Inquisizione (età moderna) – vol. I

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    Autore: Elena Bonora

    La congregazione cardinalizia dell’I. o Sant’Ufficio fu istituita da papa Paolo III Farnese il 21 luglio 1542 con la bolla Licet ab initio. La bolla affidava la lotta contro l’eresia a un gruppo di cardinali nominati dal pontefice (in quell’occasione furono sei, ma il numero variò a seconda dei papi) attribuendo loro poteri giudiziari dirompenti per una società come quella di antico regime basata sulla diseguaglianza giuridica. I cardinali inquisitori e i loro delegati avevano infatti il potere di perseguire i crimini contro la fede senza tener conto di eventuali privilegi ed esenzioni degli imputati, si trattasse anche delle supreme autorità civili ed ecclesiastiche. Alla base del provvedimento papale c’era l’allarme per l’eresia diffusasi con la connivenza di principi, prelati e porporati in diverse aree della penisola italiana e in ogni strato sociale.

    Il nuovo tribunale centrale utilizzò la preesistente rete medievale, ossia i tribunali inquisitoriali dislocati nei conventi degli ordini mendicanti francescano e soprattutto domenicano. Nel giro dei tre decenni dall’istituzione del Sant’Ufficio questa rete s’infittì (a metà Seicento si contavano 47 tribunali periferici nella penisola), ma soprattutto fu sottoposta a un duplice processo di gerarchizzazione e centralizzazione in base al quale i cardinali si arrogarono progressivamente la nomina degli inquisitori locali precedentemente designati dai superiori degli ordini e la scelta dei conventi dove installare i tribunali (quelli dei domenicani osservanti furono privilegiati a scapito del ramo conventuale), imponendo una crescente vigilanza sui processi celebrati dai tribunali periferici.

    La corrispondenza tra i tribunali sparsi nella penisola italiana e quello centrale romano testimonia l’esistenza di un’organizzazione verticale dell’informazione. Se da Roma giungevano istruzioni sul modo di condurre i procedimenti più delicati, avocazioni dei processi, licenze di torturare gli imputati, liste di libri proibiti, etc., dalla periferia si inviavano relazioni sui procedimenti giudiziari, copie di sentenze e abiure, liste di libri confiscati, richieste di consigli e chiarimenti. Le lettere dei cardinali inquisitori ai tribunali locali avevano valore di decreti, alla pari delle decisioni assunte durante le sedute della congregazione che si tenevano il mercoledì alla presenza dei cardinali (feria quarta) e il giovedì davanti al papa (feria quinta) alle quali prendevano parte vari consultori, il Maestro del sacro palazzo e il commissario dell’I., entrambi frati domenicani. Questo apparato repressivo – eccezionale in antico regime per la sua capillarità – non funzionava tuttavia come un moderno apparato burocratico-amministrativo. Nelle comunicazioni tra centro e periferia i cardinali dell’I. preferivano infatti risolvere casi specifici piuttosto che trasmettere norme universali e responsi definitivi, che soli sarebbero stati in grado di scongiurare in modo permanente l’arbitrarietà degli interventi dei giudici locali.

    Quella romana fu una delle tre inquisizioni operanti nell’Europa cattolica in età moderna insieme con quelle spagnola (1478) e portoghese (1547). In Francia, la giurisdizione dell’I. non fu mai riconosciuta dalla corona e dalle istituzioni civili del regno. Nonostante la pretesa universalità delle sue competenze, l’I. romana circoscrisse quindi l’esercizio dei suoi poteri alla penisola, cui occorre aggiungere le sedi fuori d’Italia (l’isola di Malta, Avignone, Besançon, Carcassonne, Tolosa e Colonia) nonché una breve e discontinua attività sulle coste balcaniche e in alcune isole del Mediterraneo orientale ai confini con il mondo musulmano.

