Ebrei – vol. I

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    Autore: Anna Foa

    Nel vasto mosaico di popoli e religioni che costituiva l’Impero romano alle soglie della sua cristianizzazione, gli ebrei – presenti in numerose comunità fin da prima del 70 d.C., la data della distruzione del Tempio di Gerusalemme da cui si fa iniziare la diaspora, e a Roma già dal II secolo a.C. – erano cittadini al pari degli altri, un diritto che Caracalla aveva concesso a tutti gli abitanti del territorio imperiale nel 212 d.C. Le restrizioni a questa piena cittadinanza iniziarono subito dopo la vittoria del Cristianesimo: già sotto Costantino furono proibite le conversioni al giudaismo e vennero introdotte limitazioni al possesso di schiavi cristiani. La prima norma di proibizione del matrimonio fra ebrei e cristiani è del 388. Tutta questa sparsa legislazione confluì nel codice teodosiano della metà del IV secolo e divenne ulteriormente restrittiva nel codice giustinianeo del VI secolo. Nonostante queste limitazioni, tuttavia, il codice teodosiano manteneva la religione ebraica come una religio licita, principio che servì a garantire dal punto di vista giuridico la presenza ebraica nell’Occidente dell’alto Medioevo, impedendo che l’ebraismo fosse considerato come un’eresia e che agli ebrei fosse tolto ogni stato giuridico. Nelle zone dove sopravvisse il diritto romano, essi restarono cittadini, sia pur dimidiati.

    Queste formulazioni giuridiche si saldarono con le teorizzazioni fatte dalla Chiesa sulla base tanto della tradizione teologica paolina e agostiniana quanto di vere e proprie opzioni politiche. Sotto Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, la scelta del mantenimento della presenza ebraica nella società cristiana, sia pur in uno statuto di inferiorità e subordinazione, è ormai netta, e va di pari passo con il rifiuto della Chiesa delle conversioni forzate. Nel 1121 il papa Callisto III sancirà nella Bolla Sicut Iudaeis, più volte ripubblicata e ripresa nel diritto canonico, questa sorta di contratto tra gli ebrei e la società circostante, mentre nel 1205 la Bolla di Innocenzo III Etsi Iudaeos definirà lo status giuridico dell’ebreo come quello di una “perpetua servitus”, una servitù però da intendersi in senso teologico e non giuridico. Queste formulazioni confluirono nel secolo XII nel corpo del diritto canonico, a teorizzare il ruolo degli ebrei nella società cristiana e i limiti della loro presenza.

    Il senso ultimo di questa teorizzazione era evidentemente quello di mantenere un equilibrio tra l’inferiorità degli ebrei e la loro permanenza “necessaria” nel mondo cristiano come testimoni della verità della fede. Restavano tuttavia aperti molti spazi per una ridefinizione di questa politica in tutti i sensi, ad ogni oscillazione del pendolo che reggeva questo difficile equilibrio e ad ogni mutamento del contesto storico.

