Ecclesiologia – vol. I

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    Autore: Dario Vitali

    Questioni preliminari. Due questioni preliminari: a) se si possa parlare, nello specifico, di un’ecclesiologia italiana prima dell’unità d’Italia; b) dove fissare, in termini più generali, il terminus a quo per parlare di tale ecclesiologia.

    Per quanto riguarda il punto a), è del tutto evidente che l’Italia prima dello Stato unitario, lungi dall’essere una mera “espressione geografica”, ha costituito un ambiente con tratti di grande omogeneità fin dalle origini cristiane. Pur nel mutare delle situazioni storiche e politiche, è sempre stato chiaro cosa fosse l’Italia e quali i suoi confini naturali, trattandosi di una penisola definita al nord dalla catena montuosa delle Alpi. Vale qui la distinzione tra stato e nazione: se l’Italia non avesse avuto la coscienza di essere nazione, per comunanza di lingua, cultura e storia, non sarebbe stata possibile la formazione dello stato nazionale.

    Naturalmente, non vanno esagerati gli elementi comuni. La frammentazione della penisola in diversi stati ha radicalizzato le differenze nella popolazione, costituita da almeno tre ceppi: greco al sud, latino al centro, celtico al nord. Si tratta di tre mondi che hanno caratteristiche proprie, anche in ragione di configurazioni territoriali e vicissitudini storiche divaricanti, che hanno indebolito l’originaria unità. Roma, prima con il patrimonio di San Pietro e poi con lo stato pontificio, occupa quasi tutta l’Italia centrale, ad eccezione della Toscana, che, dopo l’età dei comuni e delle signorie, si configurò in granducato. Il sud, segnato da una lunga dominazione bizantina, e poi da una forte presenza araba, soprattutto in Sicilia, divenne un regno unitario con i Normanni e, pur nel variare delle corone, conservò stabilmente tale assetto, che finì per conferire un’unità territoriale e politica ben definita da Ruggero II di Sicilia a Francesco II di Borbone, ultimo re di Napoli. Il nord, più facilmente esposto alle invasioni d’Oltralpe, conobbe alterne vicende, legate alle trasformazioni in atto ai confini dell’impero romano. Così si passò da un’Italia longobarda a un’Italia franca, a un’Italia dei Comuni, a un’Italia delle signorie. Le continue lotte, alimentate dalla Francia e dall’impero che avevano mire egemoniche sull’Italia, portarono alla creazione di tre poli maggiori, con alcuni territori satelliti: il ducato dei Savoia che assorbì anche la repubblica di Genova, con la creazione del regno di Sardegna; il ducato di Milano; la repubblica di Venezia. Dopo la conquista napoleonica e il congresso di Vienna (1815), l’Italia del Nord fu divisa in due grandi territori: il Regno di Sardegna, sotto i Savoia, e il Regno lombardo-veneto, sotto il diretto controllo dell’Austria.

    Tali differenze, però, non bastarono a spezzare un sentimento di unità nazionale, che portò alla formazione dello stato unitario, né riuscirono a disperdere un patrimonio comune, legato soprattutto all’identità cattolica. Si tratta di elementi non marginali nella determinazione di un’identità, e quindi di una visione particolare di Chiesa.

    Per quanto riguarda il punto b), convenzionalmente si fissa l’inizio della riflessione ecclesiologica con il De regimine christiano di Jacopo da Viterbo (1302), trattandosi del primo testo dedicato interamente al tema della Chiesa. A partire da quel momento diventa usuale in teologia il Tractatus de Ecclesia. I contenuti e il metodo del trattato dipendono dal particolare sviluppo della storia della Chiesa, che dalla Riforma gregoriana in poi ha conosciuto una polarizzazione intorno alla figura e alle funzioni del papa: affermate nel Dictatus papae di Gregorio VII (1075-1085), dispiegate in tutta la loro forza nel pontificato di Innocenzo III (1198-1216), trovano una strenua difesa nella bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (1294-1303). Più che un trattato teologico, il de Ecclesia è una sequenza di temi apologetici, argomentati più con il diritto canonico che con la sacra Scrittura, che si arricchiscono con le vicende drammatiche che affliggeranno la Chiesa: il conciliarismo come risposta alla decadenza del papato; la questione della vera Chiesa, in risposta alle contestazioni della Riforma; l’idea della Chiesa come societas perfecta, contro le pretese degli stati moderni di interferire sull’organizzazione esterna della Chiesa; l’affermazione del Magistero infallibile del papa contro il relativismo razionalista. Il punto di arrivo fu il tractatus de Ecclesia dell’apologetica pre-conciliare, funzionale alla dimostrazione del modello piramidale della Chiesa.

