Capitoli cattedrali, Collegiate – vol. I

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    Autore: Gaetano Greco

    Il termine “capitolo” indica in primo luogo l’assemblea dei chierici appartenenti a una stessa chiesa, o a uno stesso monastero o convento, oppure a una congregazione regolare; nello specifico, poi, i capitoli cattedrali e le collegiate sono anche enti ecclesiastici, forniti di una personalità giuridica autonoma e dotati di un proprio patrimonio (la “mensa capitolare”), distinto dai patrimoni dei singoli chierici ascritti o “partecipanti” all’ente. Questi collegi erano istituiti in una chiesa particolare: in genere la chiesa principale di un’intera diocesi (la “cattedrale”), ma, secondo i tempi e le aree geografiche, anche le chiese madri di città non episcopali o pure altre chiese cittadine in concorrenza con le cattedrali. In queste chiese gli ecclesiastici gestivano collegialmente gli uffici sacri: i riti sacri, innanzitutto, garantendo la celebrazione di “messe cantate” o “messe corali”, ma anche la cura d’anime, affidata talora, ma non sempre, a “vicari parrocchiali” inamovibili o persino amovibili. A sua volta, il termine di “collegiata” indica una chiesa nella quale gli uffici sacri (in ambito liturgico, nella cura e giurisdizione sulle anime, nella gestione del patrimonio comune) sono gestiti da un collegio di ecclesiastici, chiamato “Capitolo collegiale”. La genesi e le vicende di queste comunità ecclesiastiche secolari (cioè di pertinenza del clero diocesano) sono assai variegate sul piano temporale e su quello regionale, dove non si può sottovalutare l’incidenza del differente sviluppo economico fra il Nord e il Sud del paese.

    Schematizzando un percorso storico più tortuoso, possiamo dire che il capitolo della cattedrale ha tratto origine dall’antico presbyterium, cioè dal corpo del clero locale che coadiuvava il vescovo nelle sue funzioni di culto e amministrazione e che ne faceva le veci in sua assenza. Sin dall’età carolingia il capitolo era un corpo dotato di una propria personalità giuridica, distinta ed autonoma da quella vescovile, ed era composto da chierici diocesani (i “canonici”), i quali convivevano in comune nella casa del vescovo secondo precise regole (i canones) ispirate alla vita monastica. La vita comune del clero di queste chiese cattedrali fu assunta anche dai corpi delle chiese principali dei maggiori centri rurali e di altre importanti chiese cittadine, che formarono dei “collegi” (da qui il nome di “chiese collegiate”). L’età carolingia fu l’epoca d’oro di questo sistema, che però entrò in crisi già nel IX secolo. In età gregoriana, sotto la spinta delle istanze di riforma disciplinare e sul modello della vita monastica, si ebbe una ripresa della vita comune del clero. Ma anche questa rinascita delle “canoniche” ebbe una vita effimera: lo sviluppo economico e urbanistico delle città italiane induceva i canonici ad optare per altri stili di vita, più consoni alla propria condizione sociale di maggiorenti, convivendo nelle abitazioni domestiche con i propri familiari piuttosto che con i propri colleghi. Furono i vescovi che, per primi, separarono la loro mensa episcopale, cioè il patrimonio a loro diretta disposizione, dalla portio cleri, dalla mensa canonicorum, dalla “massa canonicale”, cioè dal patrimonio diretto al mantenimento del clero della chiesa madre egoduto pro indiviso dai canonici. In seguito, anche i canonici ottennero di poter avere una casa separata e provvidero anche a separare la loro mensa in due settori: la “massa comune”, goduta dai singoli canonici secondo il metodo delle distribuzioni dei frutti sulla base della partecipazione individuale al coro nelle funzioni religiose (questa partecipazione era segnalata con l’“appuntatura” delle presenze in appositi registri), e le “prebende”, cioè le porzioni patrimoniali divise e assegnate a ciascun canonico, che le amministrava e godeva a titolo individuale. Inoltre, alcuni capitoli canonicali avevano un numero prefissato di queste prebende canonicali (“capitolo numerato” o “chiuso”), mentre altri capitoli non prevedevano un numero determinato di prebende e, di conseguenza, di canonici (“capitolo non numerato” o “aperto”).

    Il diritto dei canonici di presenziare alle funzioni liturgiche del capitolo e di partecipare alle riunioni con diritto di parola e di voto presenza (o “voce”) è stato regolamentato nel Concilio di Vienne del 1311-14, allorché fu stabilito che la promozione agli ordini sacri costituisse il suo indispensabile prerequisito (decr. 5). In linea di principio, la collazione dei canonicati delle cattedrali, come pure nelle chiese collegiate, doveva spettare simultaneamente al vescovo e al capitolo, ma vi erano le diverse consuetudini locali da rispettare: l’elezione poteva spettare solo al vescovo o solo al capitolo, per non parlare dei patroni (→ beneficio e giuspatronato). Costituzioni scritte, privilegi papali e consuetudini locali regolamentavano l’assistenza dei canonici al vescovo nel culto sacro: dalle rispettive collocazioni in chiesa o nelle processioni alle vesti e agli ornamenti che potevano indossare legittimamente. Fra i canonici si distinguevano le “dignità”: con questo nome venivano indicate le prebende canonicali di maggior prestigio delle chiese cattedrali e delle chiese collegiate, come nei casi dell’“arcidiacono”, dell’“arciprete”, del “primicerio”, del “decano” e del “magiscolo” (il maestro della scuola per i chierici della chiesa). Dopo l’erosione delle funzioni iniziali, furono gli statuti e le consuetudini locali a stabilire una sorta di gerarchia fra queste dignità, in relazione a taluni compiti interni al capitolo (come la presidenza delle riunioni assembleari) e alla maggiore o minore ricchezza delle rendite. In epoca moderna, poi, il Concilio di Trento impose a tutte le chiese cattedrali di istituire specifiche prebende per i canonicati del Teologo e del Penitenziere (Sess. V, 17 giugno 1546, decr. II cc. 1-2 e Sess. XXIV, 11 novembre 1563, decr. De Reformatione can. VIII) e in seguito la costituzione Pastoralis di papa Benedetto XIII (1725) stabilì che il loro titolo d’accesso fosse obbligatoriamente la laurea in Sacra Teologia, giudicando insufficiente la laurea in Diritto Canonico. In realtà, fu assai difficile realizzare la riforma tridentina in tutti i capitoli delle cattedrali, mancando le risorse economiche per finanziare questi nuovi uffici, che richiedevano una dote congrua e un interesse per gli studi teologici estraneo agli orizzonti culturali dei chierici diocesani di estrazione patrizia. Oltre ai canonici titolari delle rispettive prebende esistevano sia i “canonici coadiutori”, che collaboravano con i canonici titolari impediti per malattie o per vecchiaia e poi succedevano nella prebenda al momento della loro morte, sia i “canonici soprannumerari”, che erano destinati a succedere nella prima prebenda che si rendesse libera, oppure erano stati aggregati ad un capitolo già completo per nomina particolare dell’autorità ecclesiastica superiore.

    Capitoli canonicali erano presenti anche in altre chiese cittadine (si pensi alla basilica medicea di S. Lorenzo a Firenze), insieme ad altri corpi ecclesiastici, come i collegi di cappellani (le “università”, le “scuole”, le “centurie”, le “fraternite”, etc.), e, nelle città come nei paesi delle campagne, si trovavano i presbiteri, le canoniche delle pievi, le chiese “ricettizie” e, più in generale, le collegiate. Queste erano le chiese ufficiate da una comunità di ecclesiastici, la quale si congregava in capitolo, possedeva una cassa o patrimonio in comune ed era riconosciuta come persona giuridica autonoma: anche in queste chiese il culto era esercitato in modo solenne, mediante l’ufficiatura corale. Solo le collegiate che possedevano particolari requisiti (come l’importanza del centro urbano in cui erano insediate) ottenevano dalla Santa Sede (l’unica cui competeva) il titolo di “collegiata insigne”, ma nelle città dove già sorgeva una cattedrale le collegiate erano considerate inferiori alle cattedrali, che conservavano sempre la preminenza sulle altre chiese diocesane. Come i capitoli delle cattedrali, tutti questi collegi presentavano statuti disciplinari interni, regolamenti liturgici, norme in difesa della condizione privilegiata dei propri membri: talvolta, anzi, nel Nord come nel Sud della Penisola i privilegi papali erano sfociati nella nascita di corpi e prelature secolari nullius dioecesis, del tutto esenti dalla giurisdizione dei vescovi locali, con i quali ingaggiavano conflitti destinati a durare nei secoli. Anche nelle collegiate vi era la possibilità che accanto alla massa comune ci fossero delle prebende, delle porzioni individuali per ciascun membro, con connessi e ben specificati compiti sacramentali, liturgici e gestionali, ma la caratteristica più comune di questi corpi consisteva nel fatto che il loro accesso era riservato ai chierici del posto, secondo il principio del “giuspatronato passivo”. Questo diritto locale trovava un’applicazione particolarmente rigorosa nelle chiese ricettizie, che per tale motivo erano anche definite “ricettizie patrimoniali”: queste chiese potevano accogliere nel loro corpo ecclesiastico solo i chierici nativi della patria locale, anche perché, non essendovi prebende separate, tutto il patrimonio rimaneva comune e il reddito di ogni chierico partecipante derivava esclusivamente dal suo servizio nella chiesa. Le stesse dignità erano dette “ventose”, cioè puramente nominali, perché non davano luogo ad un vero e proprio “titolo” con una propria dote patrimoniale. Anzi, nel caso delle ricettizie con cura d’anime, per lungo tempo l’ufficio curato fu esercitato actualiter e in solidum da tutti i partecipanti, e solo in epoca più tarda fu accettato il sistema della turnazione, mentre spesso non furono attuate le prescrizioni tridentine che richiedevano l’istituzione di un vero vicario curato, pur rimanendo la parrocchialità prerogativa dell’intero collegio dei chierici partecipanti.

    Queste chiese collegiate non costituirono solo un retaggio della vita comune del clero: ancora per tutto il tardo Medioevo e per l’Età Moderna si continuò a fondare collegiate persino in quelle regioni dell’Italia centro-settentrionale, dove ormai prevaleva il modello istituzionale del beneficio ecclesiastico. Le motivazioni di questo successo sono state molteplici. Da parte dei ceti dirigenti delle città e delle famiglie preminenti nei borghi e nei paesi vi era certo un desiderio di prestigio sociale, che non può essere sottaciuto. A questo si legava la possibilità di una magnificenza del culto sacro altrimenti non raggiungibile nelle feste patronali, nelle cerimonie propiziatorie, nelle festività più solenni. Inoltre, la presenza di un collegio di ecclesiastici garantiva la continuità delle funzioni sacre con la realizzazione di economie di scala, particolarmente apprezzate tanto negli ambienti più ricchi, quanto in quelli più poveri. D’altronde, nel corso dei secoli non è esistita una relazione indissolubile fra i collegi ecclesiastici e la vita comune del clero. I collegi potevano esistere anche senza adottare una disciplina clericale modellata su quella dei religiosi: chiostri e canoniche non erano indispensabili per realizzare strutture ecclesiastiche in grado di fornire servizi religiosi più sicuri e più ricchi; i chierici incardinati in questi collegi potevano condurre una vita nel “secolo”, presso le loro famiglie, seguendo anche altre attività, senza ridursi nel chiuso di dormitori e refettori di stampo cenobitico.

    Il Concilio di Vienne aveva confermato che il capitolo dei canonici della cattedrale assicurava la continuità del potere vescovile durante la vacanza di quest’ufficio (per morte, rinuncia, fuga o destituzione del titolare) o in occasione di assenze ingiustificate del vescovo. Per esercitare queste funzioni si ricorreva a un “vicario capitolare sede vacante” appositamente designato e incaricato dal capitolo della cattedrale diocesana per governare il vescovato in simili casi. Tale compito e il tradizionale esercizio del potere d’istituzione canonica anche su chiese curate urbane e rurali, nonché il diritto di accompagnare il vescovo in occasione delle visite pastorali, permettevano al capitolo della cattedrale di considerarsi come l’alter episcopus della diocesi. In effetti, non di rado i capitoli canonicali hanno assunto tale figura in particolari situazioni d’emergenza: così accadde nel 1860 nell’Italia meridionale, quando alcuni vescovi fuggirono di fronte all’avanzata dell’esercito garibaldino e furono rimpiazzati dai capitoli cattedrali con vicari più graditi al nuovo regime politico. Tuttavia, fra il Tre e il Quattrocento i capitoli cattedrali persero il potere di elezione del vescovo, che sempre più spesso era nominato per provvista papale, in accordo con il potere politico. Anzi, nella stessa epoca i capitoli cattedrali delle città sottomesse furono invasi da chierici della “dominante”, che, alla stessa stregua degli altri beneficiati forestieri e cumulatori, non prendevano residenza presso i loro uffici: fra l’assenza di costoro e la presenza di bambini, investiti di prebende grazie alle dispense papali sul “difetto d’età”, il ruolo civico dei capitoli cattedrali subì una forte perdita di prestigio. A questa situazione pose rimedio il Concilio di Trento, con l’imposizione della residenza e con il divieto del cumulo dei benefici residenziali: pur con qualche eccezione, le prebende canonicali tornarono a disposizione dei chierici cittadini, rispecchiando la composizione sociale del ceto dirigente della città capoluogo della diocesi. Nel corso del Sei-Settecento, però, questa nuova crescita del potere locale ebbe anche la conseguenza di trasformare i capitoli in soggetti tipici dei frequenti conflitti di precedenza, che turbarono gli spazi urbani in occasione delle cerimonie civili e religiose, delle ostensioni delle reliquie dei santi e delle processioni, per non parlare dei riti funebri dei propri membri e delle autorità politiche. Nel frattempo, e per circa un secolo, la resistenza dei capitoli canonicali nei confronti della disciplina tridentina ebbe la meglio sulle intenzioni riformatrici dei vescovi, grazie anche al comportamento delle Congregazioni romane, che per lungo tempo si assecondarono le motivazioni dei privilegiati. A partire, però, dalla fine del XVII secolo, con la “svolta innocenziana” la sensibilità dell’alta gerarchia e la giurisprudenza curiale mutarono di segno, permettendo ai vescovi di recuperare gli spazi della giurisdizione ordinaria quando i canonici, o non possedessero prove documentarie valide a favore dei loro diritti, oppure avessero interrotto per qualsivoglia motivo il loro esercizio continuato, che era l’unica possibile condizione per conservare in vita l’“eccezione” rispetto alla “norma”. Fra Quattro e Settecento anche a livello periferico diocesano il rapporto fra i vescovi e i capitoli canonicali si evolse verso una sostanziale esautorazione dei poteri collegiali dei corpi nel loro complesso, mentre la disciplina più rigorosa e il maggior carico della burocrazia ecclesiastica richiedevano un impegno diretto più continuo dei singoli membri dei capitoli al servizio dei vescovi negli uffici diocesani.

