Bibbia – vol. I

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    Autore: Giovanni Rizzi12

    La Bibbia, intesa come Miqrā’ôt nell’ebraismo, o come Antico e Nuovo Testamento nelle chiese cristiane fin dalle origini, è uno dei monumenti letterari più consistenti per ricostruire anche la storia della fede e dello sviluppo delle comunità dei credenti, dall’antichità ai nostri giorni. Fin dalle antiche versioni delle Miqrā’ôt nel giudaismo come da quelle cristiane il tradurre aveva comportato uno sforzo di fedeltà nelle nuove lingue rispetto a quelle originali, e un impegno nel documentare le interpretazioni dei testi sacri secondo la viva tradizione delle comunità giudaiche come delle chiese locali che li trasmettevano. Nelle antiche versioni delle Sacre Scritture, come nelle traduzioni più recenti nelle nuove lingue parlate si riflettono la fede, la preghiera, l’esegesi, l’interpretazione e il canone dei testi sacri. Anche seguendo le linee principali della storia delle traduzioni in lingua italiana della Bibbia e circoscrivendo l’indagine alle sole edizioni manuali complete o in pochi volumi, si riscontrano costantemente i fenomeni indicati, per quanto tutto ciò sia iniziato intorno al sec. XV.

    La presenza della Bibbia nella penisola italica ha una fenomenologia molto variegata, connessa inizialmente alle comunità ebraiche, poi a quelle giudeo-cristiane e quindi alle comunità cristiane effettivamente indigene, con un pluralismo linguistico e confessionale nella trasmissione della Bibbia (ebraico, aramaico, greco e latino), come anche dimostra la presenza di codici e manoscritti biblici, parziali o anche completi, dell’Antico e del Nuovo Testamento in queste lingue, documentati nelle biblioteche italiane; ma la Bibbia fu trasmessa anche da lezionari liturgici, da un’imponente tradizione testuale indiretta e per molto tempo dai capolavori dell’arte musiva di grandi cattedrali, o da più semplici affreschi di chiese locali, importante forma di accesso al testo sacro per una maggioranza della popolazione analfabeta.3

    Le comunità ebraiche sono state sempre presenti nella penisola, sicuramente dal sec. I a.C., ed ebbero un influsso sulle prime comunità giudeo-cristiane a Roma; ma il giudeo-cristianesimo non ebbe lunga vita; anche la popolazione ellenofona, più attestata nella parte meridionale della penisola, subì gli effetti della mescolanza delle popolazioni dovuta alle invasioni durante la decadenza dell’impero romano d’occidente e lungo il periodo medievale. Perciò, la presenza della Bibbia come Antico e Nuovo Testamento nell’area peninsulare, nelle forme parziali o complete di codici, manoscritti e lezionari liturgici cristiani, è attestata largamente in latino, poiché le comunità cristiane furono soprattutto di lingua latina. La situazione perdurò oltre un millennio con continue e profonde mutazioni nella lingua latina, fino al sorgere del volgare italiano, quando s’impose la necessità di tradurre il latino della Bibbia, accessibile prevalentemente ai dotti, nei nuovi dialetti vernacolari della popolazione fino a ottenere traduzioni in lingua italiana.

    La presenza e la trasmissione della Bibbia nella penisola italica dalle origini alla Vulgata geronimiana, alle soglie dell’umanesimo, al Concilio di Trento, fino all’esplosione del illuminismo e alle sfide della modernità, ormai contemporanee al costituirsi dell’unità politica dell’Italia (1861), intreccia la tradizione testuale (diretta e indiretta), le questioni legate al canone dei testi biblici e delle varie ermeneutiche anche confessionali, di cui è facile trovare eco nelle traduzioni stesse del testo biblico.

    Dalle origini alla Vulgata geronimiana. Non abbiamo né rotoli, né manoscritti, né codici delle Miqrā’ôt utilizzati dalle prime comunità giudaiche della diaspora nella penisola italiana, ma forse il cosiddetto «Salterio latino di Pietro», versione latina dei Salmi dall’ebraico conservata nel Salterio Cassinese (sec. XII), attesta ancora un influsso diretto giudeo-cristiano su qualche comunità cristiana a Roma nel I sec. d.C.

    Verosimilmente i primi tentativi di versione latina del Pentateuco avvennero in comunità giudaiche della costa africana mediterranea, seguiti dalle prime versioni cristiane dal greco dell’Antico e del Nuovo Testamento in lingua latina: la Vetus Latina (sec. II a.C.), che si suole suddividere in una tradizione africana (Afra) e italica (Itala). La rapidità, con cui si giunse a questa versione dal greco della Septuaginta (LXX) dell’Antico Testamento, senza passare per l’ebraico, e del greco del NT per le comunità cristiane della penisola italiana, documenta che le conversioni alla fede cristiana appartenevano più spesso agli strati più popolari, del tutto ignari degli originali semitici della Bibbia e ben poco familiarizzati col greco della parlata comune mediterranea. La lingua della Vetus Latina era grezza, molto più prossima a quella della gente comune, ma protesa a rendere il senso del testo tradotto e interpretato, fino a forzare il latino e a creare nuovi significati per i termini già noti nella tradizione corrente: la Bibbia stava plasmando irreversibilmente il latino e la sua cultura.4

    La nuova versione cristiana della Bibbia, soprattutto per l’Antico Testamento ricorse in molti a casi a interpretazioni tipicamente cristiane, più o meno apertamente allusive alla persona e alla vicenda di Gesù, fissando così già nella versione alcune coordinate ermeneutiche del testo biblico. La necessità di avere testi in latino a disposizione per le comunità indusse a riprodurre spesso anche vari tentativi di versione dai testi greci, con errori e varianti molteplici, fino a creare un’incontrollata proliferazione della tradizione testuale diretta della Vetus Latina, oltre che delle sue riprese nelle citazioni degli autori cristiani (tradizione testuale indiretta).

    L’interpretazione del testo biblico compare già nel più antico scritto esegetico rimasto della Chiesa cristiana, sul testo greco di Teodozione di Daniele, in quattro libri, dove Ippolito di Roma (morto nel 235) commenta anche le parti deuterocanoniche di Daniele; di Vittorino di Pettau (morto nel 304) rimane in latino solo il commento all’Apocalisse. La discussione era stata forte sul canone dei libri biblici dell’Antico e del Nuovo Testamento come si vede dal così detto Frammento del Muratori (fine del sec. II), di provenienza romana, che presentava una quadruplice distinzione: i libri considerati sacri da tutti e che si debbono leggere nella liturgia; i libri che non sono accettati da tutti come sacri e quindi in qualche chiesa non sono letti pubblicamente; i libri che si possono leggere privatamente, ma che non è lecito leggere nella liturgia; i libri che la Chiesa non può ricevere perché scritti da eretici, contenenti errori. Le controversie dottrinali, interpretative anche della Bibbia, lasciavano una loro traccia nell’arte, come nella basilica di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, eretta dal re goto Teodorico (505) di confessione ariana: nonostante le trasformazioni dovute alla conquista bizantina (540) e i rifacimenti di impronta cattolica, anche Sant’Apollinare Nuovo porta ancora le antiche “Storie di Cristo”, con i santi e i profeti negli ordini più alti della fascia sopra gli archi.5

    Dalla Vulgata alle soglie dell’umanesimo. Vi furono eccellenti lavori di commento alla Bibbia, come quello su 13 lettere paoline (manca Ebrei) dell’Ambrosiaster (Pseudo-Ambrosius), comparso a Roma sotto papa Damaso (366/384); l’impegno omiletico-esegetico di Ambrogio (334-397), vescovo di Milano, ebbe vastissima eco e attinse anche alla tradizione esegetica greca, pur avvalendosi del testo latino corrente. Un contributo importante fu dato da Rufino (nato ad Aquileia intorno al 345), con la traduzione dell’opera esegetico-ermeneutica principale di Origene: De principiis (dopo il 397).

    La situazione testuale della Vetus Latina era diventata caotica, come notava Agostino d’Ippona (354-430), che cercò di controllare attentamente i testimoni testuali per la lettura del testo latino, lasciando anche una cospicua serie di commentari ai libri biblici, fino a creare una sorta di «grammatica cristiana» per l’interpretazione della Bibbia. Il poderoso sforzo di sintesi di Cassiano (360-432/433) radicato anche nella sapienza monastica orientale, tra lettura del testo biblico, riferimento al mistero di Cristo e compartecipazione della vita del credente all’ermeneutica biblica (cfr. Conlatio 14), ebbe un influsso enorme sul monachesimo di lingua latina, come attesta anche la Regola di Benedetto da Norcia (480-547).

    L’impegno di Girolamo (347-419/420), di Stridone, che aveva potuto acquisire una buona conoscenza del greco e discreta per l’ebraico, si svolse su due fronti: la revisione della Vetus Latina (Nuovo Testamento, Salmi e Antico Testamento, consultando anche l’Esapla origeniana nella copia di Cesarea in Palestina) e la versione del testo ebraico dell’Antico Testamento (presso Betlemme tra il 390-405), che poi fu chiamata correntemente Vulgata. Girolamo con Origene condivideva la convinzione che la Septuaginta e la Vetus Latina fossero la traduzione dello stesso testo ebraico che poteva leggere dall’Esapla origeniana; era all’oscuro del fatto che, tra il sec. III a.C. e il sec. I d.C., il testo ebraico delle Miqrā’ôt, anche dopo la traduzione della Septuaginta, aveva subito interventi, ritocchi, aggiunte sotto il controllo degli ambienti sacerdotali presso il tempio di Gerusalemme, così che molte differenze tra la traduzione della Septuaginta e il testo ebraico dell’Esapla origeniana, o il testo ebraico della sinagoga di Betlemme da lui lungamente studiato e consultato, non erano semplicemente errori dei copisti greci, ma potevano dipendere anche differenze originarie nel testo ebraico presupposto dalla Septuaginta. Un malinteso, che si sarebbe chiarito soltanto 1500 anni più tardi, soprattutto a partire dalle scoperte dei rotoli del Mar Morto. Girolamo lavorò alla monumentale versione della Vulgata per rendere in un latino non più classico il senso del testo ebraico; ricorse alle antiche versioni giudaiche di lingua greca a lui note, o anche alla parafrasi aramaica targumica, senza rifuggire dal riprodurre il calco della Vetus Latina, quando non ritenne necessaria una nuova traduzione dall’ebraico. Tra i suoi scopi, v’era anche quello di fornire alle chiese di lingua latina un testo biblico dell’Antico Testamento sicuro, fedele all’originale e affidabile nelle dispute tra cristiani e giudei. Nell’ambito di quindici anni di lavoro intensissimo, il traduttore arrivò anche all’idea che la Septuaginta non avrebbe dovuto più occupare quel ruolo centrale, di cui fino ad allora aveva goduto. Solo di Tobia e di Giuditta Girolamo diede una sua versione latina, accogliendo invece la Vetus Latina dei libri e dei frammenti deuterocanonici dell’Antico Testamento. Il drastico ridimensionamento geronimiano della Septuaginta, a favore del testo ebraico e dei libri che lo compongono, fu piuttosto anomalo, così che esaltando la veritas hebraica, prese una posizione marginale rispetto alla comune tradizione delle chiese antiche. Ma era impossibile a Girolamo rinunciare alla propria fede cristiana, così che in numerosi punti intese il testo ebraico nel comune senso cristiano corrente, soprattutto in relazione all’indole messianica di passi dell’Antico Testamento, intesi come riferiti a Gesù di Nazaret. La stessa chiesa latina di Roma non volle sostituire subito la versione corrente della Vetus Latina dei Salmi, con quella nuova geronimiana, per non stravolgere la tradizione della preghiera liturgica e personale. Girolamo ha lasciato testimonianze significative del suo impegno esegetico sul testo biblico nei prologhi ai singoli libri biblici della Vulgata e in brevi commentari ai singoli libri biblici, dove nella sostanza dei contenuti si allinea alla tradizione cristiana classica.6

    La tradizione del commento e dell’interpretazione dei testi biblici si evidenziò anche nel magistero pontificio (cfr. Leone Magno, 440/461; Gregorio Magno, 540-604), fondamentale per una tradizione orale. Ma l’esigenza di sintesi della tradizione esegetica ed ermeneutica cristiana della Bibbia trovò soprattutto nelle Catene, con il testo biblico al centro della pagina e i padri che lo commentano disposti intorno, un genere attestato da centinaia di manoscritti e ancora nell’Italia del sec. XVI. Ancora più importante fu il genere della Glossa: raccolta di spiegazioni prevalentemente patristiche, ma anche di autori contemporanei, impaginata per lo più come una Catena; la Glossa, che per la diffusione fu detta anche ordinaria, divenne il principale strumento della tradizione e dell’interpretazione della Bibbia nell’occidente latino, nei teologi scolastici, in Tommaso d’Aquino; in Italia divenne epocale quella di Nicola da Lira, stampata a Venezia nel 1485.

    Il margine tra libri canonici e non canonici rimase fluttuante. Il catalogo più ampio dell’antichità cristiana circa gli scritti «apocrifi» è il così detto Decreto gelasiano: una raccolta di decreti autentici della chiesa romana (412-523), scritta nella Gallia meridionale come opera di un privato e attribuita, non senza riserve, a papa Gelasio (morto nel 496); contiene un elenco dei libri della Bibbia ed un elenco di scritti apocrifi, opere riguardanti personaggi dell’Antico Testamento e opere teologiche più o meno eterodosse ripudiate dalla Chiesa romana; un secolo più tardi, nella Lista dei sessanta libri canonici mancava ancora l’Apocalisse canonica.

    L’esegesi biblica medievale mosse i suoi passi dalla distinzione dei quattro sensi della Bibbia, condensata da Giovanni Cassiano: senso storico o letterale; allegorico o cristologico; tropologico, o morale, o anche antropologico; anagogico. Ne nacque il celebre distico: «Littera docet; qudi credas allegoria; / moralis quid agas; quo tendas anagogia». L’esperienza monastica traeva linfa dai sensi della Bibbia così schematizzati, privilegiando ordinariamente quello allegorico, i contenuti morali e anagogici. Il ministero pastorale della predicazione attingeva largamente al senso morale dei testi biblici, ricorrendo a quello allegorico soprattutto là dove il senso letterale sarebbe stato inaccettabile per la vita cristiana.

    Le scuole, attente a ricavare materiale biblico atto a confermare le dottrine teologiche e morali, non privilegiavano ordinariamente il senso letterale della Bibbia, soprattutto nel caso dell’Antico Testamento. In Italia la tradizione teologica medievale non poté avvalersi delle conoscenze dell’ebraico e dell’esegesi rabbinica del canonico regolare inglese Andrea, abate di S. Vittore presso Parigi (morto a Wigmore, 1175), il cui commento all’Antico Testamento ebbe larga risonanza. Ebbe grande successo anche in Italia, fino a entrare nelle biblioteche papali, il Pugio fidei (1278), del domenicano catalano Raimondo Martini: una «Summa contra Iudaeos», parallela a quella del suo confratello Tommaso d’Aquino (1225-1274), Summa contra Gentiles, nella quale compaiono passi identici all’opera del Martini. Tommaso d’Aquino, dopo aver chiarito che la metafora faceva parte del senso letterale della Bibbia, formulava il principio più vasto circa l’ermeneutica biblica: «niente di necessario alla fede è contenuto nel senso spirituale, che la Sacra Scrittura non esprima chiaramente in senso letterale in qualche altro testo (La Somma teologica 1.1,10 ad 1; traduzione a cura dei domenicani italiani, vol. I, Firenze 1952). L’eredità di Tommaso d’Aquino esercitò un influsso immenso in tutta la storia del cristianesimo e non solo in Italia, anche nell’ambito degli studi biblici (cfr. il commento al Vangelo di Giovanni, al Padre nostro, al Corpus Paulinum, a Giobbe; la Catena aurea, una Glossa continua sui Vangeli), fino in epoca ancora recente. Più complesso rimane il bilancio della successiva tradizione degli «scolastici», dove l’utilizzazione della Bibbia per la ricerca ormai esclusiva di punti di appoggio dottrinali rimase in auge nell’insegnamento della teologia cattolica in Italia ancora nel sec. XX, ma segnò anche la fine della sua credibilità scientifica col progresso delle scienze bibliche e orientalistiche.

    Per la gente comune, spesso ancora analfabeta, la conoscenza della Bibbia avveniva anche attraverso le «rappresentazioni sacre» di episodi o cicli biblici e nell’arte musiva delle chiese. Nel Duomo di Monreale, costruito nel 1174 per ordine di Guglielmo d’Altavilla, le pareti delle absidi e delle navate in alto sono rivestite da mosaici, fondo oro, eseguiti tra il sec. XII e la metà del sec. XIII, da artigiani locali e veneziani di scuola bizantina: il catino absidale presenta la maestosa figura del Cristo Pantocratore, mentre lungo le pareti absidali e delle navate si susseguono le storie cicliche dell’Antico e del Nuovo Testamento.

    Da forme popolari di approccio e di trasmissione della Bibbia, le «rappresentazioni sacre» poi evolvettero in un genere teatrale vero e proprio. La forma più semplice era una narrazione più articolata rispetto alla lettura o declamazione di un testo biblico: ne emergeva l’intento didascalico e il desiderio d’immedesimazione. La prima «rappresentazione sacra» con la presenza di varie persone, fu il «presepe vivente», riguardante la nascita di Gesù, che Francesco d’Assisi realizzò a Greccio nel 1223, ispirandosi certamente al racconto di Lc 2,1-20, ma anche all’esegesi popolare della Septuaginta di Ab 2,2, dove il manifestarsi divino tra «due esseri viventi» (cfr. i cherubini dell’arca di Es 37,7-9) fu inteso come tra «due animali», come il bue e l’asino delle tradizioni apocrife (cfr. Pseudo-Matteo). La tradizione del presepio è rimasta viva ancor oggi in Italia e vi sono molti esempi di presepi viventi in tutto il mondo.

    Anche la «Lauda drammatica», composta da «stanze», affidate a un «solista» o a un gruppo, da intendersi come un «coro», divenne strumento di diffusione per l’approccio popolare alla Bibbia sul genere della «rappresentazione sacra»: Jacopone da Todi (1230-1306) ne iniziò la forma dialogica e la più celebre composizione fu «Donna del paradiso», o «Il pianto di Maria», dove oltre alla madre di Gesù, compaiono altri personaggi: Gesù, il popolo, il nunzio fedele (Giovanni apostolo); ispirandosi alla «Passione di Gesù», in una forma cantata liturgica è stata presente in Italia fino alla tradizionale «Via crucis», celebrata nei venerdì di Quaresima del sec. XX. La «Lauda drammatica» esprimeva il desiderio anche popolare di un rinnovamento, come ristrutturazione dell’istituzione ecclesiastica basata sulla spiritualità e la povertà, attraverso la pietà religiosa popolare, che si voleva sentire vicina a Cristo nella partecipazione attiva e passiva delle rappresentazioni di momenti fondamentali della sua vita. Le «Laudi» furono rappresentate da «fraternite» e poi «confraternite», formate da chierici e anche da laici. Lo spazio architettonico della chiesa non fu più sufficiente per la «rappresentazione sacra» e nel 1300 comparvero «palcoscenici» sui sagrati delle chiese; la musica, prima in forme monodiche accompagnate da strumenti musicali e più tardi la polifonia fu sempre più protagonista. Come genere teatrale, di argomento religioso e in particolare biblico, la «rappresentazione sacra» si sviluppò in Italia a partire dal sec. XV in Toscana.

    Dall’umanesimo al Concilio di Trento. Alle difficoltà degli inizi subentrò una completa affermazione della Vulgata: dal sec. V fino all’epoca di Carlo Magno; l’impulso carolingio si fece sentire fino al sec. XIII, quando si cercò di arginare la tendenza straripante a glossare il testo latino. Dopo le prime edizioni a stampa in Italia nel 1450-1456, la Vulgata fu stampata circa un centinaio di volte, ma per lo più senza alcun apparato critico. Il Concilio di Trento (1545-153) chiarì le ultime questioni relative al canone dei libri ispirati (IV sessione, 1546; cfr. Concilio di Firenze, 1438-1445): 47 libri dell’Antico Testamento, compresi i deuterocanonici e 27 libri del Nuovo Testamento; dichiarò la Vulgata punto di riferimento per la definizione del canone biblico, da considerare come «autentica», autorevole per letture, dispute, predicazione, esposizione, per i momenti ufficiali come la liturgia e l’insegnamento. Alcuni volevano la proibizione delle traduzioni della Bibbia nelle lingue vive, altri le incoraggiavano, o si cercava qualche compromesso; nella prassi disciplinare successiva veniva favorita la Vulgata latina e per leggere la Bibbia nelle lingue vive, al di fuori dai testi ebraici, greci e latini, doveva esserci il permesso scritto dal «santo Uffizio dell’Inquisizione romana», non potendosi abitualmente usare le Bibbie in lingue vive, poste invece accanto ai libri proibiti. I teologi e i biblisti tridentini erano ben consapevoli della mancanza di un’edizione critica della Vulgata; il lavoro della commissione appositamente istituita da Sisto V nel 1586 subì ritocchi sostanziali non pertinenti all’edizione critica, ma voluti dallo stesso Pontefice; ne risultò l’edizione della Bibbia Sistina (1590); sotto il pontificato di Clemente VIII l’edizione Sistina fu migliorata e ricomparve come Biblia sacra vulgatae editionis Sixti V iussu recongita et Clementis VIII autoritate edita in una ristampa del 1604 a Lione. La Sisto-clementina della Vulgata rimase per lungo tempo l’unica «ufficiale», «autentica» e «autorevole» della chiesa cattolica, mentre le successive edizioni furono soltanto delle ristampe di questo testo, emendato dagli errori tipografici.

    Nel frattempo, la nuova civiltà europea, emergente dalla fioritura dell’umanesimo e del rinascimento, aveva portato con sé il desiderio di riscoprire a occidente i testi originali della Bibbia, dopo aver vissuto quasi esclusivamente delle sue traduzioni in prevalenza latine. Accanto allo studio dell’ebraico, del greco e poi delle lingue delle antiche versioni «orientali», fu fondamentale l’esigenza di poter leggere la Bibbia nelle lingue effettivamente parlate dalle varie popolazioni, rimanendo ormai il latino la lingua dei dotti. Il sorgere delle traduzioni della Bibbia nelle nuove lingue correnti, antenate di quelle attuali come tedesco, francese, inglese, spagnolo, portoghese, italiano e così via, divenne irreversibile.

    Nel mondo italiano non mancarono traduzioni complete della Bibbia nella lingua e anche nei dialetti locali, prima e dopo il Concilio di Trento (1545-1563); prima dell’epoca segnata dalla stampa sono rimasti manoscritti di traduzioni, caratterizzate da dialetti locali frammisti a quello che si sarebbe imposto più tardi come italiano: parti del testo biblico per la liturgia, oppure un libro, o un gruppo di libri, come i Vangeli, ma l’intera Bibbia era assai rara. A seguito del Concilio di Trento, l’Indice dei libri proibiti risultò fatale alla lettura delle traduzioni prodotte nelle chiese riformate oltre che in quella cattolica. Le restrizioni post-tridentine volevano scoraggiare un uso individuale che comportasse una lettura senza riferimento ecclesiale e quindi legata alle forme del libero esame; divenne obbligatoria la pubblicazione del testo biblico corredato di opportune introduzioni e note; obbligatorio nell’uso liturgico, l’uso della Vulgata, a fronte dell’assenza di una traduzione ufficiale in lingua italiana, fece della Vulgata la versione ufficiale e più importante in ambito cattolico; le traduzioni italiane dell’area cattolica vi si ispirarono per lungo tempo. Nell’interpretazione anche spirituale della Bibbia si poteva fare ricorso tradizioni, ora definitivamente apocrife, ma allora circondate da un alone di credibilità storica, come per esempio gli Atti di Simone e Giuda; anche le edizioni della Vulgata continuarono a riportare in fondo alcuni testi apocrifi, ritenuti edificanti (cfr. Preghiera di Manasse, 3-4 Esdra).7

    Con l’invenzione della stampa cattolici e riformati in Italia produssero varie traduzioni: il monaco camaldolese N. Malermi (Malherbi) traduceva la prima intera Bibbia dalla Vulgata latina (Wandelin, Venezia 1471), utilizzando, revisionando e confrontando manoscritti precedenti, con molte ristampe successive: A. Guerra la riproponeva ancora nel 1773 (Venezia), riveduta sulla Vulgata latina e sulla versione di G. Diodati.

    Nel 1471 si diffondeva anche la traduzione anonima a cura dello stampatore N. Jenson. A. Brucioli, utilizzando per l’Antico Testamento la versione latina dall’ebraico del domenicano S. Pagnini (1527) e per il Nuovo Testamento quella dal greco di Erasmo da Rotterdam (1516), pubblicava la sua «nuova traduzione» di tutta la Bibbia (L. Giunta, Venezia 1530-1532), ma lo scontro con l’Inquisizione ecclesiastica ne decretò la condanna. Ancora due domenicani curarono due edizioni della Bibbia in italiano presso l’editore L. Giunta a Venezia: Zaccaria da Firenze (1536) e S. Marmochino (1538); per gli italiani riformati a Ginevra fu attivo F. Rustici (F. Duron); il benedettino M. Teofilo curava un’edizione del Nuovo Testamento a Lione (1551); il valdese G.L. Paschale pubblicava un’edizione bilingue in italiano-francese (Ginevra, 1552). Sempre a Ginevra (1607), dove si era rifugiato, G. Diodati pubblicava la sua valida traduzione della Bibbia completa dai testi originali, indipendente da quella di Lutero (1522-1534), e influendo anche profondamente per i secoli successivi su tutto il mondo italiano; una commissione, guidata da G. Luzzi, la revisionava nel 1924, eliminando i deuterocanonici dell’Antico Testamento, presenti ancora fino al 1822-1823; i valdesi in Svizzera la usarono fino al 1848; fu revisionata in Germania nel sec. XVIII, a Londra nel 1819 da G.B. Rolandi e ancora da scozzesi e italiani nel sec. XIX; nel 1894 da A. Meille e Giovanni Luzzi; l’ultima revisione è del 2001.

    Una notazione scribale a metà di un manoscritto della Torah, in ebraico non vocalizzato, catalogato molto più tardi presso la biblioteca dell’Università di Bologna come Rotolo 2, segnalava che il rotolo era stato regalato dagli Ebrei ad Aimerico Giliani da Piacenza, Maestro Generale dei Domenicani dal 1304 al 1311; il rotolo, fissato agli estremi esterni a due perni sui quali poteva essere avvolto e svolto, è lungo 36 metri e largo 64 centimetri, è scritto con inchiostro a carbone, contiene tutto il Pentateuco ed è databile tra la seconda metà del XII secolo e l’inizio del XIII secolo circa. La sua attribuzione a Esdra è certamente discutibile, ma si tratta di uno dei più antichi codici ebraici integri del Pentateuco ebraico non vocalizzato. Il rotolo della Torah divenne un’attrazione per viaggiatori e studiosi stranieri a Bologna e il paleografo francese Bernard de Montfaucon ne diede una dettagliatissima descrizione, riportandone nel suo Diarium italicum l’iscrizione bilingue (latina ed ebraica) che attribuiva ad Esdra la scrittura del testo. Le rapine napoleoniche lo fecero arrivare a Parigi, dove però scomparve l’attestazione della donazione da parte degli ebrei. Per il resto il rotolo tornò integro dalla Francia nel 1815 per essere conservato presso la Biblioteca Pontificia di Bologna, oggi divenuta Biblioteca Universitaria. La sparizione dell’attestazione sulla donazione ebraica ai Domenicani, ingenerò l’equivoco che aveva portato a identificare il rotolo in questione con un altro rotolo mutilo della stessa università, fino a che la catalogazione del Rotolo 2, fatta da Leonello Modona nel 1889 lo aveva classificato come un manoscritto molto più tardivo del Pentateuco. I più recenti studi sulla “Torah di Bologna”, avviati dallo studioso italiano M. Perani, hanno permesso di ristabilire identità e antichità del manoscritto biblico, che ritenuto comunque prezioso per le comunità ebraiche italiane, potrebbe comunque essere arrivato in Italia con gli esodi delle comunità ebraiche sefardite o askenazite espulse da altre aree europee.

    Tra il sec. XV-XVI iniziava in Italia l’impresa delle Bibbie Rabbiniche (Miqrā’ôt Gedôlôt = Le Grandi Scritture), un genere di edizione della Bibbia, che condivideva e riformulava anche genialmente l’intuizione delle Catene e della Glossa cristiane: la Bibbia interpretata con la Tradizione. A Bologna (1462) Joseph ben Abraham, coadiuvato da Abraham ben Tintori editava il Pentateuco: al centro della pagina il testo ebraico, affiancato dal targum Onkelos e tutt’intorno il commento di Rashi. Seguirono ben 6 edizioni complete della Bibbia Rabbinica, anche con trasformazioni. La prima in 4 voll. (D. Bomberg, Venezia 1516-1517) era curata da F. Prato, che dopo la morte del padre, aveva chiesto il battesimo e intorno al 1506 era diventato religioso agostiniano; per la prima volta in una Bibbia ebraica i libri di Samuele e dei Re furono divisi ciascuno in due libri distinti, seguendo il modello della Vulgata latina; oltre ai commentari comprendeva anche i «tredici articoli» delle fede del giudaismo, raccolti e schematizzati da Maimonide, e il trattato sugli accenti attribuito a Ben Asher. Nella seconda Bibbia Rabbinica (D. Bomberg, Venezia 1524-1525, 4 voll.), curata da Jacob ben Hayim, che in tarda età passò alla fede cristiana, il testo ebraico, basato su manoscritti spagnoli (sefarditi) e con la masorah marginale, diventava il testo masoretico standard per 400 anni e oltre ai targumim portava i commentari di Rashi, di Ibn Ezra, di Davide e Mosè Kimchi e di Levi ben Gerson; in un’ulteriore edizione veneziana (1525-1528) il testo ebraico diventava una combinazione tra quello di F. Prato e quello di Jacob ben Hayim. Fu poi C. Adelkind a modificare l’edizione bombergiana (Venezia, 1546-1548, 4 voll.), che, sotto la direzione di Giovanni di Gara, fu rivista venti anni dopo con numerosi cambiamenti da Isaac ben Ioseph Salam e da Isaac ben Gerson Treves (D. Bomberg, Venezia 1568). Quasi mezzo secolo più tardi, sotto la direzione di Leone di Modena e di Abraham Shaber-Tob ben Solomon Hayim Sopher, usciva quasi una riproduzione della precedente (Pietro e Lorenzo Bragadin, Venezia 1619), con l’«imprimatur» del censore Renato di Modena (1626).8

    Caratteristico fu anche il genere della retroversione dei Vangeli dalla Vulgata in ebraico, come quella di G.B. Iona (Roma 1668), un ebreo divenuto cristiano (1625) e docente di ebraico nell’Accademia Romana della Sapienza, desideroso di riconfigurare un patrimonio spirituale originario, distorto dalla polemica anti-giudaica; l’opera aveva due finalità: spiegare comprensibilmente alle comunità ebraiche italiane l’esperienza dell’autore; far conoscere con una selezionata antologia di esempi e di argomentazioni il tesoro della tradizione giudaica al mondo cristiano, come si evidenziava anche dalla dedica dell’opera a papa Clemente IX. Il genere delle retroversioni del Nuovo Testamento nell’ebraico classico si sviluppò successivamente abbandonando la Vulgata e partendo dal testo greco, per arrivare alle edizioni del sec. XIX-XX e agli studi, che hanno cercato di ricostruire anche il sottofondo aramaico dei Vangeli. Con finalità talora dichiaratamente proselitistica nel sec. XX si sarebbe rivelato qualche tentativo di retroversione del Nuovo Testamento, o di alcune sue parti, in ebraico moderno e anche in yiddish; ma nessuno di questi tentativi sembra provenire dall’area italiana.

    Mentre le chiese riformate nella restante Europa compivano una larga esperienza del nuovo corso delle traduzioni della Bibbia dai testi nelle lingue originali in lingue moderne, la chiesa cattolica italiana restava essenzialmente ancorata alla Vulgata Sisto-Clementina. Vi furono alcuni tentativi di traduzioni in latino di qualche libro della Bibbia anche dell’Antico Testamento dall’ebraico, come il Salterio, a cura di G.G. Giuseppe Mingarelli, dei canonici regolari del SS. Salvatore (Bologna 1748), ma rimase tra le migliori eccezioni.

    La versificazione poetica italiana di G.C. Gazola (Verona 1816) di un’edizione dei Salmi, tradotti dall’ebraico in italiano da G. Venturi, a parte lo sforzo di accostarsi al testo biblico ebraico, non meriterebbe particolare attenzione. Molto più significativa ne fu invece l’acutissima recensione critica del sedicenne G. Leopardi, che dimostrava una discreta conoscenza dell’ebraico, anche di fronte alle difficoltà dei testi poetici col solo testo consonantico, seguito puntualmente facendo riferimenti precisi anche al testo vocalico a lui noto; sembra emergere solo qualche caso di puntuazione masoretica diversa da quella ordinaria; ne emergono i criteri per una traduzione italiana del Salterio ebraico: nell’indole propria della poesia religiosa dei Salmi, per Leopardi era necessario che il traduttore avvertisse la forza dell’originale ebraico, ne conservasse la semplicità, la forza, la rapidità, il calore della fantasia orientale e profetica nella traduzione, che avrebbe dovuto colpire il lettore come nell’originale, anche quando un’interpretazione in prosa ne presentasse almeno la fedeltà della Vulgata. Leopardi ammetteva comunque l’insufficienza della Vulgata per una conoscenza dei Salmi, pur riconoscendole il pregio di saper anche «commuovere» un traduttore serio del testo ebraico. Ma una traduzione del Salterio avrebbe dovuto evitare il ricorso a glosse, parafrasi e anche a perifrasi non indispensabili, preferendo invece nettamente una resa il più possibile letterale del testo; sarebbe stato inutile qualsiasi tentativo di «versificazione», ancor peggio con la rima come quella di G.C. Gazola; neppure il seguire la scansione sticometrica del testo ebraico e la riproduzione degli acrostici sarebbero stati sufficienti a garantire la rigorosità di una traduzione italiana. La traduzione in versi sciolti sarebbe stata la migliore delle soluzioni possibili, rispettando la sticometria della poesia ebraica e rimandando in nota indicazioni metriche e acrostiche. Per quanto non manchino numerosi riferimenti, riprese e interpretazioni di testi e temi biblici negli scritti di G. Leopardi, si può solo immaginare quale tappa miliare sarebbe stata per la lingua religiosa italiana una sua traduzione completa dei Salmi dall’ebraico, se il sedicenne Leopardi avesse voluto o potuto continuare e approfondire i suoi studi in materia, fino a cimentarsi in una compiuta traduzione del libro biblico dall’originale ebraico.9

