Associazionismo cattolico – vol. II

    image_pdfimage_print
    Autore: Guido Formigoni

    In epoca post-unitaria, accanto alla continuazione delle varie forme associative consegnate dalla tradizione (pie unioni, terz’ordini religiosi, confraternite, “amicizie cristiane”, congregazioni mariane ecc.), si svilupparono nuove forme aggregative di credenti, legate ai concetti di “movimento cattolico” o di “azione cattolica”, che allora passavano sostanzialmente per sinonimi.

    Si trattava di gruppi di laici cattolici, spesso strettamente collaboranti con alcuni preti e religiosi, che intendevano assumere un’esplicita testimonianza pubblica, per difendere e promuovere gli interessi della Chiesa nello spazio creato dalle nuove istituzioni civili laiche, basate sul principio di libertà. Nello Stato italiano unitario, i primi esperimenti di aggregazione di cattolici che volevano assumere un ruolo pubblico militante incorsero nei rigori polizieschi (fu sciolta ad esempio un’Associazione Cattolica Italiana per la difesa della libertà della Chiesa fondata a Bologna nel 1864, che pure aveva tentato di non presentarsi come legittimista e anti-statale). Altre esperienze, come la Società della Gioventù Cattolica Italiana (Sgci), che unificava dal 1868 vari circoli cittadini, ebbero maggior durata e sfuggirono ai controlli, per i loro caratteri meno evidentemente politici. Secondo l’espressione di Giovanni Acquaderni, uno dei fondatori, questi giovani intendevano essere “cattolici di professione”. Fu attorno al gruppo direttivo della Sgci che si coagulò l’idea di convocare un grande congresso cattolico nazionale, come avveniva in altri paesi. Sotto la spinta del peggioramento del giudizio sullo Stato unitario, dopo il 1870, i fatti di Porta Pia e l’aggravamento della “questione romana”, l’intransigentismo ritenne necessario passare all’azione. Nel 1874 a Venezia un Congresso cattolico mise le basi di quella che l’anno seguente divenne la struttura permanente dell’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici in Italia.

    L’Opera era una sorta di organismo federativo nazionale che per trent’anni avrebbe funzionato da alveo coordinatore di tutte le molteplici esperienze spirituali, ecclesiali, economico-sociali e anche elettorali (soprattutto in campo amministrativo) dei cattolici intransigenti. Un comitato permanente e alcuni gruppi di lavoro nazionali coordinavano un magma in espansione di comitati regionali, diocesani e parrocchiali. Dagli anni ’80, fu piuttosto attivo e autonomo, in particolare, il II gruppo, che si interessava di questioni sociali, guidato da Stanislao Medolago Albani sotto l’influenza di Giuseppe Toniolo. A queste strutture facevano capo circoli locali, società cattoliche, strutture economico-sociali (casse rurali, cooperative, società di mutuo soccorso, via via anche leghe sindacali), quotidiani cittadini ecc. Il coordinamento era in realtà spesso molto blando, anche perché il localismo era forte: l’orgoglio di bandiera gestito da una prevalente struttura democratica interna induceva ogni realtà a difendere i propri margini di autonomia. L’occasione di incontro privilegiata era il Congresso cattolico nazionale: se ne celebrarono 19 nei trent’anni di vista dell’Opera. Dopo inizi non sempre floridi, segnati da divisioni interne e grandi discussioni con i transigenti, le incertezze legate al cambio di pontificato del 1878 e alle ipotesi conciliatoriste degli anni ’80 rallentarono l’insediamento dell’Opera. Fu dopo il fallimento di questi tentativi, negli anni ’90, che l’Opera conobbe il suo vertice, con la presidenza del conte veneziano Giovanni Battista Paganuzzi. Al congresso di Milano del 1897, il comitato permanente mostrava un bilancio piuttosto imponente: esistevano 17 comitati regionali, 188 diocesani, 3982 parrocchiali, 708 sezioni giovani (promosse in polemica con la Sgci, che aveva avuto uno sviluppo ritenuto troppo transigente), 17 circoli universitari, 588 casse rurali, 688 società operaie, 24 quotidiani e 155 periodici. La dimensione sociale aveva trovato slancio dopo la pubblicazione della Rerum Novarum nel 1891. Nella crisi di fine secolo, rilanciando l’intransigentismo, l’Opera entrò nel mirino della repressione politica dei gruppi ritenuti sovversivi (i “neri” come i “rossi”): nel 1898 furono incarcerati alcuni attivisti (tra cui il focoso prete milanese don Davide Albertario), furono sciolti molti comitati, mentre quello permanente nazionale si salvò solo per un equivoco poliziesco.

