Eterodossia, Eresia – vol. I

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    Autore: Stefano Cavallotto

    Il concetto di eterodossia/eresia sotto il profilo storiografico si presenta problematico, poiché viene riferito ad una persona/movimento religioso e alle sue dottrine in quanto “devianti” rispetto ad un altro movimento/istituzione magisteriale della medesima tradizione religiosa. Ciò significa assumere come criterio di lettura di un fenomeno storico una categoria squisitamente teologica o valoriale (nel senso di un punto di vista relativo ad una struttura consolidata di valori, credenze, dogmi), qual è appunto quella dell’ortodossia rivendicata in definitiva dalla parte religiosa dominante o vincente rispetto a ciò che essa giudica eterodosso/eretico. Peraltro, nell’accezione negativa, il termine è usato in maniera interscambiabile: nel conflitto sulla fedeltà alla dottrina ogni parte in causa ritiene la propria interpretazione corretta/ortodossa, che altri all’opposto stigmatizzano come eretica, e viceversa eterodossa quella degli avversari (così i cattolici vedevano nel protestantesimo un’eresia, mentre i riformatori bollavano il cattolicesimo come tradimento della dottrina evangelica). Qui opteremo per una posizione storiografica per così dire “tradizionale”, astenendoci ovviamente da ogni giudizio di valore, ed indicheremo come eterodossi/ereticali quei movimenti cristiani che l’istituzione ecclesiastica “superiore” (concili, papi, gerarchia cattolica) ha additato come tali, condannato con sanzioni ecclesiastiche e combattuto perfino con l’impiego di mezzi coercitivi statali, inclusa la pena di morte. Ancora un limite di questa rassegna è dover operare una scelta in un arco di tempo fin troppo vasto (secc. II-XIX) tra pochi movimenti e figure maggiormente rappresentativi e con un’attenzione quasi esclusiva a quelli legati al territorio “italico”. Ovviamente saranno lasciati fuori anche quei fenomeni di natura puramente scismatica in quanto attinenti più alla disciplina ecclesiastica che non alla dottrina. C’è da rilevare infine come nella stessa comunità dei discepoli di Cristo il concetto di haìresis subisce lungo la storia modifiche non marginali in senso negativo e spregiativo in concomitanza con lo sviluppo del termine ekklesia, a cui viene abitualmente contrapposto (Schlier), dando vita ad un sistema di provvedimenti sempre più marginalizzanti e punitivi, dall’ oportet et haereses …esse di 1 Cor 11,19 fino al reato sociale di eresia, previsto dalla legislazione statale post-costantiniana e di “Ancien Régime”.

    Nei primi secoli della storia cristiana è in particolare Roma il luogo dove si sviluppano movimenti eterodossi. Così nel II secolo si fa strada lo gnosticismo dell’egiziano Valentino (†154-160 ca.). Nei quasi vent’anni di permanenza nella capitale dell’impero questi, a servizio come diacono dei pontefici Igino, Pio e Aniceto e aspirante persino all’episcopato, vi fonda un’originale e importante scuola, in cui insegna a rileggere i dati della fede cristiana alla luce di una speculazione teosofica a sfondo mitico. C’è da dire che non è facile stabilire il pensiero di Valentino per i pochi frammenti rimastici dei suoi scritti, ma anche per l’evoluzione/modificazione a cui è stato sottoposto ad opera dei discepoli. Personalmente sembra interessato in prevalenza per il destino privilegiato degli «spirituali» e per la loro redenzione operata dal Logos. I suoi seguaci, divisi in “scuola italica” e “scuola orientale” e forniti di grande acribia teologica, sono fautori della continuità dell’economia della salvezza, dalla creazione all’escatologia, dell’inconoscibilità di Dio, del dualismo tra mondo spirituale e mondo materiale, risultato quest’ultimo della degradazione di un essere divino (Sofia), della triplice divisione (non scelta da loro) degli uomini in materiali, psichici, spirituali, e dell’attesa di uno o più redentori capaci di illuminare gli gnostici sulla loro identità divina. Una concezione, in cui teologia, cosmogonia e antropologia si fondono e che ben presto suscita le preoccupazioni della gerarchia: Valentino viene scomunicato più volte prima di lasciare Roma per Cipro. Contro i valentiniani si rivolgerà soprattutto l’attacco polemico di Ireneo di Lione (†202).

    Negli stessi anni è attivo nella capitale un altro capo-scuola, l’orientale Marcione (†160 ca.). Già scomunicato dal padre, vescovo di Sinope, nel 144 entra in conflitto con la chiesa romana sull’interpretazione di Paolo e la dottrina dei due déi, uno vendicativo dell’AT (da rigettare assieme alla bibbia vetero-testamentaria) e l’altro buono e misericordioso del NT. A suo giudizio il canone neotestamentario va ristretto al solo vangelo di Luca e alle Lettere paoline, in cui scorge la novità liberatrice dalla Legge mosaica. In Cristo, poi, non c’è alcuna unione sostanziale tra persona divina e natura umana, essendo quest’ultima corruttibile e causa del male. La morale marcionita è basata su un’ascesi molto rigorosa e sul disprezzo del piacere carnale fino alla rinuncia del matrimonio e della procreazione, onde evitare la continuazione del mondo decaduto. Alla dottrina di Marcione si oppongono bene presto gli autori dei Prologhi ai Vangeli, l’apologista Giustino (†165), il dotto e pugnace presbitero romano Ippolito († II-III sec.), Rodone l’Asiano e nel III secolo Tertulliano († II-III sec.). Nonostante tali confutazioni, la corrente marcionita continua a sopravvivere per qualche tempo affiancata da una nuova tendenza carismatica e rigorista costituita dal Montanismo, condannato a sua volta da papa Zefirino (†217).

    Tra II e III secolo sempre nell’«Urbe reale», divenuta crogiuolo di controversie dottrinali, si diffonde ad opera di Prassea (†II-III sec.) la dottrina del “monarchianismo”, il cui primo esponente conosciuto è Noeto di Smirne, vescovo di una città dell’Asia Minore, condannato da un sinodo locale. Alla sua base c’è l’unità («monarchia») del concetto di Dio che, di conseguenza, comporta la negazione della Trinità (per i «Patripassiani» e i «modalisti» è il Padre a soffrire sulla croce sotto il nome del Figlio, essendo questi nomi dei semplici epiteti o «modi» che servono a qualificare Dio a seconda delle circostanze) e della natura divina di Cristo. Gli stessi papi Zefirino e Callisto (†222) vi aderiscono, ma con prudenza. Proprio perciò il dibattito fra i «monarchiani» e i loro avversari, come Giustino (†162/168), definiti i «teologi del Logos» e accusati dai primi di «subordinazianismo» (il Figlio è subordinato al Padre, e lo Spirito santo ad ambedue), conosce nella capitale una grande effervescenza fino a coinvolgere l’intero orbe cristiano. Dibattito che provoca un contrasto tra Ippolito, futuro martire nel 235, e il presbitero Callisto, che nel 217 verrà eletto papa, dagli effetti rovinosi per la comunità romana. Ad ogni buon conto, non risulta che Prassea abbia subìto alcuna persecuzione o condanna da parte dei pontefici Vittore I (†199) o Zefirino. Occorre dire che contro di lui, anti-montanista convinto e ispiratore della scomunica papale contro il «profeta dello Spirito», si scaglia in maniera non sempre obiettiva Tertulliano (Adversus Praxean), accusandolo di anti-trinarismo. Per confutare le posizioni «monarchiane» si mobilita col trattato De Trinitate anche Novaziano (†258), un dotto presbitero romano che nel 251 dà origine ad uno scisma nella chiesa della capitale (contro l’elezione di papa Cornelio si fa consacrare vescovo di Roma) all’insegna di un rigorismo di origine stoica contrario alla riammissione nella chiesa degli apostati e dei lapsi pentiti. Lo scopo ultimo della “setta” novaziana è di costituire una chiesa rigidamente fatta di “santi” e di “puri” (katharoi).