    Tuttavia, della Chiesa si è obiettivamente parlato anche prima di questa letteratura a carattere prevalentemente giuridico. Tanto i Padri quanto i teologi medioevali hanno pagine illuminanti sulla Chiesa, che ne fondano la comprensione teologica: il concilio Vaticano II riprenderà con abbondanza dalle loro pagine per sviluppare la visione misterica della Chiesa proposta in particolare dalla Lumen Gentium. Anche per questa ragione, è il caso di ripercorrere tutta la storia della Chiesa, riascoltando le voci sulla Chiesa dalla prima evangelizzazione della penisola alla proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1961.

    I padri della Chiesa. L’Italia imperiale ha conosciuto protagonisti di primo piano del pensiero cristiano, che hanno contribuito alla formulazione della dottrina sulla Chiesa. Non si tratta, naturalmente, di trattazioni ecclesiologiche; si può parlare di pagine, in un certo senso di frammenti, che tuttavia hanno una grande importanza sia sul piano teologico, inquadrando la Chiesa nel piano divino della salvezza, sia sul piano pratico, con testimonianza dello sviluppo delle sue istituzioni.

    Il centro che più ha espresso figure di rilievo è naturalmente Roma, per essere, come diceva Ignazio di Antiochia, la «Chiesa che presiede nell’amore». Alcuni dei suoi vescovi, successori sulla cattedra di Pietro e Paolo, hanno segnato un progresso sensibile nella dottrina sulla Chiesa. In termini comprensivi si possono ricordare i due nomi che aprono e chiudono il periodo patristico: Clemente romano (†97?) e Gregorio Magno (540-604).

    Il primo è autore di una famosa lettera alla comunità di Corinto, nella quale, riecheggiando le lettere di Paolo a quella Chiesa, ammonisce a superare le divisioni e a sottomettersi ai presbiteri che la guidano. Da rimarcare soprattutto l’esordio, in cui Clemente scrive a nome della «Chiesa di Dio che è in Roma alla Chiesa di Dio che è in Corinto». La lettera mostra quindi la sollecitudine di Roma per le altre Chiese, anche se pare eccessivo leggere in questo un’attestazione dell’esercizio del primato. La Chiesa è vista come porzione che Dio ha eletto per sé, un popolo scelto tra le genti, applicando alla Chiesa quanto si dice di Israele come popolo di Dio (cfr 29,1); la Chiesa è ancora vista come il corpo di Cristo, nel quale le membra hanno funzioni diverse (cfr 37). La gerarchia è composta da presbiteri (che sono vigilanti/vescovi) e da diaconi e di istituzione divina (44,1-2). Gregorio Magno fu grande sia nell’azione pastorale che nella riflessione teologica. Lo studio della prima attraverso l’imponente carteggio mostrerebbe non solo uno sviluppo nell’esercizio del primato, con una sollecitudine per tutte le Chiese, ma anche una spinta verso una organizzazione meno frammentata della Chiesa; dal punto di vista della dottrina, si deve ricordare almeno la Regula pastoralis, che ha per oggetto i doveri dei pastori, tra i quali è particolarmente sottolineata la predicazione. In mezzo la lunga lista dei vescovi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro, contribuendo allo sviluppo del primato petrino: su tutti Leone Magno (440-461), da ricordare non solo per la Epistula ad Flavianum sulla dottrina cristologica, ma per la strenua affermazione dei diritti del papa: «Per mezzo di Pietro, beato principe degli Apostoli, la Chiesa romana possiede il principatus sopra tutte le altre Chiese della terra» (Ep 65,2).

