Democrazia Cristiana – vol. II

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    Autore: Andrea Ciampani

    Nella seconda metà del 1942 alcuni esponenti del laicato cattolico nazionale (tra i quali alcuni leader del → Partito popolare, dirigenti → dell’Azione cattolica (Ac), professori dell’Università cattolica e militanti “neoguelfi”) iniziarono a discutere per delineare l’orizzonte di uno Stato democratico dopo l’auspicata caduta del Fascismo. La loro iniziativa si inserì nel processo costitutivo dei comitati delle “democrazie unite” (quella del lavoro, quella socialista e quella “cristiana”), con l’obiettivo di creare un’ampia coalizione antifascista nel gennaio 1943. Dal marzo seguente, prese forma nella clandestinità il programma di un partito democratico cristiano che, dopo l’arresto di Mussolini, era pronto per circolare col titolo Idee ricostruttive della Democrazia cristiana. Pochi giorni prima, alcuni cattolici si raccolsero per riflettere intorno alle fondamenta di uno Stato democratico durante alcune giornate di studi, le cui conclusioni vennero poi fissate nel documento noto come Codice di Camaldoli. Così, mentre l’Ac si offriva come punto di riferimento per la ricostruzione civile nell’Italia, la Democrazia cristiana (Dc) dal settembre 1943 partecipò al Comitato di liberazione nazionale, all’organizzazione della Resistenza e infine alla formazione dei governi che seguirono la liberazione di Roma nel giugno 1944. Ad Alcide De Gasperi, leader del partito, fu affidato prima il ministero degli Affari esteri, poi, nel dicembre 1945, la stessa la presidenza del Consiglio nel governo di coalizione (col socialista Romita ministro dell’Interno e il comunista Togliatti ministro di Grazia e Giustizia) che condusse l’Italia al referendum per la monarchia e la repubblica e al voto per eleggere l’Assemblea costituente, il 2 giugno 1946.

    Col sostegno della Chiesa locale la Dc aveva iniziato a organizzarsi nel territorio, mentre dal centro nazionale metteva a punto strutture proprie per confrontarsi con una nuova classe dirigente con gli esponenti del liberalismo prefascista e con i militanti socialisti e comunisti. I risultati elettorali della Assemblea Costituente diedero alla Dc il 35,2 % dei voti validi, presentandola come il maggiore partito in tutto il territorio del Paese, davanti a socialisti e comunisti, e come il raggruppamento politico preminente (207 eletti su 555 costituenti). Nel grave contesto internazionale che vedeva l’Italia nazione sconfitta nella guerra mondiale e nella complessa situazione interna di ricostruzione socioeconomica, dialogando col Vaticano la Dc si trovò anche a svolgere il difficile compito di rappresentare il mondo cattolico italiano nel processo che avrebbe dato al Paese le basi costituzionali della giovane repubblica. Grazie al consenso elettorale ricevuto e alla stima di cui godeva la sua leadership antifascista, la Dc si pose al centro degli schieramenti politici, ricercando ampie coalizioni, senza rinunciare ad esercitare responsabilmente le scelte che richiedevano congiunture straordinarie e strategie di lungo periodo. In tale scenario va collocato sia il contributo democratico cristiano all’elaborazione della carta costituzionale, in un meditato percorso di mediazione con le altre culture politiche, sia l’esclusione del Partito comunista italiano (Pci) dal governo nel maggio 1947, dopo la scissione socialdemocratica dal Partito socialista.

