Confessione, Penitenza – vol. I

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    Autore: Alessandra Costanzo

    All’interno dei tre sistemi – antico, tariffato e moderno – che scandiscono le tappe salienti della storia della penitenza, l’Italia apporta alcuni significativi contributi alla teologia e alla prassi penitenziale.

    Intorno alla metà del II secolo, Erma, fratello del papa Pio I (140-154 ca.), scrive a Roma il Pastore, in cui formula per la prima volta il principio della non reiterabilità della penitenza: chi si è macchiato di una colpa grave dopo il battesimo (omicidio, adulterio, apostasia della fede) ha un’unica possibilità di ricorrere alla penitenza. Questo principio, definitivamente sancito nel III secolo da Tertulliano, che considererà la penitenza la “seconda tavola di salvezza” dopo il battesimo, segna tutto il sistema penitenziale antico fino al VI secolo.

    L’irripetibilità della penitenza resiste persino alla questione dei lapsi, ossia di tutti coloro che, dopo aver rinnegato la fede durante le persecuzioni, desiderano essere accolti di nuovo nella comunità cristiana. Rispetto alla loro riammissione, la Chiesa appare divisa tra i seguaci di Cornelio, eletto vescovo di Roma nel marzo 251, che si mostra indulgente verso i lapsi, e i sostenitori del presbitero Novaziano, che non permette alcuna accoglienza degli apostati e si fa consacrare antipapa da tre vescovi dell’Italia meridionale. Nell’autunno 251 egli viene scomunicato dal sinodo di Roma, ma lo scisma cui Novaziano aveva dato origine trova seguaci in oriente e in occidente protraendosi per qualche secolo.

    Contro i Novaziani prende posizione Ambrogio, che a Milano, tra il 386 e il 390, compone il De poenitentia, in due libri: il primo, in cui confuta le tesi dei seguaci della setta circa l’irrimediabilità dei peccati mortali e la necessità di un nuovo battesimo per gli adepti al movimento; il secondo, in cui espone in modo positivo la sua concezione della penitenza e della maniera di esercitarla. Contro il rigorismo degli avversari, che pretendevano di fondare le proprie tesi su alcuni passi della Scrittura, Ambrogio ricorda la misericordia di Dio, che assicura a tutti i peccatori pentiti la sua grazia, riferendosi alle parabole del samaritano, del figlio prodigo o all’episodio della resurrezione di Lazzaro. In questa linea, egli riprende gli stessi passi scritturistici di cui si avvalgono i Novaziani, fornendone un’interpretazione diversa. Ribadisce l’analogia tra battesimo e penitenza circa l’irripetibilità di entrambi i sacramenti, dai quali scaturisce una trasformazione radicale di vita, sempre possibile a chi si penta sinceramente del male commesso. Ambrogio denuncia l’incongruenza della dottrina dei Novaziani, che annunciano la penitenza, ma negano il perdono, pensano di onorare Dio con la loro intransigenza, ma in realtà lo offendono con la propria durezza.

    Mentre Ambrogio attende alla composizione del De poenitentia, Agostino si trova a Milano come professore di retorica. Attirato dalla predicazione di Ambrogio, si converte al cristianesimo, ricevendo da lui il battesimo nel 387. Agostino, a differenza di Ambrogio, non scrive un trattato specifico sulla penitenza, ma ad essa si ispira in varie opere, prima fra tutte le Confessiones, i cui primi nove libri costituiscono una biografia “sui generis”, dove il racconto si snoda, attraverso le tappe del percorso spirituale dell’autore, nella confessione dei suoi smarrimenti dinanzi a Dio. Così confessare la lode della grandezza e misericordia divina va insieme al confessare la propria miseria umana, riconoscendo che solo la misericordia di Dio può chinarsi sulla miseria dell’uomo e redimerla. Nella sua attività pastorale, Agostino tratta spesso della penitenza: in particolare, nei sermoni 351-352 (PL 39, 1535-1549; 1549-1560), De utilitate agendae poenitentiae, distingue tre specie di penitenza: quella prebattesimale, per cui è necessario pentirsi delle colpe commesse per poter iniziare una nuova vita attraverso il battesimo; la penitenza quotidiana, indispensabile per tutti, nella misura in cui la consacrazione battesimale non rende nessuno immune dalla caduta nel peccato, e pertanto occorre pentirsi ogni giorno delle colpe lievi, offrendo quotidianamente preghiere, elemosine e digiuni; infine la penitenza per i peccati mortali, più severa delle altre, per cui è necessario sottoporsi innanzitutto al tribunale della propria coscienza, prima ancora che a quello della Chiesa, e astenersi dalla mensa del Signore in attesa della riconciliazione.

    Nonostante il contributo di Ambrogio e Agostino alla teologia e alla prassi penitenziale, alla fine del periodo antico il ricorso alla penitenza si fa sempre più raro: l’irripetibilità del sacramento e la sua scarsa accessibilità, insieme alla gravosità degli interdetti penitenziali, che condizionano la vita del penitente anche dopo la riconciliazione, determinano una disaffezione crescente alla penitenza, che spesso viene differita in punto di morte.

    Un’inversione di tendenza si profila all’inizio del VII secolo, quando il monaco irlandese Colombano giunge in Italia, dove fonda nel 614 il monastero di Bobbio, ed introduce un nuovo sistema penitenziale, proveniente dalle isole celtiche. Le comunità cristiane della Gran Bretagna e dell’Irlanda infatti non conoscevano il regime della penitenza antica e avevano elaborato un particolare sistema penitenziale che prevedeva la penitenza privata ripetibile. In questo ambito, probabilmente nei monasteri cui queste comunità facevano riferimento, nascono i primi Libri poenitentiales come guide ai ministri della penitenza, che contengono le classificazioni delle colpe cui corrispondono le penitenze da imporre, le “tariffe”, particolarmente lunghe e onerose. Grazie dunque a S. Colombano e ai suoi seguaci, tra il VII e l’VIII secolo, questo sistema si diffonde nel continente, trovando ampi consensi. La penitenza tariffata infatti sembra offrire tutto ciò che al regime antico mancava, in una sorta di puntuale “coincidentia oppositorum”: la ripetibilità del sacramento al posto dell’unicità, la segretezza del processo penitenziale al posto della dimensione pubblica, la liberazione dalle tasse penitenziali una volta saldate al posto della gravosità degli interdetti attivi anche dopo la riconciliazione, l’accessibilità della penitenza a tutti al posto della sostanziale inaccessibilità ai più.

    Tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, i Libri penitenziali conoscono una particolare fioritura: le “tariffe” che essi contengono consistono sostanzialmente in digiuni, che vengono imposti non solo in base alla gravità della colpa, ma talvolta anche in rapporto allo stato di vita di chi l’ha commessa, e possono durare giorni, mesi o addirittura anni, rendendosi così praticamente insostenibili. Pertanto i Penitenziali contengono, sin dalle origini, liste di commutazioni per consentire al peccatore di “riscattare” il proprio digiuno attraverso opere espiatorie compiute da lui stesso o effettuate tramite terzi, in cambio di denaro, celebrazioni di messe o donazioni di terre. A lungo andare, la naturale conseguenza fu lo svuotamento di significato dell’espiazione.

