Giansenismo – vol. I

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    Autore: Mario Rosa

    La condanna dell’Augustinus di Giansenio con la bolla Cum occasione (1653) e gli interventi che seguirono da parte di Roma per imporne l’accettazione non suscitarono in Italia particolari reazioni, al di là degli ambienti curiali e di taluni settori ecclesiastici legati agli Ordini regolari, come quello agostiniano. Tuttavia, a partire dalla seconda metà del ‘600, presero a diffondersi anche in ambienti laici, tra gli scritti più significativi del giansenismo francese, in originale e in traduzione, le Lettres provinciales di Pascal e gli Essais de morale di Nicole, destinati a perpetuare l’eredità di Port-Royal tra le generazioni dei giansenisti della Penisola sino ai primi decenni dell’800.

    Un salto di qualità compirà il giansenismo in Italia dopo la promulgazione della bolla Unigenitus (1713), che proibiva le Réflexions morales sul Nuovo Testamento dell’oratoriano Quesnel, espressione del giansenismo ecclesiale, interiorizzato e devoto francese di fine ‘600. Sebbene non accolta negli ordinamenti politici giusisdizionalisti da parte di alcuni Stati italiani, come il Piemonte, Venezia e la Toscana, essa provocherà interesse e discussioni, in una sempre più larga rete di relazioni e nella complicità sotterranea di carteggi e di contatti personali, tra quanti in senso anticuriale e antigesuitico, o per motivazioni religiose più profonde, simpatizzavano con il movimento, che prenderà ad orientarsi nei successivi decenni verso due direzioni sostanziali. La prima, inizialmente moderata e caratterizzata dalla preoccupazione di mediare il conflitto con Roma attraverso una “spiegazione” della Unigenitus, rappresentata in particolare dal gruppo giansenista romano, darà le sue prove più consistenti durante i pontificati di Benedetto XIV (1740-58) e di Clemente XIV (1769-74), sino a sfociare, una volta tramontate le speranze di una “pace nella Chiesa”, in un più radicale disegno di “riforma giansenista” della stessa Chiesa. La seconda, non disgiunta dalla precedente, ma sin da subito più avanzata nelle sue istanze riformatrici, ispirate dalla visione ecclesiale dell’opera di Quesnel, diversa da quella romana nei rapporti tra la gerarchia e i fedeli, e perciò non già verticistica e autoritaria, ma “orizzontale” e comunitaria, si aprirà presto più facilmente alle spinte episcopaliste e parrochiste che connoteranno lo scorcio del secolo.

    Il pontificato di Benedetto XIV, segnato soprattutto nel primo decennio dal messaggio culturale e religioso della “regolata devozione” di Ludivico Antonio Muratori, e dalla tollerante disponibilità del pontefice nei confronti delle forze anche contrastanti all’interno del cattolicesimo, consentirà al giansenismo italiano di assumere quel carattere policentrico che lo caratterizzerà sino alla sua conclusione: a Roma come a Napoli, in Piemonte come nell’area veneta, più tardi in Toscana, in Lombardia e in Liguria. Ma, nella cerniera tra la prima e la seconda metà del secolo, l’età benedettina aprirà due nuovi fronti su cui prenderà a misurarsi il giansenismo italiano: la prospettiva di una pacificazione tra la Sede romana e la Chiesa giansenista “scismatica” di Utrecht, e il rapporto con la cultura illuministica.