    Nel 1757 Benedetto XIV auspicava una traduzione della Bibbia in italiano; l’abate A. Martini, poi divenuto vescovo di Firenze, dalla Vulgata latina prima tradusse il Nuovo Testamento (1769-1771) e quindi l’Antico Testamento (1776-1791), accompagnando l’opera con note desunte da autori cattolici e specialmente dai padri della chiesa, secondo la prassi disciplinare post-tridentina. Ebbe 8 edizioni nella seconda metà del sec. XVIII e 40 in quello successivo (ultima riedizione 1967-1972 in 3 voll.). Per quanto monumento tardivo della lingua italiana, fu dichiarato «testo di lingua» dall’Accademia della Crusca (1885) ed è stato tenuto presente anche nella prima edizione della Bibbia tradotta dalle lingue originali in italiano curata dalla CEI (1971). Ha avuto un’importanza incalcolabile nella tradizione della chiesa cattolica italiana sia per la divulgazione come per la formazione del clero e dei religiosi. Può essere vista come una traduzione interlineare italiana della Vulgata, ma faceva anche attenzione al testo greco dell’Antico e del Nuovo Testamento e all’ebraico. L’esegesi e l’interpretazione dei testi era fortemente ancorata alla tradizione patristica e agli autori più conformi alla teologia magisteriale; nell’introduzione generale si avverte il senso di accerchiamento vissuto nell’ambito cattolico italiano a fronte anche delle migliori nuove istanze dell’esegesi biblica e delle scienze orientalistiche europee.10

    Col secolo XIX il nuovo corso delle scienze bibliche e orientalistiche e della traduzione della Bibbia dalle lingue originali in quelle moderne prendeva slancio anche nel mondo cattolico italiano: G.B. De Rossi a partire dal 1808 (Parma) curò la traduzione di Salmi, Ecclesiaste, Giobbe, Lamentazioni e Proverbi; G. Ugdulena a Palermo tradusse il Pentateuco (1859-1861, 2 voll.), Giosuè e i Libri dei Re; a Torino C.M. Curci tradusse e commentò il Nuovo Testamento (1879.1883); a Milano N. Tommaseo tradusse i Vangeli dal greco (1869); a Firenze G. Vegni tradusse dall’ebraico l’Ecclesiaste (1871). Il seminario di Padova, ad esempio, brillava per la sua opera formativa accompagnata da pubblicazioni-manuali dalle lingue bibliche originali. Gli esponenti italiani delle chiese riformate erano attivi soprattutto fuori Italia e facevano ricorso alla versione di Giovanni Diodati. Nelle comunità ebraiche italiane emergeva la traduzione delle Miqrā’ôt dall’ebraico in italiano, iniziata da S.D. Luzzatto e terminata dai suoi discepoli (Padova-Rovigo 1853-1875).

    Se i primi passi della critica moderna della Bibbia furono compiuti dal sacerdote oratoriano R. Simon (1638-1712), passato dalle chiese riformate al cattolicesimo, il mondo cattolico italiano non riuscì a entrare nel dibattito internazionale successivo; già col sec. XVI-XVII si stava sviluppando la critica testuale, la filologia ebraica e nel sec. XVIII nasceva in Germania il metodo storico-grammaticale, con implicazioni interpretative nuove del testo biblico. Il sec. XIX vide l’affermarsi del metodo storico-critico grazie a studiosi dell’area tedesca, che proposero svariate teorie sull’evoluzione storica della letteratura biblica, guardando anche al modello hegeliano. La documentazione letteraria, emergente dalle nuove scoperte archeologiche, parlava di uno sviluppo delle antiche religioni di quell’area culturale, nella quale era nata e si era formata la Bibbia. La valutazione dei dati a confronto apriva la strada a interpretazioni molto diverse di parti consistenti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Si avvertiva una commistione confusa tra ermeneutica filosofico-razionalista e i possibili significati dei dati letterari e culturali studiati; tra gli studiosi delle chiese riformate prevalse l’ipotesi-quadro che la critica moderna dovesse essere esperita fino in fondo, senza preoccuparsi di eventuali implicazioni dogmatiche e morali e delle convinzioni più tradizionali o popolari sulla Bibbia. La poderosa spinta culturale in atto provocò reazioni anche nelle chiese riformate, ma non subì arresti. Nell’area della chiesa cattolica, e in particolare nel mondo italiano, che raggiungeva intorno alla metà del sec. XIX una sua unità anche politico-nazionale, il nuovo corso delle scienze bibliche, archeologiche e orientalistiche suscitò interesse e studiosi di assoluto valore, come l’esegeta ed egittologo L. Ungarelli (1779-1845), il filologo, orientalista, egittologo e storico A. Peyron (1785-1870), il critico testuale C. Vercellone (1814-1869), l’orientalista I. Guidi (1844-1935), l’archeologo G.B. De Rossi (1822-1894), ma non poteva ancora raggiungere la gente comune; l’influsso inizialmente più avvertito nel mondo culturale italiano per il rinnovamento degli studi biblici fu quello esercitato da A. Loisy (1857-1940). Gli ambienti dell’ex-Stato Pontificio lo chiamarono «modernismo», in senso negativo.11

    Sotto il profilo pastorale incontrava ben più fortuna tra la popolazione cattolica italiana il genere letterario della «Storia sacra». Il sacerdote C.I. Fransioli nel 1868 (ultime aggiunte nel 1881) traduceva in italiano un’opera di un confratello anonimo della diocesi di Basilea: La Storia Biblica Illustrata ossia la Storia Sacra del Vecchio e Nuovo Testamento con illustrazioni; era destinata all’uso scolastico (tra il 1880 e il 1914) ed ebbe larga diffusione anche tra gli adulti, con notori consensi. Il genere letterario dell’opera è misto: segue il canone dei testi biblici dell’Antico-Nuovo Testamento selezionandone gli episodi ritenuti significativi, come in un’ampia antologia; le citazioni provengono dalla Vulgata, ma il testo è spesso riformulato e parafrasato con abbreviazioni e aggiunte dell’autore; il percorso storico si conclude con gli Atti degli apostoli. La parte successiva dell’opera ricalca il genere del “catechismo tridentino”: dopo un florilegio di «profezie» dell’Antico Testamento e una silloge di «sentenze morali», desunti da uno studio di Mons. A. Martini, è esposta una «Concordanza della dottrina cristiana con i racconti biblici», che riguarda i fondamenti biblici del «Credo», dei «Comandamenti» e dei «Sacramenti». Prima e dopo la sua pubblicazione, il testo ottenne 60 approvazioni ecclesiastiche e quella pontificia (8/3/1880); in italiano fu ristampato in più di 80 edizioni fino agli anni 1940, ma, eccettuata l’edizione del 1881, le altre non sembrano recare data. L’opera consentì un approccio popolare facilitato alla Bibbia, tradizionale-catechistico, ma aprendo la strada alla divulgazione di altre forme di «Storia sacra». G. Bosco, fondatore dei Salesiani, visse il periodo critico degli studi biblici come sacerdote impegnato soprattutto con i ceti popolari del mondo giovanile, al quale era destinata la sua «Storia Sacra», che nell’edizione del 1929 (Torino), aveva raggiunto il «250° migliaio»; il testo espone soprattutto con parole proprie quello che ritiene il tracciato narrativo della Bibbia, inserendo anche vere e proprie citazioni in corsivo; qualche elemento più tecnico e catechetico compare nel dizionario e nelle tavole finali. Il genere della «Storia Sacra», antologia biblica parafrasata, corredata e illustrazioni con didascalie, rimase in uso ancora fino agli inizi del Vaticano II.

    Fonti e Bibl. essenziale

    Edizioni: N. Malermi, Biblia. vulgare novamente stampata, et coreta: con le sue figure alli luochi congrui situade…: aggionti etiam i suoi ordinatissimi repertorii…ne mai per i tempi passati con tale ordine per altri fatta, Venetiis, per Bernardino Bindoni milanese [colophon], 1541; Biblia sacra vulgatae editionis Sixiti V iussu recognita et Clementis VIII auctoritate edita, Lione 1604; Bibliorum sacrorum latinae versiones antiquae seu Vetus Itala, a cura di P. Sabatier, Parigi: Franciscum Didot 1751; La Sacra Bibbia secondo la volgata. Tradotta in lingua italiana e con annotazioni dichiarata da Monsignore Antonio Martini, Firenze: David Passigli e Socj, 1833-1836; La Storia Biblica Illustrata ossia la Storia Sacra del Vecchio e Nuovo Testamento / scritta da un Sacerdote della Diocesi di Basilea; e tradotta ad uso delle scuole italiane dal M.R. Parroco di Faido D. Carlo Ignazio Fransioli- 3. ed. – Einsiedeln: F.lli. Benzinger; Torino: Tipografia e Libreria S. Giuseppe, 18-279; ill. (Biblioteca racconti e novelle) [1868]; Vetus Latina. Die Reste der altlateinischen Bibel nach Petrus Sabatier, a cura dell’Abbazia di Beuron, Herder, Freiburg 1949; La Sacra Bibbia, Tradotta in lingua italiana e commentata da G. Diodati, a cura di M. Ranchetti – M. Ventura Avanzinelli, Mondadori, Milano 1999. Cataloghi: E.M. North, The Book of Thousand Tongues, Being Some Account of the Translation and Publication of All Part of the Holy Scriptures into morre than a Thousand languages and Dialects with over 1100 Exemples from the Text, American Bible Society, New York and London 1938; Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, Bibbia, Catalogo di edizioni a stampa (1591-1957), Roma 1983. Studi: R.E. Brown – C. Buzzetti – D.W. Johnson – K.G. O’Connell, Testi e versioni, in Nuovo Grande Commentario Biblico, a cura di R.E. Brown – J.A. Fitzmyer – R.E. Murphy, edizione italiana a cura di F. Dalla Vecchia – G. Segalla – M. Vironda, Queriniana, Brescia 1997, 1418-1463; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Saggi, Il Mulino 1997; G. Rizzi, Edizioni della Bibbia nel contesto di Propaganda Fide. Uno studio sulle edizioni della Bibbia presso la Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana, voll. I-III, Urbaniana University Press, Roma 2006; G.I. Gargano, Il sapore dei padri della Chiesa nell’esegesi biblica, Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009; G. Rizzi, Le antiche versioni della Bibbia. Traduzioni, tradizioni e interpretazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2009; G. Rizzi, Le versioni italiane della Bibbia. Dalla Bibbia del Malermi (1471) alla recente versione della CEI (2008), San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2010.

    Immagini: 1) Mosaici del Duomo di Monreale (1172-1267) – Fascia inferiore dei mosaici della parete sud della navata; 2) Mosaici del Duomo di Monreale (1172-1267) – Fascia inferiore dei mosaici della parete nord della navata; 3) Frontespizio di un’edizione della Vulgata del 1542; 4) Copertina del primo tomo dell’opera di Pierre Sabatier († 1742); 5) Mosaico in S. Apollinare in Classe (Ravenna, 549 d.C.). Il tradimento di Giuda; 6) S. Apollinare Nuovo (505 d.C.) – Melchisedec, Abele e Abramo prefigurano il sacrificio di Cristo; 7) Bibbia tradotta da Nicolò Malermi, frontespizio per il libro dei Proverbi; 8) Cappella Sistina; costruzione iniziata nel 1473 – Michelangelo Buonarroti: Il giudizio universale; 9) Bibbie Rabbiniche – Un’edizione moderna delle Miqrā’ôt Gedolot (da Esodo 12); il testo ebraico masoretico in caratteri più grandi; i targumim aramaici vocalizzati a fianco in caratteri più piccoli; i commentatori della tradizione rabbinica in caratteri ebraici non vocalizzati nelle parti inferiori delle pagine; 10) Frontespizio di un’edizione della Bibbia di Antonio Martini (1836); 11) Storia Sacra di G. Bosco (1847).


    LEMMARIO