Famiglia – vol. II

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    Autore: Giorgio Vecchio

    Nel 1861 le famiglie italiane vivevano secondo una pluralità di strutture e di modelli, dipendenti dalle differenze tra le classi sociali, dalle condizioni di vita e dalla varietà dei contratti agrari. Esistevano famiglie nucleari urbane, borghesi o operaie, famiglie nucleari nelle campagne (i braccianti), ma anche famiglie multiple o estese (con più nuclei familiari abitanti sotto lo stesso tetto o con l’aggregazione di anziani o parenti attorno a una famiglia composta da genitori e figli), tipiche dei mezzadri e di altre categorie di salariati stabili. Parlare di un unico modello di famiglia ‘patriarcale’ è pertanto una forzatura. Mentre rimanevano diffuse condizioni coniugali e familiari dettate dalle necessità economiche, avanzava una forma nuova di vita coniugale, fondata sui valori borghesi e sulla prevalenza dell’affetto reciproco; statica era la condizione di inferiorità sociale della donna; diffuse le situazioni di prostituzione forzata o di stupri, a smentire un’idilliaca immagine della vita rurale. Gli alti tassi di natalità – con quozienti inizialmente prossimi al 40 per mille e poi sempre sopra il 30 per mille fino alla I guerra mondiale – erano compensati da un elevatissimo tasso di mortalità, superiore a quello degli altri paesi dell’Europa centro-occidentale, determinato soprattutto da una fortissima mortalità infantile (224 bambini morti nel primo anno di vita ogni mille nati vivi nel decennio 1861-1870, 214 nel successivo). Sul piano giuridico, il Co­dice Civile Pisanelli (1865) tentò un compromesso tra le tendenze più tradizionaliste e l’ere­dità lasciata dalla Rivoluzione francese, così che man­tenne per le donne l’istituto dell’autorizzazione maritale (necessaria per donare o alienare immobili, svolgere attività finanziaria o promuovere azioni giu­diziarie), mentre la patria potestà era affidata all’esercizio del marito. Discriminatorie erano anche le norme in caso di adulterio o concubinaggio. Il divorzio non era previsto e i successivi (e vani) tentativi di introdurlo suscitarono la protesta e la mobilitazione dei cattolici (progetto Villa, 1881; progetto Zanardelli-Cocco Ortu, 1902). Il Codice del 1865 fu altresì occasione di nuovi e aspri contrasti a causa della netta separazione introdotta tra matrimonio civile e religioso, ciò che imponeva ai nubendi una doppia celebrazione. In molti casi, per scelta ideale o per motivi economici, se ne scelse una sola, con il risultato che i matrimoni celebrati soltanto in Chiesa non godevano di alcun riconoscimento civile e gli eventuali figli venivano considerati dallo Stato come illegittimi. Altre conseguenze furono ca­si di bigamia contratta dagli emigranti op­pure di matrimoni soltanto reli­giosi seguiti da un matrimonio civile con un coniuge diverso. Pio IX nel 1868 condannò la «nefanda legge» e i cattolici con­seguenti giudicarono il matrimonio civile alla stregua di un mero «contratto di ac­cop­piamento». La pastorale della Chiesa dovette perciò cominciare a confrontarsi con problemi nuovi, spesso irrisolvibili stante la rottura con lo Stato italiano. Il 18 febbraio 1880 Leone XIII pubblicò l’enciclica Arcanum sul matrimonio cri­stiano, che confermò che lo scopo del matrimonio era quello di «propagare il genere uma­no» e di «generare figli alla Chiesa» e che i rapporti tra i coniugi dovevano es­sere governati dalla logica espressa da S. Paolo, con la preminenza del­l’au­torità maritale, pur sorretta e corretta dalla carità. Era ribadita la tesi del potere prioritario della Chie­sa nella regolazione del matri­monio, a causa della sua origine divina e dei suoi connotati sacramentali, con l’ovvia condanna sia del ma­trimonio civile sia del divorzio. Lo sviluppo del movimento cattolico nell’ultimo ventennio del XIX secolo e agli inizi del XX contemplava intanto anche iniziative in favore della famiglia, per lo più con finalità religiose (diffusione del culto di Maria, di S. Giuseppe e della Sacra Famiglia) e sociali (cooperazione, assistenza agli emigranti, leghe di Padri di famiglia, ecc.).