    Sul primo fronte, tentativi di composizione dello scisma utrettino, apertosi dai primi anni del ‘700 nell’ambito del giansenismo dei Paesi Bassi in opposizione alla prassi della missione gesuitica d’Olanda, furono avviati nel corso degli anni ’40, per essere definitivamente compromessi quando quella Chiesa metropolitana si espresse nel suo secondo sinodo provinciale del 1763: con la conseguenza però di presentare all’intero giansenismo europeo l’immagine idealizzata di una primitiva comunità cristiana e di raccogliere anche dall’Italia, da parte di numerosi esponenti del movimento, rinnovate simpatie e “lettere di comunione”, a riconoscimento di una realtà istituzionale e religiosa che poteva agire da paradigma di quella Chiesa dispersa e invisibile, vagheggiata dai giansenisti, alla ricerca della “vera” Chiesa dopo una lunga età di oscurità e di decadenza. Sul secondo fronte, parallelamente al tramonto del progetto di “pace nella Chiesa”, matura sempre più nel giansenismo italiano, negli anni ’60, la convinzione che comunque le fratture nella Chiesa cattolica rappresentassero un forte elemento di instabilità all’interno, e di fragilità verso l’esterno, nei confronti di quel che, nel linguaggio polemico coevo, veniva indicato come “l’attacco dell’empietà”. In questa direzione, secondo i giansenisti italiani, la risposta non poteva derivare solo da una serie di opere apologetiche, che pure non mancarono, o dallo sviluppo, che pure raggiunse livelli notevoli, mediante traduzioni bibliche, edizioni e commenti di opere patristiche e di scritti di pietà, di un orientamento dottrinale, ispirato da sant’Agostino, e di una pratica religiosa più severa, l’uno e l’altra contrapposti al molinismo e al facile devozionismo della Compagnia di Gesù. Essa doveva scaturire soprattutto da una solenne definizione da parte di Roma della dottrina cattolica sulla natura dell’uomo nei suoi rapporti col disegno divino, sui grandi temi, cioè, della grazia e del libero arbitrio, intesi naturalmente in senso giansenistico.

    Nel quadro di questo ambizioso disegno apologetico, che segna l’ultima speranza dei giansenisti italiani nei confronti della Sede romana, e che, prima della definitiva frattura, ne costituisce un significativo carattere originale rispetto ai prevalenti aspetti ribelli del giansenismo francese e olandese, due tentativi vennero concretamente avviati, a distanza di un decennio l’uno dall’altro. Il primo, nel 1759, in concomitanza con la condanna dell’Encyclopédie, si fermò ad un abbozzo di bolla papale di condanna generale della cultura illuministica, elaborata dal giansenista napoletano Simioli, teologo del cardinale “zelante” Spinelli; il secondo, più consistente, perseguito tra il 1769-71 dal gruppo giansenista romano nel corso di una missione ufficiosa a Roma di un autorevole portavoce del giansenismo francese, Augustin-Jean-Charles Clément, si arenò anch’esso rapidamente nel calore delle polemiche che portarono alla soppressione della Compagnia di Gesù.

    Questi tentativi apriranno però la strada non solo alla produzione biblica, patristica e devota, cui si è accennato, ma ad un impegno più “moderno” da parte del movimento, non legato unicamente alla nostalgia del ritorno alla primitiva Chiesa cristiana e alla tradizione dei Padri, ma sempre più sensibile, sul piano dell’attività pastorale, diocesana e parrocchiale, all’uso nuovo di strumenti di formazione e di propaganda, come i giornali e i catechismi, e, sia pure con dosaggi strumentali, alle sollecitazioni della stessa cultura contemporanea, della quale era espressione sin dai primi decenni del secolo, ad opera di alcuni gruppi di “cattolici illuminati”, un particolare orientamento culturale e religioso, destinato ad assumere tra gli anni ’70-’80 tratti più definibili e coerenti in un movimento di Aufklärung cattolica e/o cristiana, alla ricerca a livello europeo di un possibile dialogo col mondo dei Lumi.