    Più ampio è lo scenario “italico” in cui tra il IV e V secolo si svolge la vicenda dell’arianesimo. Nel quadro del dibattito sui rapporti tra Padre e Verbo incarnato, Ario (†336) sostiene una cristologia ispirata al medioplatonismo e orientata verso una sorta di «adozionismo» e «subordinazionismo»: il Figlio ha un inizio, è la prima creatura di Dio, è mutevole ed alterabile, di conseguenza non ha un natura divina come il Padre né può godere degli attributi divini, quali l’eternità e l’essere ex-Deo. Ben presto simile concezione si diffonde soprattutto ad Alessandria e nella zona medio-orientale dell’impero, provocando tensioni e controversie tra le stesse gerarchie locali (alcuni vescovi si schierano a favore di Ario) al punto che Costantino (†337), fallita ogni possibile ricomposizione, nel 325 affida ad un concilio ecumenico la soluzione della controversia: a Nicea la dottrina di Ario viene condannata ed è approvato un “simbolo di fede” che definisce il Figlio homoousios (della stessa sostanza) col Padre. L’arianesimo però continua ad avere difensori influenti, come il vescovo di Nicomedia Eusebio (†341) e soprattutto l’imperatore Costanzo II (†361), ma anche a fare vittime illustri tra gli oppositori, basti ricordare Atanasio (†373), inflessibile sostenitore della fede nicena. Un secondo concilio ecumenico nel 381 sotto Teodosio I (†395), celebrato a Costantinopoli, conferma il simbolo e la condanna nicena, ma senza per questo riuscire a debellare l’arianesimo, che anzi sopravvive tra le tribù germaniche e per un certo periodo nella stessa capitale della corte imperiale occidentale. A Milano, infatti, già dal 355 col sostegno dell’imperatrice Giustina è vescovo il filo-ariano Aussenzio (†374), il cui potere non viene scalfito neppure dalla scomunica del 369, fulminatagli da papa Damaso (†384). Cinque anni prima contro la sua doppiezza si è scagliato pubblicamente Ilario di Poitiers (†367) nel Liber contra Auxentium. La presenza ariana a Milano non cessa neppure con la morte del vescovo, ma diventa al contrario più aggressiva sotto l’episcopato ambrosiano. Strenuo difensore della fede nicena, Ambrogio (†397) deve scontrarsi più volte con i seguaci di Aussenzio. Il successo definitivo verrà con le delibere dei sinodi anti-ariani di Aquileia (381) e Roma (382), convocati sotto la sua regia dall’imperatore Graziano (†383), e più tardi con l’intervento risolutivo di Valentiniano II (†392), passato dall’arianesimo alla fede ortodossa.

    Di minore impatto è la presenza del manicheismo in Italia. Occorre dire che al tempo del lungo pontificato di papa Damaso (†367) nell’Urbe pullulano diversi movimenti settari: ci sono i seguaci dell’antipapa Ursino e poi quelli orientati alla gnosi e ancora i fautori di nuove controversie disciplinari, come il gruppo rigorista legato al vescovo Lucifero di Cagliari (detti «luciferiani», contro cui Girolamo scrive l’ Altercatio Luciferiani et Orthodoxi). Ci sono pure due comunità, guidate ciascuna da un proprio vescovo e ispirate all’intransigenza e alla severità, quella dei donatisti e l’altra dei manichei. Di quest’ultima è Episcopus alla fine del IV secolo Fausto di Milevi, autore di un’apologia del manicheismo duramente attaccata da Agostino (†430) nel ponderoso Contra Faustum Manicheum libri 33. Fondata dal persiano Mani (†277) tale corrente religiosa si era presentata nell’Occidente cristiano come una sorta di sincretismo di dottrine giudeocristiane e indoiraniche. Il suo fondamento teorico era un rigido dualismo, che non ammette nessun rapporto tra bene e male, tra il Dio della luce e il non-dio delle tenebre; nel mondo questi due princìpi si trovano insieme in una mescolanza nefasta dei contrari perennemente in lotta tra loro. L’organizzazione, caratterizzata da una forte gerarchizzazione dei membri (uditori, eletti, anziani, vescovi, ecc.), presentava uno schema di gradi da percorrere nel cammino della redenzione con esigenze crescenti. Condannato varie volte dalle autorità ecclesiastiche come setta “dualistica”, il manicheismo è bandito dall’impero nel 382 da Teodosio I su sollecitazione di papa Siricio (†399).

    Nel novero delle “deviazioni” dottrinali occorre includere, seguendo la lettura polemica datane da Agostino, quella che fa capo a Pelagio (†420 ca.), un monaco, oriundo della Britannia ma a lungo residente nella capitale. Divenuto maestro di vita cristiana molto ascoltato negli ambienti colti ed aristocratici, insegna a riconoscere il bonum naturae (possibilità naturale di evitare il male e compiere il bene) e ad apprezzare come grandi doni di Dio la ragione e il libero arbitrio, fondamento necessario della vita morale. L’apporto della rivelazione (Legge mosaica ed esempio di Cristo) consiste a suo giudizio solamente nel facilitare la realizzazione del bene e il raggiungimento della perfezione. La discussione causata da queste posizioni si accende oltremisura anche per i numerosi interventi del vescovo di Ippona sulla questione della grazia, trascinando nello scontro personalità illustri. Pur non mancando di sostenitori tra l’episcopato italico, Pelagio è costretto dapprima ad emigrare e quindi a subire gli anatemi dei Sinodi di Cartagine e Milevi (416) e dei papi Innocenzo I (417) e Zosimo (418). Contro i pelagiani arriva nel 431 la condanna per eresia del Concilio ecumenico di Efeso e si scatena la persecuzione dell’imperatore Teodosio II (†450), che bene presto porterà alla loro scomparsa.