    Il regime fascista viene spesso ricordato per le sue misure di politica familiare, dipendenti dalla volontà imperiale di Mussolini. Dopo aver introdotto nel 1925 l’Opera Na­zionale Mater­­nità e Infanzia (ONMI), il 26 maggio 1927 il Duce pronunciò il noto discorso «del­l’Ascensione», con il quale lanciò la campagna demografica e introdusse concrete misure economiche e assistenziali, il cui possibile effetto fu tuttavia vanificato dalla grande crisi del 1929 e degli anni seguenti. Nel 1934 furono introdotti gli assegni familiari per le famiglie con almeno due figli; l’anno successivo furono attribuiti anche ai lavoratori con un solo figlio; nel 1939 furono raddoppiati come entità moneta­ria e dati anche a fa­vore della moglie e dei genitori a carico. Tra le altre misure si ebbero la tassa per i celibi (dal 1927), le ri­duzioni ferroviarie per i viaggi di nozze, i premi per la nuzialità e la natalità, i privile­gi per i coniugati con prole e i vari sussidi alle famiglie nu­me­rose. Il decreto 21 agosto 1937 n. 1542 stabilì la concessione di pre­stiti per favorire le nozze; esenzioni e de­trazioni fiscali per le fa­mi­glie nu­merose; agevolazioni nella carriera e varie priorità per l’ottenimento di pre­stiti e abitazione per i dipendenti pubblici più pro­lifici e infine norme per tutelare le don­ne lavoratri­ci in caso di gravi­danza e parto. Gli effetti complessivi di tutte queste misure furono alquanto modesti, considerato che tra il 1926 ed il 1940 il tasso di nuzialità rimase attorno al 7-7,5 per mille, mentre il quo­ziente di natalità decrebbe regolarmente, passando dal 27,7 per mille del 1926 al 24,9 del 1931, al 23 per mille circa degli anni succes­sivi. Il numero me­dio di com­ponenti per famiglia diminuì: esso era nel 1901 di 4,5, nel 1921 di 4,4, nel 1931 di 4,2 ed infine nel 1951 esso scese ancora al 4,0. La politica demografica fu accompagnata dall’introduzione di nuove regole sul matrimonio, perché l’art. 34 del Concordato del 1929 riconobbe gli effetti civili del matrimonio religioso, stabilì la competenza esclusiva dei tribunali ecclesiastici per i casi di nullità e lasciò allo Stato soltanto il giudizio sulle cause di separazione dei co­niugi. Il Codice Penale del 1930 catalogò la violenza carnale e gli atti di libidine tra i reati contro la moralità pubblica e il buon costume (e non contro la persona); l’aborto fu giudi­cato reato «contro la integrità e la sani­tà della stirpe», capi­tolo che colpiva anche la propa­ganda a favore delle pra­tiche contro la pro­creazione. Nel complesso il fascismo agì seguendo una concezione alquanto restrittiva e tradizionalista del ruolo pubblico della donna, dando spazio a visioni misogene e repressive, anche se non mancarono spinte di segno opposto come la sollecitazione allo sport femminile, che in più di un caso fu avversato dalla Chiesa. In definitiva tra le due guerre l’unico progresso per la donna fu la cancellazione della norma sull’autorizzazione maritale (1919), aprendole l’accesso alle libere professioni ed alla maggior parte dei pub­blici impieghi (strada poi in molti casi richiusa dal fascismo). Tra Chiesa e Stato fascista, nel complesso, fu ampio il consenso in materia di politica familiare, proprio perché analoghe risultavano le preoccupazioni in materia di tutela del compito materno della donna e della natalità. Comune era anche la diffidenza verso il lavoro extracasalingo della donna.

    La complessiva visione della Chiesa cattolica su questi temi fu ripresa e aggiornata da Pio XI con la sua enciclica Casti Connubii (31 dicembre 1930). Essa riconfermò che il fine primario del matrimonio era la procreazione e l’educazione cristiana dei figli, mentre soltanto bene secondario era la «vi­cen­devole fedeltà dei coniugi nell’a­dem­pimento del contratto matrimoniale». Ulteriori beni «secondari» erano ritenuti «il mu­tuo aiuto e l’affetto vicen­de­vole e la quiete del­la con­cu­pi­scenza». La preoc­­cu­pa­zione per l’«ordine» della famiglia spinse a ufficia­lizzare la superiorità del marito sulla moglie e sui figli. Complessivamente la pastorale non produsse però in quegli anni particolari innovazioni nel campo della famiglia, anche perché restava assente ogni considerazione della coppia in quanto tale. Si era di fronte a un’e­ducazione in­dividualistica, nella quale il matrimonio era conside­rato come fatto religioso e so­ciale, più che esperienza affettiva e coniugale.