    La rete dei tribunali inquisitoriali si stendeva nella penisola secondo una geografia differenziata che escludeva la minuscola repubblica di Lucca mentre in Sicilia e in Sardegna vigeva l’inquisizione spagnola. Nel viceregno di Napoli i compiti inquisitoriali erano affidati ai vescovi e ai loro delegati ma il Sant’Ufficio operava egualmente anche se in modo sotterraneo per mezzo di un commissario suo delegato residente a Napoli. Gran parte dei tribunali erano concentrati nell’Italia centrosettentrionale, un’area cruciale attraversata dalle vie di collegamento con il mondo protestante, nella quale erano dislocati i maggiori centri di produzione culturale, in particolare le città sede di università e di una fiorente industria libraria. Si disegnavano così due spazi distinti: un’«Italia inquisitoriale» dove maggiore era l’incidenza degli apparati coercitivi e un’«Italia vescovile» costituita dal Mezzogiorno continentale dove i tribunali vescovili – eccetto quello napoletano – partecipavano della debolezza delle strutture episcopali meridionali.

    Se le inquisizioni spagnola e portoghese, nate per iniziativa dei rispettivi sovrani, furono potenti strumenti del processo di consolidamento delle corone, in Italia il papa impose i tribunali inquisitoriali agli altri principi della penisola. Per i governanti degli stati regionali italiani (che dovevano garantire l’aiuto del braccio secolare nell’esecuzione delle sentenze capitali) accettare l’insediamento dell’I. significava dover tollerare, entro i propri domini, tribunali dipendenti da un’autorità esterna che potevano giudicare in tutta segretezza e punire i loro sudditi, nonché pretenderne la confisca dei beni e l’estradizione a Roma. Al fine di limitare l’autonomia dei giudici ecclesiastici, la repubblica di Venezia era riuscita a ottenere l’eccezionale privilegio che ai processi dell’I. partecipassero rappresentanti dello stato con funzioni di informazione e controllo.

    Nonostante la convergenza stabilitasi dopo la metà del Cinquecento tra autorità civili ed ecclesiastiche nella lotta contro l’eresia avvertita come disobbedienza insieme politica e religiosa, i poteri degli inquisitori erano sostanzialmente lesivi della sovranità statale e perturbatori delle normali relazioni sociali, come dimostrano i conflitti con le autorità secolari, gli assalti da parte della popolazione ai conventi sede dei tribunali e la reiterata pubblicazione nel corso del Seicento della costituzione di Pio V Si de protegendis (1569) che stabiliva aspre sanzioni per quanti osassero violare persone e cose dell’I. Un altro fattore di turbamento dell’ordine sociale e di conflitto con le autorità secolari era il fenomeno dei patentati e familiari dell’I. che raggiunse dimensioni di grande rilievo nel Sei-Settecento. La moltiplicazione delle licenze di porto d’armi di cui godevano queste forze di polizia al servizio dei tribunali inquisitoriali si scontrava infatti con i tentativi dell’autorità statale di disarmare i propri sudditi, di combattere il banditismo e d’imporsi come unica titolare dell’uso legittimo della forza.

    Se il decollo e il consolidamento della rete inquisitoriale periferica furono lenti e difficoltosi, a Roma nel giro di pochi anni il Sant’Ufficio riuscì a creare le condizioni istituzionali e politiche per influenzare le scelte di governo della Chiesa in base ai propri rigidi orientamenti non solo nei confronti del mondo protestante ma anche verso il dissenso religioso diffuso ai vertici dell’istituzione ecclesiastica, come dimostrano le inchieste e i processi degli anni quaranta e cinquanta del Cinquecento contro vescovi, prelati e prestigiosi cardinali come il milanese Giovanni Morone. Tra i mezzi insidiosi utilizzati per reprimere tale dissenso interno ci fu l’uso spregiudicato in conclave di incartamenti inquisitoriali e delle accuse d’eresia contro gli avversari al fine di impedirne l’elezione al soglio pontificio, anche in vista dell’ascesa al papato dei cardinali intransigenti membri dell’I.