    Tra VIII e IX secolo si accende soprattutto nell’Oriente bizantino un’offensiva contro le immagini sacre (iconoclastia), nata per motivi politico-culturali e ben presto sfociata nell’eresia. Nel 730 Leone III Isaurico (†741) ordina la distruzione delle icone e la impone con editto imperiale come dottrina ufficiale, provocando così una prima condanna del sinodo romano convocato da papa Gregorio III nel 731. Ma è con i decreti di Ieria (Calcedonia) del 754, sottoscritti da un gran numero di vescovi fedeli alla politica di Costantino V Copronimo (†775) e giustificati sulla base delle proibizione vetero-testamentarie e di rare invettive patristiche contro l’abuso delle immagini, che l’iconoclastia divampa, scatenando atti di vandalismo e cruente persecuzioni in particolare contro i monaci iconofili; decreti iconoclasti che l’imperatrice Irene (†802) riesce a fare annullare e condannare in quanto fautori di una “perniciosa eresia” dal II Concilio ecumenico di Nicea del 787: qui i vescovi dichiarano all’unanimità dottrinalmente legittimo il culto delle immagini, mettendo però in guardia dal rendere loro la latria dovuta soltanto a Dio. Papa Adriano I (†795) approva la dottrina di Nicea e la difende in Occidente contro gli attacchi dei teologi di Carlo Magno. Ancora un rigurgito dell’eresia iconoclasta si scatena con Leone V l’Armeno (†820) nell’815, quando un sinodo da questi riunito a Santa Sofia approva una serie di decisioni contro la venerazione delle immagini e contro gli iconofili (vescovi e monaci), costretti perciò ad andare in esilio. La rabbia iconoclasta giunge al suo parossismo sotto il patriarcato costantinopolitano di Giovanni il Grammatico, maestro dell’imperatore Teofilio (†842). Con Teodora Armena (†867), però, un sinodo locale torna a legittimare il culto delle immagini e ad anatemizzare i suoi avversari (a perenne ricordo di tale avvenimento viene istituita la «grande festa dell’ortodossia» tuttora celebrata nella I domenica di Quaresima). Il tema dell’iconoclastia ha il suo epilogo nel quadro della controversia foziana con ripetute condanne, in particolare al concilio romano (canone VI) dell’863 e al concilio ecumenico Costantinopolitano IV (869/70) (canone III). Il problema si riproporrà in Occidente nel XVI secolo a causa degli attacchi dei riformatori protestanti contro il culto delle immagini, specialmente in seno al Calvinismo, ai quali risponde il concilio di Trento, approvando nel 1563 il decreto De invocatione, veneratione et reliquiis sanctorum et de sacris imaginibus.

    Sempre in epoca carolingia inizia in Occidente con Pascasio Radberto (†850) (Liber de corpore et sanguine Domini), Rabano Mauro (†856) e Ratramno (†868 ca) un’altra controversia dottrinale relativa all’eucarestia, che nel XI secolo porterà alla vicenda di Berengario di Tours (†1088 ca). Questi, in un momento di estrema confusione nel linguaggio teologico e facendo leva sulla dialettica, difende contro ogni forma di realismo una concezione simbolica del sacramento dell’altare (le due specie eucaristiche sono «non il vero corpo e il vero sangue, bensì figura ed immagine [similitudo]»), attirandosi per questo le condanne di vari sinodi locali (Parigi [1051], Tours [1055], Roma [1059], Poitiers [10575]) e contravvenendo così alla formula romana da lui firmata nel 1079. In tale data, infatti, un concilio riunito a Roma da Gregorio VII (†1085) definisce per la prima volta il concetto di transustanziazione come spiegazione dottrinale del mistero eucaristico («il pane e il vino sull’altare, grazie al mistero della preghiera santa e delle parole del nostro Salvatore, vengono sostanzialmente trasformati nel corpo e nel sangue del Signore Gesù Cristo»). Quasi a conferma di tale spiegazione le cronache locali registrano in Italia alcuni eventi prodigiosi intorno alla presenza reale di Cristo nelle specie consacrate, basti ricordare i miracoli eucaristici di Lanciano (750), di Ferrara (1171), di Alatri (1228), di Bolsena-Orvieto (1263). Una dottrina della transustanziazione, a cui l’incipiente teologia scolastica dà una formulazione definitiva e un fondamento decisivo, ma che nel XVI secolo troverà una radicale contestazione nella Riforma protestante. Così Lutero (†1546) la rigetta come non biblica e mera opinione delle scuole, pur continuando a credere nella presenza “reale” di Cristo nel pane e nel vino della S. Cena e prendendo su questo le distanze nel Colloquio di Marburg del 1529 dall’interpretazione simbolica di Zwingli (†1531); interpretazione simbolica che di fatto è sostenuta anche da Calvino (†1564) e dalle altre comunità evangeliche. Parimenti sulla messa intesa come sacrifico il rifiuto dei protestanti è netto ed univoco: per essi è un «abuso idolatrico» che trasforma il memoriale dell’unico sacrificio di Cristo in una «vergognosa nuova crocifissione». Contro tali posizioni giudicate eterodosse si pronuncia il concilio di Trento nel decreto De sanctissimo eucharestiae sacramento (sessione XIII, 1551) e in quello relativo al sacrifico della messa (sessione XXII, 1562) con i rispettivi canoni di anatema sit: si torna a ribadire la dottrina della transustanziazione per spiegare la presenza reale e quella sulla natura sacrificale propria della messa da considerare non come un nuovo sacrifico ma rinnovazione incruenta dell’unico sacrifico di Cristo sulla croce ad opera delle parole consacratorie pronunciate dal sacerdote in persona Christi.

    Correnti eterodosse sorgono anche nell’Italia medievale, diverse tra loro ma con elementi comuni e nuovi rispetto all’evo antico, quali il carattere popolare e laicale (in opposizione alla chiesa clericale), la forte vocazione alla profezia e alla predicazione itinerante, l’impegno per un radicale ritorno della chiesa al modello apostolico e all’Evangelo del Cristo povero sulla base di idee religiose non sempre conformi al sistema dottrinale consolidato e sovversive rispetto all’assetto politico-religioso della societas christiana post-costantiniana. In quest’ottica nasce poco dopo la metà dell’XI secolo in seno alla diocesi di Milano un movimento detto spregiativamente la Pataria (patè=straccione?) con l’obiettivo di combattere la simonia e il concubinato del clero attraverso una riforma morale e disciplinare e di instaurare una chiesa più fedele alla forma evangelii in linea con la riforma già portata avanti dai cluniacensi (si ricordi il sinodo riformatore celebrato in Laterano nel 1059 dal cluniacense papa Nicolò II). Accanto ai fratelli Landolfo ed Erlembaldo Cotta, appartenenti a famiglia feudale e responsabili dell’assetto politico militare dei gruppi patarinici, promotore principale della Pataria è il diacono Arialdo (†1066): il suo attacco violento a preti e vescovi concubini e simoniaci (stigmatizza la simonia come la più perniciosa «eresia» della chiesa milanese) è all’origine di una prima insurrezione popolare nel 1057 contro la nomina imperiale – giudicata frutto di compra-vendita – a vescovo della sede ambrosiana di Guido di Velata, seguita dalla più vasta rivolta del 1066 estesa alle altre città dell’Itala settentrionale. Un forte impulso al movimento patarinico è dato nel 1061 dall’elezione a papa col nome di Alessandro II di un suo simpatizzante, Anselmo da Baggio. E tuttavia nel 1066 Erlembaldo e Arialdo sono trucidati dai sostenitori del clero ambrosiano filo-imperiale (e da quel momento venerati dai patarini come santi martiri), mentre dopo l’elezione di Gregorio VII (†1085) il conflitto, che in Lombardia si è trasformato in guerra civile, si ricompone confluendo nel più vasto orizzonte della lotta per le investiture. C’è da dire che solo più tardi il termine patarino diventerà sinonimo di eretico – ad attestare come l’assestamento della riforma porti con se l’eliminazione di ogni radicalismo religioso – forse anche per assonanza tra pataro e cataro («Cathari seu Paterini»). Un movimento, questo dei catari, presente tra XI-XIII secolo con gruppi e comunità nell’Europa centrale ed occidentale (Albigesi), strettamente legato ai Bogomili della Tracia e ancor prima al manicheismo tardo-antico con una forte connotazione pauperistica. Il loro sforzo di vivere rationabiliter la legge del Vangelo li porta a leggere le Scritture neotestamentarie secondo il principio dualistico di Mani (bene/male; luce/tenebre; Dio/Mammona), seppure con una visione morale fondata sul volontarismo e non sul determinismo manicheo. Organizzati in chiese composte da due ceti distinti, i perfecti (obbligati ai doveri morali e ascetici) e i credentes (sciolti da questo obbligo), e con una propria gerarchia, sono radicalmente nemici della «Babilonia romana». Comunità catare e albigesi operano nell’Italia settentrionale e centrale già a partire dagli inizi del secolo XI e fino al secolo XIII, quando su di loro si abbattono, oltre alle crociate del 1209 e del 1229, i decreti di condanna di papa Lucio III (1184) e del concilio Lateranense IV (1215) e la repressione dell’Inquisizione (1230-1255). Il medesimo anatema conciliare del 1215 è scagliato anche contro i Valdesi – un altro movimento pauperistico e anti-istituzionale con forte propensione alla predicazione itinerante, originato dal commerciante lionese