    Ma la Chiesa di Roma ha espresso anche altri autori significativi, che hanno avuto un ruolo rilevante nelle vicende di quella Chiesa; pur nella difficoltà di attribuzione, va ricordata almeno La Tradizione apostolica, scritto di inizio III secolo che sarebbe espressione della Chiesa di Roma, in cui l’autore espone «l’essenza della tradizione su cui la Chiesa deve basarsi» (§1). Dalle istruzioni a volte minuziose, emerge il quadro di una Chiesa ancora ricca di funzioni (vescovo, presbiteri, diaconi, ma anche lettori, confessori, vedove, vergini, membri della comunità che esercitavano il dono delle guarigioni) attenta al cammino di iniziazione dei catecumeni.

    Nella penisola durante il periodo dei Padri hanno agito altre figure di grande rilievo, come Eusebio di Vercelli, Rufino di Concordia, Gaudenzio di Brescia, Zeno di Verona, Massimo di Torino; per quanto non nativi della penisola, si potrebbero rammentare anche Paolino di Nola e Girolamo. Su tutti spicca la figura di Ambrogio, vescovo di Milano (334-397). Della produzione vastissima di questo Padre della Chiesa si possono ricordare, per valore ecclesiologico, la Explanatio in Symboli, ma anche i tre libri del De officiis ministrorum, il De mysteriis e il più ampio De sacramentis in sei libri, da cui emerge il profilo della Chiesa di Milano, con le sue istituzioni e la sua prassi, soprattutto liturgica.

    Sul finire dell’epoca patristica vanno ricordati almeno tre autori che costituiscono, a diverso titolo, un vero e proprio ponte verso l’epoca successiva. Anzitutto Benedetto da Norcia (480-547?), padre del monachesimo occidentale: la Regula sancti Benedicti ha avuto un tale influsso sulla vita ecclesiale da doverla indicare tra i testi che più hanno segnato la vita della Chiesa. Gli altri due, Severino Boezio (480-524) e Cassiodoro (490ca.- 583ca.), sono testimoni e protagonisti di quel trapasso dal mondo classico, dopo la rovina dell’Impero romano d’Occidente, a un nuovo ordine che faticosamente stava imponendosi. Il primo è famoso soprattutto per la Philosophiae consolatio,il secondo per la Historia gothica, ma anche per le Institutiones divinarum et saecularium litterarum, manuale per i monaci di Vivarium, monastero da lui fondato nei pressi di Squillace, che divenne modello dei monasteri come centri non solo di fede, ma anche di cultura.

    Il Medioevo. Difficile ricostruire un panorama relativo alla penisola durante il Medioevo: il Sacro Romano impero non ha più il suo centro di gravità a Roma, a Ravenna o a Milano, ma ad Aquisgrana. Si possono ricordare in questo periodo Paolino di Aquileia (730-802), Attone di Vercelli (885-961), Raterio di Verona (890-974), nelle cui opere si delinea il tema della decadenza ecclesiastica a causa delle ingerenze del potere laico, ma anche la dura condanna del clero, accusato di simonia. Né si poteva andare oltre questi rudimenti, se si pensa al basso livello di conoscenze di questo periodo.

    Una stagione più feconda per l’ecclesiologia è invece la Riforma gregoriana: un movimento che, a partire soprattutto dai monasteri, si diffonde come esigenza di moralizzazione di tutto il corpo ecclesiale. Si possono distinguere due periodi di questa azione riformatrice: prima e dopo l’elezione al soglio pontificio di Ildebrando di Soana con il nome di Gregorio VII (1073-1085). All’interno dell’ampio materiale documentario di questo papa spicca il cosiddetto Dictatus papae, un insieme di 27 sentenze che affermano il primato del vescovo di Roma sulla Chiesa, condannando chi si opponga, sia esso imperatore o vescovo. La durezza di queste affermazioni, che gli avversari di Gregorio bollavano come contrarie alla Tradizione, ha condizionato il giudizio sull’ecclesiologia del periodo, ritenuta di scarso interesse perché declinata sui registri giuridici del diritto.