    Nel 1555 fu eletto il napoletano Paolo IV Carafa (1555-1559), a capo del Sant’Ufficio sin dalla sua creazione. Sotto il papa inquisitore s’intensificarono le persecuzioni di eretici e di minoranze religiose; le competenze dei tribunali dell’I. furono estese a bestemmiatori, sodomiti, simoniaci, ebrei e giudaizzanti, celebranti la messa senza ordinazione e ordini regolari di recente fondazione; fu promulgato dall’I. il devastante indice dei libri proibiti del 1558. Alla morte del pontefice la sua sede a Roma fu assalita e incendiata, i prigionieri liberati e gli inquisitori malmenati, ma il peso istituzionale conferito al Sant’Ufficio dalle costituzioni di Paolo IV si dimostrò capace di condizionarne durevolmente il ruolo ai vertici della Chiesa.

    Con la bolla Cum ex apostolatus officio (1559) Paolo IV stabilì la deposizione immediata delle massime autorità pubbliche civili ed ecclesiastiche (principi, re, imperatori, vescovi, cardinali e papi) nel caso che, prima di assurgere alla loro carica, si fossero macchiate d’eresia. L’accusa d’eresia, già utilizzata durante i conclavi per scongiurare candidature avversate dall’I., trovò così formale legittimazione come strumento della lotta politica all’interno della Chiesa per bloccare carriere ecclesiastiche sgradite ai cardinali del Sant’Ufficio, e addirittura contro il pontefice per influenzarne le scelte, come si verificò sotto Pio IV, Clemente VIII, Innocenzo XI, ossia ogni volta che papi non provenienti dalle file dell’I. vollero prendere importanti decisioni per la Chiesa (la concessione del calice ai laici, l’assoluzione di Enrico IV di Francia, l’apertura verso il quietismo) in contrasto con gli orientamenti della potente congregazione, pronta a ergersi anche contro il papa a giudice dell’ortodossia.

    Dopo la breve parentesi del pontificato di Pio IV (1560-1565) che convocò e concluse il Tridentino e tentò di contenere i poteri del Sant’Ufficio, il cardinale inquisitore e frate domenicano Michele Ghislieri, già insignito da Paolo IV della carica a vita di Inquisitor Maior e delle enormi prerogative ad essa connesse, fu eletto con il nome di Pio V (1566-1572). Il papa domenicano inquisitore e santo (fu canonizzato nel 1712) prendeva le decisioni più importanti non in concistoro con l’assistenza del Sacro collegio, ma durante le sedute dell’I. Oltre a scatenare nelle città italiane processi e roghi cui dovettero piegarsi i principi della penisola, Pio V promulgò la bolla Inter multiplices curas (1566) con la quale concedeva all’I. facoltà di riaprire i processi per eresia già conclusi con sentenze di assoluzione, persino nel caso che tali assoluzioni fossero state emanate dal concilio di Trento (da poco concluso) o dai pontefici suoi predecessori. La bolla sanciva così il principio che il ruolo di supremi giudici in materia di fede e il monopolio del controllo sull’ortodossia non spettavano né al concilio universale né al papa, ma ai cardinali inquisitori. Del resto, di lì a poco con la bolla In Coena Domini del 1568 Pio V abrogò la norma tridentina che affidava ai vescovi il potere d’assoluzione degli eretici occulti nel foro interiore, sancendo così contro quanto stabilito addirittura da una norma conciliare l’unicità della via giudiziale dei tribunali della fede nel condurre la lotta contro l’eresia.

    In breve tempo il rischio derivante da un’accusa d’eresia davanti all’I. era diventato lo strumento per regolare i meccanismi d’accesso al papato e la distribuzione del potere ai vertici della Chiesa. I margini di autonomia e la posizione di preminenza acquisiti dall’I. furono sanciti da un altro papa inquisitore, il francescano Sisto V Peretti (1585-1590), che riorganizzò il sistema di congregazioni cardinalizie attribuendo al Sant’Ufficio la preminenza su tutte le altre (bolla Immensa Aeterni Dei, 1588). Negli ultimi tempi gli studi hanno messo in rilievo anche le valenze economiche del potere detenuto dall’I. al centro e in periferia.