Valdo, ben diverso però dal catarismo ancorché ad esso erroneamente assimilato dalla censura romana –, e nei confronti degli «errori» trinitari dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore (†1202), profeta della «terza età dello Spirito» e di una «palingenesi» spirituale. Le attese escatologiche gioachimite e le interiorizzazioni spirituali di fronte alla mondanità e corruzione della chiesa gerarchica si fanno sempre più vive specialmente nel mondo dei «mendicanti», convinti come sono di essere il segno della «pienezza dei tempi». Ed è in particolare la fraternità francescana degli «spirituali» tra XIII e XIV secolo con Pietro di Giovanni Olivi (†1298), Ubertino da Casale (†1330) e Angelo Clareno (†1337), per ricordare solo alcuni nomi della folta schiera, ad alimentarle e veicolarle nei vari territori e comunità ecclesiali dalla Francia meridionale al Sud-Italia. Una fraternità dal cui interno si sviluppano anche posizioni ancor più estremiste, accusate e condannate con severità dalla gerarchia ecclesiastica per eresia, immoralità e sedizione, come il movimento dei Fraticelli e degli Apostolici/Dolciniani. I primi, diversamente dagli «spirituali» rimasti nella chiesa, sono gruppi separati di francescani presenti in alcune parti dell’Italia e in Provenza, che per le loro aspre critiche alla «carnalità» della chiesa clericale si attirano l’inesorabile persecuzione e scomunica (1323) di Giovanni XXII e pur di rimanere fedeli all’ideale della povertà radicale, da estendersi a loro giudizio alla stessa dirigenza ecclesiastica (papa, curia, vescovi), arrivano a ripudiare l’autorità dei superiori e della gerarchia. Sempre sulla questione della povertà e della vita comune si è consumato qualche decennio prima il destino degli Apostolici guidati inizialmente da fra Gerardo Sigarelli di Parma e dopo la sua morte da fra Dolcino. I fratres et sorores apostolicae vitae sono intenzionati a rinnovare la vita francescana riproducendo il genere di vita degli apostoli quanto a predicazione, abito e libertà spirituale, ma al di fuori di ogni schema e di ogni struttura. Gli abusi e le stranezze conseguenti a tale impostazione “libertaria” anche a riguardo della sessualità allarmano il vescovo locale che alla fine li condanna e mette al rogo il suo fondatore, Gerardo. La medesima sorte tocca a Dolcino, arso vivo a Vercelli nel 1307 come eretico in quanto predicatore appassionato, in linea con la profezia gioachimita, dell’avvento dell’età nuova dello Spirito, che avrebbe portato alla sconfitta di Bonifacio VIII e alla propria elezione a pontefice (il «papa spirituale»). All’ideale del “liberismo” evangelico si indirizza pure la corrente dei Fratelli del libero spirito, nata nelle Fiandre e nella Renania e diffusasi anche nel Settentrione d’Italia e soprattutto in Umbria ad opera del francescano Bentivenga da Gubbio (†1319/33). Molto vicina alla dottrina di Almarico di Béne (†1206/7) («almariciani») già condannata da Innocenzo III (†1216), la «comunità del libero spirito» rivendica l’indipendenza dall’autorità ecclesiastica e la possibilità di vivere secondo una vita apostolica (comunanza di beni, fraternità, ugualitarismo) in forza dell’effusione dello Spirito ricevuta. Concretamente proclama che il credente, una volta raggiunto lo stadio dello «spirito libero» attraverso rinunce e penitenze, venga affrancato da ogni legge morale e dalla stessa possibilità di peccare. A tale filone “dissidente” appartiene la mistica beghina Margherita Porete, bruciata a Parigi nel 1310 come eretica assieme al suo libro Le miroir des simples âmes. L’anno dopo la “setta” dei Fratelli è condannata da Clemente V e Rainerio, vescovo di Cremona, è nominato inquisitore nella valle di Spoleto al fine di estirpare l’eresia.