    In realtà, è possibile cogliere all’interno del vasto movimento della riforma gregoriana una linea di pensiero che afferisce proprio all’ecclesiologia, pensata in termini mistici più che giuridici. Due nomi su tutti: Pier Damiani (1007-1072) e Bruno di Segni (1049-1123). Naturalmente, esistono anche altri grandi autori, nativi della penisola, che non hanno trattato però i temi ecclesiologici in termini rilevanti: il caso di Lanfranco di Pavia (1010ca.-1089) e quello ancora più famoso di Anselmo di Aosta (1033/34-1109) dimostrano come non basti il criterio geografico per specificare una teologia: l’unità culturale e religiosa dell’Europa rendeva secondario il luogo di nascita, essendo possibile che un uomo, da Pavia o da Aosta, potesse diventare abate del monastero del Bec, in Normandia, e poi arcivescovo di Canterbury.

    Nel primo periodo della riforma, che va dal pontificato di Leone IX (Brunone di Toul: 1049-1054) alla elezione di Gregorio VII al soglio pontificio (1073), la figura di spicco è quella di Pier Damiani. Egli si scaglia contro il clero simoniaco, domandando soprattutto a Enrico III, il christianissumus rex, un intervento di riforma che allontani d’autorità i lupi dalla Chiesa. La sua ecclesiologia è fondata soprattutto sulle immagini bibliche del corpo e della sposa di Cristo. Tale è la sua idea dell’unità, che nel famoso opuscolo Dominus vobiscum, Pier Damiani forza l’immagine paolina del corpo, affermando che la Chiesa è «et in pluribus una et in singulis per mysterium tota» (Lettera 28,1); «la santa Chiesa è al tempo stesso una in tutti e tutta in ognuno [in omnibus una et in singulis tota]; semplice nella pluralità per l’unità della fede, molteplice nei singoli mediante il vincolo della carità e la varietà dei carismi: quia enim ex uno omnes, omnes unum» (Lettera 28,11).

    Medesima insistenza alla Chiesa sposa di Cristo si trova in Bruno di Asti, vescovo di Segni, abate di Montecassino, protagonista della Riforma che entra in scena nella disputa con Berengario, nel 1079: uomo di Gregorio VII e poi di Urbano II, egli commenta in chiave ecclesiologica il Cantico dei Cantici identificando la sposa con la Chiesa (cfr PL 164, 1233-1288). Nel suo trattato teologico maggiore, le Sententiae, dei sei libri dedica i primi due alla Chiesa, vista nelle sue figure (Libro I: De figuris Ecclesiae: il paradiso, l’arca di Noè, il tabernacolo dell’Alleanza, il tempio di Salomone, la donna forte, la città santa di Gerusalemme, le basiliche, i vangeli) e nei suoi ornamenti, i gioielli della Sposa (Libro II: De ornamentis Ecclesiae: la fede, la speranza, la carità, le virtù cardinali, l’umiltà, la misericordia, la pace, la pazienza, la castità, l’obbedienza, l’astinenza); anche il libro può essere inteso in una prospettiva ecclesiologica, perché tratta – si direbbe oggi – del Regno di Dio a cui la Chiesa è destinata: il mondo nuovo, i cieli nuovi, le nubi, i monti, i fiumi nuovi (cfr PL 165, 875-974).