    La Chiesa cattolica italiana e il pontefice (che avevano ottenuto il mantenimento in vigore dei Patti Lateranensi) compresero l’importanza della nuova emergenza che si stava delineando, in vista delle prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana, con la costituzione del Fronte popolare – col simbolo di Garibaldi – che raccoglieva insieme socialisti e comunisti (una forza elettorale potenzialmente superiore alla Dc). Nell’incipiente clima da Guerra fredda i cattolici rafforzarono il loro sforzo formativo per favorire non solo un maggiore impegno civile, ma anche scelte elettorali ispirate al magistero ecclesiale; per sostenere la propaganda democristiana non mancò una mobilitazione prepartitica dei militanti d’Ac attraverso la costituzione di Comitati civici. Contemporaneamente, l’elettorato liberal conservatore faceva confluire il suo consenso sul partito democristiano come perno di un sistema politico democratico e occidentale, contrapposto alla pretesa egemonica comunista, collegata alla politica sovietica. Infine, il risultato delle elezioni del 18 aprile 1948, un evento decisivo per la storia dell’Italia repubblicana, assegnò alla Dc il 48,5% dei voti alla Camera dei deputati, mentre il raggruppamento social-comunista raccoglieva il 31% (da allora, peraltro, i comunisti ebbero nelle elezioni più consensi dei socialisti). Attraverso la Dc, il cattolicesimo italiano partecipava pienamente, per la prima volta nella storia dello Stato nazionale, al governo del Paese, con l’obiettivo primario di restituirgli coesione sociale all’interno e credibilità sul piano della politica estera.

    Si impostò allora la stagione politica del “centrismo”, in cui, pur forte di una salda maggioranza parlamentare, il partito democristiano s’impose come elemento di equilibrio tra diversi interessi politici (coinvolgendo socialdemocratici, repubblicani e liberali) e sociali (confrontandosi con i sindacati, le imprese e il movimento cooperativo). Auspicata dalla gerarchia cattolica, l’unità dei diversi orientamenti del cattolicesimo politico italiano all’interno della Dc rese presto più complesso il rapporto tra azione cattolica e azione politica. Nel mondo cattolico che sosteneva la Dc, sotto la spinta di una sorta di populismo evangelico, non mancavano le aspettative per un governo impegnato a realizzare il magistero sociale della Chiesa. Nel dibattito pubblico si accentuò il radicale contrasto tra una sorta di spiritualizzazione della politica sostenuta da Giuseppe Lazzati e la mobilitazione della spiritualità incoraggiata da Luigi Gedda. Nel 1951 suscitò motivo di riflessione la scelta di Giuseppe Dossetti, già vicesegretario della Dc e influente esponente della Costituente, di lasciare la vita politica per quella religiosa. De Gasperi, peraltro, doveva continuamente richiamare la distinzione tra la responsabilità politica del laicato cattolico e la rappresentazione degli interessi religiosi nella sfera pubblica, come anche in occasione delle elezioni amministrative di Roma nel 1952.

    Intanto, il perseguimento di un’efficace politica di alleanze e l’esigenza di calare i valori della tradizione cristiana nel concreto delle trasformazioni sociali posero le basi per avviare significative riforme. Si promossero negli anni Cinquanta la piccola proprietà contadina e la riforma agraria, si svilupparono piani per l’occupazione e per l’edilizia popolare, si agevolò il credito per la piccola industria, l’artigianato e la cooperazione, si favorì il risparmio e la produttività, si coordinò l’assistenza sociale. Più arduo si rivelò il percorso di riforma della scuola, del sistema burocratico e delle autonomie locali. Mentre si accettava il costituirsi di un moderno sistema di relazioni industriali sul riconoscimento delle libertà sindacali, s’impostò un articolato intervento pubblico in un regime di economia mista: si istituì la Cassa per il Mezzogiorno, si promosse l’Eni, si ristrutturò l’Iri. Accanto alla ripresa produttiva la Dc sostenne la partecipazione italiana alle dinamiche internazionali: dall’impostazione della politica atlantica alla realizzazione del piano ERP; dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del 1951, primo gradino di un’integrazione europea (cui De Gasperi attribuì una chiara valenza politica, come dimostrò nel dibattito sulla Comunità Europea di Difesa), fino ai Trattati di Roma della CEE e dell’Euratom nel 1957. Nell’Italia che si avviò al boom economico alla fine degli anni Cinquanta, durante la segreteria politica di Amintore Fanfani la Dc si diede una robusta organizzazione, si confrontò con i soggetti sociali, ricercò aperture ed equilibri politici in grado di sostenere maggiori riforme. Dopo il 1956, la divisione tra socialisti e comunisti, del resto, aveva incoraggiato la verifica di possibili aperture per ampliare il consenso ai governi democratici repubblicani.

    Una rinnovata identità politica democristiana prendeva forma, piuttosto, all’inizio degli anni Sessanta, durante la segreteria politica Dc di Aldo Moro, nel percorso di preparazione di un governo di “centro sinistra organico”, realizzato, infine, nel 1963 con la partecipazione del Partito socialista. Mentre cristallizzate correnti interne influivano sulla rappresentazione pubblica del partito, la Dc rinnovava le leadership locali con uomini che avrebbero svolto un ruolo importante nei decenni successivi. La Dc poneva ora la primazia dell’agire politico al centro dei suoi rapporti con formazioni sociali considerate “collaterali”, nell’ambito del generale processo di penetrazione dei partiti nella società civile. Nello stesso tempo, la Dc continuava a costituire per la Chiesa italiana un’autorevole interlocuzione nel delineare il ruolo pubblico dei cattolici nella vita sociale; nel periodo segnato dal Concilio Vaticano II, tuttavia, la crescente critica alla società consumistica e all’autoritarismo dei gruppi dirigenti coinvolse l’immagine di un partito democristiano sempre più identificato con l’establishment dello Stato repubblicano.

    La contestazione del Sessantotto e la conflittualità sindacale del 1969 videro i governi democristiani avvertiti dell’esigenza di introdurre ulteriori riforme (come nel campo delle pensioni e della sanità), così come di provvedere a un rinvigorimento delle strutture sociali (anche attraverso la realizzazione dell’ordinamento regionale). I limiti della programmazione economica del centro-sinistra richiedevano il coinvolgimento di imprese e sindacati di fronte all’incipiente crisi economica. Sul piano politico, mentre si evidenziavano i limiti di un bipolarismo imperfetto, negli anni Settanta si affacciò l’ipotesi di un compromesso storico tra le culture popolari democristiana e comunista. Fu il profondo mutamento nei rapporti sociali che, tuttavia, sembrò sorprendere una Dc impegnata con Mariano Rumor a tamponare la fragilità politica dei governi, scossi anche dall’emergenza terroristica e da ripetute perturbazioni economiche internazionali. Il valore politico della sconfitta parlamentare sulla legge sul divorzio del 1970 si tramutò, col fallimento del suo referendum abrogativo nel 1974, nella fine conclamata dell’unità politica dei cattolici nella Dc. Si colsero allora le conseguenze politiche della profonda laicizzazione avvenuta nella società italiana, in cui nuova centralità dei media e autoreferenzialità consumistica contribuivano a una progressiva frammentazione delle soggettività popolari. La Dc concentrò il suo impegno sul mantenimento del proprio bacino elettorale, impedendo al Pci di diventare il primo partito italiano (nel 1976, il 38,7% dei voti andò ai democristiani mentre i consensi comunisti si fermarono al 34,4%), e sulla formulazione di nuovi equilibri politici durante i governi di Giulio Andreotti, in occasione della “solidarietà nazionale” e della grave crisi politico-istituzionale provocata dal rapimento e dall’uccisione di Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978.