    Nel Quattrocento e soprattutto nel Cinquecento l’eterodossia si collega in modo quasi esclusivo a correnti di pensiero e a movimenti ecclesiali paladini di una reformatio ecclesiae in capite et in membris secondo l’Evangelo “nuovamente riscoperto” e sfociati in parte nella contestazione radicale e persino nel rifiuto dell’assetto istituzionale della chiesa “papista”. Possiamo menzionare in proposito l’ecclesiologia “rovesciata” di Marsilio da Padova (†1342), le cui tesi del Defensor pacis antitetiche alla ierocrazia papale dell’Unam sanctam di Bonifacio VIII sono condannate da Giovanni XXII, e inoltre le cosiddette “eresie nazionali” di John Wycliff (†1383) e Jan Hus (†1415), apostoli di un’ecclesia spiritualis o congregatio praedestinatorum senza clero, senza papato e fondata unicamente sulla Scrittura e per questo anatemizzati dal Concilio di Costanza (Hus è bruciato nella città conciliare nel 1415) e ancora le invettive di Girolamo Savonarola (†1498) contro Alessandro VI che perciò lo scomunica nel 1497 e l’anno dopo lo lascia impiccare e bruciare sul rogo in piazza della Signoria a Firenze come «eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove». Anche la [→] Riforma protestante di Lutero (†1546), Zwingli (1531), Calvino (†1564), Bucer (†1551), che pure parte dall’assunto della giustificazione per fede (sola fide, sola gratia, solus Christus) e dal sola Scriptura come principio di verità, finisce per contestare la pretesa inerranza del magistero ecclesiastico solenne (papa e concili) e negare sostanzialmente la natura gerarchica della chiesa e la sua dimensione di istituzione visibile e giuridica a favore di un’ecclesia spiritualis quale congregatio sanctorum (o praedestinatorum), in qua evangelium pure docetur et recte administrantur sacramenta e per la cui unità è sufficiente l’accordo sull’insegnamento del Vangelo e l’amministrazione dei sacramenti (Confessio Augustana VII); una chiesa, in ultima analisi, che non si identifica con il “regno visibile” del papa-Anticristo. A ben vedere, è per l’impossibilità di un accordo sulla dottrina ecclesiologica che di fatto falliscono tutti i tentativi di riunificazione messi in atto da Carlo V (Colloqui di Religione 1539-41), anche se il concilio di Trento (1545-1563) pronuncerà l’anatema sulle singole “eresie” dei “novatores”. Lo stesso evangelismo dei circoli valdesiani e del riformismo cattolico, attivo in Italia assieme alle varie esperienze collegate alla Riforma protestante d’Oltralpe a cominciare dai Valdesi, propone un’“interiorizzazione” cristocentrica della vita cristiana ed una implicita riforma istituzionale della chiesa, ugualmente condannate dall’Inquisizione romana. Il controllo sempre più ferreo in materia dottrinale da parte del Sant’Uffizio post-tridentino, oltre a ridurre i pochi spazi rimasti al libero pensiero e a rafforzare una massiccia opera di “disciplinamento”, dà vigore ad una prassi di sospetti generalizzati di eterodossia con lo scopo di tenere sotto scacco gli indiziati, assoggettandoli a volte persino con la violenza. Sotto la sua azione censoria cadono nel XVII secolo personaggi illustri dell’orizzonte culturale italiano, come Galileo Galilei (†1633), Giordano Bruno (†1600), Tommaso Campanella (†1639), assieme a movimenti che dal loro pensiero prendono origine. La nota vicenda del processo e della condanna dell’astronomo pisano, incolpato di mettere in dubbio la verità della Scrittura perché favorevole alla teoria eliocentrica, si conclude nel 1633 con un’abiura forzata. Più drammatica è la sorte del domenicano di Nola messo al rogo a Campo de’ Fiori nel 1600. Giordano Bruno, ammiratore di Copernico e della teoria sull’infinità dell’universo, è accusato da cattolici, calvinisti e anglicani di attentare alla concezione di un Dio creatore e personale (in sostanza di cadere nel panteismo), di considerare la conoscenza pura illuminazione e trasporto amoroso e non invece frutto della ragione e della scienza, di ridicolizzare il cristianesimo come religione rivelata, riducendolo a freno morale del popolo, e in ultima analisi di disprezzare l’«autorità dei Santi Padri».

    Tra Sei-Settecento è il giansenismo ad essere colpito dalla censura romana con la bolla di Clemente XI Unigenitus del 1713; un movimento in verità molto complesso, perché dottrinale, politico ed ecclesiastico, diffuso in gran parte dell’Europa e con sostenitori di primo piano nel panorama cattolico del tempo (oltre al vescovo Cornelius Jansen, Saint-Cyran, il monastero cistercense di Port-Royal, gli Arnauld, Pascal, Quesnel), che, professando un agostinismo radicale, riafferma la totale soggezione dell’uomo alla concupiscenza dopo il peccato originale (solo la grazia divina gli permette di compiere opere buone) e predica una morale rigoristica ed elitaria (la grazia diventa vincente solo con una rinuncia totale di sé ed una perfetta conformità alla volontà di Dio). La sua influenza in Italia è abbastanza limitata. Per promuoverlo Pietro Tamburi (†1827) e Scipione de’ Ricci (†1810), vescovo di Prato-Pistoia, col sostegno del granduca Pietro Leopoldo nel 1786 riescono ad organizzare il Sinodo di Pistoia, condannato da Pio VI cinque anni dopo con la bolla Auctorem fidei.

    Di pensatori e movimenti “non conformisti” è attraversata l’Europa particolarmente con l’avvento della stagione illuministica, basti richiamare il Deismo di Antony Collins (†1729), Herman Samuel Reimarus (†1768) e Gotthold Ephraim Lessing (†1781) e l’“anti-cristianesimo” di Bayle (†1706), Diderot (†1784) e Voltaire (†1788), aspramente attaccati da un’apologetica cattolica chiusa in difesa e in alcuni casi dagli interventi punitivi del Sant’Uffizio e dell’Indice. Ma il “dissenso” attraversa anche le fila dei cattolici intransigenti: Félicité de Lamennais (†1854), passato dall’ultramontanismo ad un vago socialismo cristiano, difende i principi del liberalismo religioso e politico, ivi compresa la libertà di coscienza, e sostiene la necessità di una riforma della chiesa, ma viene raggiunto dalla condanna della Mirari vos (1832) di Gregorio XVI, per cui decide di uscire definitivamente dalla chiesa e dare inizio ad un’opera di democratizzazione del cristianesimo a sfondo sociale basato sul carattere razionale-filosofico della religione. In Italia nel 1849 sono posti all’Indice per sospetto di errori dottrinali, ma in realtà per ragioni politiche (cinque anni dopo saranno «dimessi» alla lettura del pubblico), due scritti di Antonio Rosmini-Serbinati (†1855): Delle cinque piaghe della Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale. L’impegno del teologo di Rovereto, in realtà molto apprezzato dai papi del tempo, è rivolto certo alla riforma della chiesa (liturgia, formazione sacerdotale, unità dei vescovi e loro nomina), ma soprattutto a contrastare l’illuminismo anticristiano attraverso il «risanamento della ragione» (progetta un’Enciclopedia cristiana da opporre a quella francese) e la rigenerazione della teologia riportata ad una maggiore visione unitaria. I sospetti sulla sua ortodossia, tuttavia, ritornano dopo la sua morte e Rosmini è nuovamente «condannato, riprovato e proscritto» dall’Inquisizione romana nel 1887 (il suo pensiero sarà rivalutato e lui sarà beatificato nel 2007). Nelle prime decadi del secolo XX toccherà al modernismo essere oggetto di censura e di persecuzione da parte del Sant’Uffizio.

    In definitiva, la possibilità di errori dottrinali e la necessità di individuarli e debellarli sono in un certo senso connaturali al cristianesimo inserito nella storia. C’è da dire, però, che dopo il Vaticano II (1962-65) l’organismo preposto a questa funzione, la Sacra Congregazione per la dottrina della fede, non ha più il compito di “perseguire le eresie e … reprimere i delitti contro la fede” secondo lo statuto del 1542, ma più positivamente di “difendere la fede” promuovendo la dottrina “in modo che, mentre si correggono gli errori e soavemente si richiamano al bene gli erranti, gli araldi del vangelo riprendono nuove forze”.

    Fonti e Bibl. essenziale

    K. Rahner, Che cos’è l’eresia, Paideia, Brescia 1964; L. Cristiani, Breve storia delle eresie, Milano 1960; AA. VV., Eresia ed eresiologia nella Chiesa antica, Roma 1985; M. Simonetti, Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Soneria Mannelli (Cz) 1995; G. Filoramo, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Laterza, Roma-Bari 1993; M. Simonetti, La crisi ariana del IV secolo, Roma 1975; U. Bianchi, Antropologia e dottrina della salvezza nella religione dei Manichei, Roma 1987; R.F. Evans, Pelagius: Inquiries and Reappraisals, New York-London 1968; G.G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, Il Mulino, Bologna 1989; P. Golinelli (a cura di), La Pataria. Lotte religiose e sociali nella Milano dell’XI secolo, Milano 1984; G. Rottenwöhrer, Der Katharismus, 2 Bde., 4 T., Bad Honnef 1982; N.D. Power, Il mistero eucaristico: infondere nuova vita alla tradizione, Queriniana, Brescia 1997; R. Iaria, I miracoli eucaristici in Italia, Ed. Paoline, Milano 2005; A. Besançon,  The Forbidden Image: An Intellectual History of Iconoclasm, Chicago 2009; E. Iserloh, Compendio di storia e teologia della Riforma, Morcelliana, Brescia 1990; P. Zovatto, Introduzione al Giansenismo italiano (appunti dottrinali e critico bibliografici), Trieste 1970; A. Giordano, Rosmini e Lamennais. Fede e politica, Stresa 1989.


    LEMMARIO