    Questo trattato dimostra come la Chiesa fosse argomento ben presente agli autori medioevali anche prima della data convenzionale del 1302, quando Jacopo da Viterbo scrive il suo De regimine christiano; e che, peraltro, la trattazione fosse più teologica che giuridica. L’approccio teologico fu mantenuto dai grandi Scolastici, benché il Decretum Gratiani (la famosa Concordantia discordantium canonum) che il grande canonista compose intorno al 1140, fosse uno dei testi più letti e applicati del tempo. Il tema della Chiesa, pur non conoscendo una trattazione specifica, riveste in Tommaso d’Aquino e Bonaventura di Bagnoregio un’importanza decisiva. Del primo basta ricordare la collocazione strategica del tema nella struttura della Summa Theologiae: prima di dedicarsi alla trattazione dei sacramenti, nella tertia pars l’Aquinate conclude la sezione cristologica con la quaestio 8 sulla gratia Christi secundum quod est caput Ecclesiae. Trova qui il suo punto di appoggio l’idea della gratia capitis, che costituisce il criterio fondamentale per spiegare teologicamente la vita della Chiesa e delle sue membra. Né ha particolare valore dire che si tratta di una sola questio: la sua collocazione è di tale importanza che, senza questo passaggio, tutta la tertia pars perderebbe la sua giustificazione teologica. Anche le pagine di Bonaventura sulla Chiesa, per quanto ispirate a cautela per il problema della presenza degli Spirituali nell’ordine francescano, parla della Chiesa come il corpo di Cristo, la convocatio fidelium che lo Spirito santifica, la sancta mater Ecclesia per Spiritum sanctificata (Collationes de septem donis Spiritus Sancti,3,10).

    Il basso Medioevo. I riferimenti piuttosto laconici di Tommaso d’Aquino e Bonaventura alla Chiesa potrebbero dipendere in parte anche dall’assenza del tema dai IV libri Sententiarum di Pietro Lombardo (1100 ca.-1160, originario della Lomellina, Magister per antonomasia a Parigi), articolati sulla sequenza: Dio (I), creazione-peccato (II), Incarnazione-redenzione (III). sacramenti e compimento escatologico (IV). Ma la cautela era imposta anche dal diffondersi nella Chiesa delle teorie di Gioacchino da Fiore (1125 ca.-1202). L’abate florense, nelle sue opere – su tutte l’Expositio in Apocalypsim e il Liber figurarum – aveva immaginato la storia divisa in tre età: quella del Padre, corrispondente all’Antico Testamento, alla Legge mosaica e alla sinagoga; quella del Figlio, corrispondente al Nuovo Testamento, al Vangelo e alla Ecclesia affidata a Pietro; quella dello Spirito, attesa come imminente, guidata da Giovanni, che supera e compie le altre due nella Ecclesia spiritualis, ricolma dello Spirito e dei suoi doni.

    Quanto questa teologia della storia diventerà corrosiva, lo si vedrà da subito, quando i movimenti spirituali radicalizzeranno la contrapposizione tra Ecclesia spiritualis e Ecclesia carnalis, che alla fine del XIII sec. era identificata tout court con il papato, soprattutto per le vicende che accompagneranno Celestino V (1294) e Bonifacio VIII (1294-1303). La cattività avignonese parve una conferma di questa corruzione della Chiesa gerarchica, in particolare del papato, con Roma paragonata a Babilonia. Il corpo ecclesiale fu attraversato da una frattura insanabile. In Italia la contrapposizione tra Chiesa carnale e spirituale fu alimentata soprattutto dagli Spirituali, i quali, nel nome dell’originario ideale francescano di povertà, portarono al centro della discussione teologica la questione della povertà di Cristo, che doveva tradursi nella necessaria povertà della Chiesa. La loro contestazione riprendeva le teorie gioachimite rilette da Pietro Giovanni Olivi (1248 ca.-1298), sull’imminente venuta dell’Anticristo, identificato con il papa stesso. Da ricordare soprattutto Ubertino da Casale (1259-1328) e Angelo Clareno (? -1337).

    Fino a quale profondità della coscienza ecclesiale fosse arrivata la frattura lo si può cogliere nella Divina Commedia di Dante, non solo per i giudizi su Celestino V (1294) e Bonifacio VIII (1294-1303), ma per la sua visione della Chiesa che emerge soprattutto nei tratti femminili di Piccarda, Beatrice, soprattutto di Maria. Peraltro, in quel contesto la realtà ha davvero superato l’immaginazione del poeta, perché nei secoli XIII-XIV trova feconda espressione una «Chiesa al femminile» che, soprattutto nell’Italia centrale, vedrà protagoniste donne di statura eccezionale, illetterate eppure capaci di un pensiero profondo su Dio, sull’uomo, sulla Chiesa a partire dalle loro esperienze mistiche: Margherita da Cortona (1247-1297), Chiara da Montefalco (1268-1308), Angela da Foligno (1248-1309), Caterina da Siena (1347-1380), per ricordare solo le più grandi.