    Negli anni Ottanta la formazione dei ministeri continuò a far perno sulla Dc: occorreva misurarsi con la spirale inflazionistica che frenava il Paese, ripensando il rapporto tra politica ed economia, mentre si delineava l’unificazione economica e monetaria europea. Per la prima volta, però, il partito democratico cristiano si trovò a sostenne governi affidati a leader repubblicani, come Spadolini, e socialisti, come Craxi (che condusse in porto la riforma del Concordato). Soprattutto, la sconfitta sul referendum sull’aborto del 1981 produsse un ripensamento del profilo politico della Dc, rilanciando un dialogo con la società civile e con le articolazioni del mondo cattolico, attraverso il coinvolgimento di esponenti “esterni” al partito. Non ci fu, tuttavia, un’adeguata percezione dell’affermarsi delle problematiche che riguardavano il rapporto tra morale e politica nelle società industrialmente avanzate. La Dc appariva identificata nel ruolo di partito di moderazione in uno scenario neocorporativo orientato da concezioni elitiste, mentre la rappresentanza elettorale sembrava ridursi a mera procedura per investire oligarchie di comando. Si andavano trasformando, anche per questo, il ruolo tradizionale dei partiti: sul piano interno, sotto il peso del debito pubblico entrava in crisi il consociativismo democristiano, specialmente nelle regioni settentrionali; le dinamiche internazionali seguenti al 1989 e al crollo dell’URSS, che minarono l’esistenza del Pci, mettevano in discussione i presupposti politici di una diga anticomunista e occidentale aggregata intorno alla Dc, impegnata in una società globalizzata a conseguire per l’Italia l’approdo dell’Unione europea economica e monetaria (realizzata nel 1992).

    L’identità democristiana, tuttavia, veniva frantumata dall’incapacità di un ricambio generazionale, non meno grave delle accuse giudiziarie rivolte ad alcuni leader storici, e dalle campagne referendarie in materia elettorale del 1991 (contro le preferenze multiple) e del 1993 (sul sistema uninominale e maggioritario). Le ripercussioni mediatiche e politiche di Tangentopoli, seguite alle inchieste della magistratura per colpire il finanziamento illecito ai partiti, travolsero una parte rilevante del gruppo dirigente democristiano. Il 19 gennaio 1994 il segretario della Democrazia cristiana Mino Martinazzoli, dopo un rapido e duro dibattito interno, faceva sorgere sulle ceneri della Dc un nuovo Partito popolare (Ppi); in dissenso con tale scelta si costituì il Centro Cristiano Democratico. Ad occupare lo spazio politico moderato e raccogliere l’eredità elettorale della Dc (che nel 1992 poteva contare ancora il 29,7% dei voti) nelle elezioni politiche del 1994, comunque, non fu solo il Ppi (11%), ma anche il neonato partito Forza Italia (21%). Negli anni successivi, peraltro, non sono mancate occasioni per interrogarsi sulla presenza di esponenti cattolici in diverse formazioni politiche, alla luce del magistero pontificio e delle esperienze della Chiesa nella vita sociale italiana.

    Fonti e Bibl. essenziale

    P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 1977; F. Malgeri (a cura di), Storia della Democrazia cristiana, voll. 1-5, Cinque Lune Roma / voll. 6-7 Mediterranea, Palermo, 1987-2000; G. Tassani, La terza generazione: da Dossetti a De Gasperi, tra Stato e rivoluzione, Roma, Edizioni Lavoro, 1988; A. Giovagnoli, La cultura democristiana: tra Chiesa cattolica e identità italiana 1918-1948, Laterza, Roma – Bari, 1991; M. Casella, 18 aprile 1948: la mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo, Galatina, 1992; G. Formigoni, La democrazia cristiana e l’alleanza occidentale, Il Mulino, Bologna, 1996; A. Giovagnoli, Il partito italiano: la Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma – Bari, 1996; V. Saba, Quella specie di laburismo cristiano: Dossetti, Pastore, Romani e l’alternativa a De Gasperi, 1946-1951, Edizioni lavoro, Roma 1996; A. Canavero, Alcide De Gasperi: cristiano, democratico, europeo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; F. Malgeri, L’Italia democristiana: uomini e idee del cattolicesimo democratico nell’Italia repubblicana (1943-1993), Gangemi, Roma, 2005; P. Scoppola, La nuova cristianità perduta, Studium, Roma, 2008 terza edizione; V. Capperucci, Il partito dei cattolici: dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010; G. Bianco, La Balena bianca. L’ultima battaglia 1990 -1994, conversazione con Nicola Guiso, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.


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