Architettura – vol. II

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    Autore: Giovanni Liccardo1

    La svolta moderna. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento l’architettura di chiese propone nuovi temi legati essenzialmente alle innovazioni della tecnica edilizia, all’impiego di moderni mezzi costruttivi (strutture di am­pio respiro in cemento armato, acciaio e vetro, ecc.) e all’approfondimento di soluzioni tecniche e impiantistiche (visibilità, illuminazione, acustica, ecc.). In Italia tra le prime interessanti esperienze di strutture in ferro e muratura fu quella della chiesa di San Leopoldo nel centro di Follonica, consacrata nel 1838 su progetto degli architetti Alessandro Manetti e Carlo Reishammer, con molteplici elementi in ghisa, come il pronao, il rosone della facciata e l’abside, identificabili nell’esterno della struttura; in ghisa sono anche la punta del campanile e alcuni arredi interni. Più in generale, gli architetti che ora svolgono il tema dell’edificio di culto, pur applicando largamente i nuovi mezzi, tendono di preferenza ad una libera utilizzazione delle strutture e dei tipici effetti che da questi derivano, piegandoli ad un deciso intento espressivo, sia nelle proporzioni, sia nell’uso promiscuo di ma­teriali diversi, a seconda dei fini e delle condizioni ambientali.

    Inoltre, anche nell’abbondante produzione di edi­fici chiesastici, in Italia non si evidenzia un indirizzo sti­listico deciso, essendo ancora gli architetti incerti tra forme nostalgiche inutilmente perseguite con nuove semplificazioni e i più vivaci apporti dell’architettura contemporanea. Eppure appare evidente che l’edificio a carattere religioso, in quanto luogo a vocazione sociale e destinato al pubblico, si palesa bisognoso di una nuova veste formale, così come le altre destinazioni d’uso, mentre le città stesse si trasformano sotto la guida dei piani urbanistici e delle capacità tecniche dei nuovi materiali da costruzione. Però le forti resistenze in Italia all’avvento del moderno per l’architettura degli spazi religiosi condizionano notevolmente i prodotti artistici creando una certa frattura tra chi (architetto, sacerdote, teologo, artista) si prodiga per un cambiamento formale e fruitivo e chi si schiera nettamente contro un totale rinnovamento. La discussione si rispecchia frequentemente nei bandi di concorso e negli esiti delle gare per le competizioni più popolari dell’inizio del XX secolo che vedono la partecipazione di un centinaio di architetti e ingegneri attivi a vario titolo in tutta la nazione; esemplificativo, per esempio, è l’ampio salto progettuale tra le proposte presentate per il concorso della cattedrale della Spezia (1929) e i disegni delle chiese per la diocesi di Messina (1931), balzo che non è paragonabile al breve lasso temporale di appena 36 mesi che divide i due eventi.

    Ovviamente, anche in Italia – come nel resto dell’Europa – la Chiesa ha strenuamente bisogno degli artisti d’avanguardia, certamente i più abili nel saper dare una forma coeva e coerente al cemento armato, al vetro e all’acciaio. Si può dire, in generale, che agli inizi del XX secolo l’edificio-chiesa perde la sua riconoscibilità tipologica e questo non è solo consequenziale alla caduta degli stili, al rifiuto dei neo- e all’avvento degli –ismi, ovvero al disdegno delle riproposizioni formali di precedenti epoche nella disperata ricerca di riprodurre la condizione dei tempi gloriosi del cristianesimo, o all’entrata in scena delle avanguardie architettoniche imponenti le loro sperimentazioni. Questo esito non è esclusivamente figlio degli architettonici esercizi di stile promossi dai gruppi avanguardistici, bensì proviene da altre esigenze: queste si individueranno sempre più nella centrale necessità di comunicazione con il fruitore dello spazio sacro, ovvero il fedele, che deve partecipare del rito religioso che vi si svolge.

    Di un certo interesse sono in questo periodo, fra le altre, le opere dell’architetto Giovanni Muzio per la chiesa di S. Maria della Rossa in Milano (consacrata dal cardinale Ildefonso Schuster nel 1932); il santuario di S. Antonio a Cremona (ultimato nel 1937); i progetti per la chiesa Regina Pacis a Milano e per quella di S. Ambrogio a Cremona; la basilica del Sacro Cuore di Cristo Re, a Roma, realizzata a cavallo degli anni ‘20 e ‘30 su progetto dell’architetto Marcello Piacentini, considerata la prima applicazione dei canoni moderni nel panorama dell’architettura sacra romana; ancora a Roma, infine, la basilica dei SS. Pie­tro e Paolo all’EUR, chiesa progettata da Arnaldo Foschini (con pianta centrale a croce greca), costruita tra il ‘38 e il ‘43, ma inaugurata solo nel giugno del ’55.2

    Dal Concilio Vaticani II ad oggi. Il tema di una nuova liturgia, una questione da principio vaga poi sempre più interessante e convincente negli anni che precedono il Concilio Vati­cano II, confluisce necessariamente in quello di una nuova architettura di chiese. La questione aveva trovato indicazioni teoriche, tra gli altri, nel domenicano Marie Alain Couturier, direttore della rivista francese Art Sacré, favorevole ad un’architettura sacra non accademica e ripetitiva, ma che coinvolgesse gli artisti, senza considerare il loro singolo atteggiamento verso la fede, tuttavia facendo appello al loro “genio”. La questione in Italia ebbe echi interessanti specialmente grazie ai circoli cattolici che facevano ca­po al cardinale Montini della diocesi ambrosiana, al sindaco di Firenze Giorgio La Pira e al padre scolopio Ernesto Bal­ducci, al bolognese Giuseppe Dossetti, al cardinale Lercaro sotto la cui egida nasce nel 1955 la rivista “Chiesa e Quartiere”: quarantotto numeri il cui ultimo uscirà nel fatidico 1968, in coincidenza con la morte di Lercaro e con i sommovimenti del maggio studen­tesco. Un fervore di idee che investe la Chiesa ambrosiana, quella bolognese e quella fiorentina, da cui sortiranno frutti molto interessanti che offriranno l’occasione di realizzare chiese necessarie sia per il loro intrinseco valore propria­mente architettonico, sia per il nuovo messaggio di fede che rappresentano. In questo caso l’architettura appare come uno degli strumenti di apostolato della “Chiesa militante”, che, tra l’altro, negli anni successivi alla guerra deve rendere evidente il proprio ruolo nella ricostruzione morale e civile del Paese attraverso l’edificazione di opere assistenziali e di apostolato. A titolo esemplificativo può essere citata la chiesa della Madonna dei Poveri a Milano, progettata e costruita dal 1952 al 1954 dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini. La chiesa, dall’aspetto esteriore disadorno e quasi rude e dal linguaggio architettonico interno essenziale e brutale, lascia alla sincerità dei materiali e al gioco della luce naturale il compito di coinvolgere il fedele emozionalmente. Allo stesso tempo, si tratta di una modulazione vibrante che parla il linguaggio di una spiritualità intensa e universale che coglie il credente così come l’ateo, quasi di sorpresa, dopo il primo diffidente incontro nel tessuto urbano con un volume indifferente, quasi inquietante per l’inespressività violenta del linguaggio industriale. A questo clima ideativo risalgono anche, tra le altre, la chiesa di Le Corbusier sulle colline di Bologna e la chiesa di Alvar Aalto a Riola di Vergato (in provincia di Bologna).

    L’avanzare del movi­mento liturgico e la pubblicazione dell’enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947), traduce un’indubbia determinazione teorica; così Pio XII poteva affermare che le forme e le imma­gini recenti non si dovevano ripudiare gene­ricamente per partito preso, ma era assolu­tamente necessario dar libero campo all’arte moderna, se serve, con la dovuta ri­verenza ed il dovuto onore, ai sacri edifici ed ai riti sacri. In luogo dello scetticismo e delle timorose censure che ancora vive, Giovanni XXIII apre la Chiesa alla speranza, dimostra di accettare il dialo­go e la mentalità sperimentale del mondo moderno; si arriva di nuovo a parlare di domus ecclesiae in senso ana­logo a quello usato nei primi secoli.3