    La tumultuosa e inattesa ripresa economica dell’Italia dopo il disastro della II guerra mondiale, culminata nel ‘boom’ del periodo 1958-1963, ebbe importanti conseguenze sulla vita delle famiglie. Alcune tendenze si rivelarono sempre più chiare, soprattutto nel proseguimento della caduta del tasso di natalità (malgrado una significativa ripresa proprio negli anni del ‘boom’). Soprattutto, però, il decennio ’50 sancì il passaggio definitivo dall’Italia contadina a quella industriale, cosa che comportò un esodo massiccio dalle campagne e dalle regioni povere verso le città, un rapido mutamento di costumi, nonché l’avvio della riconsiderazione del ruolo della donna. Il sogno di avere una famiglia numerosa, se mai era esistito, finì nel dimenticatoio. La televisione, dal 1954, mutò in modo radicale le aspettative delle persone: più che il comunismo, sarebbe stato il consumismo il vero nemico della pastorale tradizionale della Chiesa. Negli anni ‘50 apparvero infatti i primi segnali di difficoltà, malgrado l’apparente successo della Chiesa appoggiata dal predominio della DC. La pastorale familiare cominciò ad apparire inadeguata in quanto legata a una predominante preoccupazione giuridica, morale o moralistica e a un’insuf­fi­cien­te valutazione delle attese profonde di uomini e donne. La secolarizzazione incipiente provocava soltanto reazioni di condanna, come nel clamoroso caso del processo al vescovo di Prato, mons. Fiordelli, che aveva tacciato di concubinaggio due giovani sposatisi solo civilmente (1958). Sollecitazioni per un cambiamento di prospettiva vennero in quegli anni dai primi gruppi di spiritualità coniugale, spesso di matrice francese (Équipes Notre Dame). In Italia si mostrarono sensibili al tema mons. Carlo Colombo e mons Antonio Corti a Milano, don Giovanni Rossi ad Assisi, nonché il Movimento Laureati di Azione Cattolica. Da non dimenticare il testo di Carlo Carretto, Famiglia piccola Chiesa (1949), peraltro fatto allora riprovato dalla Chiesa. Nel 1958 iniziarono le pubblicazioni del «Notiziario per i gruppi di spiritualità familiare». Desiderio di tutti era quello di riscoprire il significato sacramentale del matrimonio e di conseguenza di valorizzare la presenza dei coniugi nella Chiesa e nella società. Il Concilio Vaticano II riconobbe queste esigenze, specialmente con la definizione della famiglia come «Chiesa domestica». Il graduale rinnovamento della pastorale familiare, frutto del lavoro dei pionieri e dell’insegnamento del Concilio, produsse nel corso degli anni ’60 e ’70 significativi effetti, che riguardarono un po’ tutti i settori, secondo lo slogan della trasformazione della famiglia da ‘oggetto’ a ‘soggetto’ della pastorale. Ne guadagnarono la riflessione teologica (fino alla discussione sul cd. ‘ministero coniugale’), la catechesi e lo sforzo per aggiornare la morale sessuale: nei vari ambiti si distinsero T. Goffi, G. Pattaro, G. Piana, P. Scabini, D. Tettamanzi, e poi ancora G. Fregni, oltre a laici come i coniugi Gianna Agostinucci e Giorgio Campanini. Si introdussero o potenziarono i corsi di preparazione al matrimonio, i sostegni ai gruppi familiari, e si insistette sulla spiritualità coniugale e così via. Al matrimonio e alla famiglia si dedicarono associazioni come l’Azione Cattolica e movimenti come quello dei Focolari (specie con I. Giordani). Altri contributi, su terreni diversi, vennero dai Centri di Pre­parazione al Matrimonio, dall’Istituto La Casa di Milano (don P. Liggeri), dall’Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Ma­trimoniali (Ucipem), poi dalla Confederazione Italiana dei Consultori familiari di ispirazione cristiana, 1978) e dal Cisf (Centro internazionale studi famiglia, 1973), quest’ultimo voluto da don G. Zilli e animato da p. Ch. Vella. Dal 1975, inoltre, agì il Movimento per la Vita, fondato da C. Casini con lo scopo di tutelare la vita umana fin dal concepimento, in diretta polemica con la mentalità e poi la legislazione abortista.

    Questo proliferare di iniziative rispondeva a una duplice sollecitazione dei tempi e non soltanto allo stimolo conciliare. Anzitutto va ricordato il rapido mutamento normativo in atto in Italia: dapprima l’introduzione della nuova disciplina divorzista sui casi di scioglimento del matrimonio (legge del 1° dicem­bre 1970 n. 898, poi modificata con la legge 6 marzo 1987 n. 74); poi la sentenza della Corte Costituzionale del 16 marzo 1971 con la quale venne dichiarato inco­sti­tuzionale l’art. 553 del codice pe­nale che puniva «chiunque pubbli­ca­men­te incita a pratiche contro la pro­crea­zione o fa propaganda a favore di esse»; di seguito il varo del nuo­vo di­ritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151), l’istituzione dei consultori pubblici (legge 29 lu­glio 1975, n. 405), e infine la legislazione favo­revole all’aborto (leg­ge 22 maggio 1978, n. 194, «Norme per la tutela sociale della ma­ternità e sul­­l’in­­terruzione volontaria della gravidanza»), nonché le nuove nor­me regolanti gli istituti del­l’af­fi­do e dell’a­dozione (legge 4 maggio 1983 n. 184). Le due principali leggi qui citate, ovvero quella sul divorzio e quella sull’aborto, furono entrambe sottoposte a referendum popolare, chiesto a gran voce dalla Chiesa cattolica. Nel primo caso, dopo un iter particolarmente tortuoso e dopo un serrato confronto interno allo stesso mondo cattolico (con il dubbio posto, da una parte, sulla liceità di imporre i convincimenti religiosi sull’indissolubilità anche tramite la legislazione civile, e, dall’altra, con la sottolineatura degli effetti socio-culturali negativi della diffusione del divorzio), si giunse al voto del 12-13 maggio 1974, con un’inequivocabile vittoria del ‘no’ all’abrogazione della legge (59,3%). Anche nel secondo caso, quello della normativa abortista, i ‘no’ prevalsero largamente nel referendum del 17-18 maggio 1981 (68%). Il voto del 1974 fu particolarmente traumatico per la Chiesa, nella quale la gerarchia era ancora convinta del radicamento dei valori cristiani nella società italiana.

    Una seconda sollecitazione arrivò dallo stesso magistero pontificio ed episcopale: basti qui citare, in successione temporale, l’enciclica di Paolo VI, Humanae Vitae sulla regolazione della natalità (25 lu­glio 1968), i documenti della CEI, Ma­trimonio e famiglia oggi in Italia (15 novembre 1969), ed Evangelizzazione e sacra­mento del matrimonio (20 giugno 1975), oltre al documento preparatorio del Sinodo del 1980, su I compiti della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo, cui fece seguito l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio (22 novembre 1981). Sempre per quanto riguarda la Chiesa italiana, va ricordata la pubblicazione del Direttorio liturgico-pastorale per l’uso del Rituale dei Sacramenti e dei Sacramentali (27 giugno 1967) e del Sacramento del matrimonio (30 marzo 1975).

    Il difficile sforzo di adeguamento e rinnovamento della pastorale familiare cominciò a portare frutti negli anni ’70 e ’80, ma dovette essere presto rilanciato in seguito ai grandi mutamenti intervenuti nell’ultimo decennio del sec. XX e nel primo del sec. XXI. Questi furono resi evidenti anzitutto dalle statistiche: a) la nuzialità che negli anni ’80 si era attestata su quozienti del 5,2-5,3 per mille, crollò sotto il 5 mille nel 1995 e scese fino al 3,8 del 2009; b) la parallela crescita di separazioni e divorzi (oltre 84.000 separazioni e quasi 54.000 divorzi nel 2008); i divorzi, in particolare, salirono dal 1995 al 2008 dalla cifra di 79,7 a 178,8 ogni 1000 matrimoni; c) la crescita impetuosa dei matrimoni civili – ormai oltre il 50% del totale nelle grandi città –, determinati da fattori quali la secolarizzazione, il matrimonio dei divorziati e l’apporto della popolazione immigrata di altra religione; d) l’aumento delle convivenze, sia di tipo pre-matrimoniale sia con carattere permanente (confermato dall’andamento delle nascite ’naturali’: il 13,7% sul totale dei nati nel 2003; il 22,2% nel 2008); e) il perdurare della stagnazione delle natalità, con quozienti arrivati al minimo storico nel 1995 (9,1 nascite per mille abitanti) e risaliti leggermente in seguito solo grazie alla maggiore fecondità delle donne immigrate. Oltre ai dati statistici, tuttavia, la famiglia italiana venne investita da quesiti ben più radicali, riguardanti la sua stessa fisionomia e, in definitiva, la concezione della famiglia e della coppia.

    Le linee complessive scelte dal presidente della CEI card. Camillo Ruini, che si erano già indirizzate, soprattutto dopo la scomparsa della DC, verso una maggiore presenza pubblica della Chiesa, privilegiarono le iniziative volte a fare pressione sul governo e sul Parlamento in modo da incidere sulle scelte legislative. Minor attenzione fu riservata alla vera e propria pastorale familiare, pur se si arrivò a una sorta di riordino e di canonizzazione con il Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia (1993). Molto sostegno fu dato al Forum delle associazioni familiari, costituito nel 1992, con l’obiettivo di portare all’attenzione del dibattito culturale e politico italiano la famiglia come soggetto sociale. Esso si rivelò incisivo sui fronti della bioetica, della normativa sull’aborto e l’eutanasia e sulla questione delle ‘coppie di fatto’. In questo caso, infatti, per ovviare alla vasta casistica sorta con la diffusione delle convivenze, fossero esse eterosessuali o omosessuali, il governo Prodi presentò nel 2007 un progetto di legge, ribattezzato ‘DICO’ (da ‘DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi’). Contro questo progetto si ebbero vivaci attacchi polemici da parte della Chiesa – ostile a ogni pur parziale parificazione tra matrimonio e convivenze -, culminati il 12 maggio 2007 con la manifestazione del ‘Family Day’. In precedenza si era avuto un altro durissimo scontro avvenuto in occasione del referendum del 13-14 giugno 2005 sulla legge che regolamentava la procreazione assistita, allorché il card. Ruini aveva invitato con successo all’astensionismo allo scopo di favorire il mantenimento della legge approvata dalla maggioranza di centro-destra. Forte, ma molto meno ascoltata, fu invece l’invocazione del Forum per introdurre una diversa politica per la famiglia, soprattutto tramite la considerazione dei carichi familiari da parte della normativa fiscale.

    Fonti e Bibl. essenziale

    M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia, Il Mulino, Bologna 1988; Id., Provando e riprovando. Matrimonio, famiglia e divorzio in Italia, Il Mulino, Bologna 1990; CISF, Le stagioni della famiglia, a cura di G. Campanini, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1994; C. Dau Novelli, Famiglia e modernizzazione in Italia tra le due guerre, Studium, Roma 1994; Chiesa e famiglia in Europa, a cura di A. Caprioli e L. Vaccaro, Morcelliana, Brescia 1995; G. Vecchio, Profilo storico della famiglia. La famiglia italiana tra Ottocento e Novecento, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo, 1999; D. De Vigili, La battaglia sul divorzio. Dalla Costituente al Referendum, Franco Angeli, Milano 1999; La pastorale familiare in Italia. Una ricerca nazionale a dieci anni dal direttorio di pastorale familiare, a cura di P. Boffi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005; G. Scirè, Il divorzio in Italia. Partiti, Chiesa, società civile dalla legge al referendum (1965-1974), Bruno Mondadori, Milano 2007; G. Campanini, Famiglia, storia, società. Studi e ricerche, Studium, Roma 2008; Istat, Famiglia in cifre, Dossier presentato alla Conferenza Nazionale delle Famiglie, Milano, 8-10 novembre 2010, a cura di L.L. Sabbadini, M.C. Romano, R. Crialesi (in https://www.istat.it/it/archivio/40640); G. Vecchio, Matrimonio, famiglia e pastorale familiare in Italia. Trasformazioni sociali e attuazione del Concilio, in Da Montini a Martini: il Vaticano II a Milano. II. Le pratiche, a cura di G. Routhier, L. Bressan, L. Vaccaro, Morcelliana, Brescia, 2016, pp. 341-376.


    LEMMARIO