Clero secolare – vol. II

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    Autore: Maurilio Guasco

    Particolarmente numeroso nel corso del XVIII° secolo, anche il clero avrebbe subito le conseguenze dei rivolgimenti avvenuti in Europa durante il XIX° secolo. Verso la metà di questo secolo, i preti secolari e i religiosi assommano in Italia a circa 100.000 unità, per una popolazione di 23 milioni di abitanti. Tale cifra è però destinata a diminuire a partire dagli anni Cinquanta, causa i molti abbandoni dello stato clericale determinati dagli eventi politici, dalle leggi eversive e dall’incameramento dei beni ecclesiastici. Questo era dovuto in parte da una formazione religiosa e culturale alquanto carente, sia dalle possibilità che la nuova situazione offriva a quanti, dotati di una buona formazione, delusi dello stato sacerdotale o coinvolti nelle varie speranze rivoluzionarie, avevano la possibilità di trovare una lavoro soprattutto in campo scolastico. Casi come quelli di Bertrando Spaventa o Roberto Ardigò erano emblematici, ma non erano i soli. Lo stesso Giosuè Carducci avrebbe espresso un certo stupore per la rilevante presenza nelle scuole di preti che avevano abbandonato lo stato sacerdotale.

    Non va neppure dimenticato che, nonostante il crescente conflitto tra lo Stato e la Chiesa, spesso le autorità locali si appoggiavano ai parroci, che continuavano a svolgere un ruolo fondamentale sia per l’educazione delle popolazioni, sia anche per facilitare alle stesse popolazioni l’accettazione della nuova situazione. Era spesso, come è noto, il canto del Te Deum in chiesa a legittimare i passaggi territoriali alle nuove autorità. Tutto questo mentre a livello nazionale si accentuava il conflitto tra Stato e Chiesa, con l’atteggiamento intransigente del pontefice, ma anche con l’autorità politica che non concedeva ai nuovi vescovi gli exequatur, incamerava i beni ecclesiastici e cercava di esercitare un controllo sulla vita religiosa e sui seminari.

    Per meglio opporsi a simili atteggiamenti da parte dello Stato, diversi preti avrebbero fondato associazioni allo scopo di rivendicare i propri diritti. Si trattava di atteggiamenti che avrebbero impensierito anche l’autorità ecclesiastica, che temeva che i preti assumessero atteggiamenti rivendicativi anche nei suoi confronti, rompendo la prassi che vedeva un clero del tutto sottomesso all’autorità superiore, che regolava ogni aspetto della vita di quello che qualcuno avrebbe definito quasi un “proletariato di Chiesa”. Tra l’altro, le varie associazioni troveranno nel 1917 un punto di arrivo con la nascita della FACI (Federazione tra le Associazioni del Clero Italiano).

    Il secondo Ottocento però vede anche una modifica profonda nei modelli ecclesiastici. Scompaiono alcune figure caratteristiche, tipo il precettore di famiglia, per lasciare il posto a un prete che si dedica maggiormente alle diverse attività pastorali, considerando tali anche le attenzioni dedicate alle problematiche sociali, un’attenzione fortemente diffusa nel mondo cattolico in generale, causa anche il rifiuto della partecipazione alla vita politica nel nuovo Stato, decisa da Pio IX per protesta contro l’occupazione di Roma. Se sono molto noti i “preti sociali” piemontesi, tipo don Bosco, Cottolengo e Murialdo, si può dire che in ogni città sono presenti figure analoghe di preti.

    Lentamente, ma quasi inesorabilmente, si discuterà di un possibile ritorno alla vita politica: ed è emblematico che i primi veri e propri partiti politici siano fondati da due preti, Romolo Murri che dà inizio nel 1901 alla Democrazia cristiana e Luigi Sturzo nel 1919 al Partito Popolare. L’attività sociale e il dibattito sul ritorno alla vita politica determina anche, soprattutto a fine Ottocento, la nascita di molti settimanali diocesani, in massima parte diretti da preti.

    Causa la proibizione da parte del pontefice nel primo caso, e la scomparsa dei partiti voluta dal regime fascista nel secondo, quelle organizzazioni politiche avranno vita breve, ma restano come il segno di un nuovo impegno dei preti nella vita del paese. Ma la proibizione che ferma Murri è anche causata dalla crisi modernista, mentre per Sturzo sarà la scelta, sostanzialmente obbligata, da parte della gerarchia cattolica di non accentuare i conflitti con il nascente regime fascista. Il risultato sarà lo spostamento da parte del clero verso un’attività più specificamente spirituale, nelle parrocchie o nelle associazioni, a loro volta impedite di fare attività che non sia di carattere eminentemente spirituale.

    Fra le due esperienze però se ne colloca un’ altra, che segnerà fortemente il clero italiano, il trauma della prima guerra mondiale. Saranno 15.000 i preti richiamati alle armi, e tra questi 2.500 svolgeranno il ruolo di cappellani militari. La condivisione della vita dei soldati li porterà a scoprire nuove dimensioni del loro impegno pastorale; per alcuni invece sarà la premessa di simpatie verso il movimento nazionalista e poi fascista, che alimenterà le scelte di non pochi preti italiani.

    Un’altra guerra avrà forti conseguenze sul clero di ogni regione e tendenza. Scarsamente coinvolto, come d’altronde non pochi italiani, negli entusiasmi bellicosi del fascismo, molti preti si ritroveranno coinvolti in un’opera di assistenza morale e materiale delle popolazioni, soprattutto negli ultimi due anni del conflitto. Sarà proprio l’opera di carità svolta verso tutti uno dei segni caratteristici della vita del clero italiano, in non pochi casi coinvolto o nella lotta di Resistenza contro il nazi-fascismo, o nella direzione ed assistenza di popolazioni abbandonate dalle autorità locali.

    Anche l’opera di ricostruzione avrebbe coinvolto i preti a diversi livelli. Se persiste e si rafforza il modello pastorale, in tale modello molti includono anche l’attività politica che si sarebbe sviluppata collateralmente al partito considerato quasi il partito cattolico, la Democrazia cristiana, spesso tramite l’organizzazione dei Comitati civici, un’associazione che aveva come scopo evidente la collaborazione con la Democrazia cristiana soprattutto nell’opera di propaganda elettorale. Non poche sezioni di tale organismo avrebbero trovato la loro sede proprio nelle parrocchie.

    Come quasi sempre in epoca di ricostruzione (o restaurazione), anche negli anni Cinquanta il clero italiano avrebbe avuto un forte aumento numerico, grazie alla forte crescita degli ingressi nei seminari. Continuava però un tipo di formazione molto tradizionale, con un clero quindi spesso molto ubbidiente e devoto, ma forse privo di quegli strumenti culturali che gli avrebbero permesso di risentire meno della crisi che avrebbe coinvolto anche le istituzioni ecclesiastiche negli anni successivi al Concilio.

    Vi erano logicamente figure che proponevano modelli diversi di impegno pastorale. Tra queste, si può ricordare don Zeno Saltini, fondatore della comunità di Nomadelfia, o uno dei modelli più significativi di parroco, don Primo Mazzolari, o infine uno dei preti più discussi ma anche più significativo nel suo impegno per la formazione dei ragazzi più poveri, don Lorenzo Milani.

    In quegli stessi anni poi cambiava la mentalità missionaria del clero. Si era diffusa, grazie a padre Paolo Manna, l’Unione missionaria del clero, ma non era previsto che un prete diocesano potesse partire per i territori di prima evangelizzazione senza entrare in una Congregazione religiosa. Pio XII, con l’enciclica Fidei donum del 1957, chiedeva alle diocesi europee di mettere a disposizione per un tempo determinato qualche prete che aiutasse le giovani Chiese a crescere e diventare autonome. Tale enciclica avrebbe spinto vari preti, indicati appunto con il termine di Fidei donum,verso territori di missione per un impegno a tempo. Una scelta che apriva orizzonti diversi anche alla formazione del clero, e contribuiva a creare un legame organico tra la diocesi da cui partiva il prete e quella in cui operava.

    Il Concilio Vaticano II avrebbe segnato gli anni Sessanta, anche se i documenti concernenti il clero non erano molto innovativi. Sarebbe stato comunque non il Concilio, come non pochi hanno voluto sostenere, ma i cambiamenti sviluppatisi nella società che sfociarono negli eventi del 1968 ad accentuare una crisi generale che si andava diffondendo, determinando un forte abbandono del ministero sacerdotale da parte di molti preti e un’altrettanto forte crisi di identità che coinvolse anche quanti restarono nel ministero. Furono almeno 1.300 i preti italiani che abbandonarono il ministero tra il 1969 e il 1979, un fenomeno anche maggiore nei diversi paesi occidentali, con una punta massima nei Paesi Bassi, mentre sarebbe crollato il numero di giovani che entravano nei seminari. E non furono pochi i preti rimasti ai loro posti a vivere una forte crisi di identità, mentre alcuni di loro davano origini alle diverse comunità di base. Di fronte alla contestazione, che metteva in causa anche il celibato dei preti, Paolo VI il 24 giugno 1967 avrebbe ribadito la dottrina tradizionale con l’enciclica Sacerdotalis caelibatus.

    Dalla Francia arrivavano gli echi di una delle vicende più significative della storia religiosa di quel paese, la storia dei preti operai, iniziata nel periodo finale della guerra, cresciuta dopo il 1945 e andata in crisi negli anni Cinquanta, fino alla sospensione del 1954 e alla definitiva chiusura del 1959. Il Concilio però aveva modificato le decisioni romane, lasciando aperta la possibilità di un lavoro salariato anche per i preti. Ma la prima esperienza francese avrebbe solo in parte segnato quanto si sarebbe svolto in Italia: fu don Sirio Politi a seguire l’esempio francese, ma senza grande seguito.

    Verso la fine degli anni Sessanta però anche in Italia, dove rimane maggioritaria la presenza dei cappellani di fabbrica, si verifica il passaggio al lavoro di un numero non rilevante di preti, non sempre in accordo con l’autorità ecclesiastica. La scelta non era sempre originata, come era avvenuto in Francia, dalla ricerca di nuovi strumenti per la evangelizzazione della classe operaia, ma piuttosto dal desiderio di sentirsi membri di quella classe, che sembrava destinata a diventare il vero motore della trasformazione della società.

    Al di là dei dibattiti che tale vicenda avrebbe suscitato, essa però aveva il merito di mettere in causa quel modello tridentino di sacerdozio che sembrava immodificabile e quasi eterno. Se il modello tridentino, di un prete la cui vita era tutta segnata dall’attività pastorale, rimaneva il modello maggiormente diffuso, si poteva parlare di modi diversi di vivere lo stesso sacerdozio, in un presbiterio che era nel suo insieme incaricato dell’evangelizzazione di un determinato territorio, e che in vista di questa poteva chiedere ai preti di svolgere delle funzioni diverse da quelle tradizionali, in una società diventata pluralista e complessa.

    La promulgazione del nuovo codice di diritto canonico, avvenuta nel 1983, e la modifica dei patti lateranensi, ratificata nel febbraio 1984, prevedevano anche delle novità importanti per il clero, a partire dalla diversa organizzazione del suo sostentamento materiale, che contribuiva a superare quelle forti differenze, anche di carattere economico, che si erano formate tra i preti, anche se la garanzia della sicurezza economica toglieva ai preti la possibile scelta di una vita segnata dalla radicalità del messaggio evangelico.

    Negli ultimi anni la situazione è ulteriormente cambiata. Alla difficoltà a ricoprire tutti gli incarichi pastorali, conseguenza della forte crisi numerica del clero italiano, sembra in parte ovviare la crescente presenza di preti provenienti dall’Africa, dall’Asia o dall’America latina. Questo aprirà un capitolo del tutto nuovo nella storia del clero in Italia.

    Fonti e Bibl. Essenziale

    P. Crespi, Prete operaio. Testimonianze di una scelta di vita, Edizioni Lavoro, Roma 1985; A. Erba, “Proletariato di Chiesa” per la cristianità. La FACI tra curia romana e fascismo dalle origini alla Conciliazione, 2 voll., Herder, Roma 1990; M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Pagus, Paese (Tv) 1991; F. Garelli (ed.), Sfide per la Chiesa del nuovo secolo. Indagine sul clero in Italia, Il Mulino, Bologna 2003; M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1997; M. Lupi, Clero italiano e cura pastorale in età contemporanea. Fonti e dibattito storiografico, in “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, LX (2006), n.1, 69-89; R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Studium, Roma 1980; L. Pacomio, G. Ravasi, B. Maggioni (ed.), I preti. Da 2000 anni memoria di Cristo tra gli uomini, Piemme, Casale Monferrato 1991; M. Rosa (ed.), Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1992; R. Zecchin, I sacerdoti Fidei donum. Una maturazione storica ed ecclesiale della missionarietà della Chiesa, Pontificie Opere Missionarie, Roma-Padova 1990; M. Guasco, Il clero curato: modelli e sviluppi, in Cristiani d’Italia, II, Roma 2011, 869-880.


    LEMMARIO