    Il secondo millennio si apriva con pesanti sconvolgimenti nel rapporto degli ebrei con la società cristiana che, se pur non toccavano direttamente il rapporto con la Chiesa, non potevano non avere conseguenze su di esso. Gli attacchi alle comunità ebraiche renane ai margini della prima crociata, nel 1096, le conversioni forzate che si verificarono e che posero per la prima volta alla Chiesa il problema del ritorno all’ebraismo dei convertiti a forza, la diffidenza instauratasi fra i due mondi in seguito a questi massacri cominciarono a aprire crepe visibili nell’edificio costruito dalla Chiesa nei primi secoli del cristianesimo. Le accuse agli ebrei di omicidio rituale e di sacrilegio dell’ostia, con la loro scia di esecuzioni e morti, si susseguono a partire dal XII secolo, nonostante l’atteggiamento della Chiesa si mostri subito contrario a queste mitologie persecutorie. Nel 1247, Innocenzo IV le dichiara false in una Bolla, la Lachrymabilem Iudaeorum. Inutilmente, tanto forte è la pressione dei sovrani secolari, del basso clero e del popolo. A partire dal XIII secolo, il peggioramento delle condizioni degli ebrei è netto e costante, anche se sono soprattutto le monarchie nazionali a mettere in atto strategie di uniformizzazione religiosa: nel 1290 gli ebrei sono espulsi dall’Inghilterra, nel corso del Trecento dalla Francia. Nonostante nel 1215 il Concilio Laterano IV avesse varato norme peggiorative nei confronti degli ebrei, tra cui fondamentali quella, da loro fortemente avversata, del segno distintivo, e una regolamentazione del prestito ebraico attraverso la proibizione delle usure “gravi e immoderate”, la Chiesa continuava tuttavia a mantenere la presenza ebraica nel suo seno, anche se al suo interno si facevano avanti spinte fortemente antiebraiche. All’avanguardia, sono i nuovi ordini mendicanti, in particolare i francescani. Immediatamente partecipi dell’attività della nuova istituzione creata nel 1231 per combattere l’eresia, l’Inquisizione, i mendicanti cercano di allargare la giurisdizione inquisitoriale fino a comprendervi gli ebrei, che il diritto canonico definiva non eretici, ma appartenenti ad una religione consentita. Il risultato sarà quello della costruzione di una nuova eresia, quella dei giudaizzanti, in cui rientravano i convertiti che tentavano di rientrare in seno all’ebraismo. La sancisce una Bolla di Clemente IV del 1267 Turbato corde, gravida di conseguenze sul rapporto con il mondo ebraico. I predicatori francescani, spesso in contrasto con le direttive di Curia, sollevano il popolo contro la presenza dei prestatori ebrei nelle città dell’Italia centrale e settentrionale, collegando questa agitazione alla creazione dei Monti di Pietà, mentre si moltiplicano gli appelli alla conversione, su cui Roma si mantiene tuttavia abbastanza prudente. L’attacco al Talmud, partito dalla corona francese e non da Roma, lasciò i papi oscillanti, dal momento che la Chiesa, fino al XVI secolo, resta incline più alla sua correzione che alla sua soppressione, alla censura cioè delle parti del testo ebraico considerate blasfeme. Anche quando Roma farà sua la politica antitalmudica, con il rogo del Talmud del 1553, la sua proibizione, e infine la sua inclusione nell’Indice dei libri proibiti nel 1559, il mondo cattolico continuerà a dibattere sulle ambigue valenze della letteratura rabbinica.

    Quanto alla formulazione del decreto del Concilio Laterano del 1215 sulle usure immoderate, esso non fu una decisa restrizione posta al prestito ebraico, ma piuttosto un compromesso fra i canonisti più rigidi, decisi a proibire radicalmente il prestito, e l’ala legata alla politica papale, assai più elastica e possibilista. Fu quest’ultima di fatto a prevalere, almeno fino al XVI-XVII secolo, anche se a partire dal Quattrocento la Chiesa ebbe sempre maggiori difficoltà nel contenere la predicazione francescana e le violenze da essa suscitate. A Roma, dove il controllo sul clero mendicante era più stretto, i banchi ebraici furono proibiti solo nel 1682. Un segnale inquietante di crisi fu nel 1475 la vicenda di Simonino da Trento, in cui l’intera comunità ebraica trentina fu sottoposta a processo sotto l’accusa di aver ucciso ritualmente un bambino cristiano, il piccolo Simonino, e in cui la Chiesa sembrò attenuare, sotto la spinta delle motivazioni politiche, il rigore del suo tradizionale rifiuto delle accuse di omicidio rituale.

    La svolta che introduce nella linea della Chiesa elementi di radicale innovazione si verifica però solo nel XVI secolo, con l’introduzione dei ghetti e con l’assunzione in prima persona, da parte della Chiesa, di quella spinta conversionistica che fino a quel momento era stato fatto proprio solo dalle istanze ecclesiastiche inferiori e che ora diventava un obiettivo privilegiato del papato. Molti i fattori che portano a questa svolta: le tensioni riformatrici della Chiesa, che vedevano nella tolleranza degli ebrei un fattore di corruzione mondana della Chiesa; le spinte repressive dell’eresia, che spingevano alla chiusura verso ogni diversità; il fervore escatologico, che vedeva nella conversione totale degli ebrei il preludio necessario alla fine dei tempi storici; il modello dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna del 1492, che si faceva sentire pesantemente in un’Italia in cui metà della penisola era sotto il diretto dominio della Spagna e il resto ne era comunque fortemente dipendente.