    Gli anni iniziali del secolo videro però forti contrapposizioni interne tra gli anziani intransigenti, ancora abbarbicati alla questione romana, e i giovani che si cominciavano a chiamare democratici-cristiani, i quali interpretavano ormai il ruolo del movimento cattolico nel promuovere lo sviluppo sociale e civile e la crescita economica delle masse popolari, preparando anche futuri sbocchi politici in senso democratico. Nel 1904 il nuovo papa Pio X sciolse quindi l’Opera, non tollerando la divisione interna al movimento. Si allungavano anche le ombre delle polemiche contro il “modernismo”, di cui qualche integrista additava la variante “sociale”. Dalla scelta del papa, con l’enciclica Il fermo proposito del 1905, derivò una riorganizzazione del movimento attorno a tre Unioni (Unione popolare; Unione economico-sociale; Unione elettorale), che configuravano una prima e ancor timida specializzazione dell’apostolato. L’Unione popolare, che doveva riunire gli adulti su un progetto formativo e di testimonianza laicale capillare, per la verità non decollò molto. Fino alla prima guerra mondiale si sviluppò invece fortemente il movimento sociale: una inchiesta del 1910 censiva 1.800 società operaie di mutuo soccorso, 1.750 cooperative, 1.611 casse rurali e operaie, 102 banche e 374 organizzazioni sindacali locali con 104.614 iscritti. Anche in campo elettorale si misero le basi di un percorso di organizzazione che fece eleggere i primi “cattolici deputati” e preparò quello che nel 1919 doveva divenire il Partito popolare.

    Nel frattempo nascevano altre esperienze destinate a un ruolo importante. Nel 1896, alcuni circoli di universitari cattolici davano luogo a una federazione nazionale, la Fuci, sotto l’influsso di don Romolo Murri, impegnandosi in una nuova ricerca sui rapporti fede-cultura (che qualcuno sospettò di modernismo). Il modello inglese dello scoutismo venne invece importato da alcuni ambienti, tra cui spiccava un gruppo genovese guidato da Mario Mazza. Nel 1916, con la presidenza del conte Mario di Carpegna, venne fondata un’Associazione Scautistica Cattolica Italiana (Asci), che conobbe una certa diffusione, in competizione con lo scoutismo di ispirazione nazionale del Cngei, accusato di influenze massoniche. Nel 1906 nasceva anche una Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (Fasci), che coordinava parecchie società ricreative e sportive in tutto il paese. Nel 1908, dopo molti dibattiti e confronti con il nascente femminismo laico, alcune donne cattoliche dei ceti aristocratici, tra cui Cristina Giustiniani Bandini, promossero un’Unione fra le donne cattoliche italiane.

    Il primo dopoguerra, sotto la spinta dell’emersione definitiva di una società di massa e nella logica di un tentativo di democratizzazione inedito delle istituzioni monarchiche e liberali, anche il mondo cattolico fu attraversato da un ulteriore fermento associativo, che mobilitò nuovi gruppi e ambienti. Nacquero una Confederazione delle cooperative e una Confederazione dei sindacati “bianchi”, tra 1918 e 1919. I circoli dei giovani della Sgci e della Fuci, ma anche società sportive, scoutistiche e ginnastiche, svilupparono forti capacità di mobilitazione e impegno, trovandosi anche spesso coinvolti in scontri con socialisti e fascisti. A partire da una esperienza milanese, Armida Barelli lanciò l’originale progetto di una Gioventù femminile cattolica (Gf), che iniziò a coinvolgere molte ragazze, non più solo delle classi abbienti. Il tentativo di Benedetto XV di rafforzare le capacità di coordinamento dell’”azione cattolica” da parte di una Giunta nazionale, però, fu molto faticoso.

    La fase di fervore si chiuse con l’avvento del fascismo, che dopo le violenze degli anni di transizione e a seguito della svolta autoritaria del 1925-’27, provvide a sciogliere d’autorità la gran parte degli enti autonomi dal partito e dallo Stato. Le associazioni sportive e ricreative cattoliche, oltre quella scout (l’Asci), furono sciolte in occasione della nascita dell’Opera Nazionale Balilla (Onb), che voleva monopolizzare l’educazione dei giovani. Il movimento cattolico fu allora più strettamente radunato da Pio XI sotto la sigla della nuova Azione cattolica (v.), che con gli Statuti del 1923 configurava una struttura accentrata e strettamente dipendente dalla gerarchia, divisa in “rami” per età e per genere, oltre che capillarmente presente nelle parrocchie. Il Concordato del 1929 tutelava la sua autonomia, cosa voluta fortemente dalla Santa Sede, salvaguardando il suo ruolo di uno dei pochi spazi associativi indipendenti dal regime. L’Aci di massa fu così uno degli spazi più significativi della dialettica che si venne a costituire tra Chiesa e fascismo, che intrecciò strettamente un compromesso formale e una serrata competizione per il controllo delle anime (non senza momenti di tensione e di scontro aperto, come nel 1931 e nel 1938). Collegati strettamente a tale esperienza, poterono svilupparsi i movimenti intellettuali, cioè la già citata Fuci e il nuovo Movimento dei Laureati cattolici, germinato dallo stesso ambiente fucino nel 1934, sotto la regia e con la sensibilità di mons. Montini (che della Fuci stessa era stato assistente nazionale dal 1925 al 1933).

    La ripresa democratica del secondo dopoguerra non poteva che riaprire un percorso di innovazione e disseminazione associativa. Il movimento cattolico veniva ancora pensato da papa Pio XII come fortemente unitario e accentrato, unificato attorno alla Chiesa-istituzione, che assumeva essa stessa connotazioni movimentiste (si pensi a eventi come il Giubileo del 1950 e la Crociata del gran ritorno). L’Azione cattolica, nello statuto riformato del 1946, doveva quindi essere formalmente il centro coordinatore di un universo specializzato. La regia di mons. Montini dalla segreteria di Stato fu importante in questa direzione. Di fatto,però, il pluralismo crebbe. Già nel 1944 erano state fondate le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli), come organismo formativo e aggregativo dei lavoratori, pendant della realizzazione di un sindacato unitario con comunisti e socialisti. Dopo la scissione sindacale del 1948 e la nascita di un sindacalismo democratico e non confessionale nella Cisl, le Acli si ricollocarono come “movimento operaio cristiano” fuori dall’orizzonte strettamente sindacale. Ripresero vita anche organismi cooperativi, sociali, assistenziali. Un’esperienza innovativa fu la Confederazione dei coltivatori diretti (Coldiretti), che assunse il ruolo di lobby agricola nella Dc e nelle istituzioni pubbliche. Nel 1944, nell’alveo della Giac, prendeva le mosse un Centro Sportivo Italiano (Csi), con il parallelo femminile di una Federazione Attività Ricreative Italiane (Fari): era la ripresa di una specifica tradizione soppressa dal regime. Il movimento dei Laureati promosse varie unioni professionali di cattolici che, condividendo lo stesso ruolo lavorativo, riflettevano assieme sul senso spirituale della loro attività e sul rinnovamento cristiano degli ambienti sociali (Unione cattolica insegnanti medi, Uciim; Associazione dei maestri cattolici, Aimc; Unione dei giuristi cattolici italiani, Ugci; Unione cristiana imprenditori e dirigenti, Ucid). Lo scoutismo dell’Asci riprese vita, dopo lo scioglimento forzato, avvalendosi anche di qualche sperimentazione di attività clandestina nell’epoca del regime e della guerra: tra 1943 e 1944 naufragò un tentativo effimero di riunificazione con lo scoutismo aconfessionale del Cngei. L’epoca postbellica vide anche il primo solido sviluppo di uno scoutismo femminile, raccolto nell’Associazione guide italiane (Agi), con figure come Giuliana di Carpegna e Josette Lupinacci. Alcuni sodalizi già consolidati da qualche decennio, ispirati al modello della consacrazione personale di una vita condotta “nel secolo” vennero formalizzati secondo la nuova categoria degli “istituti secolari” (v.).

    Nascevano anche nuove realtà, ancor più esterne rispetto al circuito dell’Ac. Nel 1944 si formò un Movimento di Rinascita cristiana, ispirato al pensiero dell’abate Cardjin, partendo da un riflessione sugli effetti della guerra nella società mondiale. Nel 1947 a Trento otteneva riconoscimento diocesano l’Opera di Maria, fondata da Chiara Lubich, che poi si evolverà nel Movimento dei Focolari. Dal 1950 il tronco delle congregazioni mariane di ispirazione gesuita dava vita a un percorso di rinnovamento in cui cresceva il ruolo dell’elemento laicale. Roma divenne nel frattempo sede attrattiva di movimenti nati in altri paesi (i Legionari di Cristo, l’Opus Dei, la Legione di Maria), che aprirono punti di riferimento italiani.

    La stagione conciliare, collegata direttamente o indirettamente all’evento del Vaticano II fu indubbiamente un ulteriore momento di grande fermento e di passaggio nella storia dell’associazionismo ecclesiale. Il forte appello conciliare alla coscienza battesimale del cristiano nel popolo di Dio e la sua riflessione sulla “universale chiamata alla santità” ebbero un immediato riflesso nella critica al modello del primato dell’Azione cattolica, come via privilegiata dell’apostolato laicale. La stessa Ac si dovette profondamente ripensare come una via particolare di apostolato, mentre altre esperienze germinavano. Il carattere immediato e anti-istituzionale della cultura-ambiente dell’epoca influenzò parecchie esperienze aggregative. Ci fu un fiorire di “gruppi spontanei” che assunsero posizioni critiche di “dissenso” rispetto alla gerarchia, criticando le fragilità nella recezione del concilio, e arrivarono a tentare nel 1968 di costruire anche un coordinamento nazionale. Nacquero varie Comunità di base, utilizzando un modello fortemente radicato nell’America Latina: alcune di esse furono piuttosto effimere, altre molto durature; alcune iniziarono un percorso di rapida politicizzazione nell’esplosione dei movimenti sociali di fine decennio, altre cercarono un percorso più rigorosamente evangelico. Il coordinamento di tali comunità espresse posizioni politicamente radicali, vicine al movimento dei Cristiani per il socialismo (fondato nel 1973). Alcune esperienze valorizzarono il messaggio di emancipazione e crescita che veniva in quei frangenti dal Terzo Mondo, avviando duraturi rapporti di cooperazione internazionale (Mani Tese sorse nel 1964; l’Operazione Mato Grosso nel 1967, mentre dal decennio precedente operava a Milano il Celim). Movimenti giovanili e laicali si coagularono anche attorno ad alcune delle principali congregazioni religiose missionarie. Nel 1972, sul tronco di precedenti esperienze federative, nacque una Federazione degli organismi cristiani di servizio internazionale volontario (Focsiv). Tra le esperienze che svilupparono il ribellismo giovanile in un orizzonte di servizio ai poveri e di spiritualità essenziale va ricordata la Comunità di Sant’Egidio, fondata a Roma, nel quartiere di Trastevere, nel 1968. Essa ebbe nei decenni successivi una evoluzione sempre più cordialmente inserita nella trama istituzionale ecclesiastica e diretta a uno specifico lavoro per la pace internazionale e il dialogo tra i popoli e le religioni.

    A parte il fiorire molto appariscente ma anche minoritario di queste realtà, va ricordato che nella stessa pastorale parrocchiale la formula del “gruppo di fedeli” divenne abituale, soprattutto a livello giovanile. Una ricerca del 1982 censiva più di 2000 gruppi, dediti a percorsi soprattutto formativi e spirituali, ma anche aggregativi e di solidarietà. Inoltre, negli anni ’70 in Italia ebbero luogo svolte significative all’interno di esperienze consolidate. Le Acli conobbero un’evoluzione classista e anticapitalista, che le portò a formulare una “ipotesi socialista” per lo sviluppo della società, denunciando il collateralismo con la Dc. La decisione della Cei di ritirare gli assistenti ecclesiastici e la “deplorazione” di Paolo VI furono l’acme di uno scontro che doveva essere ricucito solo lentamente, verso la fine del decennio ’70. Nel caso degli scout cattolici, la diffusione di posizioni favorevoli all’impegno sociale e politico non spostò la tradizionale centralità della questione educativa, ma un grosso ripensamento portò all’unificazione delle due associazioni, maschile e femminile, in un’unica Associazione guide e scout cattolici italiani (Agesci), che prese vita nel 1974, sottolineando valori nuovi quali quelli democratici e partecipativi, non senza parecchie fatiche. Prese invece definitivamente le distanze dall’Aci nel 1972 il movimento che si era sviluppato a partire dal 1954 come Gioventù studentesca (Gs) nell’ambito dell’Ac milanese, ad opera di don Luigi Giussani. Il percorso di Gs era diventato molto autonomo fin dagli anni ’60, sottolineando alcuni elementi come la testimonianza nell’ambiente di vita e la centralità dell’”incontro” con Cristo nell’attività del movimento. Dopo una sbandata nel clima della contestazione del ’68, il gruppo legato a Giussani diede vita a un nuovo movimento, del tutto indipendente dall’Ac, con il nome di Comunione e liberazione (Cl).

    Altre forme aggregative nacquero e fiorirono in quegli anni, indirettamente sostenute dal clima creativo post-conciliare, introducendo in Italia modelli nati altrove. Si pensi ai carismatici cattolici del Rinnovamento nello spirito, che videro un primo gruppo Emanuele fondato a Roma nel 1973 e una convocazione nazionale di diversi gruppi nel 1978. Nel 1968 invece approdò a Roma il primo esperimento italiano di comunità del Cammino neocatecumenale, promosso qualche anno prima in Spagna da Kiko Argüello e Carmen Hernández: nel giro di qualche anno furono parecchie decine le comunità che presero piede. Nel campo della spiritualità familiare, si diffusero in quest’epoca anche in Italia le Équipes Notre-Dame, nate nel dopoguerra in Francia.

    Di qualche anno più tardiva, ma sempre collegata all’eco conciliare, fu la stagione dell’esplosione di gruppi di volontariato cattolici di tipo nuovo (che oltrepassavano il modello assistenziale “istituzionalizzato” del passato). La nascita nel 1975 della Caritas italiana rappresentava l’istanza ecclesiale di coordinare e promuovere questo fermento, oltre che di inserire stabilmente nella pastorale l’istanza dell’attenzione agli ultimi. Ma ben oltre i gruppi collegati direttamente alla struttura ecclesiale tramite la Caritas, nacquero molteplici esperienze, spesso legate al carisma di un prete fondatore (don Luigi Ciotti e il Gruppo Abele, don Oreste Benzi e la Comunità Giovanni XXIII, don Franco Monterubbianesi e la Comunità di Capodarco, don Antonio Mazzi e il gruppo Exodus). Tra queste esperienze, quelle più sensibili a una dimensione politica forte del volontariato, avviavano dal 1982 il percorso di collegamento nazionale nel Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca).

    La stagione che cominciò a essere chiamata la “primavera” dei movimenti ecclesiali spontanei pose ben presto il problema di un coordinamento con la pastorale ordinaria. A parte gli ambienti critici del cosiddetto “dissenso”, infatti, i movimenti cercavano riconoscimento, ma non sempre la loro autonomia era ben vista. Negli anni ’70 in Italia si discusse molto del nesso tra la nuova dimensione movimentistica e la struttura locale delle diocesi e delle parrocchie, fino all’approvazione nel 1981 da parte della Cei di una “Nota sui criteri di ecclesialità di gruppi, movimenti e associazioni di fedeli”. Il testo tentava di coordinare l’apertura alle novità con una distinzione di ruoli e di rapporti con la pastorale, distinguendo tale collocazione in tre livelli: le associazioni “scelte e promosse” dall’autorità ecclesiastica, le aggregazioni “riconosciute” (il che implicava la partecipazione alle “consulte” o forme di coordinamento del laicato organizzato) e le aggregazioni “libere” e spontanee.

    Il papato di Giovanni Paolo II è riconosciuto come uno dei momenti in cui la nascita di varie aggregazioni e movimenti ecclesiali ha ottenuto una visibilità centrale nella Chiesa. Il papa tutelò e promosse con grande enfasi nel 1981 un primo convegno internazionale dei “movimenti” – l’espressione divenne da allora dominante, appiattendo un poco modelli che originariamente erano stati anche pluralistici – e accelerò i processi di riconoscimento di alcuni movimenti che pendevano di fronte alla Cei e alla Santa Sede (nel caso italiano, si possono ricordare le situazioni di Cl, di Rns, dei neocatecumenali, degli stessi Focolari, mentre a livello globale significative furono scelte come la concessione della prelatura nullius all’Opus dei). La questione del governo della molteplicità di carismi e di spiritualità dei movimenti fu affidata a una forte sottolineatura del legame con la sede di Pietro e dell’obbedienza al papa. Scelta percepita e rilanciata da molti movimenti, che superarono difficoltà di inserimento nelle chiese locali con un rinnovato slancio “papalino”. In conseguenza di queste novità, la stessa Cei aggiornò nel 1993 la Nota pastorale del 1981, con riferimento al nuovo Codice di diritto canonico e all’enciclica Christifideles laici, con un tono generalmente più positivo verso i movimenti, chiamati a collaborare alla “nuova evangelizzazione”. L’unico, significativo, cenno all’esistenza di qualche problema sotterraneo fu la messa in guardia dal rischio di «ritenersi come unica interpretazione o realizzazione autentica della Chiesa».

    Fonti e Bibl. essenziale

    A. Canavero,I cattolicinella società italiana. Dalla metà dell’800 al Concilio Vaticano II, La Scuola, Brescia 1991; M. Faggioli, Breve storia dei movimenti cattolici, Carocci, Roma 2008; A. Favale (a cura di), Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali e apostoliche, Las, Roma 19914.


    LEMMARIO