    Così i teologi carolingi, a partire dal IX-X secolo, iniziano a spostare l’accento dall’espiazione all’accusa dei peccati, ritenendola sempre più cuore del processo penitenziale, senza la quale non può esservi perdono. Il rilievo che in età carolingia si inizia a dare alla confessione trova la sua compiuta manifestazione tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, grazie ad un breve trattato, il De vera et falsa poenitentia (PL 40, 1113-1130), scritto, secondo Pierre-Marie Gy in Italia (ma tale localizzazione rimane dubbia). Sotto il nome prestigioso di Agostino, l’opera segnerà come una pietra miliare la storia della penitenza medievale, offrendo la prima formulazione teologica del valore della confessione, per cui nell’accusa dei peccati il peccatore sperimenta il dolore per quanto ha commesso, che comporta vergogna e umiliazione. Sono questi sentimenti che ora rendono la confessione la vera penitenza (cfr. PL 40, 1122: cap. X, par. 25), capace di colmare il vuoto delle altre penitenze ormai logore del loro senso. La vis confessionis è talmente grande che, in mancanza del ministro, l’accusa dei peccati può esser fatta al prossimo e il peccatore può divenire degno di misericordia ex desiderio sacerdotis, sebbene il laico non abbia potere di assolverlo (cfr. ibidem). Il trattato, che a partire dalla metà del XII secolo viene tramandato in ampie sezioni dal Decretum di Graziano e dalle Sententiae di Pietro Lombardo, grazie ai quali conosce una straordinaria diffusione, lancia alla riflessione teologica posteriore alcune fondamentali linee prospettiche: sulla sua scia, l’attenzione dei primi Scolastici verterà sugli atti del penitente, e in particolare sul pentimento; la loro distinzione tra contritio e attritio scaturisce con ogni probabilità da quella, operata nel trattato, tra penitenza vera e falsa. L’intero processo penitenziale, che lo pseudo-Agostino designa significativamente con il termine confessio, già nella sua stessa epoca viene più precisamente indicato da Lanfranco da Pavia come sacramentum confessionis (Cfr. Lanfranco, De celanda confessione, in PL 150, 625-626), definizione difficilmente concepibile senza il contributo dell’autore del trattato. Significativo inoltre del cambiamento di accento sulla confessione, avvenuto attraverso il De vera et falsa poenitentia, sarà che, tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, i Libri penitenziali cederanno il posto alle Somme dei confessori; e ancor più significativo sarà il canone 21 del IV Concilio Lateranense del 1215, Omnis utriusque sexus, che prescrive ad ogni fedele cristiano, giunto in età conveniente, di confessare privatamente i suoi peccati al proprio sacerdote almeno una volta l’anno e di comunicarsi nella sua parrocchia almeno a Pasqua (Cfr. DS 812 già 437): viene sancita così, in modo ufficiale, la centralità della confessione orale nella pratica sacramentale e – particolare di sorprendente rilievo – in quel concilio alcune espressioni, in materia di disciplina sacramentale, vengono direttamente desunte dal Tractatus de poenitentia, inserito nel Decretum Gratiani, quindi proprio dal De vera et falsa poenitentia.

    Di fatto, però, l’obbligo stabilito dalla costituzione conciliare viene attuato solo in parte, ovvero soltanto per quel che riguarda la prescrizione della confessione annuale. L’obbligo di confessarsi al “proprio” sacerdote, invece, non riesce a realizzarsi, se non in modo marginale e per colpe lievi, che richiedono una penitenza privata, la cui giurisdizione spetta al parroco. Per i peccati gravi, che esigono una penitenza pubblica, è necessario rivolgersi al vescovo, se non addirittura al papa. Del resto, il clero curato risulta inadeguato ad accogliere la confessione annuale dei parrocchiani a causa della sua scarsa formazione teologico-canonistica, che non gli consente di avvalersi nemmeno dell’aiuto offerto dalle Summae confessorum, che cominciano a diffondersi all’indomani del Lateranense IV come guide teoriche e pratiche per una rigorosa amministrazione del sacramento della penitenza. Questi poderosi trattati, che a partire dal modello fornito dal domenicano catalano Raimond di Peñafort (1220-1240) vengono scritti anche in Italia – per citare solo qualche nome, dai francescani Astesano d’Asti (1317 ca.) e Angelo da Chivasso (1480-1490) o dal domenicano Bartolomeo da Pisa (1338) – restano fuori della portata del clero diocesano, del tutto impreparato a comprendere la complessa disciplina dei “casi”, strettamente congiunta al diritto canonico, che contraddistingue queste opere.

    Più adatti al modesto livello culturale del clero curato appaiono i “manuali per la confessione”, spesso scritti in lingue volgari, che si limitano ad offrire sia ai confessori che ai penitenti le indicazioni necessarie per amministrare e ricevere il sacramento della penitenza. Gli autori di questi manuali, come quelli delle Summae, sono per lo più dei religiosi appartenenti agli ordini mendicanti: per fare solo qualche esempio, in Italia i domenicani fiorentini Jacopo Passavanti e S. Antonino o il francescano S. Bernardino da Siena. In effetti, sono proprio i membri dei nuovi ordini religiosi che, in virtù della loro preparazione culturale e della propria attività pastorale, assumono dagli inizi del XIII secolo il compito della predicazione e dell’ascolto delle confessioni. Nel 1221 il papa Onorio III, nell’enciclica Cum qui recipit prophetam, affida all’ordine domenicano, cui in seguito si aggiungerà anche quello francescano, la pratica della confessione; disposizioni analoghe verranno prese anche da Gregorio IX e Innocenzo IV, a conferma del fatto che non basta essere sacerdoti per poter confessare e assolvere, ma occorre aver ricevuto una specifica delega dal vescovo o dal papa. Così l’amministrazione del sacramento della penitenza si realizza solo in parte attraverso il clero diocesano, e l’obbligo di confessarsi al “proprio” sacerdote, previsto dal Lateranense IV, viene in gran parte disatteso mediante il sistema della riserva dei casi, di cui è competente il papa, il foro episcopale, al quale viene affidata l’assoluzione dei peccati più gravi, e l’attività dei membri degli ordini mendicanti con poteri delegati dal papa.

    L’obbligo del 1215 sarà sempre meno realizzabile quando sorgeranno, tra la fine del XII e la metà del XIII secolo, il tribunale della Penitenzieria apostolica e quello dell’Inquisizione, legati ad autorità giudiziarie che, pur passando attraverso la confessione, vanno oltre il ruolo del confessore. La Penitenzieria nasce infatti dalla figura del penitenziere papale, il cardinale delegato all’assoluzione dei peccati riservati al papa; l’Inquisizione pone al suo centro la figura dell’inquisitore, il giudice chiamato a reprimere i sospetti di eresia e combattere la corruzione all’interno della Chiesa. Entrambi i tribunali diventano rappresentativi dell’esercizio del potere ecclesiastico, sebbene declinato in modi diversi, attraverso la concessione di grazie e dispense, fornite dalla Penitenzieria, o mediante il metodo giudiziario-repressivo, adottato dall’Inquisizione. Questi sviluppi istituzionali determinano prassi nuove e fanno emergere concezioni latenti in ambito penitenziale: il ricorso alla concessione di grazie dà luogo alla pratica delle indulgenze, ossia della remissione delle pene temporali dei peccati ottenuta al di fuori del sacramento della penitenza; l’adozione del sistema repressivo nei confronti dei sospetti di eresia rafforza sempre più l’idea della confessione come atto giudiziario. Contro questo modo di vivere ed intendere la penitenza reagisce Lutero, che nel 1517 promulga come segno di rottura le sue 95 tesi sulle indulgenze e nel 1520, per sottolineare anche simbolicamente il suo rifiuto della pratica penitenziale cattolica, brucia la Summa angelica di Angelo da Chivasso.

    In polemica con i Riformatori, il Concilio di Trento (1545-1563) afferma, sulla base di Gv 20, che la penitenza è un sacramento istituito da Cristo (cfr. DS 1701-1710); del resto, essa era già stata inclusa tra i sette sacramenti al Concilio di Firenze (1438-1445), nella Bolla di unione degli armeni (cfr. DS 1310-1313). Il Concilio tridentino distingue tra sacramenti maggiori e minori (cfr. DS 1603, can. 3), per cui la penitenza risulta subordinata ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, conferma che essa va amministrata dall’autorità ecclesiastica e la ritiene necessaria per la remissione dei peccati. Il Concilio ribadisce l’obbligo della confessione annuale per tutti i battezzati, sancito dal canone 21 del Lateranense IV, e difende il diritto della Chiesa di concedere indulgenze, sia pure con moderazione (cfr. DS 1835). Il Concilio puntualizza che la contrizione, la confessione e la soddisfazione del penitente sono parti o “quasi materia” del sacramento, mentre l’assoluzione del sacerdote è la “forma”, e sottolinea che il potere di assolvere non dipende dalla santità del ministro, ma si fonda sul comando di Gesù Cristo, contenuto in Mt 18,18 e Gv 20,23. In questa linea, i Padri conciliari ribadiscono il carattere di atto giudiziario della confessione sacramentale, di cui il giudice è il confessore.