    Una situazione del genere ha favorito lo sviluppo dell’ecclesiologia in chiave apologetica, che difende l’istituzione ecclesiastica sia ad intra, contro gli attacchi dei movimenti pauperistici, sia ad extra, contro le insofferenze sempre più evidenti di re e principi contro la teocrazia papale. Il manifesto di questi nuovi orientamenti è il Defensor pacis di Marsilio da Padova (1280-1342) che teorizza una rigida distinzione tra potere civile e spirituale, attribuendo alla Chiesa il solo compito di annunciare il Regno celeste, e attribuendo allo stato il potere di esercitare ogni potere per il bene della società. È in tale contesto che vede la luce tutta una serie di testi ecclesiologici a difesa delle prerogative del papa, prodotti soprattutto in ambiente agostiniano. L’iniziatore è Egidio Romano (1234-1316), il quale nel De ecclesiastica potestate sviluppa l’idea della plenitudo potestatis del papa, tradotta nella logica del regnum Christi, di cui il papa è vicario universale. A lui si possono associare, in una vera e propria scuola, Jacopo da Viterbo (1255-1307 ca.), famoso per il suo De regimine christiano, indicato convenzionalmente come il primo trattato di ecclesiologia, e Agostino Trionfo (1243-1328), autore di una Summa de potestate ecclesiastica, che sviluppa ulteriormente la plenitudo potestatis del papa in chiave di giurisdizione universale, nella linea della bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII.

    La logica della contrapposizione spiega anche la stagione del conciliarismo, conseguente allo scisma d’Occidente (1378-1417), che aveva gettato la Chiesa in una divisione istituzionale, con il corpo ecclesiale legato a due e poi a tre obbedienze prima della ricomposizione al concilio di Costanza (1413-1418). La rivendicazione dell’autorità suprema attribuita al concilio e non al papa nasce dall’affermazione che la Chiesa è la universitas fidelium, rappresentata nel concilio, che ha anche il potere di condannare e deporre un papa indegno o a fide devius. Tra i tanti che sostennero questa posizione soprattutto in Francia (Pierre d’Ailly e Jean Gerson in particolare) e Germania (su tutti, Nicola di Cusa), si possono ricordare anche autori italiani che contribuirono allo sviluppo delle idee, in particolare Francesco Zabarella (1360-1417) che difese il primato del papa sulla Chiesa e sul concilio.

    Dalla Riforma al concilio Vaticano I. La ricomposizione dello scisma d’Occidente non diede soluzione alla drammatica frattura tra Chiesa istituzionale e Chiese spirituale. Le condanne di Hus e Wyclif a Costanza inasprirono il risentimento contro la Chiesa gerarchica ed ebbero come esito di alimentare la disaffezione verso Roma, accusata di essere il centro e la causa della decadenza della Chiesa, soprattutto per tre piaghe del tempo: il nepotismo papale, la vessazione fiscale, la vendita delle indulgenze. La Riforma protestante può essere considerata il punto di non ritorno di questo scontro, che radicalizza l’alternativa tra Chiesa visibile e invisibile, tra Chiesa istituzionale e Chiesa spirituale.

