Feudalità ecclesiastica – vol. I

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    Autore: Tommaso di Carpegna

    A questo concetto è possibile attribuire un duplice significato. Da una parte, la feudalità ecclesiastica comprende il novero di quei più o meno grandi signori territoriali (vescovati, monasteri, canoniche) che derivavano parte del loro potere e delle loro giurisdizioni pubbliche dalla fedeltà vassallatica giurata al sovrano in quanto loro signore feudale (in tempi e luoghi differenti l’imperatore e re del regno italico, il pontefice romano, il re di Sicilia). Dall’altra parte, il medesimo concetto comprende anche il vastissimo ambito di coloro che – laici o ecclesiastici – si qualificavano a loro volta come vassalli di signori ecclesiastici: come per esempio i detentori di diritti sulle pievi o su altri enti, le clientele armate ovvero i milites dei monasteri e dei vescovati. Il sistema vassallatico-beneficiale, clientelare e del dominio fondiario e signorile viene spesso interpretato in senso omnicomprensivo come “feudale”, ma in realtà esso va riferito a quadri molto più articolati, non organici e non omogenei, mancando, fino all’inoltrato XII secolo, una nozione chiara e finanche l’esistenza di un vero e proprio “sistema feudale” (ovvero, come si sarebbe detto nell’Ottocento, di una “piramide feudale”). Il vassallo ecclesiastico di un sovrano, così come il vassallo di un signore ecclesiastico, non erano sostanzialmente differenti rispetto alla controparte puramente “laica” e svilupparono forme analoghe di dominio e controllo del territorio e degli uomini che lo abitavano. Tuttavia, la realtà italiana pone soprattutto il caso dei vescovi in una prospettiva peculiare. Ciò accade innanzitutto per una ragione di ordine istituzionale, in quanto i vescovi erano già stati investiti, in età basso-imperiale, di una pubblica autorità che poteva affiancarsi e che poi andò sostituendosi a quella dei magistrati imperiali. In secondo luogo, i vescovi italiani esercitavano forme di dominio su sistemi abitativi di tipo urbano, i quali, mantenendosi in Italia, mancano invece in gran parte del resto dell’Europa altomedievale. Dunque il vescovo italiano, pur essendo anche un funzionario regio o imperiale e pur derivando parte della propria autorità dalla relazione con il sovrano, ebbe sempre la città come centro direzionale e i cittadini – che lo eleggevano e i cui ottimati costituivano la sua clientela – come suoi referenti obbligati. Di converso e di conseguenza, i vassalli vescovili potevano essere non solo i signori del territorio circostante, ma anche i cittadini: specchio di una realtà socio-politica che in Italia rimase sempre complessa e non inquadrabile in modo semplicistico, anche riguardo al vincolo feudale, nel rapporto città-campagna ipostatizzato come carattere fondamentale del medioevo europeo.

    È quasi impossibile proporre un elenco anche solo approssimativo degli enti ecclesiastici che, nel corso del medioevo, esercitarono il potere pubblico in Italia e intrattennero vincoli vassallatici ascendenti – con i sovrani – e discendenti, con i loro fideles. Infatti, praticamente ogni ente ecclesiastico medievale provvisto di beni fondiari ebbe giurisdizione temporale – spesso ma non sempre delegata dal potere sovrano – e si servì a sua volta del sistema della concessione di benefici per amministrare e governare i propri domini. È tuttavia certo che il grado di incidenza di questi enti nel quadro della gestione del potere in Italia fu analogo a quanto accade di riscontrare nella rimanente Europa, sebbene l’estensione molto ridotta delle diocesi dell’Italia meridionale rendesse il potere di quei vescovi in genere meno forte rispetto a quanto accadeva nel nord della penisola. Grandissimi signori territoriali furono l’arcivescovo di Milano, forse il principale di tutta l’Italia settentrionale; l’arcivescovo di Ravenna, il quale fondava la propria autorità nella successione dall’esarca bizantino; il vescovo di Roma, che costruì un vero e proprio stato sovrano durato fino al 1870 e che in una fase matura fu signore feudale (almeno nominalmente) di una lunga serie di regni europei tra cui, in Italia, il Regno di Sicilia (1130). Tra le abbazie, occorre ricordare almeno Nonantola, Farfa, Montecassino e Cava dei Tirreni, tutte investite di domini transregionali.

    La conquista del regno longobardo da parte dei franchi (774) portò in Italia centro-settentrionale a una rapida diffusione del vassallaggio, già in piena espansione Oltralpe. Durante il periodo carolingio, vescovi, abati e badesse di quelle regioni, già insigniti di incarichi pubblici legati alla loro funzione, rinsaldarono il proprio vincolo di fedeli del re ricevendo in beneficio ingenti quantità di terre. Al declinare delle fortune dell’Impero carolingio e nei primi decenni dopo la sua scomparsa (anni terminali del IX secolo, prima metà del X secolo), il loro peso come vassalli e il peso delle loro rispettive clientele andò vieppiù aumentando. Strumenti giuridici principali di questa evoluzione furono l’immunità, cioè il diritto di poter esercitare la giurisdizione sulle proprie terre in modo autonomo, in quanto era fatto divieto agli ufficiali pubblici di entrarvi, e il districtus, cioè il potere di comandare gli abitanti della città e della terra intorno alla cinta fortificata, che in qualche caso fu esteso all’intera diocesi. Elemento fattuale fu invece l’indebolimento dell’autorità regia a fronte della capacità di esercizio del dominio da parte di coloro che lo detenevano concretamente.

    Una seconda fase di sviluppo e consolidamento della feudalità ecclesiastica si inaugura sotto il dominio degli Ottoni (962-1002) e perdura fino al regno di Enrico IV (1056-1105). Durante questo periodo, la Chiesa imperiale (Reichskirche) andò a costituire il principale strumento di amministrazione in Italia e in Germania. Tuttavia, le modalità di questo sistema di governo, nuovo soltanto in parte, vanno chiarite. Una interpretazione storiografica inaugurata da Ludovico Antonio Muratori e ancora presente come vulgata in alcuni manuali scolastici, sostiene infatti che gli Ottoni avrebbero adottato il sistema dei cosiddetti “vescovi-conti” preferendo questi ultimi ai conti laici. Questo sarebbe accaduto sia per ragioni ideologiche, sia soprattutto in quanto il dominio vescovile, non essendo ereditario perché i vescovi non potevano avere discendenza legittima, sarebbe ritornato alla corona con la morte del prelato, assicurando dunque all’imperatore la disponibilità del bene. Lo stereotipo dei “vescovi-conti”, pensato come un sistema escogitato per arginare la dinastizzazione delle cariche, è stato completamente rivisitato dalle ricerche degli ultimi decenni, le quali hanno mostrato come in realtà l’azione degli Ottoni non fosse propositiva ma responsiva. Gli Ottoni si trovarono a riconoscere formalmente l’enorme potere che i vescovi avevano accumulato di fatto nelle fasi finali dell’Impero carolingio e durante la prima metà del X secolo. Come accadde spesso nel medioevo, il sovrano non era sufficientemente saldo e non disponeva di apparati di controllo tali da poter imporre azioni di governo altro che saltuarie. Al contrario, egli esercitava funzioni di coordinamento e supervisione e affermava la propria autorità attraverso la mediazione, il compromesso e il riconoscimento di situazioni di fatto. Questa interpretazione, che pone l’esercizio concreto del potere al primo posto nella scala dei valori, supera il preconcetto tipico dell’interpretazione modernistica del feudalesimo, secondo la quale, in ogni caso, il rapporto tra i vari detentori di potere dovesse essere di tipo giuridico e dunque regolato sul piano del diritto. Si tratta di una rivoluzione concettuale che vede la prassi come il fattore determinante dei processi storici e che dunque supera la visione del medioevo come un periodo semplicemente “feudale” e formalizzato nella cosiddetta “piramide”, sostituendo ad essa la visione di un medioevo “signorile”, nel quale il sistema vassallatico-beneficiale è solo una parte di forme di governo e gestione dei patrimoni molto articolate e non sempre definite in modo ufficiale. Insomma, il processo di trasmissione del potere non avveniva solo dall’alto in basso, e neppure esclusivamente dal basso in alto, ma era legato a singoli luoghi e vicende, a territori governati, a signori e signorie, alla disponibilità di clientele armate, di contadini, di boschi e campi coltivati. In questo discorso, anche la “feudalità ecclesiastica” trova una collocazione perfetta, sia quando si ha a che fare con signori territoriali che detengono parte del loro dominio per delega pubblica (ma che hanno altresì forti basi di potere nelle proprietà allodiali, nelle clientele armate, nel vincolo familiare con i parenti), sia con signori territoriali i quali concedono in beneficio – è il caso per esempio del papato – quote del loro “stato” in senso lato, ma che debbono giocoforza esercitare forme compromissorie di gestione del dominio.