    Nonostante la scelta dell’espulsione non manchi questa volta, e per la prima volta nei secoli, di essere sollevata anche a Roma l’opzione non è tuttavia quella spagnola dell’espulsione, ma un compromesso, che mantiene la presenza pur appesantendo fortemente e progressivamente l’inferiorità: il ghetto, cioè la chiusura degli ebrei in una o più strade separate da quelle dei cristiani e chiuse da mura e portoni, aperti al passaggio solo nelle ore del giorno. Una specie, cioè, di semiprigionia, volta a rendere sempre più pesanti le condizioni degli ebrei e a spingerli nelle braccia aperte della Chiesa. L’ istituzione dei ghetti fu varata da Paolo IV Carafa nel 1555, appena assurto al pontificato, con la Bolla Cum nimis absurdum. L’istituzione del ghetto era accompagnata da norme che limitavano fortemente i mestieri consentiti agli ebrei e da altre restrizioni. Il primo ghetto era in realtà stato già creato dalla Repubblica di Venezia nel 1516, ma era rivolto esclusivamente alla separazione, e mancava di quelle motivazioni teologiche, in primis la conversione, che caratterizzano invece l’attività di creazione dei ghetti dopo il 1555, patrocinata esclusivamente dalla Chiesa, spesso in conflitto con i sovrani e i principi secolari. L’Italia del Cinque Seicento costruisce progressivamente ghetti in tutte le località in cui esistono ebrei. Solo nello Stato della Chiesa la ghettizzazione si accompagna ad un’espulsione: all’interno del ghetto e non all’esterno, però. Due Bolle, una di Pio V nel 1569, la Hebraeorum gens, e l’altra di Clemente VIII nel 1598, la Caeca et obdurata, espellono gli ebrei dello Stato pontificio da tutte le località dove ancora erano presenti, per concentrarli nei ghetti di Roma, Ancona ed Avignone. Più tardi, ghetti furono creati a Ferrara, Cento e Lugo, passati nel 1598 sotto il dominio della Chiesa. Con la creazione del ghetto, la Chiesa riafferma ancora una volta la necessità della presenza ebraica nel suo seno, subordinandola in maniera ancora più netta all’esaltazione della verità cristiana. Il ghetto finisce così per divenire il maggiore strumento della politica conversionistica tentata dalla Chiesa della Controriforma e volta non a convertire un numero più alto di ebrei, ma a risolvere una volta per tutte, attraverso la conversione, il problema ebraico. Un obiettivo fallito in quanto tale, anche se il numero delle conversioni fu, nell’età dei ghetti, consistente e la suggestione del battesimo influenzò profondamente la vita degli ebrei tra le mura del ghetto, rendendola precaria ed insicura.

    La predica forzata, istituzionalizzata dalla Chiesa nel 1584, rappresentò l’aspetto più teatrale, ed anche quello meno efficace, della politica conversionistica. Obbligati ad ascoltare una predica tutti i sabati, un terzo della comunità a turno, gli ebrei reagivano con ogni possibile resistenza, dai tappi nelle orecchie al sonno, mentre i cristiani dalle tribune guardavano lo spettacolo. Maggiori risultati si ottennero con la Casa dei Catecumeni. Fondata sotto l’impulso di Ignazio di Loyola nel 1542, essa era destinata ad accogliere, per istruirli nella dottrina cristiana, gli ebrei e gli altri infedeli. Nel 1562 fu fondata una Casa per donne, nel 1577 il Collegio dei neofiti, destinato a creare predicatori, ebraisti, studiosi. Nel corso del Seicento, e ancor più nel Settecento, la Casa dei Catecumeni si aprì ad accogliere forzatamente quanti avessero sia pur lontanamente manifestato un’intensione di conversione, mentre si faceva sempre più difficile il problema dei battesimi dei bambini, spesso “offerti”, cioè consegnati affinché si convertissero, alla Casa dei Catecumeni da parenti già convertiti, e non dai genitori che godevano della patria potestà. Si giunse così, soprattutto nel caso dei bambini, nonostante le proibizioni canoniche, ad usare la forza nella conversione o perlomeno ad andarvi assai vicino.