    È con gli anni ’60-’70 che le violente polemiche, che porteranno alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), e alle quali i giansenisti italiani parteciperanno attivamente, faranno maturare le condizioni di un decisivo sbocco politico da parte del movimento, dapprima attraverso l’opera di fiancheggiamento dei provvedimenti di espulsione della Compagnia dai regni iberici e dai regni di Napoli e di Sicilia, poi attraverso l’attenzione prestata alle prime riforme realizzate in Italia dai sovrani asburgici e borbonici. È in questo clima che si rafforzerà con gli anni ’80 la concezione già diffusa che le verità nella Chiesa fossero “oscurate” e che rimedio improcrastinabile fosse unicamente la spinta rischiaratrice delle riforme: della riforma della Chiesa, anzitutto, ma nel quadro ormai operativo del riformismo politico dei sovrani. È questo un punto che ben contrassegna un altro dei caratteri peculiari del giansenismo italiano rispetto a quello francese parlamentare e “appellante” al futuro Concilio, fortemente ostile lungo la sua storia al potere monarchico assoluto. Un carattere che verrà alimentato soprattutto dalle esperienze del giansenismo toscano e di quello lombardo: nel primo caso dalle riforme ricciano-leopoldine nelle diocesi di Pistoia e Prato, nel secondo caso dagli interventi giuseppini a Pavia; a Pistoia e Prato, dopo la nomina episcopale del Ricci nel 1781, con le riforme istituzionali e liturgiche avviate dal presule in accordo col granduca Pietro Leopoldo, sino al sinodo pistoiese del 1786; a Pavia, con l’organizzazione giuseppina dell’Università, e poi, dal 1786, con l’istituzione del seminario generale, nel quadro delle riforme ecclesiastiche imperiali, alle quali portarono un sostanziale contributo docenti come il Tamburini, lo Zola, il Natali e l’Alpruni.

    Ma, con gli anni ’80, al di là di questi due nuclei essenziali, si è forse al momento più alto della diffusione del giansenismo nella penisola. Si consolidano i gruppi operanti in Piemonte con le loro preoccupazioni pastorali e morali, sotto l’ombra protettrice di vescovi simpatizzanti del movimento da Novara ad Asti, a Pinerolo; sono attivi nella Lombardia veneziana, tra Brescia e Bergamo, dotti monaci benedettini e preti dell’Oratorio, impegnati in traduzioni ed edizioni di testi, insieme con combattivi parroci rurali, come il Guadagnini e il Cornaro, che esaltano le prerogative del clero di secondo ordine, e con vivaci circoli laici, impregnati di antigesuitismo; si configura più nettamente il nucleo genovese, che annovera nelle sue file oratoriani e scolopi, come il Palmieri e il Molinelli, e tra i sacerdoti secolari il Degola; e mentre il gruppo romano continua a gestire una larga rete di rapporti, si arricchisce notevolmente il gruppo napoletano con i fratelli Cestari e l’abate Troisi, che collegano l’episcopalismo giansenista e febroniano dei vescovi di Reggio Calabria, di Taranto e di Potenza al giurisdizionalismo e all’anticurialismo della politica ecclesiastica borbonica.

    S’insiste ora attraverso un periodico come gli «Annali ecclesiastici» di Firenze (dal 1780), o attraverso la Raccolta di opuscoli interessanti la religione (1783-90), patrocinata dal Ricci, o talune opere del Tamburini come la Vera idea della Santa Sede (1784), nel colpire le alterazioni intervenute, nel tempo, nelle strutture della Chiesa, con l’ampliamento dei poteri papali e curiali a danno delle Chiese locali, l’abnorme proliferazione degli Ordini regolari, il trionfalismo barocco delle confraternite, la pompa oratoria della predicazione, la dannosa esteriorità della pratica religiosa, incrementata dalle indulgenze e dalle devozioni popolari più diffuse, come quella antica della Via Crucis, che viene riproposta in forme più consone alla meditazione dei fedeli, o quella “nuova”, gesuitica, al Sacro Cuore, il cui carattere “farisaico” sarà denunciato dal Ricci in una famosa pastorale del 1781. Accanto a queste denunzie tuttavia, alla luce della dottrina agostiniana e di un rigorismo morale, che si cerca di consolidare nella formazione del clero, non tanto nei seminari tradizionali, ma in Accademie ecclesiastiche, che si istituiscono in diverse diocesi toscane per l’impulso congiunto dei vescovi e del granduca, e nel seminario generale di Pavia, va definendosi meglio una pastorale popolare giansenista, alternativa a pie opinioni correnti, come quella della sorte degli infanti morti senza battesimo, e una pratica sacramentale giansenista in riferimento alla penitenza e alla eucarestia, contrastando le tendenze, ritenute lassiste, delle facili assoluzioni da parte dei confessori e della consuetudine della comunione frequente da parte dei fedeli. Orientamenti, questi, difficili riguardo ad atti essenziali della vita cristiana, che ci fanno comprendere almeno in parte la reazione “benignista”, che già avviata nel ‘700 da Alfonso Maria de Liguori, finirà per trionfare, sulle sue orme, nel corso dell’800.

    In questo contesto di tensioni, due momenti salienti connoteranno i rapporti tra il giansenismo e il potere politico, la tolleranza religiosa e la pietà illuminata. Il primo rinvigorito dalla patente giuseppina del 1781, il secondo espresso dai Cinquantasette punti ecclesiastici, sottoposti dal granduca Pietro Leopoldo ai vescovi toscani, come avvio di un più ampio progetto di riforma della Chiesa nazionale: due momenti nei quali possiamo cogliere emblematicamente la complessità di un dibattito interno al movimento e il divario tra gli orientamenti giansenisti e quelli politico-statalisti dei governi riformatori. Quanto al primo ne sono riprova due articoli degli «Annali ecclesiastici» di Firenze del 1782, che da una iniziale e piena accettazione della tolleranza ecclesiastica giuseppina passeranno ad una posizione non priva di talune riserve riguardo al riconoscimento e alla praticabilità di fatto della tolleranza cristiana. Un punto sostanziale questo, tuttavia, che verrà ripreso e sviluppato, nel clima più aperto delle riforme giuseppine in Lombardia, dal De tolerantia ecclesiastica et civili (1783) di Tamburini e Zola, per giungere al decreto di apertura del sinodo di Pistoia del 1786, che si esprimerà in una convinta professione di tolleranza religiosa intraecclesiale e nel rifiuto di ogni forma di violenza e di sopraffazione politico-religiosa, e più tardi alle posizioni di taluni giansenisti a favore della libertà religiosa nel corso dei dibattiti costituzionali della Repubblica Cisalpina.

    Più marcato il divario nel caso della pietà illuminata, che si era sviluppata radicalizzando tra gli anni ’70-’80 anche elementi della “regolata devozione”, trovando la sua formulazione più ampia in una serie di disposizioni del governo giuseppino e nei già ricordati Cinquantasette punti leopoldini. Anche con durezza si interviene ora nei confronti di ogni manifestazione religiosa che fosse “irragionevole o sproporzionata”, dagli “eccessi” devozionali nel culto dei santi alla “superstiziosa” venerazione delle immagini velate – particolarmente diffuse, queste, in Toscana –, per accentrare nelle istituzioni parrocchiali e nell’opera utile del “buon parroco” i risultati di un nuovo modo di intedere e praticare nella società la vita religiosa individuale e comunitaria. Ma con questa differenza tra i motivi ispiratori, che guidavano l’opera dei governi, e quelli che garantivano l’adesione e l’appoggio da parte del movimento giansenista: che, mentre per il riformismo laico, una volta che si fossero diradate le tenebre della superstizione per effetto della Ragione, si sarebbe consolidata la collocazione di sudditi ossequienti nelle strutture dello Stato, per i giansenisti la cancellazione di ogni oscurità dal volto della Chiesa avrebbe favorito il ritorno dei fedeli alla Scrittura e alla tradizione dei Padri e il loro approdo ad una nuova interiorità.

    Il sinodo di Pistoia del 1786, più volte menzionato, intese essere non solo la sanzione del riformismo ecclesiastico ricciano in armonia col riformismo di Pietro Leopoldo, ma il culmine di un processo più largo, che avrebbe dovuto investire dall’esempio pistoiese l’intera Chiesa toscana, chiamata ad un futuro concilio nazionale – una prospettiva dissoltasi con la vittoria dello schieramento moderato nell’assemblea preparatoria del 1787 – per sfociare poi, secondo un progetto che attraversava l’intero giansenismo europeo, in una Chiesa profondamente riformata. Ma il sinodo pistoiese, che rappresentò il punto massimo d una convergenza, accelerò al tempo stesso l’insanabile frattura che era all’interno del fronte riformatore, tra la logica autonoma dell’azione statale, ormai molto avanzata attraverso l’opera riformatrice, e la concezione giansenista della Chiesa come corpo privilegiato all’interno dello Stato, una concezione legata ad una visione del potere monarchico di diritto divino e ad una rilegittimazione dello stesso potere politico dei sovrani assoluti. Al di là della crisi più generale del riformismo illuminato sulla soglia degli anni ’90, la frattura era perciò nelle cose: da parte del potere politico, nella necessità di sviluppare in senso laico e secolarizzato le premesse insite nelle riforme; da parte del giansenismo, nell’impossibilità di superare di colpo i fondamenti ideali e religiosi della società di antico regime e di sviluppare sino in fondo quelle spinte liberatorie che pure agivano all’interno della sua visione ecclesiale.

    Condannato il sinodo di Pistoia da Roma con la bolla Auctorem fidei del 1794, mentre si accentuava una violenta campagna antigiansenista soprattutto da parte di scrittori ex gesuiti e da parte del «Giornale ecclesiastico di Roma», dal 1785 organo delle posizioni curiali più intransigenti, gli anni della Rivoluzione segnano un altro spartiacque tra le file del movimento, presto colpito dalla facile accusa di “giacobinismo” da parte del fronte reazionario. Già tra il 1791-92 la crisi si era approfondita per l’adesione del Ricci e del Degola alla costituzione civile del clero varata nella prima fase rivoluzionaria francese, che aveva sancito da un lato la loro clamorosa rottura con chi, come il giansenista ligure Del Mare, aveva contestato la legittimità da parte di un’assemblea laica di «costituirsi despota della Chiesa», e dall’altro il silenzioso ripiegamento di chi, come il senese de Vecchi e il veneto Pujati, pure erano stati attivi compagni di fede giansenista. Sarà comunque il Tamburini delle Lettere teologico-politiche (1794), prima della discesa delle armate francesi in Italia, ad elaborare una nuova piattaforma concettuale per il movimento e a definire con cautela, accanto alla tradizionale accettazione dell’investitura divina dell’autorità, talune forme di garanzie costituzionali all’interno di essa, con il richiamo all’origine contrattualistica dei governi; e sarà il lento sviluppo, e poi il prevalere di questa componente contrattualistica, a permettere ai giansenisti italiani di misurarsi con le novità del Triennio rivoluzionario, soprattutto riguardo al tema della libertà religiosa.

    In effetti, se il Degola e i giansenisti liguri si impegnarono a Genova in un’accurata opera di pedagogia rivoluzionaria e nel tentativo di dar vita ad una costituzione civile del clero sul modello di quella francese, e poi nell’elaborazione della costituzione della Repubblica Ligure, anche altri esponenti di spicco del movimento daranno un contributo fondamentale ai dibattiti politico-costituzionali in atto, in particolare nella Repubblica Cisalpina: il Tamburini e lo Zola a Pavia, ancora legati, pur nel riconoscimento di una nuova situazione di fatto, alla passata esperienza del riformismo giuseppino; il Giudici e l’Alpruni a Milano, più sensibili nei confronti delle repentine trasformazioni democratiche. Ma, se si escludono il Giudici, più tardi amico di Alessandro Manzoni, e forse l’Alpruni, ben pochi dei giansenisti italiani accetteranno pienamente, nel corso delle discussioni e dell’approvazione dei nuovi progetti costituzionali, il principio della libertà religiosa. Essi rimasero in larga maggioranza convinti assertori di una libertà di culto che mantenesse al cattolicesimo, ben inteso ancora una volta purificato in senso giansenista, il suo carattere di religione dominante, come verrà affermato esplicitamente nella costituzione della Repubblica Ligure, consentendo alle altre confessioni la libertà di «private opinioni», a conferma della difesa, pur nel travaglio rivoluzionario, di una Chiesa ancora tutelata dallo Stato.