    Anche in Italia non mancarono casi di contestazione: il più famoso è senz’altro quello di Savonarola (1462-1498), fustigatore di costumi nella Firenze dei Medici, messo al rogo per ragioni più politiche che dottrinali. Ma l’idea di riforma assunse nella penisola forme più composte, che videro protagonisti movimenti di rinnovamento della vita cristiana – su tutti, quello del Divino Amore – ma anche gli ordini religiosi: sia i grandi ordini – camaldolesi, domenicani, francescani, agostiniani, carmelitani – con le riforme proposte dalle congregazioni dell’Osservanza, sia i nuovi ordini – gesuiti, cappuccini, teatini, barnabiti, somaschi, oratoriani, chierici della Madre di Dio – che svolgeranno un’azione di profondo rinnovamento del corpo ecclesiale. Non si può parlare, però, in questo periodo, di uno sviluppo dell’ecclesiologia, e di autori che offrano contributi significativi. D’altronde, lo stesso concilio di Trento (1545-1563), che affronta molte questioni dogmatiche e disciplinari, preferì non entrare sul terreno della disputa ecclesiologica.

    Solo dopo il concilio diventa centrale nella riflessione teologica la questione della «vera Chiesa»: accanto ai grandi studi di storia della Chiesa, condotti soprattutto da Cesare Baronio (1538-1607) e Paolo Sarpi (1552-1623), si sviluppa una linea ecclesiologica che ha in Roberto Bellarmino (1542-1621) il principale teorico. Contro la tesi della Chiesa invisibile della Riforma, secondo cui solo lo Spirito conosce i suoi, il magister controversiarum, difende la natura visibile, istituzionale e gerarchica della “vera” Chiesa di Cristo, identificata con «un ceto di uomini unito dalla professione della medesima fede, dalla comunione degli stessi sacramenti, sotto la guida dei legittimi pastori, in particolare del Romano Pontefice, vicario di Cristo» (De Controversiis III,3).

    Nei secoli successivi la teologia non farà altro che ripetere, nel mutare dei contesti socio-culturali, le affermazioni bellarminiane. D’altronde, la controversistica post-tridentina tenderà a strutturarsi secondo schemi consolidati, che insistono sulle medesime argomentazioni, dovunque vengano formulate, se in Francia, in Spagna, in Germania o in Italia. Lo si vede, ad esempio, nel periodo dell’Ancien régime, quando lo stato tende a limitare la giurisdizione della Santa Sede sulla Chiesa francese. La diffusione del gallicanesimo in tutta Europa, con le varianti del febronianesimo, del giuseppinismo, del Kulturkampf, porta alla polarizzazione dell’ecclesiologia sulle prerogative del Sommo Pontefice. Anche in Italia si registrano posizioni a favore del gallicanesimo, come quella di Pietro Tamburini (1737-1827) che contesta l’infallibilità del papa; ma in genere le posizioni sono piuttosto orientate al montanismo, sia nel campo dell’apologetica, ad esempio con Pio Brunone Lanteri (1759-1830), sia nel campo del diritto, ad esempio con Mauro Alberto Cappellari (1765-1846) e il suo Trionfo della Santa Sede e della Chiesa contro gli assalti dei novatori, combattuti e respinti con le loro stesse armi (Venezia 1799).

    L’ecclesiologia in genere si attesterà sullo schema della societas perfecta: rispetto alle società civili, la Chiesa è superiore per la sua legge (la Rivelazione), per i beni che comunica ai suoi sudditi (i sacramenti), per la sua forma di governo (la gerarchia, in particolare il papato, istituito da Cristo stesso). Questo schema si può ritrovare nel fondatore della Scuola Romana, Giovanni Perrone (1794-1876), teologo di fiducia di Pio IX, il quale propone nelle sue Praelectione Theologicae, 1835-1842, un’apologetica centrata sulla dimensione istituzionale della Chiesa. Da questa impostazione si distacca profondamente un altro rappresentante della Scuola Romana, Carlo Passaglia (1812-1887), il quale sviluppò in modo originale nel suo De Ecclesia, 1853-1856, le tesi della Scuola di Tubinga, con una proposta ecclesiologica legata all’immagine della Chiesa-corpo di Cristo, con una forte caratterizzazione pneumatologica.