    A parte la questione dei battesimi invitis parentibus, e a parte la chiusura dei Banchi del 1672, che ebbe l’effetto di impoverire fortemente la Comunità romana, i secoli del ghetto, tra il Cinque e l’Ottocento, non assistono a rotture significative nella linea della politica della Chiesa verso gli ebrei. Il clima tuttavia sembra mutare a metà del Settecento, con il crescere dei timori del papato per la secolarizzazione dilagante. La svolta può esser fatta risalire al papato di papa Lambertini, Benedetto XIV, un papa in fama di pontefice “liberale”, che però sulla questione ebraica irrigidisce ulteriormente le posizioni antiebraiche della Chiesa, e a quello del suo successore, Pio VI, papa Braschi, che emanò nel 1775 un editto che colpiva pesantemente gli ebrei del ghetto, moltiplicando i divieti e le imposizioni. Si moltiplicano, in questi anni, i casi di battesimi forzati di bambini, si riconsidera la questione dell’accusa di omicidio rituale, si inizia a vedere negli ebrei i fautori della modernità e della secolarizzazione e nella tolleranza della loro diversità, sia pur da secoli sancita dalla chiesa, un rischio di fronte all’affacciarsi della modernità. E’ il preludio alla dura polemica contro l’emancipazione che accompagnerà da parte della Chiesa gli anni della Rivoluzione francese, che concede, ricordiamolo, la piena emancipazione agli ebrei nel 1791, poi del dominio napoleonico, anch’esso accompagnato dall’abbattimento dei ghetti e dall’emancipazione degli ebrei. E’ quella che viene chiamata prima emancipazione, seguita durante la Restaurazione dalla rimessa in funzione dei ghetti e della ripresa delle disabilità imposte agli ebrei. A partire da quegli anni, mentre il dibattito sull’emancipazione ferve sia in campo ebraico che in quello non ebraico, in particolare nel Piemonte sabaudo, gli ebrei si identificano con il processo risorgimentale e con la costruzione dell’Unità italiana, partecipano ai moti del 1820-21 e del 1830-31, alla Repubblica romana, conquistando l’emancipazione con il progredire del processo unitario, fino al 1870 e alla caduta, insieme al potere temporale della Chiesa, dell’ultimo ghetto. Durissima la battaglia della Chiesa contro l’emancipazione, che era, per un lato, parte della battaglia contro la secolarizzazione e la modernità, ma era anche la presa di coscienza che l’emancipazione aveva rotto per sempre, facendo pendere la bilancia dalla parte degli ebrei, l’equilibrio secolare che condizionava, nel mondo cattolico, la presenza degli ebrei alla loro subordinazione ed inferiorità. In quanto tale, l’uguaglianza degli ebrei apparve alla Chiesa come un sovvertimento mostruoso dell’ordine religioso.

    Non da tutta la Chiesa, però. Numerosi e convinti furono nel 1815 gli sforzi portati avanti dal segretario di Stato card. Consalvi contro il ristabilimento dei ghetto. Nel biennio cattolico-liberale, molte e illustri furono le voci che si pronunciarono a favore dell’Emancipazione, tanto che si può parlare di un’occasione mancata: quella della Chiesa di porsi alla guida del processo risorgimentale ma anche, insieme, quella di Pio IX di emancipare gli ebrei ed aprire il ghetto, come le sue prime misure, forse a torto, facevano pensare. Il rapporto tra emancipazione delle minoranze, e degli ebrei in particolare, e sviluppo del processo risorgimentale, è sottolineato fortemente da molti degli stessi cattolici liberali fautori dell’emancipazione ebraica. E non si trattava solo di personaggi noti come Gioberti e Lambruschini, ma di figure che talvolta escono dall’oscurità solo in questa occasione, come il canonico di Santa Maria in Trastevere a Roma, Ambrogio Ambrosoli, l’unico ad aver predicato pubblicamente a Roma nel 1848 l’emancipazione ebraica. Qualunque siano state le intenzioni di Pio IX, una prima volontà di cambiamento seguita dal timore e dalla reazione agli eventi della Repubblica Romana oppure una originaria ostilità all’emancipazione, offuscata da riforme marginali, resta il fatto che una presa di posizione favorevole all’emancipazione da parte della Chiesa di Pio IX nel 1848 avrebbe probabilmente reso diversa la storia dell’Italia e non solo quella degli ebrei d’Italia. Invece, il ghetto di Roma continuò a sopravvivere, privo ormai di mura e portoni ma non per questo meno oppressivo e degradato, fino al 1870 e alla breccia di Porta Pia. E il raggiungimento dell’emancipazione per tutti gli ebrei italiani coincise con la designazione di Roma a capitale del Regno d’Italia.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO