Giuspatronato – vol. I

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    Autore: Gaetano Greco

    Il giuspatronato è il diritto di “patronato” sul beneficio ecclesiastico, riconosciuto giuridicamente dalla Chiesa e spettante a chi ha costituito la dote patrimoniale del beneficio al momento della sua fondazione o l’ha incrementata successivamente, nonché ai suoi successori legittimi. Questo diritto poteva essere ecclesiastico, se goduto da enti, corpi o persone ecclesiastiche (come un monastero maschile o femminile, un capitolo canonicale, un pievano etc.), oppure laicale. In quest’ultimo caso la tipologia dei possessori era assai vasta: sovrani, feudatari, città o comunità rurali, parrocchiani (gli abitanti stabili della parrocchia, oppure i proprietari dei beni posti nel suo distretto, o ancora gli usufruttuari di questi beni, secondo le tradizioni giuridiche locali), luoghi pii, associazioni (corporazioni di arti e mestieri, confraternite e compagnie devozionali), vicinie o vicinati (aggregati di residenti in prossimità del luogo sacro), famiglie (intese come corpi unitari, i cui patrimoni ed i cui diritti non erano trasmessi o ceduti a persone estranee al lignaggio), singoli privati (a carattere ereditario, sia per intero indiviso, sia per quote parti). Col passare dei secoli, poi, a seguito di successioni ereditarie, di donazioni e persino di vendite (giuridicamente vietate) divennero assai frequenti i patronati misti fra le famiglie, gli enti, i parrocchiani ecc. La stretta relazione, esistente fra la costituzione della dote beneficiale e il riconoscimento del giuspatronato, produceva un legame altrettanto stretto fra la proprietà della dote e il possesso del giuspatronato: spesso il giuspatronato seguiva il destino del patrimonio beneficiale come un diritto accessorio, goduto da chi deteneva i beni dotali del beneficio.

    Il giuspatronato garantiva sostanzialmente ai suoi detentori tre diversi privilegi: l’onore, la pensione e la presentazione del rettore. L’onore consisteva nell’obbligo per i rettori di questi benefici di recitare preghiere particolari per la salute spirituale e per il benessere dei patroni e dei loro familiari, che fruivano di uno stallo chiuso, una panca o degli sgabelli propri dentro la chiesa. La pensione alimentare a favore dei patroni laici, ma solo se questi erano dei privati, gravava sulle rendite del beneficio in caso di loro miseria, valutata in relazione al tenore di vita ritenuto consono alla propria condizione sociale. Infine, la presentazione dei nuovi rettori doveva avvenire entro un tempo determinato (tre o quattro mesi per i laici, sei mesi per gli ecclesiastici) pena la decadenza dal godimento di questo diritto per quella volta. Di fatto, secondo il diritto civile consuetudinario il giuspatronato era una “cosa”: frazionabile in quote, era posseduto, ereditato, donato, venduto (anche se non formalmente, altrimenti si sarebbe trattato di simonia) e persino affittato (nei casi estremi, ma non rari, di nomina con riserva di pensione). Infine a questa forma di “patronato attivo” è da aggiungere l’esistenza di norme o pratiche di “patronato passivo”, cioè del diritto degli appartenenti ad una “nazione”, ad una comunità, ad una corporazione oppure ad una stirpe familiare ad essere eletti a preferenza di estranei. Con il passare dei secoli questo patronato passivo divenne sempre più determinante soprattutto in caso di contrasto fra più eletti, inducendo a preferire l’eletto ex sanguine patronorum anche a danno di candidati più e meglio qualificati.

    Poiché le tradizioni giuridiche locali sulle modalità delle elezioni variavano da paese a paese, erano frequenti le contese per il possesso e l’esercizio di questi giuspatronati: quando non si ricorreva alla violenza fisica, le liti approdavano ai tribunali e sia le curie vescovili in prima istanza, sia la Sacra Rota di Roma in appello erano inondati da queste cause. Anzi, per i giuspatronati esclusivamente e sicuramente laicali non mancavano stati, anche in Italia, nei quali per tradizione i tribunali civili accampavano la propria competenza, in conflittuale concorrenza con il foro ecclesiastico. Un contenzioso così diffuso e acceso prova che anche in Italia una quota degli uffici ecclesiastici, compresi quelli residenziali, era di “pertinenza” dei laici, i quali controllavano e determinavano la scelta dei loro rettori. Fra questi laici una posizione importante era occupata dalle famiglie e dai singoli privati, che disponevano di un accesso facilitato agli uffici ecclesiastici in favore dei propri figli e parenti: costoro entravano nella Chiesa locale con le condizioni migliori (il “giusto titolo” beneficiale per l’ordinazione sacra) e potevano procedere nella carriera ecclesiastica, oppure erano liberi di godersi le rendite ed i privilegi della condizione ecclesiastica. Questa situazione vantaggiosa aveva incentivato le fondazioni dei benefici semplici, almeno in quei paesi, come il principato sabaudo o il granducato di Toscana, il ducato di Milano o la repubblica di Venezia, dove i diritti di patronato erano gelosamente protetti dalle autorità politiche: qui le famiglie benestanti potevano scorporare porzioni dei propri patrimoni domestici e impiegarle per fondare benefici ecclesiastici, poiché le loro rendite sarebbero servite nei secoli successivi per assicurare il mantenimento di propri familiari.

    Nella prima età moderna, il godimento dei giuspatronati fu sconvolto dalla patologia delle “resignazioni” (→ beneficio) e i patroni laici corsero il rischio di essere espropriati d’ogni loro diritto nelle battute finali del Concilio di Trento. Qui fu presentato un progetto di Riforma dei Principi, che prevedeva di consolidare solo i diritti di patronato giustificati da quei documenti di fondazione e dotazione, che raramente erano ancora in possesso delle famiglie e delle comunità fondatrici. L’opposizione rigorosa del duca di Toscana Cosimo I impedì che il progetto andasse in porto: per i laici fu possibile sostituire la documentazione originale con «le molteplici presentazioni, ripetute per un periodo di tempo superiore alla memoria d’uomo», cioè per oltre trent’anni (Concilio di Trento, Sess. XXV, Decretum de reformatione, c. IX). Quanto, invece, alle ingerenze della Curia Romana (resignazioni, collazioni pontificie, imposizioni di pensioni ecc.), la situazione variava fra le diverse regioni italiane in relazione alla maggiore o minore difesa esercitata dai governi politici in favore delle pertinenze dei propri sudditi. Se questa difesa era considerata quasi inesistente nell’Italia Meridionale, al punto da scoraggiare la fondazione di benefici semplici di giuspatronato, l’opposto si verificò negli stati che si dotarono di appositi uffici per l’«Economato dei benefici vacanti». Esemplare, per la sua durata e per la sua efficienza, l’Economato del Granducato di Toscana, che garantì per tutta l’età moderna il pacifico godimento dei giuspatronati laicali non solo contro le pretese della Corte di Roma, ma persino contro le istanze riformatrici avanzate da alcuni vescovi toscani (come il “giansenista” Scipione Ricci), che in occasione dell’Assemblea dei vescovi del 1787 proposero la devoluzione di tutti i benefici diocesani alla collazione vescovile: proposta respinta nel nome della difesa dei sacri diritti della proprietà privata sulla “roba”. Tuttavia, nella temperie del riformismo regalista del Settecento non si salvarono i giuspatronati popolari: accusati di simonia dai funzionari civili e dalla gerarchia ecclesiastica per la rissosità delle loro riunioni elettorali, furono sottoposti a più rigorosi controlli governativi o persino espropriati dai sovrani illuminati come Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, che avocò a sé tutti i giuspatronati pubblici, demandandone la gestione effettiva proprio ai vescovi locali.

    La fine dei benefici di giuspatronato laicale privato parve arrivare durante l’occupazione francese, perché Napoleone concesse ai patroni la facoltà di rientrare in pieno possesso dei patrimoni beneficiali in occasione della prima vacanza, a condizione di versare alle casse statali una somma equivalente a un quarto del loro valore. A Napoli, Gioacchino Murat decise più sbrigativamente di trasferire le doti patrimoniali dei benefici non curati nelle mani dei loro patroni, facendo salvo il diritto dei rettori attuali a godere le rendite beneficiali per tutta la durata della loro vita. La breve durata dell’Impero napoleonico impedì il radicamento di simili provvedimenti, e nell’età della Restaurazione anche i diritti di patronato privato tornarono all’antico regime, ma solo per una quarantina d’anni. Prima con la legge 29 maggio 1855, n. 878 del Regno di Sardegna e, in seguito, con la legge 15 agosto 1867, n. 3848 del Regno d’Italia, ai patroni laici fu data la possibilità di redimere i beni concessi in dote ai benefici ecclesiastici, pagando allo Stato una tassa equivalente a un terzo del loro valore. In una società ormai in via di accelerata secolarizzazione, il provvedimento ottenne un gran successo, perché proprio i ceti sociali più elevati non destinavano più i propri figli alla carriera ecclesiastica, bensì alle professioni liberali, al servizio dello Stato liberale, all’imprenditoria. Né migliore sorte arrise ai patronati passivi: i capitoli e le collegiate furono soppressi e i loro patrimoni confluirono nel demanio pubblico. Soltanto in aree periferiche continuarono a sopravvivere antichi diritti di patronato popolare: regolamentati con maggior rigore dal Codex Iuris Canonici del 1917 (canoni 1448-1452), sparirono senza lasciare tracce dal nuovo Codice di diritto canonico, coinvolti tacitamente nella soppressione del concetto stesso di beneficio ecclesiastico.

    Fonti e Bibl. essenziale

    P. Bertolla, Il giuspatronato popolare nell’arcidiocesi di Udine, in «Atti dell’Accademia di Scienze, lettere e Arti di Udine», s. VII vol. I (1957-1960), 197-311; R. Cona, Il giuspatronato parrocchiale dei capifamiglia nel Veronese: andamento e sviluppi dal XVI al XX secolo, in ed. L. Billanovich, Studi in onore di Angelo Gambasin, Vicenza, Neri Pozza, 1982, 9-42; A. Ciuffreda, I benefici di giuspatronato nella diocesi di Oria tra XVI e XVII secolo, in «Quaderni Storici», XXIII (1988), n. 67, 37-71; G.B. De Luca, Summa sive Compendium Theatri Veritatis, et Iustitiae, sive decisivi discursus …. 13.1. De Iure Patronatus, Roma, Typis Bartholomaei Lupardi, 1679; A. Galante, Giuspatronato, voce in Enciclopedia giuridica italiana, Milano, Società Editrice Libraria, vol. VII, 1914, 1011-1037; A. Gambasin, Il giuspatronato del popolo a Pellestrina tra il 600 e il 700, in A. Cestaro ed., Studi di storia sociale e religiosa. Scritti in onore di Gabriele De Rosa, Napoli, Ferraro, 1980, 985-1073; G. Greco, I giuspatronati laicali nell’età moderna, in G. Chittolini – G. Miccoli edd., Storia d’Italia. Annali 9. La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1986, 531-572; M. Lupi, Cosimo de’ Medici, Domenico Bonsi e la riforma della Chiesa a Trento, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXXVI, 1982, 1-34; V. Naymo, Benefici laicali e giuspatronati nel circondario di Gerace: strategie economiche, sociali e familiari, in V. Naymo ed., Confraternite, ospedali e benefici nell’età moderna. II Colloquio di studi storici sulla Calabria Ultra. Atti, Roma, Polaris, 2010, 43-55; M. Rosa, «Nedum ad pietatem, sed etiam (et forte magis) ad ambitionem ac honorificentiam». Per la storia dei patronati privati nell’età moderna, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», XXI, 1995, 101-117; G. Viviani, Praxis iurispatronatus acquirendi conservandique illud, ac amittendi modo breviter continens (1620), Venezia, Bertani, 16704.


    LEMMARIO