    Il passo seguente che pone le basi dei principi biblico-liturgici di una nuova ar­chitettura di chiese è la costituzione conciliare sulla liturgia (SC 122-129); essa rappresenta il ri­ferimento fondamentale per un’architet­tura che voglia concretare nelle forme il carattere comunitario delle celebrazioni. In essa, infatti, si esprime la volontà della Chiesa di accettare la collaborazione dell’arte con­temporanea, precisando tra l’altro, per i nuovi edifici sacri, due obiettivi principa­li: la funzionalità in ordine alla celebrazio­ne liturgica e la partecipazione attiva dei fe­deli alla liturgia (ma appare sorprendente che passarono più di trent’anni prima della pubblicazione della Nota pastorale L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, il 31 maggio 1996). La maggioranza delle chiese costruite fino a quel momento era piuttosto tradizionale: l’altare maggiore addossato all’abside spesso orientata ad est e incastonato in composizioni monumentali e riccamente decorate (con tabernacoli di marmo all’esterno e oro all’interno); un crocifisso realistico e a grandezza reale; una balaustra fra navata e presbiterio; un gran numero di quadri, statue e vetrate raffiguranti santi e angeli; file diritte di banchi in legno. I cambiamenti successivi al concilio sono stati praticamente universali, con due effetti principali: in molte chiese l’altare è stato spostato a metà del presbiterio – o posto a cerniera con la navata – cosicché la Messa si possa celebrare versus populum; il tabernacolo è stato spostato in qualche cappella laterale e, al suo posto, prima centrale, ora sta la sede del celebrante.

    Di sicuro, nell’età post-conciliare (e almeno fino agli inizi degli anni ’80) la costruzione delle chiese è stata caratterizzata da modelli architettonici e soluzioni tipologiche discontinue, specchio del rapporto chiesa/comunità, Chiesa universale/comunità locali. Ma nel percorso architettonico italiano di questo trentennio è stata notata una dispersione conoscitiva legata alle troppe esperienze realizzate dal dopoguerra ad oggi; una pluralità di modelli che rende difficile il lavoro storico, pure se è possibile tipizzare come esemplificativi gli anni della ricostruzione, attraverso il rapporto Chiesa/Stato, il laboratorio milanese con il passaggio dalla tradizione all’esclusione esornativa, il modello di chiesa paupere spiritu, prodotto della crisi della società rurale. La novità apportata dal concilio, seppur fattore nodale della metamorfosi dell’edificio-chiesa, tuttora in una fase di ricezione, scarta a priori dei prototipi architettonici per prediligere i temi della pastorale; lo spazio della celebrazione diventa indispensabile per la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa dei fedeli.

    Questa tendenza esprime, per esempio, la chiesa di S. Giovanni Battista (allo svincolo del casello autostradale di Firenze-Nord, proprio a ridosso della banchina) dell’architetto Giovanni Michelucci. L’opera, che risente di una profonda espressività, non sembra esibire un mero compiacimento stilistico, ma è caratterizzata da una di serie percorsi e di spazi realizzati dalla contrapposizione di pieni e vuoti, nei quali il fedele può rintracciare una corrispondenza di ciò che più si addice al suo stato d’animo; essa è chiesa del “dialogo” e del “silenzio”, o di entrambe le cose: di un silenzioso monologo con l’Assoluto. Concezioni teoriche altrettante profonde, sia pure a livelli diversi, esprimono anche le più recenti architetture chiesastiche di Mario Botta (come la chiesa di S. Maria degli Angeli sul monte Tamaro) e la chiesa per il Giubileo a Roma (progettata da Richard Meier).4

    Oggi, infine, si auspicano ambienti progettati per la comunità dove per l’architetto demiurgo è previsto l’accompagnamento di un’artista e di un liturgista per evitare la semplice o astratta applicazione di nuovi stilemi. Una situazione progettuale che ogni volta deve mediare tra due posizioni estreme: lasciare al tecnico/artista ogni decisione o preordi­nare, da parte delle commissioni ecclesia­stiche competenti, dei modelli univoci. Si avverte l’opportunità, di conseguenza, di riconsiderare la dottrina teo­logica sulla chiesa sia per le comunità locali sia per gli artisti, come mo­mento di crescita della comunità e di co­scientizzazione dell’artista.