    Alla morte di Pio V, a trent’anni dalla creazione dell’I., ogni forma organizzata di dissenso era ormai cancellata nella penisola. L’I. e la rete periferica dei suoi tribunali, tuttavia, non cessarono di operare ma, sulla base della stretta connessione posta tra eresia e morale, estesero il loro raggio d’azione dalla lotta contro le deviazioni dottrinali al vasto universo dei disordini comportamentali diffusi nella società. Le implicazioni ereticali di pratiche magiche e superstiziose, malefici, culti incontrollati e simulata santità, bestemmie, sodomia, bigamia e poligamia giustificarono così l’intervento degli inquisitori nella sfera delle credenze, delle devozioni e dei comportamenti sessuali.

    Alcuni di questi reati erano di misto foro, ossia di competenza non solo dei tribunali ecclesiastici ma anche di quelli civili. Occorre sottolineare però che, diversamente dagli inquisitori, i giudici secolari non volevano punire le opinioni e le convinzioni dell’imputato, ma le implicazioni sociali del reato e l’eventuale danno contro terzi. Nel caso della stregoneria, ad es., laddove i tribunali della fede erano principalmente interessati a verificare il patto con il diavolo e l’apostasia che ne costituivano le premesse, i giudici laici si preoccupavano piuttosto di accertare le conseguenze del maleficio e i danni che ne derivavano. Le sovrapposizioni di competenze si risolsero in modo differenziato a seconda del delitto, della sua rilevanza sociale, dei contesti istituzionali e dei rapporti di forza vigenti tra autorità secolari ed ecclesiastiche.

    Alle ragioni di scontro con i poteri civili occorre affiancare i contrasti interni alla sfera ecclesiastica tra inquisitori e vescovi. L’autorità dei vescovi nel governo delle superstizioni e della morale dei fedeli era stata affermata dal concilio, per essere poi contrastata e progressivamente erosa dagli inquisitori. Inoltre, a livello locale autorità diocesane e inquisitori si scontravano su chi dovesse pubblicare gli editti, sull’ordine delle precedenze nelle cerimonie pubbliche, sul luogo in cui celebrare i processi cui avrebbero dovuto partecipare anche il vescovo o un suo rappresentante, sulla custodia dei processi. In generale, nel corso del Seicento, con il crescere dell’assenteismo dei vescovi aumentò la subordinazione del vicario episcopale all’inquisitore, rafforzata dalle istruzioni provenienti dal dicastero centrale.

    A partire dal tardo Cinquecento, parallelamente a quello delle superstizioni, le autorità ecclesiastiche affrontarono il problema della santità e delle devozioni a essa connesse. Anche questo campo di cruciale importanza per la definizione del rapporto tra la società e il sacro fu sottoposto a un crescente controllo clericale e all’accentramento a Roma della selezione degli aspiranti santi a scapito delle proposte provenienti dai fedeli e dalle chiese locali. Entro tale contesto, l’I. conservò un ruolo decisivo nella definizione delle vie legali alla santità e nell’approvazione dei nuovi santi anche dopo l’istituzione della congregazione cardinalizia dei Riti (1588), mentre a partire dagli anni trenta del Seicento fu sancita la sua competenza esclusiva nella repressione dei fenomeni di santità «simulata» o «affettata».

    Nel tardo Cinquecento, al processo ordinario si affiancò e consolidò l’istituto giuridico della spontanea comparizione, ossia dell’autodenuncia, che comportava una serie di vantaggi   per gli sponte comparentes (rito sommario, abiura privata, punizioni lievi, soluzione locale del caso) qualora fossero sinceramente pentiti dei loro reati e denunciassero eventuali complici. L’accresciuto controllo sulla società impose la necessità della vigilanza sui mediatori ecclesiastici. Di qui la definizione del reato di sollicitatio ad turpia, l’adescamento sessuale delle penitenti da parte del sacerdote durante la confessione sacramentale, incluso tra i crimini di pertinenza inquisitoriale da un decreto di Paolo IV del 1559 per la Spagna e solo nel 1622 affidato al Sant’Ufficio, con pene più severe e procedure speciali, in tutto il mondo cattolico (Gregorio XV, bolla Universi dominici gregis). La preoccupazione per gli abusi che potevano associarsi all’intenso sviluppo della pratica femminile della confessione si accompagnava anche a esigenze di tutela della reputazione e dell’onore del clero, cosicché molte delle scabrose vicende si arenarono o si scontrarono con mille difficoltà.

    La preminenza conseguita dal Sant’Ufficio ai vertici curiali, l’ampiezza delle sue prerogative e la specificità delle sue procedure permisero ai cardinali inquisitori di mantenere – non senza contrasti e frizioni – un ruolo di rilievo anche entro la sfera di competenza propria di altri dicasteri romani istituiti successivamente, quali le congregazioni dell’Indice (1572), dei Riti (1588), e persino la potente congregazione De Propaganda Fide creata nel 1622 per il coordinamento e il governo dell’area vastissima costituita dalle terre di missione.

    Per il periodo che va dalla seconda metà del Seicento a tutto il Settecento le ricerche sono ancora molte da fare soprattutto per quanto riguarda l’evoluzione e le dimensioni quantitative dell’attività giudiziaria dei tribunali periferici, che sembra in calo, ma non dovunque, mentre le sentenze capitali appaiono senz’altro in netta diminuzione. La formazione di una rete di Vicarie anche nei centri più piccoli dell’Italia centro-settentrionale, portò l’I. sin «ne’ boschi», trasformandola in un’istituzione sempre più capillare e pervasiva, che si occupava di «cose piccole», specie di pratiche magiche e bestemmie, e comminava per lo più penitenze salutari. Nello stesso tempo, però, il rogo di Giordano Bruno, le vicende di Tommaso Campanella e il caso Galilei mostrano che i cardinali inquisitori fronteggiarono con rigida determinazione le grandi sfide all’ortodossia via via poste dalla libertas philosophandi e dalla scienza moderna, nonché dal quietismo e dal giansenismo con le loro importanti diramazioni e aderenze all’interno della Chiesa.

    Nel corso del Settecento la politica repressiva dell’I. ostacolò anche i tentativi di quanti, appartenenti ai ranghi ecclesiastici come l’abate Celestino Galiani, tentarono di instaurare un rapporto più aperto tra la Chiesa romana e la cultura contemporanea. Nel 1748 Pietro Giannone moriva nelle carceri dell’I. torinese; frattanto la lotta contro la cultura illuministica, la condanna della massoneria e l’accresciuto rigore contro gli ebrei aumentavano la distanza tra l’I. e una società che cambiava.

    La critica dei Lumi contro l’intolleranza s’intrecciò anche in Italia con le sempre più decise politiche giurisdizionalistiche dei sovrani volte a ridurre le competenze e l’incidenza dei tribunali inquisitoriali nei loro domini, a cancellare i privilegi di cui godevano i patentati, ad avocare all’autorità statale gli interventi in materia di censura. Queste misure furono spesso premessa delle successive abolizioni dei tribunali inquisitoriali in diverse città e stati regionali italiani che avvennero secondo processi differenziati e talvolta graduali a Napoli (1746), Parma (1768), Milano (1774), Firenze (1782), Modena (1785), sino alle sistematiche soppressioni avvenute a seguito dell’invasione francese nel triennio giacobino e sotto i governi napoleonici. In questo periodo ebbe luogo la più grave dispersione nella storia dell’archivio centrale dell’I. che era stato trasferito a Parigi nel 1809: dopo la caduta dell’imperatore, gli inviati della Santa sede incaricati di riportare le carte a Roma ricevettero infatti l’ordine di rendere illeggibile e rivendere a salumieri e cartai gran parte della documentazione, tra cui i fascicoli processuali.

    Con la Restaurazione la congregazione dell’I. e i tribunali periferici dello stato pontificio ripresero a funzionare sino all’unificazione della penisola italiana sotto i Savoia e alla caduta di Roma nel 1870. Una volta privata della rete dei tribunali periferici, l’I. romana (l’unica sopravvissuta delle tre inquisizioni dell’età moderna) mantenne il ruolo di tribunale supremo dell’ortodossia continuando a orientare con i suoi interventi la vita dei fedeli italiani e del clero, come dimostrano il decreto con cui nel 1886 confermava il Non expedit, ossia la disposizione per tramite della quale Pio IX aveva vietato la partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche, sino alla dura condanna del modernismo agli inizi del Novecento.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO