Casuistica – vol. I

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    Autore: Flavio Rurale

    La casuistica (o casistica) è una scienza pratica del consiglio, la cui funzione è quella di fare da guida ai comportamenti e alla condotta quotidiana dell’uomo di fede, in ideale coerenza con le leggi divine. Si sviluppa e raggiunge la sua massima diffusione, distinguendosi dalla teologia morale speculativa, nel XVI e XVII secolo, favorendo in particolare la produzione di testi e manuali (somme casistiche) per supportare l’azione pastorale di confessori e padri spirituali, chiamati a rispondere tanto ai casi particolari dell’ultimo dei penitenti come alle grandi questioni di Stato poste sul tappeto da principi e sovrani. A partire dalla riflessione teologica («dalle conclusioni già solidamente provate dai sommi moralisti», I. Tarocchi, Casistica, 981), essa valuta i dubbi che insorgono nella coscienza del singolo posto di fronte a scelte che possono presentare più opzioni. Infine propone una soluzione moralmente accettabile. È dunque applicazione della dottrina ai fatti pratici della vita, «atto morale concreto, azione in situazione», nella definizione dello storico Louis Vereecke (Da Guglielmo d’Ockham, 38).

    Sempre Vereecke ha individuato due estremi nello sviluppo di questa ricca esperienza: da un lato l’introduzione nei collegi della Compagnia di Gesù a partire dal secondo Cinquecento dei corsi di casi di coscienza, come richiesto dal concilio di Trento: «un ciclo breve di teologia morale pratica» orientato alla formazione degli studenti per risolvere casi concreti di morale, poi precisato nel programma di formazione della Ratio studiorum gesuitica e nel 1600 dalle Institutiones morales di Giovanni Azor; e, all’estremo opposto, l’opera di Alfonso de Liguori († 1787), che nella sua Theologia moralis riassume l’essenziale del lavoro dei teologi dei secoli XVII e XVIII, pochi anni prima che la rivoluzione francese travolga «come in un turbine le istituzioni civili e religiose dell’Ancien Régime» (ibid., 33, 36 ).

    Il periodo di maggiore fortuna della casuistica si colloca dunque entro due gravi crisi della dottrina cristiana: da un lato quella teologica, luterana, di inizio ’500, a cui si sommano anche le novità filosofiche e politiche dell’epoca rinascimentale e le conseguenze della scoperta del continente americano (ci si chiese per esempio: i coloni avevano il diritto di occupare quelle terre? Era possibile celebrarvi l’eucaristia in mancanza di vino e frumento? Si doveva costringere gli indigeni ad abbracciare la fede cristiana? ibid., 597-598); dall’altro la crisi culturale che innesca a partire dalla fine del Seicento, sulla scia della rivoluzione scientifica, la cosiddetta “crisi della coscienza europea”, accompagnando i profondi mutamenti del secolo successivo (rivoluzioni politiche e rivoluzione industriale): questa svolta, portando a compimento il processo di definitiva emancipazione delle scienze dal testo sacro (Bibbia) e dalla sua tradizione interpretativa (teologia), apre la strada a una forma mentis secolarizzata che tende a rintracciare unicamente nelle proprie facoltà raziocinanti il fondamento della conoscenza.

    All’origine della stagione della casuistica vanno posti anche i profondi cambiamenti economici e sociali degli ultimi secoli del medioevo – si pensi all’affermazione del capitalismo finanziario, con la sua forte impronta individualistica, e al plurisecolare dibattito sull’usura che ne deriva – a cui si affiancano quelli culturali prodotti dalle correnti dell’umanesimo (la riflessione dei teologi sui temi economici, la proposta politica di Machiavelli e la risposta dei teorici della ragion di stato cristiana, il rigore filologico erasmiano ed esperienze come quella della devotio moderna). Insieme con la rottura luterana, tali trasformazioni incidono in profondità sulla spiritualità cristiana: si diffonde ed emerge una religione dell’interiorità, sottratta alla speculazione teologica e basata sull’imitazione di Cristo. La centralità dell’individuo, la sua solitudine di fronte a Dio, l’affermarsi di posizioni che tendono a favorire una concezione della morale non più come obbedienza ma come auto-governo, pongono inizialmente il cristiano in una condizione di incertezza, di debolezza e disperazione, rendendo necessaria l’attività di consiglio degli esperti di morale.

    A sollecitare e legittimare questo intervento non è solo la volontà di controllare e disciplinare i fedeli propria delle chiese e degli stati nell’età cosiddetta confessionale; vi è soprattutto, come ha scritto Adriano Prosperi, «una costrizione interna ben più forte […] I dubbi pullulavano davanti alle infinite complicazioni della casistica; l’unico in grado di guarire dalle pene mortali dei dubbi era il confessore, depositario di un potere sacrale, ma soprattutto padrone di una scienza in grado di far chiarezza negli ingarbugliati conti di una coscienza ridotta a partita contabile» (A. Prosperi, Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna, in C. Vivanti (ed.), Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, 159-252: 232-233). In questo bisogno va dunque rintracciata l’enorme fortuna dei testi di teologia morale di età moderna (diffusi non solo in area cattolica ma anche tra le chiese riformate), frutto del confronto talora serrato e polemico tra le scuole degli ordini religiosi (dove si trasferisce il centralissimo dibattito sulla grazia ed il libero arbitrio già motivo della frattura dell’unità dei cristiani) e delle singole chiese nazionali (con le loro differenti tradizioni universitarie).

    In una condizione di arretratezza rispetto all’area francese e spagnola (forti delle loro prestigiose università: Sorbona, Salamanca, Alcalá de Henares), Roma, la sede del papato, il centro della cristianità, si presenta a metà Cinquecento ancora priva di una propria originale elaborazione teologica, ed è solo a partire dai decenni successivi, attraverso le università dei nuovi ordini, in particolare il Collegio Romano della Compagnia di Gesù, e l’attività intellettuale di figure come Cesare Baronio e Roberto Bellarmino, che conquista una posizione di primo piano. Dall’incontro-scontro con le scuole teologiche spagnole, mentre incombono urgenze anche politiche, traggono alimento le discussioni teologiche che fanno da sfondo alla produzione casuistica barocca (Broggio, La teologia e la politica).

    Il carattere pratico della casuistica (sua l’adattabilità alle circostanze di luogo e di tempo) implica una disamina, in alcuni autori quasi maniacale, delle molteplici situazioni che chiamano l’individuo a scelte coerenti con i dettami della propria fede. Di qui l’attitudine forse più straordinaria e affascinante degli scrittori di casuistica: quella di indagare gli aspetti più minuti della vita quotidiana, di penetrare ogni particolare più recondito dell’esistenza, intervenendo su questioni di ogni genere (economiche, politiche, militari), comprese le più intime e segrete (sessuali). Sottoposti al vaglio delle loro competenze e della loro autorevolezza, i comportamenti umani vengono meticolosamente sezionati e discussi, con l’obiettivo di risolvere difficoltà e dubbi, fornire indicazioni comportamentali, in una parola consigliare. Solo per l’Italia, dall’invenzione della stampa al 1650, Miriam Turrini ha censito la pubblicazione di oltre 1350 opere in latino e in italiano “finalizzate alla pratica della confessione”; pubblicate in gran parte nel maggiore centro tipografico della penisola, Venezia (in media circa il 47% delle edizioni, con una percentuale addirittura del 90% nel decennio 1551-1560), seguita da Roma e Firenze (Turrini, La coscienza e le leggi, Appendice).

    Subendo gli influssi dei differenti contesti sociali e geografici e le conseguenze delle trasformazioni tecniche, incontrandosi e scontrandosi con riflessioni di carattere filosofico e giuridico (i concetti di legge e ragione naturale, il definirsi di uno spazio di libertà interiore, l’affermarsi del relativismo nell’incontro con l’”altro”), la casuistica è chiamata a un processo di adattamento a condizioni fattuali in continuo mutamento: infatti «il fattore storico svolge un ruolo essenziale fin nel più intimo della teologia morale» (L. Vereeckhe, Da Guglielmo d’Ockham, 489). Suo carattere precipuo è dunque questa dinamicità, questo confronto incessante con i cambiamenti che investono individuo e società, da cui derivano sia la sua forza, attenzione e capacità di consiglio appunto, sia i suoi limiti: quel frantumarsi del consiglio stesso in una gamma di opzioni non sempre condivise e autorevoli, di opinioni “meno probabili” come vennero dette (proprio per questo giudicate foriere di atti peccaminosi) ma lecite tanto quanto quelle opposte sebbene “più probabili” e moralmente certe.

    Si è letto proprio in questi esiti contraddittori, amplificati dall’alternarsi di interventi papali ora di condanna ora di assoluzione di alcune proposizioni contenute nei manuali di casuistica sei-settecenteschi, una crisi della riflessione teologica di quei secoli. Certo è che l’affermarsi di morali lassiste (alla ricerca della soluzione più benigna per tranquillizzare la coscienza, come avviene con la dottrina del probabilismo), probabilioriste (proprie di chi consiglia di seguire l’opinione più probabile, più sicura perché sostenuta da un numero maggiore di autorità) e rigoriste (come nel caso del tutiorismo giansenista, favorevole al massimo rigore) comporta scontri talora molto aspri – come nel caso delle Lettere provinciali scritte dal giansenista Blaise Pascal contro la morale dei gesuiti – contrapponendo i diversi indirizzi e i loro sostenitori in lunghe e annose dispute. Tuttavia «il lassismo non fu mai un sistema organicamente strutturato, se non altro per il fatto che era seguito da autori appartenenti a scuole diverse; esisteva piuttosto una tendenza a presentare come sicure opinioni molto dubbie, solo apparentemente probabili, tali da rilassare le norme di un’autentica vita cristiana» (M. Petrocchi citato in L. Vereecke, Da Guglielmo d’Ockham, 724). Tutto questo farà dire ad Alfonso de Liguori, di formazione giuridica e teologicamente cresciuto all’ombra dei seguaci del probabiliorismo: «la morale è un caos che non finisce mai» (ibid., 59).

    La dimensione “del consigliare” pone la casuistica in stretta relazione anche con la pratica politica, con il “dovere di consiglio” costantemente ribadito dalla trattatistica sul principe cristiano della prima età moderna, che giustifica la presenza a corte, a fianco dei re e dei loro ministri, a Parigi come a Madrid, a Vienna come a Milano, di teologi e confessori di appartenenza regolare, ovvero l’istituzione di consigli e giunte di coscienza. Ai manuali ove ogni direttore dell’anima può trovare risposta ai quesiti posti dal più umile dei peccatori fanno così da contrappunto i lunghi elenchi di casi dubbi proposti ai propri teologi da principi e sovrani: sulla liceità di alleanze militari con re di altra fede, la facoltà di imporre nuovi tributi, la legittimità del duello o del tirannicidio. Pareri e discussioni si susseguono, il confronto avviene nelle chiese, nei conventi, nelle scuole. Negli anni Sessanta del ‘500, nel collegio dei gesuiti di Palermo, è l’autorità secolare locale a porre al noto teologo spagnolo Juan de Mariana il quesito se sia legittimo assassinare il sovrano tiranno addirittura attraverso l’inganno (l’avvelenamento). La Sicilia spagnola rimane per tutto il secolo il centro di una produzione casuistica che trova nel teatino Antonino Diana il suo maggiore esponente: 82 trattati divisi in dieci tomi “per un totale di poco meno di seimilaseicento opinioni su circa ventimila casi riguardanti, per limitarci a qualche esempio, i sacramenti, le assoluzioni riservate, la giurisdizione episcopale, l’immunità ecclesiastica, le ore canoniche, il giubileo, le indulgenze, i digiuni, la scomunica, la censura, l’interdetto, l’aborto, l’eresia, l’usura, il diritto di guerra, la lussuria” (Burgio, Teologia barocca, 8).

    Più in generale i casuisti politicamente impegnati intervengono sul rapporto tra coscienza e normativa positiva, sull’obbligo morale del suddito di obbedire alle autorità civili e alle loro leggi. «La teologia poteva stabilire quando un tributo fosse giusto; contestarlo, se necessario; moderarlo nell’esercizio della confessione e nel consiglio ai sovrani» (V. Lavenia, L’infamia e il perdono, 351). È un aspetto, questo, che deve richiamare l’attenzione sul profondo legame tra etica (cristiana) e politica: legame che continua a caratterizzare sul lungo periodo e ovunque in Europa fino alla svolta settecentesca tanto la riflessione teorica come la pratica quotidiana dell’esercizio del potere.

    Molto si è discusso sui caratteri di modernità (o di conservazione) dei differenti indirizzi della teologia morale cinque-seicentesca, impegnati a formare con metodi profondamente diversi tra loro la coscienza individuale dei cattolici. Emblematicamente, e semplificando, la contrapposizione tra le dottrine gesuitiche e quelle dei giansenisti ha incarnato a lungo la battaglia, un vero e proprio duello come quello immortalato nella Via lattea di Louis Bunuel (1969), non solo tra lassismo e rigorismo, ma anche tra conservazione e modernità. La discussione oggi rimane aperta. Controcorrente, Leszek Kolakowski ha scritto: alla fine vinse lo spirito di modernità dei gesuiti, non con le loro opinioni lassiste ma con la loro fede nella capacità di riscatto dell’uomo (L. Kolakowski, God owes us nothing. A brief remark on Pascal’s religion and on the spirit of jansenism, The University of Chicago Press, Chicago and London 1993, 3, 108).

    Fonti e Bibl. essenziale

    P. Hazard, La crisi della coscienza europea, UTET, Torino, 2007 (ed. originale 1935); I. Tarocchi, Casistica, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il Libro Cattolico, Roma 1949, III, 981-983; M. Petrocchi, Il problema del lassismo nel secolo XVII, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1953; G.C. Angelozzi, L’insegnamento dei casi di coscienza nella pratica educativa della Compagnia di Gesù, in G.P. Brizzi (ed.), La Ratio studiorum. Modelli culturali e pratiche educative dei gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Bulzoni, Roma 1981, 121-162; E. Leites (ed.), Conscience and Casuistry in Early Modern Europe, Cambridge University Press-Maison des Sciences de l’Homme, Cambridge-Paris 1988; L. Vereecke, Da Gugliemo d’Ockham a sant’Alfonso de Liguori. Saggio di storia della teologia morale moderna, Edizioni Paoline, Milano 1990; M. Turrini, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 1991; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996; S. Burgio, Teologia barocca. Il probabilismo in Sicilia nell’epoca di Filippo IV, Catania 1998; G. Todeschini, I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna, Il Mulino, Il Mulino 2002; V. Lavenia, L’infamia e il perdono: tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 2004; P. Hurtubise, La casuistique dans tout ses états. De Martin Azpicueta à Alphonse de Liguori, Novalis, Ottawa 2005; M. Pelaya – L. Scaraffia (edd.), Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia, Laterza, Roma-Bari 2008; P. Broggio, La teologia e la politica. Controversie dottrinali, curia romana e monarchia spagnola tra Cinque e Seicento, Leo Olschki, 2009; F. Alfieri, Nella camera degli sposi. Tomás Sánchez, il matrimonio, la sessualità (secoli XVI-XVII), Il Mulino, Bologna, 2010.


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