    È indispensabile, da ultimo, l’in­dividuazione non di spazi e di forme, ma di contenuti, di significati delle “presenze” e delle specifiche esigenze locali; questo impegno può costituire il substrato del “program­ma edilizio”, alla cui realizzazione concor­rono allo stesso modo l’intuizione, la creatività, la sen­sibilità dell’artista – correlate ai vincoli in­terni ed esterni del programma stesso – in un processo unitario formativo dell’opera. La comunità locale, le commissioni dioce­sane e quella centrale per l’arte sacra potranno poi verificare in questo corretto rap­porto la pertinenza e la qualità della risposta artistica.

    Fonti e Bibl. Essenziale

    C. Barucci (a cura di), I progetti per le chiese della diocesi di Messina nel concorso del 1932, Gangemi, Roma 2002; L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, GLF editori Laterza, Roma 2003; G. Cappellato (a cura di), Mario Botta. Architetture del sacro. Preghiere di pietra, catalogo della mostra (Firenze), Editrice Compositori, Bologna 2005; P. Culotta – G. Gresleri – Gl. Gresleri, Città di fondazione e plantatio ecclesiae, Compositori, Bologna 2007; F. Debuyst, Chiese: arte, architettura, liturgia dal 1920 al 2000, Silvana, Cinisello Balsamo 2003; G. Della Longa – A. Marchesi – V. Valdinoci (a cura di), Architettura e liturgia nel ‘900, Nicolodi Editori, Marano d’Isera (TN) 2004; Innovazione liturgica e sperimentazione progettuale: esperienze europee a confronto. Atti del convegno internazionale del Master di II livello in Progettazione Architettonica degli Edifici per il Culto, marzo – aprile 2006, TEMI, Trento 2006; G. Lercaro, La chiesa nella città: discorsi e interventi sull’architettura sacra, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; A. Longhi – C. Tosco, Architettura Chiesa e società in Italia (1948-1978), Edizioni Studium, Roma 2010; S. Mavilio,Guida all’architettura sacra. Roma 1945-2005, Electa, Milano 2006, G. Montanari, “Tra sacro e moderno. La committenza della chiesa nel periodo delle avanguardie”, in V. Franchetti Pardo (a cura di), L’architettura nelle città italiane del XX secolo: dagli anni venti agli anni ottanta, Jaca Book, Milano 2003, 418-424; V. Sanson,Architettura sacra nel Novecento. Esperienze, ricerche e dibattiti, Messaggero, Padova 2008; G. Santi, Architettura e teologia. La Chiesa committente di architettura, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2011; R. Schwarz, Costruire la chiesa: il senso liturgico nell’architettura sacra, Morcelliana, Brescia 1999; C. Valenziano, Architetti di chiese, L’Epos, Palermo 1995.

    Immagini:

    1) Novoli (Le), Chiesa di Sant’Antonio Abate; 2) Bettona, Chiesa parrocchiale della Madonna del Ponte; 3) Torino, Interno della chiesa del Santo Volto; 4) Roma, Esterno della chiesa Dives in Misericordia.

    Sitografia:

    www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/letters/documents/hf_jp-ii_let_23041999_artists_it.html (sito dove è riportata la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II, 1999); http://www.greatbuildings.com (sito inglese sull’architettura, completo e ben strutturato); http://www.treccani.it/enciclopedia/l-edilizia-sacra-dalla-restaurazione-al-xxi-secolo-architettura-delle-nostalgie_%28Cristiani_d%27Italia%29/ (sito per una essenziale storia dell’edilizia ‘sacra’, dalla Restaurazione al XXI secolo); www.artemotore.com/storia.html (sito dove sono sviluppati contenuti artistici relativi a diversi periodi fin dalle origini).


    LEMMARIO