    Non sarebbe completo il quadro di una storia dell’ecclesiologia in Italia prima dell’unità se non si menzionasse Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), uno dei più grandi ingegni che il pensiero cristiano abbia avuto. Nell’opera Delle cinque piaghe della Chiesa, 1847, che suscitò scalpore e fu messa all’Indice, stigmatizza lo stato in cui versa la Chiesa a causa della divisione del popolo dal clero nel culto pubblico, della insufficiente preparazione del clero, della disunione dei vescovi, della nomina dei vescovi abbandonata al potere laico, della servitù dei beni ecclesiastici. Ma, più in positivo, nelle sue opere di antropologia soprannaturale, egli sviluppa una teologia della grazia fondata sull’azione dello Spirito, principio di unità e santificazione della Chiesa.

    Conclusioni. Il lungo excursus che copre quasi due millenni di storia dell’Italia non ha permesso di approfondire le dottrine ecclesiologiche dei tanti autori menzionati. Gli accenni al loro pensiero bastano però a disegnare uno sviluppo interessante delle idee ecclesiologiche, che offrono un criterio interessante anche per l’interpretazione delle vicende storiche che hanno riguardato l’Italia nei due millenni di cristianesimo.

    Non si può parlare naturalmente di ecclesiologia italiana: troppo frammentata è stata la storia della penisola per immaginare uno sviluppo unitario delle idee. L’elemento di unità e di continuità sembra dato unicamente dalla presenza sul territorio italiano di Roma, e quindi del papa, con tutto il carico di questioni che ha accompagnato lo sviluppo della sua funzione universale. A ben vedere, questa presenza funziona da freno e stimolo insieme per un’ecclesiologia che ha dovuto misurarsi via via con gli sviluppi di una funzione che giunge alla più solenne affermazione di sé in coincidenza con la formazione dello stato unitario e la proclamazione di Roma come capitale del Regno d’Italia.

    La galleria degli autori che hanno impresso una spinta significativa alla riflessione ecclesiologica è di tutto rispetto: l’antichità soprattutto con Ambrogio e Gregorio Magno; il Medioevo con Per Damiani e Bruno di Segni, con Tommaso e Bonaventura, e poi l’inizio dei trattati di ecclesiologia, con la scuola agostiniana, ma anche le visioni di Gioacchino da Fiore e le provocazioni degli Spirituali; dopo il concilio di Trento, l’ecclesiologia di Roberto Bellarmino e poi quella della Scuola romana, ma anche la visione ecclesiologica di Rosmini. Si tratta di autori che hanno affondato le loro radici nel vissuto di una Chiesa viva, per quanto attraversata da situazioni drammatiche, spesso causate o aggravate da chi in verità doveva risolverle. Soprattutto fino al Medioevo, quando l’ecclesiologia era espressione di un vissuto e non giustificazione teorica dell’istituzione e delle sue strutture gerarchiche, si coglie una circolarità profonda tra esperienza e interpretazione, in cui le vicende storiche certamente orientano a una determinata comprensione della Chiesa, ma questa, a sua volta, orienta le scelte concrete della Chiesa nella storia. In tale ottica, il quadro dell’ecclesiologia in Italia dalle origini del cristianesimo fino alla formazione dello stato unitario costituisce un contributo non marginale alla comprensione della storia della Chiesa in Italia ma anche dell’Italia stessa.

    Fonti e Bibl. essenziale

    Non è possibile presentare un repertorio bibliografico per ogni autore. Per una ricostruzione degli sviluppi dell’ecclesiologia in Italia, è il caso di consultare dizionari oppure opere di storia della teologia. Accanto al Dizionario biografico degli Italiani, o alla Enciclopedia biografica universale, si possono consultare utilmente strumenti come Lexicon. Dizionario dei teologi, Casale M. (Al) 1998, o opere di storia della teologia come A. Di Berardino-B. Studer (dirr.), Storia della teologia, I, Casale M. (Al) 1993; G. D’Onofrio (dir.), Storia della teologia nel Medievo, I-III, Casale M. (Al) 1996; G. D’Onofrio (dir.), Storia della teologia, III, Casale M. (Al) 1995. La miglior opera sull’evoluzione storica delle idee ecclesiologiche rimane A. Antón, El misterio de la Iglesia. Evolución historica de las ideas eclesiológicas, I-II, 1986-1987.


    LEMMARIO