia fra un partito italiano e un partito spagnolo alimentò quello che altrove ho definito un “antigesuitismo gesuita”, fomentato da alcuni gesuiti italiani che videro con sospetto l’ingresso di figure appartenenti al mondo dei conversos. Benedetto Palmio – ex provinciale di Milano, assistente d’Italia dal tempo di Borgia e, dunque, una delle figure di maggior prestigio all’interno della gerarchia gesuitica – fu autore di un testo rimasto manoscritto dal titolo Descrittioni di alcune cause, dalle quali sono procedute le disgrazie con molti mali, et inconvenienti che tuttavia ci affliggono nella Compagnia (ARSI, Instit. 106, edito recentemente da Robert Maryks). Egli, nell’attaccare la «banda degli spagnoli» capeggiata da Dionisio Vázquez, tratteggiò del confratello una descrizione fortemente razzista che dai caratteri somatici faceva discendere una serie di conseguenze comportamentali. Lo stesso Palmio, nella sua Autobiografia, nominò poi un libello antigesuita inviato a Pio IV nel quale, pur non citandolo espressamente, è facile rintracciare il riferimento al testo del vescovo Cesarini: di fatto un gesuita, e non degli ultimi, faceva proprie le critiche di un aperto nemico della Compagnia. I confini fra esterno e interno erano allora molto ambigui se una parte dell’arsenale polemico del nemico poteva, seppure in una logica di scontro interno tra fazioni, essere utilizzato da quei gesuiti come Palmio che vedevano con timore la strada intrapresa allora dal governo dell’ordine.

La crescita esponenziale del numero di collegi e il conseguente ruolo assunto dai gesuiti nel panorama scolastico italiano suscitò inoltre la reazione di quelle istituzioni, come l’Università di Padova, in cui una tradizione di studi secolare mal sopportava la fondazione di istituzioni pedagogiche alternative. Sin dall’estate del 1591 alcuni studenti si erano macchiati di vandalismo contro l’edificio del collegio gesuitico e graffiti antigesuitici erano apparsi in diversi punti della città. Cesare Cremonini si assunse il compito di intercettare un simile dissenso con l’Orazione … a favore delle università dello Studio di Padova contra li Rev. Padri Gesuiti (1591). Egli definì il collegio della Compagnia un «anti-studio» e accusò gli ignaziani di monopolio educativo «con l’intenzione di farsi in Padova i monarchi del sapere». A detta dello scienziato, la Repubblica di Venezia avrebbe dovuto sopprimere il collegio così come in passato aveva dichiarato illegali le istituzioni medievali rivali di Padova. Cremonini era un esponente di quell’aristotelismo eterodosso in contrasto palese con l’approccio alla scienza della Compagnia, i motivi dello scontro erano dunque molteplici e la presenza dell’Orazione in molte raccolte documentarie dell’epoca (tanto a stampa quanto manoscritte) dà la misura non solo della circolazione di tali idee ma anche di un clima culturale difficilmente irregimentabile secondo i criteri dell’ortodossia tridentina, specialmente in un contesto come quello veneziano.

La Repubblica di Venezia fu infatti lo stato che, in un’ottica di lungo periodo, funse da catalizzatore dell’antigesuitismo italiano. Il momento culminante dello scontro con i gesuiti fu quello dell’Interdetto (1606) allorché si radicalizzò lo scontro fra l’anticurialismo veneziano e le posizioni romane: la Compagnia di Gesù divenne il primo obiettivo polemico nella battaglia delle scritture che vide protagonisti Paolo Sarpi e, sul fronte opposto, figure come Antonio Possevino e Roberto Bellarmino. In occasione dell’Interdetto la posizione dei gesuiti non fu più intransigente di quella degli altri ordini religiosi, ma gravò su di lei il già incrinato rapporto con alcune istituzioni veneziane nonché «una leggenda della Compagnia destinata a durare» (cf. A. Prosperi, «L’altro coltello», 287). Sarpi fu il più acceso critico dei gesuiti perché ne colse la capacità di condizionamento politico e sociale, cosa che ai suoi occhi rendeva la Compagnia assai più pericolosa degli altri ordini religiosi legati a Roma. Ulteriore motivo di preoccupazione fu l’evidente legame degli ignaziani con la monarchia iberica, cosicché la triade Spagna-Chiesa di Roma-Compagnia di Gesù divenne per Sarpi un mostro a tre teste da combattere senza esclusione di colpi.

Legata all’ambiente sarpiano fu anche l’Istruzione ai prencipi della maniera con la quale si governano li Padri Gesuiti (1617) – attribuita in passato a Tommaso Campanella e probabilmente opera del confratello di Sarpi Fulgenzio Micanzio – nonché la prima edizione italiana dei Monita privata Societatis Iesu, pubblicati per la prima volta a Cracovia nel 1614 dall’ex gesuita polacco Hieronym Zahorowski. Riediti in Italia con il titolo di Aurea Monita e allegati poi a molte edizioni dell’Istruzione ai principi, i Monita secreta – questo il titolo con cui divennero più noti – si presentavano come le vere costituzioni della Compagnia di Gesù e divennero il testo antigesuita per eccellenza, archetipo di un vero e proprio genere letterario.

L’antigesuitismo politico sarpiano, propenso a sovrapporre la Compagnia alla Chiesa di Roma e deciso a denunziarne i tentativi di conquista del mondo, ebbe fra gli epigoni figure come quella dell’ex gesuita Giulio Clemente Scotti, autore di numerosi pamphlets fra i quali il De potestate pontificia in Societate Iesu (1646), indirizzato a Innocenzo X. Scotti vi denunciò come la Compagnia si fosse allontanata dallo spirito originario e fosse ormai soggiogata da un generale tirannico e onnipotente. Attribuita fra gli altri a Giulio Clemente Scotti fu anche la Monarchia solipsorum (1645), dedicata a Leone Allacci, nella quale dietro i vizi e la smania di potere dei solipsi si celavano evidentemente i vizi dei gesuiti. Non è secondario rimarcare, ancora una volta, come molti di questi testi nascessero in un contesto contiguo all’ordine: se è vero che in molti casi il risentimento costituiva una leva potente, è altrettanto vero che la condanna di certi atteggiamenti presenti nella Compagnia, in particolare riguardo alla propensione della gerarchia ignaziana nel favorire determinate carriere interne, alimentò uno stato endemico di disagio che si espresse nella scrittura di molti testi che a buon diritto possono essere fatti rientrare nella categoria di antigesuitismo.

Su un versante diverso vanno invece a collocarsi figure come Ferrante Pallavicino, Gregorio Leti e gli esponenti dell’Accademia degli Incogniti, guidata da Giovan Francesco Loredano, allievo a Padova di Cremonini. Qui, più che altrove, emerse la figura del gesuita moralmente condannabile, lascivo e seduttore. Pallavicino ne La pudicizia schernita (1639) attaccò la Compagnia di Gesù come esempio dell’immoralità del clero e l’opera venne immediatamente messa all’Indice (12 maggio 1639). Gli stessi temi vennero poi ripresi ne Il corriero svaligiato e ne La retorica delle puttane, il più feroce dei libelli antigesuitici.

Intorno alla metà del XVII secolo la polemica contro la Compagnia venne nuovamente alimentata in ambito curiale dal dibattito sui riti cinesi e malabarici, considerati espressione dell’eterodossia gesuitica nella conduzione delle missioni orientali. Le congregazioni romane del Sant’Uffizio e di Propaganda, schierandosi contro la Compagnia, contribuirono non poco a quella crisi dell’ordine che si concretizzò nelle espulsioni dalle monarchie borboniche tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento per poi sfociare nella soppressione del 1773. D’altronde, la querelle des rites, a partire dagli anni Trenta, uscì in maniera dirompente dalle aule delle congregazioni per divenire uno dei grimaldelli della stampa antigesuitica: le requisitorie del commissario inquisitoriale Luigi Maria Lucini, una volta date alle stampe, divennero una delle pietre miliari di quella propaganda contro la Compagnia che ebbe nei Mémoires historiques sur les missions des Indes orientales del cappuccino père Norbert (editi a Lucca nel 1744 tanto in francese quanto in italiano), un altro punto di riferimento. Lo scambio polemico con il giansenismo toscano – alimentato evidentemente dalla pubblicazione delle Lettres Provinciales di Blaise Pascal – e l’enorme massa di testi antigesuitici pubblicati nella seconda metà del Settecento impressero quindi all’antigesuitismo un’ulteriore evoluzione. Come ha scritto Franco Venturi esso si saldò alla più vasta battaglia anticurialista, divenendone in qualche modo il climax ideologico. Tra i titoli dalla fortuna editoriale più lunga si possono citare I lupi smascherati, attribuiti all’abate piemontese Luigi Capriata, o ancora Intorno alla distruzione dei gesuiti in Francia, traduzione del pamphlet edito da D’Alembert. Vennero inoltre date alle stampe delle vere e proprie collane come i Monumenti veneti intorno i padri gesuiti, curati dal teatino Tommaso Antonio Contin (che riprendevano la tradizione antigesuita sarpiana) o le Inquietudini de’ gesuiti (raccolta stampata a Napoli dalla Tipografia reale a partire dal 1764, nella quale apparvero anche traduzioni di libelli editi in altri paesi), o ancora la Raccolta di opuscoli curiosi e interessanti intorno gli affari presenti di Portogallo, la più estesa collana (sei tomi) di opuscoli in italiano, pubblicata a Lugano a partire dal 1760.

Restaurata nel 1814, la Compagnia di Gesù tentò di recuperare il suo ruolo all’interno della vita religiosa e politica italiana: l’esperienza russa – l’unico paese nel quale era sopravvissuta senza soluzione di continuità – ne aveva rafforzato l’identità conservatrice e le idee liberali trovarono i gesuiti sul fronte avverso, attenti a difendere le vecchie monarchie e decisi a opporsi a ogni spinta progressista che potesse metterne in discussione la legittimità. La Compagnia di Gesù venne espulsa da diversi stati italiani in seguito ai moti del Quarantotto, e chi si fece interprete di una profonda avversione nei confronti del suo spirito conservatore fu Vincenzo Gioberti.

Nei Prolegomeni del Primato (1845) accusò i gesuiti di settarismo e si scagliò contro il “gesuitismo” (categoria morale incompatibile con la modernità e lo spirito nazionale, opposta al vero cattolicesimo). Le idee abbozzate nei Prolegomeni vennero riprese dall’autore ne Il Gesuita moderno. Pubblicata a Losanna nel 1846-47 l’opera venne influenzata dal soggiorno a Parigi nel corso della polemica sulle congregazioni e rafforzata dalla pubblicazione dei corsi tenuti al Collège de France da Jules Michelet ed Edgard Quinet (Des Jésuites, Paris 1843). I cinque volumi (un ultimo di soli documenti) erano impostati come replica alle accuse contro i Prolegomeni del Primato dei padri Carlo Maria Curci e Francesco Pellico (fratello di Silvio). Gioberti ritornò qui sulla categoria del “gesuitismo”: un insieme di lassismo morale, misticismo e autoritarismo. Accusò inoltre di “austrogesuitismo” il padre Luigi Taparelli d’Azeglio (fratello di Massimo) il quale in un suo scritto (Della nazionalità, 1848) aveva sostenuto la necessità di separare la nazionalità dall’indipendenza politica. Nonostante il tono esacerbato del Gesuita moderno suscitasse le critiche di Antonio Rosmini, Cesare Balbo e Niccolò Tommaseo, lo spirito polemico ne favorì la circolazione: della seconda edizione del 1847 ne vennero vendute 12.000 copie. Le critiche spinsero inoltre l’autore alla pubblicazione di una Apologia del libro intitolato «Il gesuita moderno» con alcune considerazioni intorno al risorgimento italiano (Bruxelles e Livorno, 1848). I gesuiti – appena espulsi dagli stati sabaudi – gli apparivano «morti politicamente», ma Gioberti continuava ad averne timore poiché pensava che ne sopravvivessero «gli spiriti». Dopo un primo momento di incertezza il libro venne condannato irrevocabilmente da Pio IX e messo all’Indice il 30 maggio 1849. Nel 1852 il Sant’Uffizio condannò quindi tutte le opere di Gioberti ma ciò non rappresentò la fine dell’antigesuitismo che anzi, vide ancora per tutto l’Ottocento e nel secolo successivo momenti di recrudescenza.

Fonti e Bibl. essenziale

M. Catto, La Compagnia divisa. Il dissenso nell’ordine gesuitico, Morcelliana, Brescia 2009; Ead., The Jesuit Memoirists: How the Company of Jesus contributed to anti-Jesuitism, in J. Martínez Millán – H. Pizarro Llorente – E. Jimenez Pablo (coord.), Los jesuitas. Religión, política y educación (siglos XVI-XVIII), Comillas, Madrid, 2012, t. II, 927-942; P.-A. Fabre – C. Maire (sous la dir. de), Les antijésuites, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2011; T. Egido, Formación y funciones del estereotipo antijesuita, in J. Martínez Millán – H. Pizarro Llorente – E. Jimenez Pablo (coord.), Los jesuitas. Religión, política y educación (siglos XVI-XVIII), Comillas, Madrid, 2012, t. II, 715-726; V. Frajese, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna 1994; R. Maryks, The Jesuit Order as a ‘Synagogue of Jews’: Discrimination against Jesuits of Jewish Ancestry in the Early Society of Jesus, in Archivum Historicum Societatis Iesu, 78 (jan.-june 2009), 339-416; S. Pavone, Le astuzie dei gesuiti. Le false Istruzioni segrete della Compagnia di Gesù e la polemica antigesuita nei secoli XVII e XVIII. Salerno Editrice, Roma 2000; S. Pavone, Antigesuitismo politico e antigesuitismo gesuita, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 2004, 255-282 (ripubblicato in francese in Les Antijésuites, cit., 139-164); A. Prosperi, ‘L’altro coltello’. Libelli de lite di parte romana, in M. Zanardi (a cura di), I gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagna di Gesù. Atti del convegno di studi, Pontificia Università Gregoriana, Padova-Roma 1994, 263-287; F. Venturi, Settecento Riformatore, vol. II: La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Einaudi, Torino 1976; C.E. O’ Neill, Antijesuitismo, in C.E. O’ Neill – J.M. Dominguez (a cura di), Diccionario histórico del al Compañìa de Jésus, I, Institutum Historicum S.I. – Universidad Pontificia Comillas, Roma-Madrid 2001, I, 178-189; S. Pavone, El antijesuitismo, la antigua y la nueva Compañía de Jesús. Nuevas perspectivas de investigación, in S. Monreal, S. Pavone, G. Zermeño (coord.), Antijesuitismo y Filiojesuitismo: dos identidades ante la restauración, Ciudad del Mexico 2014; C. Vogel, “Des stéréotypes religieux à la pensée conspirationniste – l’exemple des jésuite”, en A.D. Barker (ed.), The Power and Persistence of Stereotyping / O Poder e a Persistência dos Estereótipos, Aveiro 2004, 51-69.


LEMMARIO




Antigesuitismo - vol. II


Autore: Sabina Pavone

Nella seconda metà dell’Ottocento l’antigesuitismo fu legato soprattutto a una identificazione della Compagnia di Gesù con la parte più retriva e conservatrice della Chiesa di Roma. Vincenzo Gioberti con Il Gesuita moderno (1847) ne cristallizzò definitivamente l’immagine ma in Italia non fu certo l’unico a esprimere posizioni antigesuitiche. Negli anni Cinquanta del secolo il principale detrattore dell’ordine fu il filosofo Bertrando Spaventa, autore di una serie di articoli che ebbero come principale bersaglio la Civiltà Cattolica, organo ufficiale della Compagnia di Gesù. Tali articoli – poi raccolti in volume nel 1911 da Giovanni Gentile con il titolo La politica dei gesuiti nel XVI e XIX secolo – uscirono anonimi sul Cimento e poi sul Piemonte (su quest’ultimo giornale il filosofo aveva una rubrica dal titolo «I sabbati dei gesuiti»). Spaventa – con stile caustico e polemico – propugnava una visione laica dello Stato; i gesuiti erano visti come coloro che svalutavano in massimo grado l’essere umano che per loro non aveva «valore come uomo, come pensiero e ragione, come cittadino di uno Stato, come figlio di una nazione […] ma come membro della Chiesa» (Teocrazia o papocrazia?, in Cimento, 31 agosto 1855). In tal modo, a suo dire, lo stesso divino veniva sminuito e si rischiava di avviarsi a un bieco «materialismo religioso». Egli sottolineava inoltre un distacco fra antichi e nuovi gesuiti: laddove i primi, per combattere contro il desiderio d’indipendenza degli Stati dalla Chiesa, avevano enunciato il principio della doppia potestas, per la quale il monarca aveva un potere indiretto, di tipo contrattuale (il riferimento è a Bellarmino, Suarez, Mariana), i secondi si ritrovavano invece a sostenere i cascami delle monarchie assolute. I gesuiti insomma, si presentavano tutti dediti agli affari spirituali quando invece le loro azioni erano imbevute di politica e da questa dirette.

D’altronde la politica in quegli anni ebbe un’immediata ricaduta sul destino di alcuni ordini religiosi: sin dal 1859 l’antigesuitismo in Italia aveva colpito soprattutto la struttura educativa dell’ordine e molti collegi erano già stati soppressi; la legge del 7 luglio 1866 sulla soppressione delle congregazioni religiose indebolì ulteriormente la Compagnia di Gesù, rimasta indenne solo nello Stato pontificio. Peraltro, le difficili condizioni di esistenza all’interno della penisola alimentarono l’emigrazione all’estero e il rafforzamento delle missioni extra europee, dall’Asia alle Americhe.

Nella seconda metà dell’Ottocento l’antigesuitismo scivolò anche su un piano letterario: il romanzo di Giuseppe Garibaldi I mille (1874) con protagonista un’anima nera come quella del gesuita monsignor Corvo, rimase un tentativo mal riuscito di scrittura anticlericale; diversamente, Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (scritto nel 1858 ma pubblicato postumo), tratteggiando la figura dell’intrigante abate Pendola, contribuirono con il loro successo alla definizione dell’immagine del gesuita furbo, ambizioso e legato a un passato ormai in via di estinzione.

Un discorso a parte merita l’attenzione rivolta ai gesuiti da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere. Per Gramsci la Chiesa cattolica aveva avuto, unica in Italia, la capacità di stabilire un rapporto tra «intellettuali e semplici» e i gesuiti erano stati i principali «artefici di questo equilibrio». Per conservarlo essi avevano «impresso alla Chiesa un movimento progressivo che tende a dare soddisfazione alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano rivoluzionarie e demagogiche agli integralisti» (Quaderni, p. 1381). Gesuiti, integrali (capeggiati da mons. Benigni) e modernisti erano per Gramsci le tre tendenze «organiche» che si contendevano l’egemonia all’interno della Chiesa cattolica. La lotta al modernismo da parte degli integrali aveva portato sotto Pio X a un eccessivo squilibrio verso destra e papa Pio XI – «vero papa dei gesuiti» – intendeva ora riequilibrare al centro la situazione, facendo perno proprio sulla Compagnia di Gesù. Di fatto però l’intenzione della Chiesa e dei gesuiti non era quella di elevare i semplici ma di lasciarli a uno stadio di minorità. Da un punto di vista letterario massima espressione di un atteggiamento paternalistico, deciso a tenere le masse in uno stato di sudditanza rispetto all’ordine costituito erano stati romanzi come L’ebreo di Verona del padre Antonio Bresciani (1798-1862), per Gramsci a tal punto responsabile di un clima culturale reazionario da fargli coniare la categoria di «brescianesimo». Sorprende d’altro canto come Gramsci, pur penetrante nella sua analisi sulle correnti interne alla Chiesa, mostrasse però di credere a uno dei più classici topoi della letteratura antigesuita (specie, ma non solo, di quella francese): l’esistenza di «gesuiti laici» (in francese jésuites de robe courte) che agivano all’interno della società, pur essendo segretamente affiliati all’ordine, con il fine di favorirne gli obiettivi.

Sulla scia di un antigesuitismo interno alla Compagnia sin dal Cinquecento – e che nel Novecento si era rinvigorito con la stampa della Historia interna documentada de la Compañía de Jesús (pubblicata postuma nel 1913 e messa all’Indice nel 1923) di Miguel Mir y Noguera – alla metà del XX secolo fece scalpore in Italia il caso del padre Alighiero Tondi, dimessosi dalla Compagnia ed entrato di lì a poco nel Partito comunista italiano. Tondi pubblicò un pamphlet dal titolo La potenza segreta dei gesuiti (1953) nel quale accusò gli ex confratelli di «vaticanismo» e di essere dediti agli affari politici anziché a quelli spirituali. Egli non si limitò ad accuse generiche ma – partendo soprattutto dai suoi contatti interni alla Compagnia – rivelò l’esistenza di una centrale spionistica antibolscevica legata al collegio Russicum di Roma. Inoltre, prendendo a testimonianza una serie di articoli apparsi sulla Civiltà Cattolica, definì ampi strati della Compagnia collusi con il fascismo, il franchismo e il nazismo. Che Civiltà Cattolica fosse stata sin dalle origini impregnata di antisemitismo lo confermano una serie di studi recenti fra cui anche la Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983) dello storico gesuita Giacomo Martina.

In forme più o meno radicali, almeno fino alla metà del Novecento l’antigesuitismo è stato connaturato a una certa cultura laica italiana, investendo tanto il terreno politico quanto quello più propriamente letterario. Va citato, per concludere, il romanzo di Furio Monicelli – Il gesuita perfetto (1960, ripubblicato nel 1999 con il titolo Lacrime impure e trasposto in film da Saverio Costanzo nel 2006 con il titolo In memoria di me) – dal carattere assai più intimistico (narra infatti dell’esperienza di un giovane novizio e della sua lenta consapevolezza di non essere portato per la vita religiosa) nel quale ritroviamo però una descrizione della gerarchia interna, della durezza dei superiori e dell’obbedienza richiesta assai simile a quella riportata in uno dei più noti pamphlet antigesuiti, i Monita secreta Societatis Iesu (1614). In un passo il rettore del collegio, invitando fratel Zanna a comportamenti più consoni allo spirito di obbedienza ignaziano, gli ricordava che «con le sue osservazioni di ieri, tu venivi a insinuare che la prassi della Compagnia rispecchia almeno in parte e in modo evidente le teorie di [quel] libello, quasi che i Monita secreta siano una caricatura del senso vero di cui è penetrata ogni parola delle sante Costituzioni ignaziane». Un esempio letterario e concreto – poiché autobiografico – della pervasività in pieno Novecento di un certo immaginario antigesuitico tanto all’esterno quanto all’interno dell’ordine.

Fonti e Bibl. Essenziale

G. Cubbitt, The Jesuit Myth. Conspiracy Theory and Politics in Nineteenth-Century France, Clarendon Press, Oxford 1993; P.-A. Fabre – C. Maire (sous la dir. de ), Les antijésuites, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2011; L. Malusa, Gioberti, Vincenzo, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, Edizioni della Normale, Pisa 2010, t. II, 691-693; G. Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Morcelliana, Brescia 2003; C.E. O’ Neill, Antijesuitismo, in C.E. O’ Neill – J.M. Dominguez (a cura di), Diccionario histórico de la Compañìa de Jésus, I, Institutum Historicum S. I.- Universidad Pontificia Comillas, Roma-Madrid 2001, I, 178-189; S. Pavone, El antijesuitismo, la antigua y la nueva Compañía de Jesús. Nuevas perspectivas de investigación, in S. Monreal, S. Pavone, G. Zermeño (coord.), Antijesuitismo y Filiojesuitismo: dos identidades ante la restauración, Ciudad del Mexico 2014.


LEMMARIO




Apologetica - vol. I


Autore: Cesare Silva

Gli inizi dell’A. si fanno comunemente risalire all’opera del domenicano spagnolo San Raimondo di Penafort (1175-1275), più noto come canonista, che scrive per difendere la fede cattolica dalle obiezioni della religione ebraica e mussulmana.

Il trattato più celebre e diffuso si deve però a San Tommaso d’Aquino con il De veritate fidei catholicae contra gentiles (1261) che ispira un gran numero di opere similari che hanno una certa diffusione negli ambienti universitari ed ecclesiali italiani fino a tutto il sec. XVI. Già con la produzione del domenicano Giovanni De Torchemada (1388-1468) si assiste ad un rinnovamento dell’A. che ha tra i suoi principali artefici in Melchior Cano (1590-1560) e soprattutto nel gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621), le cui opere principali hanno molte edizioni in Italia fino alla fine del sec. XIX. Servendosi delle categorie della teologia controversistica l’A. è concentrata nel ribattere alle dottrine religiose e politiche del Protestantesimo, difendendo il valore della Tradizione e della Ecclesiologia cattolica.

Se ha un’influenza limitata in Italia l’opera apologetica di San Francesco di Sales (1567-1622) ben altro rilievo possiede Francois Fénelon (1651-1704), il cui carattere anti-protestante però è inteso marginalmente in Italia, e soprattutto Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) il cui Discours sur l’histoire universelle ha molte edizioni fino a tutto l’ottocento (in traduzione italiana, ma anche nell’originale francese). Ricordiamo anche un altro francese, Blaise Pascal (1623-1662) con i suoi Pensées sur la religion, usciti la prima volta nel 1669.

Molto comune per tutto il sec. XVIII è l’opera dell’Oratoriano Bernard Lami (1645-1715) in lingua latina che non può mancare tra gli autori della cultura ecclesiastica media; diversi apologisti italiani e francesi (tradotti o mantenuti in versione latina) scrivono trattati di A. lasciandosi coinvolgere nelle diatribe tra Gesuiti e Giansenisti che perdurano ancora fino agli inizi del secolo successivo.

Particolare diffusione e apprezzamento raccoglie un’operetta del celebre predicatore gesuita Paolo Segneri (1624-1694) intitolata L’incredulo senza scuse (Firenze, 1690) che ha un tono marcatamente popolare come quella di Sant’Alfonso Maria de’Liguori (1696-1787) Verità della fede fatta evidente per li contrasegni della sua credibilità (Napoli 1762). Tra gli apologisti italiani che si segnalano per la confutazione degli errori filosofici dell’età dell’Illuminismo ricordiamo il domenicano Vincenzo Moniglia (1686-1767) contro i materialisti, il gesuita Fazzoni (1720-1787) contro Spinoza, il cappuccino Emanuele da Domodossola (1739-1802) contro Voltaire e Mazzarelli (1749-1813) contro Rousseau. Ricordiamo pure le edizioni italiane delle opere di Jacques-André Emery (1782-1811) a confutazione degli errori filosofici di Leibniz, Bacone e Cartesio. Di tono e brillante è l’opera del l’A. del celestino Appiano Buonafede (1716-1764), che conosce un grande successo.

Nell’età della Restaurazione hanno molta diffusione gli scritti e il pensiero di alcuni autori francesi come Francois-Renè de Chateaubriand (1768-1848) con le molte edizioni del Génie du christianisme (1805) e di Joseph de Maistre (1753-1821) con il Le Pape (1819) diffuse in lingua francese ma anche in versione italiana. Non minore impatto sul pubblico italiano e ripresi da molti autori minori sono le opere di Jacques Maurice de Bonald (1754-1840), Felicitè-Robert de Lammenais (1783-1854) e soprattutto la vasta predicazione di Henri-Dominique Lacordaire (1802-1861). L’italiano Alessandro Maria Tassoni (1749-1818), con La religione dimostrata e diffusa uscita a Roma per la prima volta nel 1805, supera i trattati settecenteschi sostituendone la pedanteria erudita con una efficace agilità di contenuti e toni tanto da renderne le moltissime edizioni tra i libri immancabili in ogni biblioteca ecclesiastica, compresa quella del buon parroco anche di campagna.

Molto diffuso nell’Ottocento è poi il Dizionario Apostolico per uso de’parrochi e predicatori e di tutti i sacerdoti, edito a Verona in 18 volumi tra il 1833 e il 1836 (ebbe numerose altre edizioni) riprendendo l’opera del francese Giacinto di Montagon (Parigi 1830-31) che affronta i principali temi di discussione in tono chiaro e puntuale secondo l’A. classica.

L’Abate Mauro Cappellari, futuro papa Gregorio XVI, ha fatto uscire, alcuni decenni prima, a Roma nel 1799 un’operetta famosa e paradigmatica intitolata Il trionfo della S. Sede e della Chiesa che trova un fecondo e duraturo continuatore nel P. Colangelo (1769-1836) soprattutto con Apologia della religione cristiana (uscita a Napoli nel 1831 e poi in numerose edizioni), segnando un genere letterario diffusissimo nell’ottocento italiano.

Negli stessi anni si diffondono le opere di Vincenzo Bolgeni (1733-1811), di stampo antigiansenista e difensore delle prerogative della Santa Sede e dell’Infallibilità pontificia che inaugura la serie di pubblicisti Gesuiti che per tutto l’Ottocento si distinguono in una ricca produzione che vede tra i più apprezzati il teologo P. Giovanni Perrone (1794-1876).

Segnaliamo infine, tra le opere che valicano nell’ottocento il pubblico usuale dell’A. le Osservazioni della Morale Cattolica di Alessandro Manzoni (1784-1873) edita a Milano nel 1810 come risposta alle tesi del protestante Sismondi.

Fonti e Bibl. Essenziale

L. Maisonneuve, Apologetique, in Dictionnaire de Théologie catholique, I, Paris 1909, coll. 1511-1580; G. Monti, Apologetica, in Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano 1948, coll. 1650-1659; G. Monti, Apologetica, Letteratura, in Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano 1948, coll. 1659-1669; G. La Piana, Apologetica, in Enciclopedia Italiana, III, Roma 1929, 691-697.


LEMMARIO




Apologetica - vol. II


Autore: Cesare Silva

Nella seconda metà dell’Ottocento l’apologetica in Italia risente fortemente delle lotte e delle polemiche che avvelenano il clima politico e culturale e che si acuiscono con l’avversarsi della Questione Romana dopo il 1870.

La rivista La Civiltà Cattolica fondata nel 1850 e prodotta a Roma, diretta dai Padri Gesuiti, tra cui spiccano le firme di P. Carlo M. Curci (1809-1891) e di P. Salvatore Brandi (1852-1915), si propone di offrire il punto di vista cattolica in tutti gli ambiti della società e della cultura italiana. In articoli specifici come in genere in quelli di articoli di approfondimento, l’apologetica costituisce la prospettiva di fondo che sarà mantenuta per più di un secolo, così da essere punto di riferimento e fonte di ispirazione per una vasta pubblicistica, tendente a difendere i valori della società cristiana di fronte alla secolarizzazione incipiente. La legislazione laicista e anticlericale dello Stato unitario spingono l’apologetica sul tema della difesa e della giustificazione storica e religiosa del potere temporale del Papato, senza disdegnare toni polemici (del resto comuni su stampa e pubblicistica). Un’altra rivista importante per l’apologetica italiana è La Scuola Cattolica, fondata nel 1873 e curata dai docenti del Seminario Arcivescovile di Milano.

Un tono popolare e moralistico riecheggia nell’opera del gesuita P. Antonio Bresciani (1798-1862), che scrive anche romanzi che riscossero all’epoca un certo successo, intesi come una forma di apologetica diretta ed efficace. Un confratello, P. Secondo Franco fa uscire a Roma nel 1859 un volumetto agile e semplice intitolato Risposte populari alle objezioni più communi contro la religione.

Negli stessi anni San Giovanni Bosco (1815-1888) intraprende una lunga e feconda attività come pubblicista e divulgatore attraverso volumetti e riviste periodiche allo scopo di difendere la fede e la morale, oltre che l’istituzione ecclesiastica, dalle principali obiezioni del tempo con un tono popolare ed efficace. Nella seconda metà dell’Ottocento in risposta alla pubblicistica protestante (soprattutto Valdese) che approfittando del clima politico post-unitario comincia a prendere piede in Italia (pur restando assai marginale) escono diverse opere tese a difendere la dottrina e la tradizione cattolica. Ricordiamo tra gli autori l’Arcivescovo di Torino Gaetano Alimonda (1818-1891), noto al grande pubblico come fecondo oratore e il gesuita P. Giovanni Perrone (1794-1876). Quest’ultimo, esponente di spicco della Teologia romana, con altri docenti del Collegio Romano (poi Università Gregoriana) del calibro di Passaglia, Palmieri, Franzelin, Billot, costituiscono la base teorica dell’A. diffusa in Italia fino alla seconda metà del novecento, restando marginale l’influsso delle nuove istanze provenienti dalla Francia.

In risposta alle nuove sensibilità e con un tono popolare e accattivante è l’opera del vescovo di Cremona Geremia Bonomelli (1831-1914) intitolata Seguiamo la ragione edita nel 1898.

A partire dai primi decenni del novecento si diffondono diversi manualetti di A. composti per i membri dell’Azione Cattolica quali trattati di cultura cattolica, che segnano il passaggio della materia anche al laicato.

Dopo la seconda guerra mondiale, nel clima di forte contrapposizione politica e sociale si sviluppa un’A. tesa a difendere la dottrina cattolica (non solo dal punto di vista religioso) dall’ideologia comunista allora dilagante, con una pubblicistica assai variegata.

In questi anni ha un certo risalto l’edizione italiana (uscita nel 1954) dell’Enciclopedia Apologetica pubblicata in Francia nel 1948 (con il titolo Apologétique) che vanta tra i collaboratori Garrigou-Lagrange. L’opera, pensata come sostituzione più che aggiornamento del Dictionnaire apologétique de la foi catholique, uscito tra il 1925 e il 1928, pur nel rispetto delle tradizionali forme dell’apologetica, registra l’influsso della Nouvelle Theologie francese che inizia a infiltrarsi anche negli ambienti italiani piuttosto conservatori; la presenza di prospettive del tutte nuove e aperte al contesto del mondo contemporaneo, anticiperà la stagione del rinnovamento anche dell’A. nel contesto del Concilio Vaticano II.

Un nuovo impulso all’apologetica viene il 14 settembre 1988 con la pubblicazione della lettera enciclica Fides et Ratio del papa Giovanni Paolo II che stimola una vasta produzione di studi teologici che prosegue con gli interventi magisteriali del successore, Benedetto XVI, i cui scritti sono da tempo noti al pubblico italiano. È infatti da notare nell’ultimo ventennio un significativo ritorno di pubblicazioni di carattere dichiaratamente apologetico, a sfondo teologico o prevalentemente storico, attraverso singoli volumi e riviste periodiche specializzate allo scopo di interessare il vasto pubblico. Tra gli autori ricordiamo L. Negri, V. Messori e A. Socci.

Da segnalare lo sforzo compiuto dalla Conferenza Episcopale Italiana nell’ambito del Progetto Culturale che ha partorito tra le varie iniziative un convegno internazionale Dio oggi. Con Lui o senza di Lui tutto cambia, i cui atti sono stati pubblicati nel 2010.

Fonti e Bibl. essenziale

L. Maisonneuve, Apologetique, in Dictionnaire de Théologie catholique, I, Paris 1909, coll. 1511-1580; G. Monti, Apologetica, in Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano 1948, coll. 1650-1659; G. Monti, Apologetica, Letteratura, in Enciclopedia Cattolica, I, Città del Vaticano 1948, coll. 1659-1669; G. La Piana, Apologetica, in Enciclopedia Italiana, III, Roma 1929, 691-697.


LEMMARIO




Apruzzese Sergio


Nato a Sora (Fr), nel 1982, è dottore di ricerca in Scienze religiose.