    Al momento del trapasso dai mutamenti democratici all’autoritarismo napoleonico, due erano le strade che il giansenismo, esauritasi la sua più diretta funzione riformatrice, era destinato a percorrere. Da un lato, quella che porterà alla sua dissoluzione, come avverrà con l’Alpruni, in una religiosità laica e razionale, che configurerà la fisionomia di quei “cristiani senza Chiesa” così numerosi nell’800; dall’altro, quella della sua proiezione in una futura “rigenerazione” religiosa, arricchita da tensioni apocalittiche e millenaristiche, come avverrà col Degola, che intravvederà, nel disegno provvidenziale di una nuova Chiesa, con l’innesto, sul cammino dei veri credenti, i giansenisti, del nuovo virgulto degli ebrei convertiti, di derivazione paolina (Rom. 11), l’orizzonte di una ecumene in cui si sarebbe riprodotta la perfezione delle origini. Tra questi due estremi, tuttavia, illimpidite dagli elementi politici più strettamente connessi al periodo rivoluzionario, del giansenismo dovevano mantenersi vive nel corso dell’800 alcune idee di fondo che esso aveva così a lungo proclamato: l’autonomia della coscienza religiosa individuale, il collegamento della politica alla vita morale e questa ad una mai intermessa aspirazione alla riforma religiosa, un retaggio che ha trovato più di altre correnti politiche, culturali e religiose non a caso uno spazio così largo e duraturo nella società e nella cultura italiana. Ne sono testimonianze storiche nel corso dell’800 l’esperienza del cattolicesimo liberale e taluni aspetti e momenti significativi del processo risorgimentale e post-unitario italiano, così come più tardi l’attenzione che la storiografia ha dedicato al movimento sino ai giorni nostri.

    Fonti e Bibl. essenziale

    Per una rassegna storiografica sul giansenismo italiano sino al 1986, cfr. C. Fantappiè, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato alla fine dell’antico regime, Bologna 1986, 11-42, dove sono indicate le numerose ricerche con tagli interpretativi diversi e le edizioni di fonti apparse tra ‘800 e ‘900. Tra le ricerche cfr. in particolare: E. Passerin d’Entrèves, La riforma “giansenista” della Chiesa e la lotta anticuriale in Italia nela seconda metà del Settecento, in «Rivista storica italiana», LXXI (1959), 209-234; Id., Scipione de’ Ricci dalla formazione giovanile all’esperienza sinodale. Rileggendo le sue Memorie, in Il Sinodo di Pistoia del 1786, Atti del Convegno internazionale per il secondo centenario Pistoia-Prato 25-27 settembre 1986, a cura di C. Lamioni, Roma 1991, 65-149 (ma il volume è nel suo complesso un punto di riferimento essenziale sul giansenismo settecentesco). Si veda inoltre: M. Rosa, Riformatori e ribelli nel Settecento religioso italiano, Bari 1969; Id., Il Giansenismo, in Storia dell’Italia religiosa, 2, L’età moderna, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Roma-Bari 1994, 231-269; Id., Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia 1999. A P. Stella, oltre alla pubblicazione di numerosi saggi e all’edizione commentata degli Atti e decreti del Concilio diocesano di Pistoia dell’anno 1786, voll. 2, Firenze 1986, si deve il fondamentale lavoro Il giansenismo in Italia, voll. 3, Roma 2006. Si veda anche M. Rosa, Il giansenismo nell’Italia del Settecento. Dalla riforma della Chiesa alla democrazia rivoluzionaria, Carocci, Roma 2014.


    LEMMARIO