    Il periodo della Lotta per le investiture (1076-1122) rappresentò una fase di snodo fondamentale. Mentre l’imperatore intendeva continuare nella linea tradizionale (riservandosi dunque anche il diritto di investire i vescovi del loro ruolo pubblico e, ovviamente, di renderli suoi fedeli con un vincolo di tipo feudale), il papato riformatore, in nome dell’esigenza di una completa alterità fra Regnum e Sacerdotium, intese scardinare questo stato di cose e di fatto, almeno per l’Italia, vi riuscì in buona misura. La conseguenza di questo lungo e complesso periodo di turbolenza non fu, peraltro, il passaggio da un controllo imperiale a un controllo pontificio, bensì la rottura del sistema, proprio in relazione alla feudalità, in quanto produsse una crisi generale degli assetti tradizionali di governo. La già ricordata, forte incidenza delle città nella conformazione dell’abitato, unita anche a una crisi di valori in parte legata anche alle istanze di riforma (è il caso della Pataria milanese) e a una sempre più forte crescita economica e demografica, videro in tutta l’Italia una sostanziale riduzione del peso politico dei vescovi e delle loro clientele feudali e l’instaurarsi di nuovi sistemi di governo – i comuni – che prescindevano dal potere vescovile, rivendicavano anch’essi un’autorità di tipo pubblicistico e facevano ampio uso dei legami vassallatici, soprattutto in relazione con il contado. Fra XII e XIII secolo, le nuove e sempre più salde forme di potere secolare (costruzione delle monarchie feudali, instaurarsi di solide identità familiari aristocratiche, trasmissione dei patrimoni per via agnatizia), unite a una generalizzata crisi della rendita agraria e del monachesimo tradizionale, avrebbero portato anche alla notevolissima riduzione, in termini di ampiezza territoriale e di peso politico, delle antiche signorie monastiche.

    Fonti e Bibl. essenziale

    V. Fumagalli, Il Regno italico, UTET, Torino 1978 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, vol. 2); C.G. Mor, H. Schmidinger (edd.), I poteri territoriali dei vescovi in Italia e in Germania nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1979; G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Einaudi, Torino 1982; Chiesa e mondo feudale nei secoli X-XII. Atti della dodicesima settimana internazionale di studio, Mendola, 24-28 agosto 1992, Vita e Pensiero, Milano 1992; C. Violante (ed.), Nobiltà, chiese e altri saggi. Studi in onore di Gerd G. Tellenbach, Jouvence, Roma 1993; G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Einaudi, Torino 1993; F. Prinz, Clero e guerra nell’alto medioevo, Einaudi, Torino 1994; G. Sergi, Intraprendenza religiosa delle aristocrazie nell’Italia medievale, in Id., L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo italiano, Donzelli, Roma 1994, 3-29; H. Keller, Signori e vassalli nell’Italia delle città: secoli IX-XII, UTET, Torino 1995; C. Violante, “Chiesa feudale” e riforme in Occidente (secc. X-XII). Introduzione a un tema storiografico, CISAM, Spoleto 1999; G. Albertoni, L. Provero, Il feudalesimo in Italia, Carocci, Roma 2003; S. Reynolds, Feudi e Vassalli, Jouvence, Roma 2004.


    LEMMARIO