    Sempre più espressione delle oligarchie urbane, nel Settecento i capitoli subirono pochi danni diretti dalle politiche riformatrici, anche se iniziò un lento mutamento nella loro composizione a causa della riduzione dei ranghi delle famiglie più antiche del patriziato, quale conseguenza di strategie matrimoniali restrittive. Dopo la bufera napoleonica, mentre il ruolo dei vescovi continuava a crescere in virtù del rapporto privilegiato con i governi politici, propensi a utilizzarli come una sorta di “prefetti circa sacra”, quello dei capitoli cattedrali tese a sminuire, anche perché lentamente cambiò la loro composizione a causa dei cambiamenti avvenuti nella società civile, nonché nei comportamenti e nelle aspirazioni dei cadetti delle famiglie patrizie. Così, da corpo rappresentativo dei ceti dirigenti cittadini nel governo della Chiesa locale i capitoli cattedrali si trasformarono progressivamente in collegi di anziani sacerdoti, anche di umili origini, che avevano ben meritato per l’ortodossia della dottrina e per l’impegno nella cura d’anime. Nel Meridione, poi, con il concordato del 1818 e con il breve Impensa del 3 agosto 1819, fu intaccato il carattere sostanzialmente patrimoniale e laicale delle ricettizie, perché ai vescovi locali fu attribuito il potere di esaminare preventivamente i chierici candidati alla cooptazione, per approvarli o escluderli: si aprì, così, un contenzioso, che cessò solo con la legge del 17 febbraio 1861, n. 248, che abolì il concordato con tutte le norme conseguenti.

    Di lì a poco, realizzata l’Unità d’Italia e la rivoluzione liberale, con la legge del 15 agosto 1867 n. 3848, questi corpi ecclesiastici ricevettero un colpo esiziale, che accelerò la loro già avviata decadenza. Con eccezione della regione romana (città e diocesi suburbicarie), furono soppressi tutti i capitoli collegiati, attribuendo al demanio le loro proprietà, fatto salvo – nei capitoli con annessa cura d’anime – il patrimonio del beneficio curato o, nei casi di parrocchialità collegiale, una congrua porzione della massa capitolare. Nel contempo, gli stessi capitoli cattedrali subirono un drastico ridimensionamento, con la soppressione di tutte le prebende canonicali oltre la dodicesima e dei benefici semplici dei coadiutori oltre il sesto, nonché dei canonicati di patronato laicale ed ecclesiastico. Inoltre, se i capitoli cattedrali non furono privati della loro personalità giuridica, i capitoli collegiali subirono un destino diverso, continuando a esistere solo di fatto e nella mera sfera ecclesiastica. Il riconoscimento giuridico è stato recuperato in linea di principio dai capitoli collegiali, come dagli altri enti e corpi ecclesiastici, solo in applicazione del concordato del 1929 (art. 29); la sua attuazione, però, non fu automatica, ma dipese caso per caso dal riconoscimento da parte dell’autorità civile di particolari requisiti (legge 27 maggio 1929 n. 848).

    Fonti e Bibl. essenziale

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