    Tra il ministro e il penitente occorre dunque che si instauri un legame stabile e intenso, ma che sia rispettoso della distanza dovuta tra chi giudica e chi è giudicato (in modo particolare se si tratta di donne penitenti, con cui poteva sempre accendersi la sollicitatio ad turpia). Da questa preoccupazione nasce l’idea del confessionale, la cui struttura originaria viene proposta per la prima volta nel 1542 dal vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, sotto forma di tabula divisoria, che separa il confessore dalla penitente. Dopo il Concilio di Trento, nel 1577, essa trova la sua piena realizzazione, come vero e proprio mobile, con il cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, e ben presto si diffonde in tutta la cristianità cattolica. Ma mentre il confessionale diviene il simbolo della confessione sacramentale intesa come atto giudiziario, garantendo la distanza tra confessore-giudice e penitente-imputato, si introduce l’attività penitenziale dei Gesuiti, che “lavorano” nel confessionale in un modo del tutto nuovo. La Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1539, e ben presto diffusa anche in Italia, si fa promotrice infatti di una nuova forma di rapporto tra confessore e penitente e di un nuovo modo di intendere la confessione.

    Dotati di una solida preparazione nei casi di coscienza, i confessori gesuiti si offrono ai penitenti come conforto e guida spirituale. Malgrado i poteri loro conferiti – possono assolvere da ogni vincolo di scomunica e da tutti i casi riservati – non si pongono dinanzi ai penitenti come giudici, ma come padri e medici. La relazione che si instaura nel confessionale è dunque profonda e durevole, e pertanto richiede una frequentazione assidua, che va ben oltre l’obbligo annuale stabilito dal Lateranense IV e ribadito dal Concilio di Trento. La confessione diviene così il luogo della fiducia e dell’ascolto, dello svelamento e dell’aiuto. È opportuno che sia “generale”, ovvero che comporti un profondo scavo interiore e un’attenta analisi della propria vita, perché possa costituire l’inizio di un percorso di perfezionamento, volto alla conversione e alla guarigione.

    Entrambe le novità introdotte dai Gesuiti – il rapporto tra confessore e penitente e la confessione intesa come inizio di un cammino di perfezionamento – si fondano sulla riscoperta dell’antica concezione del peccato come malattia, che affligge il peccatore-malato, al quale il confessore-medico può prestare la sua cura per ricondurlo alla guarigione attraverso il sacramento della confessione. Il recupero di questa concezione terapeutica della penitenza, che nel tempo era stata offuscata da quella di tipo giudiziario, consente ai Gesuiti di improntare la propria attività penitenziale sulla direzione spirituale, segnando una svolta nella storia della confessione. L’idea che il confessore non è più un giudice, ma un medico e un padre, porterà un Gesuita italiano come Francesco Saverio, in una lettera del 1549, a suggerire ai confessori di rivelare per primi le proprie mancanze ai penitenti pur di suscitare in essi una fiduciosa apertura d’animo, libera dal timore del giudizio.

    In questa linea, circa due secoli dopo, il napoletano Alfonso de’ Liguori, fondatore dei Redentoristi, parla dei “doveri di padre” nella sua Guida del confessore del 1764. Per adempiere a tali doveri, il confessore deve porsi nei confronti del penitente con benevolenza e carità, non dimenticando di essere per lui un medico spirituale. Ancora nel XIX secolo, don Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani, nell’ambito dell’attività penitenziale ad opera delle parrocchie, sottolinea la necessità di accogliere il penitente con amorevolezza e di correggerlo con bontà perché la penitenza costituisca l’inizio di un percorso di crescita spirituale, volto alla guarigione dal peccato e alla conversione del peccatore.

    Fonti e Bibl. essenziale

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