Islam – vol. I

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    Autore: Gianluca Padovan

    Premesse

    Dovendo trattare dei rapporti tra la Chiesa Cattolica e l’Islam in Italia sembra anzitutto necessario precisare i termini di questo impegno. Quanto alla Chiesa, si è scelto di considerarla nel suo senso più ampio, proiettando senza esitazione sull’intero percorso storico in esame la consapevolezza contemporanea che non restringe la qualifica di “Chiesa” soltanto al Magistero gerarchico, ma piuttosto la estende ad ogni battezzato. Non intendiamo quindi limitarci ad esaminare i documenti ufficiali e le scelte dei Papi e dei Cardinali più influenti, ma faremo il possibile per dare conto anche delle scelte di singoli pastori e di laici. Dovendo giungere ad una sintesi, tenteremo di selezionare tra queste esperienze quelle che ci sembreranno più rappresentative dei diversi approcci cattolici al confronto con l’Islam in Italia. Similmente estenderemo il termine Islam fino a fargli comprendere tutte le manifestazioni religiose e culturali legate alla fede musulmana, sia riferendoci agli atteggiamenti delle autorità politiche che si sono poste a guida delle diverse anime del mondo islamico, sia riferendo di eventi locali rimasti ai margini della “grande storia”. Infine daremo al termine “Italia” una connotazione prettamente geografica, intendendo quindi tutto ciò che accade dalle Alpi alla Sicilia e accostandoci alle vite di tutti quegli uomini che in questa ripartizione fisica sono nati o hanno operato avendo a che fare col nostro tema. Gli estremi cronologici di questa sezione, infine, sono dati dal primo contatto diretto fra abitanti della Sicilia e fedeli musulmani in territorio isolano da un lato, e dalla proclamazione ufficiale del Regno d’Italia dall’altro. Questa seconda data è considerata significativa, poiché da quel momento esistono confini politici ufficiali che contribuiscono a definire una chiesa “nazionale” in senso proprio.

    Preludio e primo contatto

    Il primo incontro fra Islam ed Italia fu, in effetti, uno scontro nel senso più proprio del termine. Protesa nel Mediterraneo, a pochi passi dalla costa tunisina, l’Italia è per sua natura un ponte naturale nonché il confine tra le due metà del mare, strategicamente necessaria per chiunque voglia dominarlo. In più Roma, al centro della Penisola, fin dalla sua nascita ha costituito una calamita potente per le ambizioni degli uomini, siano esse religiose, politiche od economiche, ed i Califfi non fecero eccezione. Dal 652 con Mu’awiya, futuro fondatore del califfato omayyade, al 1595 con Sinan Pasha, Gran Vizir ottomano e genovese convertito (Scipione Cicala alla nascita), molte volte ed in molti modi uomini tra loro diversissimi ed accomunati solo dalla generica dicitura di “musulmano” assalirono l’Italia per mare e per terra, avendo come meta ideale la Città Eterna. Dopo di loro i corsari barbareschi continuarono ad insidiare le navi e le coste dell’Italia meridionale fino agli inizi del XIX secolo. Ciò non poteva restare senza conseguenze per l’idea di Islam che la Chiesa Cattolica andava maturando, e viceversa. Che il primo terreno di confronto tra il Cristianesimo italiano e l’Islam dovesse essere il campo di battaglia era piuttosto prevedibile. Sul piano politico parte della Penisola apparteneva all’Impero Bizantino, in guerra con i Califfi dal 634, anno dell’invasione della Siria da parte di Abu Bakr, e dunque era da allora formalmente coinvolta nel susseguirsi di eventi bellici fra le due parti. Gli Arabi, poi, non ignoravano il valore di Roma per quella Cristianità che stavano rapidamente imparando a considerare come il loro principale avversario politico (ed in seguito dottrinale), anche se la conoscevano inizialmente soltanto come un nome e non di rado la confondevano con Costantinopoli. Non va dimenticato infatti come il termine “bizantino” sia stato coniato da Du Cange nel ‘600, mentre ai nemici arabi gli uomini di Bisanzio si presentavano come “romani”. Fin dall’inizio della storiografia e geografia islamica Roma ha un posto d’onore, al punto che su di essa vengono tessute descrizioni spesso fantasiose ricalcate sulla “seconda Roma” constantinopolitana, per gli Arabi assai più familiare. Infine il richiamo economico dell’Italia era molto forte nel Mediterraneo, e furono proprio le scorrerie finalizzate al saccheggio il primo approccio islamico alle sue coste. In tutto questo le tradizioni mitiche ed i racconti di guerra e di viaggio sulla città di Roma consegnarono al mondo musulmano stereotipi e pregiudizi sul Cristianesimo ed il Papato che durarono per secoli e lasciano tracce osservabili anche ai nostri giorni. Rispetto al nostro tema è anche necessario considerare anche la pre-comprensione dell’Islam da cui la Chiesa mosse i primi passi di questo difficile confronto. Dopo le frequenti e spesso tragiche esperienze di conflitto con numerose eresie, sulla scorta delle prime osservazioni di Giovanni Damasceno i pensatori cristiani identificano l’Islam come l’ennesima forma deviante di Cristianesimo. Non è possibile comprendere la natura complessa ed ambivalente dei legami politici ed economici formati nel Medioevo tra potenze cristiane e musulmane senza tenere conto di questo: sebbene non mancassero i distinguo teologici, fu a lungo opinione comune che gli islamici non fossero altro che cristiani eretici, seguaci di un eresiarca arabo del quale si ricamavano volentieri leggendari trascorsi nella gerarchia pontificia, o che poteva essere addirittura rappresentato come l’anti-cristo biblico.

    Espansione musulmana in Italia meridionale, la Guerra Santa dei Cristiani e la controversia ereticale

    Dal punto di vista islamico medioevale l’orizzonte italiano è prevalentemente occupato dalla Sicilia, parte del dar-al-Islam per circa due secoli. Come già detto fu Mu’awiya ibn Abi Sufyan, nel 652, ad armare la prima flotta musulmana per la pirateria ed il saccheggio della Sicilia bizantina, mentre il porto e l’arsenale marittimo di Tunisi furono approntati nel 698 principalmente per sostenere questa politica di aggressione. L’idea di un’occupazione stabile si sviluppa progressivamente e per tentativi, in particolare quello del 739/740 da parte del governatore d’Ifrikiya ‘Ubayd Allah b. Habhab, che viene però respinto dopo l’infruttuoso assedio di Siracusa. La doppia linea della pirateria e degli intensi contatti commerciali salda un rapporto altalenante di tensione e cordialità fra i Bizantini e gli emiri Aghlabidi d’Ifrikiya, fino alla rivolta del tumarca siracusano Eufemio contro l’Imperatore di Costantinopoli nell’827. Il generale ribelle chiede l’intervento islamico, e nel giugno di quell’anno un esercito aghlabita di 10.000 uomini, al comando del sessantottenne Abu ‘Abd Allah Asad ibn al Furat sbarca a Mazara del Vallo. Alcune note biografiche su questo generale possono essere di aiuto per comprendere lo spirito dell’impresa, vista anzitutto come una conquista intellettuale ed un’acquisizione culturale, che condizionò per certi versi l’approccio arabo all’isola anche sotto i successivi governanti. Egli era un famoso esperto di legge islamica, intellettuale molto rispettato, e pur facendo formalmente parte dei ranghi militari non aveva mai partecipato ad alcuna attività bellica. Egli stesso giustificò questa singolare situazione affermando che solo con la conoscenza maturata nella vita era possibile sperare nella vittoria sul campo. I fatti gli danno ragione, poiché nel giro di un mese le armate bizantine vengono sconfitte ed è posto l’assedio a Siracusa per circa un anno. Non la sconfitta vi mette fine ma una pestilenza scoppiata tra gli assedianti ed i musulmani si ritirano verso Mazara, riuscendo però a prendere Palermo nell’831. Solo nell’842 le posizioni arabe possono dirsi sicure e riprende l’offensiva con la conquista di Messina (843) e l’avanzata fino a Ragusa (848). Da notare come il successo contro i Bizantini sia dovuto anche all’alleanza con Napoli, che nell’835 si accorda con gli invasori e ne assoldai soldati come mercenari contro il principe longobardo di Benevento, Sicardo (che da parte sua fa lo stesso con altre fazioni musulmane), e nell’842 appoggia il tentativo islamico di conquistare Messina. Ormai proiettati all’espansione, nell’847 con il capo berbero Khalfun gli arabi assalgono e conquistano la città pugliese di Bari, stabilendovi il primo ed unico emirato della Penisola. Ancora una volta emergono alleanze interreligiose, con il nuovo principe di Benevento, Radelchi, che incoraggia l’iniziativa a spese dei suoi avversari salernitani. Gli emiri di Bari arrivano a sottomettere Oria, Matera e Taranto, organizzando scorrerie in buona parte della costa Adriatica, ma il loro regno è destinato avita breve: dopo soli trent’anni l’Imperatore carolingio Ludovico II, spronato anche dalle autorità ecclesiastiche, conduce una serrata campagna con la collaborazione dei Bizantini e dei feudatari dell’Italia meridionale, ed espugna la città nel Febbraio 871. Ma la linea di confine tra Islam e Cristianità non fu mai un tratto continuo. Enclavi musulmane, colonie, emirati di breve durata ed effimere moschee nascono e muoiono nel giro di pochi anni – o talvolta di qualche mese – lungo le coste italiane e della Francia meridionale. In questo periodo, nell’846, un esercito islamico sbarca nel Lazio e saccheggiala periferia di Roma e le basiliche extra-murarie di San Pietro e San Paolo, spingendo Papa Leone IV ad edificare le mura leonine a difesa del colle Vaticano tra l’848 e l’852. Essendo evidentemente insufficiente provvedere soltanto alla difesa, Leone avvia contatti diplomatici con le principali città costiere dell’Italia meridionale e sollecita l’allestimento di una flotta da opporre agli invasori. La sua strategia viene messa alla prova nell’849, quando al largo di Ostia, per la prima volta, gli Arabi vengono sconfitti dagli alleati italici; «per la prima volta un esercito composto da italici aveva vinto una grande battaglia e l’aveva fatto sotto la guida del Pontefice in una guerra a difesa del mondo occidentale. Da quel momento il vescovo di Roma si assunse il compito di condurre una battaglia diplomatica a tutto campo, sia per tessere alleanze antimusulmane sia per annullare ogni impium foedus esistente tra cristiani e infedeli». Ancora, nell’875, alla morte dell’Imperatore Ludovico II il giovane, è il Papa Giovanni VIII a farsi promotore e talvolta organizzatore della lotta contro i musulmani in Italia, d’intesa con il nuovo sovrano Carlo il Calvo. Del resto la situazione risultava preoccupante: nel Garigliano viene infatti fondata una colonia musulmana che resiste dall’881 al 915 e fa da base alle scorrerie in Lazio ed Umbria, sostenuta o almeno tollerata dai grandi feudatari del territorio in lotta col Papato per la propria indipendenza. Solo un’inedita e trasversale alleanza tra il Papa Giovanni X, l’Imperatrice bizantina Zoe, i principi del Meridione ed i Longobardi permetterà infine di cacciare gli invasori. Che la propensione italiana dell’Umma sia tutt’altro che spenta lo prova però il saccheggio di Genova nel 935; intanto la base arabo-andalusa di Fraxinetum in Provenza (nei pressi dell’odierna Saint-Tropez), dall’889 al 975 è all’origine di continue incursioni attraverso le Alpi nelle valli più occidentali del Piemonte (in provincia di Saluzzo si festeggia ancora ogni anno il Bahìo, o Baìo, “carnevale alpino” in cui gli uomini, travestiti, rievocano la definitiva sconfitta degli arabi); da ultimo la Sardegna viene in parte conquistata – ma abbandonata meno di un anno dopo – dal convertito spagnolo Mugiahid nel 1015.

    Sintesi: Si è visto sin qui come la Cristianità, a cominciare dal Papato, tra il IX e l’XI secolo abbia avuto molti motivi ed occasioni per sviluppare una precisa identificazione dell’Islam come nemico temibile ed irriducibile, un problema anzitutto politico e militare da affrontare sul campo di battaglia, mettendo in gioco la sopravvivenza stessa della Chiesa e del mondo europeo. Dal punto di vista teologico per i Cristiani è sufficiente considerare i musulmani degli infedeli, uomini che hanno preferito seguire l’eresiarca Maometto piuttosto che il Vangelo. Gli scritti del Damasceno fanno scuola e, per il momento, il confronto teologico resta inquadrato tra le controversie ereticali.

    Ascesa e declino dei musulmani in Sicilia, la reconquista normanna

    Le battaglie di terraferma, condotte da capi locali e bande di briganti più o meno autonome, non hanno significative influenze sulla conquista araba della Sicilia orientale, che dopo i precedenti successi prosegue con la presa di Noto (864) e di altre località, oltre ad incursioni contro i principali centri della costa est. Infine, nell’878, dopo nove mesi di assedio cade Siracusa, e Taormina, l’ultima roccaforte bizantina, si arrende nell’agosto del 902. Al termine di 75 anni di scontri l’isola è pienamente inserita nel dar-al-Islam. Un dominio non esente da tensioni, come la rivolta di Taormina nel 961, oltre a scontri interni ai conquistatori per stabilire i limiti dell’autonomia dei governanti locali rispetto ai Fatimidi dell’Africa settentrionale, ma che nel complesso determina un’evidente fioritura economica e culturale. Soprattutto la prima metà del X secolo può essere considerata il punto culminante dell’incontro siciliano fra cultura araba e greca, fra Islam e Cristianesimo. Nell’insieme la popolazione rimane infatti cristiana, ottenendo il riconoscimento legale della condizione di dhimmicon l’obbligo della tassa per la libertà di culto ed alcune limitazioni in campo matrimoniale. Ai Cristiani non è permessa la pratica della propria fede negli spazi pubblici, tuttavia le funzioni religiose all’interno delle chiese restano regolari. I Cristiani devono portare sugli abiti un contrassegno, visibile anche sulle loro case, e sono interdetti dall’assumere quegli uffici pubblici che li metterebbero in condizione di superiorità rispetto al cittadino musulmano. È permesso il matrimonio tra una donna cristiana ed un musulmano ma non l’opposto. Ciò è comunque sufficiente a consentire una certa ibridazione tra la popolazione araba e quella italica. Oltre a queste altre limitazioni vengono di volta in volta aggiunte o rimosse dai governanti sia centrali che locali. Bisogna però notare che non sempre questa legislazione viene applicata, ed anzi la sua perfetta osservanza può considerarsi l’eccezione piuttosto che la regola, salvo la questione matrimoniale che risulta essere stata sempre strettamente normata. Il 900 arabo in Sicilia vede lo sviluppo di Palermo, che superando i 300.000 abitanti diviene per qualche tempo la città più popolosa della penisola italiana e tra le maggiori d’Europa, manifesto internazionale del successo politico e sociale dei conquistatori, la sola città a ricevere il nome arabo di al-Madina, omaggio alla Medina del Profeta. Le sorti politiche dell’isola sono quindi legate al regno aghlabita d’Ifriqiya, la cui conquista da parte dei Fatimidi nel 909 segna il passaggio del potere in nuove mani. Dal Cairo viene mandato nel 948 il governatore yemenita Hasan b. ‘Ali al-Kalbi, che sebbene formalmente dipendente dai Fatimidi ottiene da questi ultimi una sempre maggiore autonomia, politica condivisa dai suoi successori. Se questo consente un’elaborazione culturale e religiosa autonoma, caratterizzata anche da una certa apertura verso i sudditi Cristiani, segna però l’isolamento dell’emirato, precludendo interventi a suo sostegno dal resto del mondo islamico mediterraneo e favorendone infine la caduta nel 1053 per ribellioni interne, sia dei Cristiani che dei Musulmani berberi ostili ai reggenti di origine arabica. Ad essa seguono diversi anni di anarchia. La frantumazione del dominio islamico in piccoli emirati e le continue guerre tra questi spingono il conte normanno Ruggero d’Hauteville, vassallo del fratello Roberto, duca di Puglia e Calabria, a sbarcare una prima volta a Messina nel Febbraio 1061, rispondendo alla richiesta di aiuto dell’emiro di Siracusa Ibn al-Thumna suo alleato, ed una seconda volta nel 1071 puntando all’occupazione stabile di Palermo, conquistata l’anno seguente. Tra alterne vicende l’avanzata normanna incontra il suo unico oppositore credibile in Ibn ‘Abbad, emiro di Siracusa dal 1072 e noto ai Cristiani come Benavert, che cade in mare nel 1086 mentre tenta di rompere l’assedio della sua città e viene trascinato a fondo dalla pesante armatura. Venuto meno l’ultimo ostacolo, i Normanni completano la conquista prendendo Noto nel 1091 ed imponendo ai Saraceni di Malta un giuramento di fedeltà. Ruggero I di Sicilia regna fino al 1101, con una politica fortemente legata al Papato e preoccupata della tutela della religione cattolica. Nominato Gran Conte di Sicilia e Legato Apostolico da Papa Urbano II, con facoltà di trasmettere i titoli agli eredi, Ruggero I governa direttamente le diocesi latine ed è il primo sovrano a cui la Chiesa di Roma conceda giurisdizione sulle nomine episcopali. Inserita così nell’organico del governo siciliano, la Chiesa cattolica viene sostenuta e garantita nel suo rapido passaggio da minoranza a maggioranza egemone sul territorio, a scapito delle comunità islamiche e soprattutto delle ancora diffuse diocesi bizantine. Con il successore Ruggero II i Normanni continuano la loro “reconquista” arrivando a dominare le coste africane fra Tunisi e Tripoli fra il 1135 e il 1153. Un simile successo si spiega nell’ambito della più ampia pressione militare esercitata dalla Cristianità sul mondo islamico a partire dalla Prima Crociata del 1095, e proseguita con alterne vicende fino alla definitiva riconquista musulmana di San Giovanni d’Acri nel 1291. Nonostante il marcato appoggio alla (e dalla) Chiesa di Roma, i governanti normanni operano con grande pragmatismo, cercando l’integrazione della popolazione araba a tutti i livelli della società, anche incorporando reggimenti musulmani nell’esercito (è noto “l’entusiasmo” dei reggimenti saraceni contro le milizie germaniche di Lotario e quelle del Papa, che si scontrarono più volte con Ruggero II nel vano tentativo d’impedirgli l’annessione dei territori normanni in Calabria e Puglia). La riuscita di questo progetto è rilevabile anche dalla scelta di buona parte dei musulmani di non emigrare. La significativa componente araba ed islamica della popolazione siciliana contribuisce, nel corso del XII secolo, a strutturare la singolare cultura arabo-normanna che ancora oggi caratterizza l’isola (e per certi aspetti la Calabria e la Puglia) nella lingua, nei toponimi, nell’architettura, nelle abitudini quotidiane e nella religiosità popolare, oltre ad un’evidente traccia araba nella fisionomia di parte dei suoi abitanti. Nel corso del XII secolo la Sicilia è anche un importante centro di traduzione dall’Arabo al Latino, ma poiché il lavoro dei traduttori si concentra sulle opere scientifiche e filosofiche, specie quelle radicate nella tradizione greca,la cultura islamica viene divulgata in Occidente per lo più sotto questi aspetti, lasciando la sua dimensione religiosa alle fantasiose ipotesi di romanzieri e cantastorie. La società normanna mostra i primi segnali di crisi a partire dal 1161 per scontri dinastici tra i figli di Ruggero II. I musulmani, più deboli ed esposti, sono oggetto di saccheggi e violenze, e maturano così una forte disposizione alla ribellione, più volte tradotta in pratica e sempre soffocata nel sangue. Ciononostante il resoconto del pellegrino musulmano Ibn Gubayr, che mentre torna in Granada dalla Mecca fa naufragio a Messina e visita l’isola tra il Dicembre 1184 e il Gennaio 1185, riferisce di una situazione ancora relativamente pacifica e favorevole ai suoi correligionari sotto l’egida del re Guglielmo il Buono. Durante il suo regno, fra il 1153 e il 1189, essi sono per lo più salariati alle dipendenze dei Cristiani e tenuti a pagare una tassa specifica per la loro condizione (probabilmente viene ribaltata sic et simpliciter la normativa islamica sui dhimmi), ma possono possedere terreni e farsi strada nel commercio e nell’artigianato, hanno moschee e muezzin abilitati all’adhana pubblica e sono liberi di celebrare le proprie feste religiose ed osservare le purità alimentari. La loro presenza alla corte di Guglielmo II è riconosciuta ed apprezzata, i matrimoni misti permessi e non insoliti, ed alcuni costumi arabi vengono imitati anche dai Cristiani (forse l’autore esagera, ma riferisce di donne cristiane che nelle feste amano vestirsi e velarsi come le musulmane); l’Arabo è ancora una lingua praticata largamente da tutte le componenti della popolazione, e lo studio delle scienze e della filosofia islamica fa parte della formazione dei reali e della nobiltà. Unica nota negativa, secondo il nostro pellegrino, il problema della gestione della famiglia. Il ruolo forte del padre secondo la tradizione araba non viene riconosciuto dalla società normanna, e non sono pochi i casi di mogli e figli che chiedono il Battesimo per sfuggire all’autorità paterna, così che i padri musulmani sono “costretti” a più miti consigli ed impossibilitati al pieno esercizio del governo familiare concesso loro dall’Islam.

    La fine dei Musulmani d’Italia nella colonia di Lucera

    Dopo la morte improvvisa di Guglielmo II nel 1189, a soli 36 anni, l’instabilità politica riemerge con maggior vigore e laddove i musulmani sono maggioranza, o comunque possono contare su una forte presenza, scoppiano frequenti ribellioni verso i feudatari cristiani. In questo periodo diverse chiese, abbazie e cattedrali vengono saccheggiate e più di un vescovo viene fatto prigioniero e rilasciato dietro riscatto, determinando un’insanabile frattura fra il clero locale ed i musulmani. È Federico II di Svevia a riportare l’ordine in Sicilia, assumendo il potere effettivo nel 1208 e ricorrendo anche a mezzi estremi verso i dissidenti. Nel 1225, dopo avere sconfitto i musulmani di Iato ed Entella ribelli dal 1206, egli organizza una progressiva deportazione delle comunità islamiche dalla Sicilia alla Puglia, nella cittadina di Lucera, che nel 1239 viene a contare appena dodici abitanti cristiani a fronte di diverse migliaia di musulmani. Lì i fedeli dell’Islam hanno la possibilità di vivere in pace contribuendo al successo economico e culturale del territorio, spesso paragonato dai cronisti alla Cordova degli Omayyadi. Grati, i musulmani prestano servizio nell’esercito imperiale, anche come guardie personali dell’Imperatore a cui essi si riferiscono in arabo come “Sultano”, e restano fedeli alla casata sveva di Federico anche dopo la sua morte. Il tragico epilogo di Lucera si deve anche al diretto intervento del Papato. Nell’agosto del 1269 Clemente IV esorta Carlo I d’Angiò, succeduto agli Svevi nel controllo del Regno di Napoli, ad attaccare la città per liberarla dalla presenza musulmana, ma il sovrano non riesce a raggiungere una vittoria definitiva. Quando poi nel Luglio del 1300 i musulmani di Lucera si ribellano al successore Carlo II, pare per ragioni legate alla tassazione ritenuta iniqua, questi indice la cosiddetta “Crociata angioina”, che grazie alla partecipazione massiccia dei feudatari si conclude con la distruzione di Lucera e lo sterminio della popolazione araba. I superstiti fuggono nelle campagne, chi resta in città deve convertirsi. Lucera viene ribattezzata “Città di Santa Maria”, tutti gli edifici “islamici” vengono abbattuti, gli oggetti arabeggianti requisiti e fusi o distrutti e molti nuovi abitanti cristiani vengono fatti arrivare dalle altre regioni del regno. I musulmani latitanti restano comunque causa di continui attriti, rendendo necessario mantenere una grossa guarnigione, e ben vent’anni più tardi Roberto d’Angiò, già vicario pontificio per tutelare gli interessi papali in Italia, concorda con Papa Giovanni XXII l’invio in città del vescovo croato Agostino Kazotic (italianizzato in “Casotti”), domenicano, già pastore di Zagabria ed in esilio ad Avignone per tensioni con il suo sovrano. Considerando che il Papa aveva già inviato nel 1319 il Cardinale Bertrando del Poggetto a ripristinare l’autorità pontificia nell’Italia centrale, la preoccupazione di normalizzare l’appartenenza religiosa di Lucera sembra inserirsi bene nel quadro politico del tempo. Il nuovo vescovo riserverà però delle sorprese. Noto per la grande carità pastorale, il Casotti si dedica in particolare all’edificazione di strutture assistenziali ed all’evangelizzazione dei cittadini islamici, rifiutando l’uso della forza che pure gli era stata raccomandata dal re e dal Pontefice. Arrivato a Lucera nel 1322, in poco meno di un anno si guadagna la fama di uomo di dialogo e di pace, infaticabile tanto nella predicazione che nella visita pastorale degli abitanti, particolarmente attento alla ricerca dei musulmani ed alla frequentazione assidua dei loro luoghi di ritrovo. Questa insistenza e la ferma decisione di non avvalersi della guardia angioina lo espone ad un attentato da parte di un musulmano armato di ascia. Ferito ma vivo, egli continua la sua opera evangelizzatrice fino alla morte, probabilmente per infezione, il 3 agosto 1323. La sua esperienza, breve ma incisiva, resta purtroppo un caso isolato che non fa scuola nei rapporti tra la Chiesa e l’Islam. Rimane la speranza che possa oggi venire riscoperto come antesignano di un approccio disarmato, caritatevole e dialogante all’insegna della buona convivenza. Questo grande agente di conversione verso i musulmani fu beatificato nel 1702, pochi anni dopo il secondo assedio di Vienna e la vittoria cristiana della pace di Carlowitz (1699), che tra l’altro permise a Venezia di prendere agli Ottomani la Dalmazia da cui Kazotic era nativo e dove era oggetto di una discreta venerazione popolare.

    Sintesi: Tentando una sintesi, è possibile notare come la caduta di un potere politico e militare islamico in Italia abbia di fatto condannato i musulmani rimasti sul territorio. La loro presenza diventa inevitabilmente un bene di scambio nel confronto politico tra il Papa, l’Imperatore e le casate sveva ed angioina. Quanti, come Federico II, riescono ad imporre la propria volontà sui Pontefici utilizzano i Musulmani come minaccia e deterrente; altri, come gli Angioini, intendono guadagnarsi il favore papale indossano volentieri l’egida dei crociati. Se però l’atteggiamento delle autorità tanto laiche quanto ecclesiastiche è nell’insieme coerentemente improntato alla lotta armata per sradicare l’Islam dall’Italia (e l’eccezione del Casotti non fa che ribadirlo), per contro la popolazione cristiana mostra atteggiamenti diversi. In Sicilia, almeno finché resistette un governo saldo capace di far valere le proprie leggi, Cristiani e Musulmani convivono senza attriti ed anzi si contaminano a vicenda nelle abitudini quotidiane, nella lingua, nella devozione religiosa. Persino nella situazione di cattività della colonia di Lucera i Musulmani trovano una collocazione pacifica nel territorio, intessendo lucrosi commerci con mercanti cristiani e diffondendo le proprie competenze artistiche e metallurgiche in un territorio che ancora oggi è in parte legato a questo comparto di artigianato. Ogni traccia di questa presenza viene però cancellata, gli stessi edifici musulmani non sono riutilizzati come accadde in altri luoghi ma abbattuti e del tutto eliminati, come anche gli oggetti di fattura islamica. Attualmente solo una pisside nel museo diocesano di Lucera testimonia dell’incontro fra culture e religioni che un tempo avvenne in quei luoghi.

    La percezione popolare dell’Islam in Italia nel tardo Medioevo.

    Poiché se ne è fatto cenno, è doveroso approfondire brevemente e sintetizzare la conoscenza che la cultura popolare italiana poteva avere dell’Islam fra il XII e il XIV secolo. Essa, maturata sullo sfondo degli scontri militari e delle tensioni politiche presentati finora, ha segnato profondamente anche i secoli successivi, ed a tutt’oggi se ne possono rintracciare alcuni elementi sopravvissuti all’approccio scientifico del 1800. Almeno a partire dalla prima metà dell’XI secolo è possibile individuare nella letteratura francese (Guiberto di Nogent e Galterius di Compiegne, ad esempio) dei testi che definiscono e diffondono un racconto leggendario della vita di Muhammad che circolò rapidamente. In Italia una recezione esemplare di queste idee si può ritrovare nel “Tesoro” di Brunetto Latini, maestro di Dante, a cavallo fra il XIII e il XIV secolo. Il Profeta dell’Islam viene descritto in questi racconti come un monaco africano, talvolta addirittura un cardinale, abile predicatore e versato nelle scienze, il quale ambiva al Papato al tempo dell’Imperatore Teodosio. Vistasi negata l’elezione, avrebbe comunque tentato di costituire un proprio dominio spirituale e temporale in Africa, dando luogo all’ennesima eresia cristiana. Cacciato dall’Impero, avrebbe diffuso le sue dottrine fra gli Arabi, generando così l’Islam. Definito con tratti come “l’uomo più malvagio mai vissuto”, del quale “si può dire ogni male senza timore di sbagliare”, la comprensione di Muhammad e quindi dell’Islam risulta chiaramente consona al clima di tensione bellica del tempo, alla minaccia incombente della Spagna musulmana sulla Francia, ai fantasiosi racconti di veri o presunti pellegrini e viaggiatori nelle terre dominate dai musulmani. Si struttura una vera e propria teologia popolare dell’Islam, visto come eresia ispirata dal Diavolo appoggiandosi ai peggiori istinti dell’animo umano; di qui alla Guerra Santa il tragitto è breve, e non mancheranno Papi e Re desiderosi di percorrerlo a grandi falcate. Va anche tenuta presente, tra il 1095 e il 1291, l’esperienza delle Crociate. Essa spinge inevitabilmente le due parti in campo a strutturare un opportuno linguaggio di propaganda per consolidare le proprie posizioni, sia in battaglia che nelle retrovie. È sorprendente, o forse al contrario è banalmente ovvio, constatare come il linguaggio cristiano e quello musulmano finiscano col convergere tanto nel definire le proprie motivazioni a favore della “guerra santa”, quanto nel dipingere i tratti del proprio nemico come nemico del proprio Dio. In circa due secoli, ma soprattutto fino al 1202 e alla famigerata IV Crociata dirottata su Bisanzio, viene definita nell’immaginario collettivo la certezza di un’inevitabile ed irriducibile opposizione tra Cristianità ed Umma, si salda il rapporto tra volontà di Dio e guerra all’infedele, emergono giustificazioni teologiche, filosofiche, politiche ed economiche per motivare la necessità del conflitto. Con tutto questo è doveroso dare conto anche di vicende alternative, come gli scambi di doni tra Salah al-Din (Saladino) e Riccardo I Cuor di Leone in occasione dei reciproci periodi di malattia, o la sorpresa del Sultano al-Malik al-Kamil nell’incontrare l’Imperatore Federico II che gli si rivolgeva in perfetto arabo, eventi che testimoniano il costruirsi di relazioni di mutuo rispetto anche nell’orizzonte di un’irriducibile opposizione bellica. Trova posto qui la singolare vicenda di san Francesco d’Assisi (1182-1226), che nel 1219 incontra proprio al-Malik a Damietta. L’episodio storico è stato sin dall’inizio oggetto di una forte polarizzazione interpretativa, così da rendere ormai impossibile la sua esatta ricostruzione. Negli scritti coevi e posteriori questo incontro viene utilizzato sia per sostenere la legittimità delle Crociate, a cui dunque Francesco si sarebbe associato, sia al contrario per condannarle e proporre il modello alternativo della disputa teologica e dell’annuncio del Vangelo con la predicazione e il martirio. Sarà questa seconda lettura a prevalere, infine, col mutare dell’orizzonte mediterraneo e dei rapporti politici al suo interno. Francesco, in ogni caso, ha certamente questa esperienza ben presente quando nel 1221 stende il capitolo 16 della sua regola non bollata, che ai versetti 5-7 delinea con sintetica chiarezza due modalità con cui i frati possono vivere in un contesto musulmano: «I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1Pt 2,13) e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5)». Tenendo presente il contesto della Crociata di Innocenzo III e la teologia dei Sacramenti e della Salvezza in vigore al tempo, è possibile apprezzare il peso di ognuna delle parole scelte dal santo di Assisi, e non sembra improprio rintracciare in queste sue posizioni una delle radici di quell’intento missionario pacifico, dialogante e attento alla cura dell’uomo che in diverse occasioni la Chiesa Cattolica ha saputo esprimere.

    La scoperta delle fonti arabe e l’opzione del dibattito filosofico

    La complessità di queste relazioni, che superano la dimensione puramente oppositiva maturata fra l’VII e il XII secolo, si radica in un più ampio mutamento di prospettiva della Cristianità tardo-medioevale rispetto all’Islam che si farà lentamente strada ed emergerà soprattutto a partire dal 1300, ma il cui inizio effettivo va forse individuato nel viaggio in Spagna di Pietro il Venerabile, abate di Cluny, nel 1141. Egli sembra essere il primo sinceramente preoccupato di risalire alle fonti arabe originali, specie per una corretta traduzione del testo coranico, così da maturare una reale conoscenza della religione islamica e poter offrire ai musulmani una presentazione del Cristianesimo capace di persuaderli. Dopo l’opzione militare, si sviluppa così nella Cristianità una corrente apologetica e controversistica, attenta alla migliore conoscenza possibile della religione e della cultura islamica, tutta protesa alla volontà di argomentare in modo convincente la superiorità del Cristianesimo per suscitare la conversione. In ambito italiano si registra così la disposizione di Papa Clemente V nel 1311, che istituisce la cattedra di lingue orientali (arabo, greco, ebraico e caldaico) in alcune università europee, tra le quali Roma e Bologna. Frattanto nella prima metà del 1200 in Inghilterra, ragionando sui possibili approcci della predicazione agli infedeli,Ruggero Bacone teorizza la necessità di abbandonare la Bibbia per la Filosofia, unico terreno valido per un confronto con i musulmani ed efficace preparatio evangelica, poiché essi mostrano competenza ed interesse nella materia. Ma Bacone mostra di ridurre l’Islam alle posizioni di filosofi come al-Farabi, Avicenna ed Averroè, che in realtà esprimevano una minoranza destinata a non avere seguito. Ancora una volta la Cristianità cerca di ricondurre il mondo musulmano ad una identità monolitica e definita, ed inevitabilmente se ne costruisce un’immagine non adeguata alla realtà. Sempre nella seconda metà del ‘200 si colloca l’opera di san Tommaso d’Aquino, a contatto col mondo islamico fin dai primi studi (’39-’44) a Napoli, nello studium fondato da Federico II. Dal ‘48 al ‘52 l’Aquinate studia alla scuola di sant’Alberto Magno a Colonia, il quale lo introduce alle traduzioni latine dei grandi commenti arabi ad Aristotele: i già citati Avicenna/Ibn Sina ed al-Farabi da parte musulmana, Avecenbrol e Maimonide da quella ebraica. Assieme ad Averroè/Ibn Rusd questi autori entreranno fra le auctoritates ricorrenti nelle sue opere, con le quali l’Aquinate si troverà talvolta concorde e talvolta in disaccordo. Dal ‘59 al ‘65 vive ad Orvieto, dove conclude la Summa contra gentiles iniziata in Francia nel ‘58. Attorno a quest’opera si coagula la reazione intellettuale dell’intera Cristianità europea alla civiltà islamica. Dopo le Crociate, la riconquista dell’Italia meridionale, i decisivi progressi in Spagna con la caduta degli Almohadi di Cordova ed il piccolo regno Nasride di Granada ridotto ad innocua periferia, il mondo islamico non è più visto soltanto come un’incombente minaccia militare. Ora c’è spazio per apprezzarne la ricchezza culturale ed il rigore scientifico e filosofico, ed il suo innegabile fascino è una provocazione che deve essere raccolta dall’apologetica cattolica chiamata a rendere ragione della dottrina. Tommaso introduce per primo una distinzione tra i non cattolici: con gli eretici è possibile dibattere a partire dalla Bibbia cristiana, con gli Ebrei soltanto dall’AT, con i musulmani ed i pagani non restano che le evidenze della ragione, e quindi la filosofia. Inizia timidamente un processo di superamento della concezione dell’Islam come eresia cristiana, sebbene l’idea resti corrente ancora a lungo e sia in pratica adottata anche dallo stesso Tommaso. Non è poi fuori luogo ricordare come, anche nel dibattito contemporaneo sul dialogo islamo-cristiano, resti centrale il problema della possibilità di un confronto teologico oltre che culturale, secondo una distinzione che già sembra indicata dal Dottore Angelico. Nel suo insieme l’opera di Tommaso, al di là dei singoli punti d’incontro o di presa di distanza, “sdogana” definitivamente i filosofi musulmani come interlocutori dei pensatori cristiani e li pone sullo stesso piano di autorità pagane come Platone ed Aristotele. L’Islam non è solo il nemico dei Cristiani: esso costituisce una civiltà avanzata con la quale è necessario confrontarsi senza pregiudizi, capace sia di fornire utili argomentazioni per rafforzare alcune posizioni dottrinali che di proporre sfide utili a stimolare una risposta ed una più profonda affermazione della fede della Chiesa (si pensi al dibattito con Avicenna, che sosteneva la non-libertà della Creazione rispetto a Dio, oppure la critica dell’idea islamica per cui non esiste causalità riferibile alle creature ma ogni cosa consegue da un diretto e puntuale intervento di Dio). Il confronto è però sempre in ambito filosofico, specie con quei pensatori che appartenevano alla corrente filosofica ellenistica dell’Islam, minoritaria ed abbandonata rapidamente. Le poche affermazioni dell’Angelico in campo prettamente teologico rispetto all’Islam sono nella linea dell’eresia, ed egli mostra di considerare la dottrina di Muhammad nulla più di una distorsione delle principali verità cristiane. A margine di queste considerazioni sulla vicenda dell’Aquinate, bisogna annotare la scarsità di studi da parte islamica su di lui, o quantomeno la difficoltà di reperire materiale in lingue occidentali, così da rendere impossibile tracciare un quadro della percezione del suo lavoro in ambito musulmano sia antico che recente. Mentre l’Europa cominciava così a scoprire la ricchezza del mondo arabo e, sia pure con fatica ed errori, perseguiva la via di una sua conoscenza più approfondita, la cultura islamica ha già intrapreso la via del declino. Nella seconda metà del XIV secolo le note geo-politiche di Sihab al-Din al-Umari, letterato presso la corte mamelucca del Cairo e viaggiatore nel Mediterraneo, offrono una descrizione di Roma ancora del tutto fantasiosa, come di una città sulla riva del mare ricalcata sulle fattezze di Costantinopoli, e propongono un’immagine singolare del Papato: esso sarebbe il vertice sia religioso che politico della Cristianità, capace di esercitare un’autorità diretta ed immediata su ogni credente e su tutti i principi e gli stati cristiani, così che i singoli e le nazioni si accordano ed agiscono secondo la sua volontà; un “Califfo cattolico”, per così dire.

    L’Italia rinascimentale e l’Islam

    I secoli XIV e XV sono ben poco attestati nelle fonti di nostro interesse. Una volta conclusa l’esperienza di Lucera il territorio italiano non ha più alcun contatto diretto con i fedeli dell’Islam, e la maggior parte degli stati che lo occupano rivolgono le proprie attenzioni al contesto europeo e cristiano piuttosto che alla sponda musulmana del Mediterraneo. La frammentazione e la debolezza dei regni islamici in questo periodo contribuisce ad allontanare la percezione di una minaccia da parte loro. La Chiesa stessa è assorbita prevalentemente dalle vicende dell’Impero e delle emergenti gradi monarchie, contemplando soddisfatta i buoni esiti della Reconquista spagnola, il relativo equilibrio della situazione nei Balcani all’ultimo tramonto dell’esangue Bisanzio, e solo rimpiangendo il fallimento delle Crociate che non avevano assicurato quel dominio cristiano sui luoghi santi per cui inizialmente erano state bandite. La “scoperta” delle Americhe allontana ulteriormente l’attenzione europea dal mondo arabo-islamico, sempre più ridotto a periferia. Conviene dunque procedere nell’analisi adottando una lente diversa, che metta a fuoco le situazioni particolari di alcuni centri italiani di rilievo, nei quali la realtà civile e l’istituzione ecclesiastica presero posizione rispetto all’Islam. Nel fare questo dovremo abbandonare la perfetta successione cronologica, ed ogni sezione ripercorrerà gli eventi evidenziando ciò che la riguarda.

    – Venezia

    Oltre alla Serenissima anche Pisa, Genova, Napoli, Bari ed altre città marinare fra il 1100 e il 1400 hanno importanti rapporti commerciali con l’Africa e il Medio Oriente musulmani. Ci concentriamo su Venezia, convinti che possa fungere da utile paradigma per comprendere la situazione storica ed i contatti tra politica, economia ed autorità religiose nei contesti segnati dalla preminenza dei commerci con l’oriente musulmano. In primo luogo va segnalato, poiché non sempre noto, come il commercio fra Occidente ed Oriente fosse bilaterale: l’Italia importa soprattutto spezie, legname e metalli, e per contro esporta nel mondo arabo i suoi tessuti, le lavorazioni vetrarie e più in generale oggetti d’arte e d’uso quotidiano. Già dalla fine dell’XI secolo Venezia è presente nei mercati di Alessandria, Damietta, Acri e Tiro, ed i suoi commerci sono tutelati e regolati dalle autorità musulmane che si impegnano a contribuire alla lotta contro la pirateria. Dal XII secolo si afferma il modello dei fondachi e dei quartieri franchi nei principali porti islamici, ovvero settori della città riservati a comunità stabili di mercanti europei, nei quali viene applicata una legislazione riservata dal carattere generalmente assai liberale. Nella stessa Venezia, dal 1631 al 1732, è attivo il “Fondaco dei Turchi”, che garantisce ai mercanti ottomani un luogo dove conservare le merci e vivere nel rispetto dei propri costumi, anche dal punto di vista religioso. Di seguito, in breve, una rassegna dei principali eventi che segnano i rapporti tra il mondo veneziano e quello islamico, annotando il contributo dei contesti allo sviluppo del confronto tra Cristiani e Musulmani. È del 1462 il primo “trattato di amicizia e di commercio” con l’Egitto musulmano, ed i rapporti tra i due stati saranno così buoni e forieri di profitto per entrambi da portare, nel 1501, ad un accordo per lo scavo di un canale tra il Mediterraneo e il Mar Rosso. Il progetto fallisce per insormontabili problemi tecnici, ma è significativa la disponibilità delle parti ad un tale impegno economico che si sarebbe comunque protratto per anni. Ma la disponibilità veneziana ad allearsi con i musulmani non era limitata ad accordi di tipo commerciale. Nel 1509 la battaglia di Diu, al largo del Mare Arabico in direzione della costa indiana, vede i Portoghesi scontrarsi con una flotta partecipata dal Sultano Turco, quello di Calcutta e la Repubblica di San Marco. Le tre potenze erano andate oltre le tensioni storiche che le contrapponevano per tentare di imporre la propria supremazia sui commerci marittimi verso l’Estremo Oriente. Vengono sconfitte e questo contribuisce al declino del commercio nel Mediterraneo Orientale a favore delle rotte atlantiche per l’India e le Americhe. Nonostante questa irrecuperabile perdita, nel resto del ‘500 le attività commerciali veneziane nel Vicino Oriente restano fiorenti fino a che l’espansione ottomana nei Balcani e le mire sulle isole e gli scali veneziani incrinano il fragile equilibrio raggiunto. I rapporti commerciali di Venezia si spostano così decisamente verso il Maghreb, e la Repubblica tratterà prevalentemente con Egitto, Tunisia e Marocco fino alla fine della propria storia, imitata dalla Toscana e dal Regno delle Due Sicilie. All’interno di questo quadro tutt’altro che monolitico, nel corso di vicende che hanno visto i Veneziani appoggiarsi sia economicamente che militarmente ad alleanze e compromessi con popolazioni islamiche, non deve sorprendere l’interesse culturale e religioso per quel mondo negli ambienti colti della Serenissima. Così nel 1537 i fratelli Paganino e Alessandro Paganini danno a alle stampe quella che è forse la prima edizione completa del testo arabo del Corano, di cui oggi sopravvive una copia conservata presso la biblioteca di San Francesco della Vigna. Nemmeno la guerra di Cipro (1570-1573) e la battaglia di Lepanto del 1571 saranno eventi tali da rompere definitivamente la lunga tradizione di confronto, dialogo ed accordi fra il Doge e il Sultano. Anzi, già nel 1575 a Venezia è aperto il fondaco ottomano presso Rialto, spostato nel 1621 sul Canal Grande in una sede capace di ospitare fino a 300 mercanti con le loro merci. In quel periodo è nota la presenza di macellai musulmani in città per garantire il rispetto della ritualità islamica, così come un apposito cimitero accanto a quelli giudaico e protestante. Per contro il Sultano permetteva ai Veneziani, e solo a loro, di spostarsi a cavallo nel suo Impero e di vestire come i turchi, risultando dunque impossibili da identificare immediatamente come stranieri e non musulmani. Veneziani ed Ottomani intervennero diverse volte, sia su convocazione che spontaneamente, a reciproco sostegno contro Austria e Spagna. Ciò non era apprezzato dalla Chiesa romana, a sua volta considerata con sospetto dai Veneziani in quanto concorrente nel controllo della costa emiliana. Va segnalata l’azione dei Cappuccini, che ordinariamente garantivano il servizio spirituale agli eserciti veneti, e che in più occasioni si adoperarono per convertire gli alleati ed i mercenari musulmani assoldati dalla Serenissima anche contro il parere dei comandanti militari. Bisogna poi ricordare che nel 1606 Venezia venne colpita dall’Interdetto e non mancarono figure, come il Servita Paolo Sarpi o i Dogi Leonardo Donà e Nicolò Contarini, che affermarono pubblicamente di “ritenere più leali, liberali e progrediti i Turchi che i Papisti, i Gesuiti e gli Spagnoli”. Non manca, nella Venezia del primo ‘600, una genuina ammirazione per la struttura politica e militare della Sublime Porta, e la Serenissima promuove pure lo studio della lingua e della religione islamica per meglio comprendere i suoi interlocutori; nella metà del secolo, del resto, i commerci veneziani con il mondo islamico conoscono una seconda e redditizia primavera, ed i rappresentanti della Repubblica in terra turca inviano frequenti e puntuali notazioni sul mondo islamico, considerandone limiti e pregi dal punto di vista socio-politico, militare, economico e religioso. Gli autori veneziani del tempo, anche non esperti in questioni teologiche, mostrano di saper distinguere le diverse forme di Islam praticate nell’Impero turco e negli altri regni musulmani, come pure di considerare diverse la religione musulmana e la superstizione che talvolta ad essa si accompagna; non sono poi rari i tentativi di mettere a confronto i diversi approcci alla figura di Gesù, o le somiglianze tra pratiche come il Ramadan e la Quaresima. In questo contesto si radica l’opera del Marracci, al quale dedicheremo il paragrafo conclusivo di questa parte. Il definitivo tramonto di ogni collaborazione turco-veneziana avvenne nel 1645, quando gli Ottomani pretesero la vendita di Creta e, al rifiuto veneziano, iniziarono l’invasione dell’isola per riuscire faticosamente a conquistarla nel 1669. In questo tempo di belligeranza i Cappuccini, espulsi dalla Repubblica assieme agli altri religiosi durante l’Interdetto, tornarono in forze per assistere gli eserciti e si fecero portatori della ben diversa prospettiva sull’Islam adottata dai Papi a partire dalla sacralizzazione di Lepanto. Il cambiamento a Venezia è evidente, e nella Repubblica di San Marco, ora in aperto conflitto con il mondo islamico, prendono a circolare storie e leggende sulla ferocia, la crudeltà e l’immoralità dei Turchi, tanto che alcuni capitani, mercanti e ambasciatori veneziani operativi lungo i confini, al rientro in laguna lasciano scritti pieni di stupore per i grossolani errori dei propri concittadini nel giudicare i musulmani. In particolare il bailo Giovanni Battista Donà prende a cuore la causa ed organizza una scuola di lingua araba. Così il vescovo di Padova Gregorio Barbarigo avvia dal 1680 l’insegnamento dell’arabo nel suo seminario, e le due istituzioni, civile ed ecclesiale, gareggiano nella produzione di opuscoli e trattati sul mondo arabo. Questa attività non si ferma nemmeno durante la guerra del 1684-1699, che vede la riconquista veneziana del Peloponneso. Anche a questi instancabili operatori culturali si deve l’ultima conversione veneziana, che nel ‘700 torna a subire il fascino della Sublime Porta. Non più di quella vera, però, ma delle Mille e una notte, dei Sette veli, dei caffè nelle calli ammobiliati alla turca e delle opere teatrali e liriche in cui l’Islam appare trasfigurato in una favola esotica: «I sogni degli europei non erano più popolati dal feroce Saladino, che faceva strage di cristiani, bensì da indolenti musulmani, felici poligami e padroni di esotici harem, oggetti di derisione e forse anche di sottaciuta invidia».

    Sintesi: Nell’insieme l’esperienza veneziana si pone come un caso particolare nel panorama italiano, in cui uomini e donne cristiani hanno dovuto e potuto confrontarsi con l’Islam a partire dalle necessità di conviverci, da un rapporto paritario segnato dall’uguaglianza tra contraenti tipica delle trattive commerciali, dalla distanza politica ed intellettuale rispetto agli ambienti della Curia romana, che a Venezia era spesso considerata un pericoloso rivale. Il forte carattere laico dello stato veneziano imprime al dialogo islamo-cristiano i caratteri della convenienza economica e politica. Non sorprende che questo abbia permesso anche di coltivare un approccio maggiormente scientifico alla conoscenza della religione musulmana, favorito dalle notizie di prima mano che i mercanti e gli ambasciatori potevano riportare, oltre che dalla possibilità per i veneziani di intraprendere viaggi e soggiornare senza pericolo in diversi luoghi del dar-al-Islam.

    – Roma

    Fin dal trionfo organizzato in città il 4 Dicembre 1571 per accogliere la vittoriosa armata pontificia di ritorno da Lepanto, il Papato investe molte energie nella celebrazione di questo evento come festa della fede. Il rapido processo di canonizzazione di Pio V, che aveva dedicato e quindi implicitamente attribuito la vittoria alla Vergine, sancisce la scelta che verrà scrupolosamente seguita dai successori. La conquista delle Americhe, la lotta all’eresia protestante e l’inizio del contrattacco contro i Turchi si saldano in un unico movimento di espansione e trionfo della Chiesa Cattolica, che fino all’800 inoltrato resterà convinta dell’ormai prossima ed inevitabile conversione di tutte le genti all’unica vera fede. Il modello che si va imponendo è quello della missione colorata di tinte apocalittiche, per cui la storia è prossima al suo compimento ed i Cristiani devono affrettarne la fine col dono della propria vita per la conversione degli infedeli. Dopo Lepanto ogni grande vittoria militare viene celebrata nell’Urbe con atti pubblici come segno della Provvidenza divina, sempre legata al culto mariano: non a caso si diffonde l’immagine dell’Immacolata con la Mezzaluna turca sotto i piedi, adattamento della più antica immagine devozionale. Non sfugga che così si associa il Turco al Serpente della Genesi, destinato ad avere il capo schiacciato dalla Donna secondo il diffuso fraintendimento di quell’immagine biblica, riferita in realtà a Cristo. Cresce assieme a questa anche la devozione a San Michele Arcangelo, e non mancano nuovi santi e beati che hanno ricevuto il martirio ad opera dei perfidi musulmani. Infine va menzionato l’onore reso nelle chiese agli stendardi ottomani catturati nelle diverse vittorie, esposti e spesso trasformati in oggetti liturgici come vesti e baldacchini, vere reliquie dei campi di battaglia, assicurazioni della divina benedizione e quindi della certezza che, ormai, l’Islam non è più una minaccia e la Chiesa può adempiere, libera e vittoriosa, alla sua vocazione di conquistare il mondo a Cristo. Bisognerà attendere il trauma della Rivoluzione Francese e il crollo del regime coloniale europeo perché questa opzione torni ad essere messa in questione. Lo slancio missionario ha per conseguenza, nel corso del ‘600, l’abbondante reflusso di scritti che i missionari compilavano durante il loro soggiorno e spedivano in patria, coordinati dalla neonata Congregazione De Propaganda Fide a partire dal 1622. Sono racconti in buona parte dal tono fortemente apologetico, in cui ad esempio il sopravvivere di una comunità cristiana in terra islamica non è mai considerato prova di tolleranza dei musulmani, ma segno della loro debolezza oppure di eccessivi compromessi da parte dei cristiani locali. Raccontano poi volentieri di prodigi avvenuti nei luoghi santi della Cristianità a danno degli infedeli che hanno osato avventurarvisi, e calcano la mano sui vizi e gli errori che vedono o credono di vedere. Nasce così una percezione del mondo islamico per molti versi opposta a quella perdurata fino al XV secolo: esso non è più la sede di una raffinata ed evoluta civiltà, ma una società in declino, che miete le conseguenze della sua infedeltà ed è ormai prossima a collassare. Il mito della superiorità dell’Europa e della sua vocazione di guida e maestra si affaccia all’orizzonte; religione cristiana e civilizzazione sono presentati come direttamente conseguenti ed assimilabili. Anche le inevitabili esperienze positive di accoglienza ed ascolto vengono collocate in questo orizzonte. I missionari onestamente si stupiscono delle virtù che osservano e che attribuiscono a doni di Dio che precedono l’errore teologico e morale degli infedeli, e sono pertanto ancor più scandalizzati per la seria devozione islamica al confronto con lo scarso impegno dei Cristiani. Ogni differenza culturale, in breve, è stigmatizzata come inferiorità intellettuale, se non come immoralità o persino empietà, utile in definitiva a confermare l’identità del missionario e il divino imperativo cui obbedisce nel dover persuadere l’infedele. Ancora una volta temi e vocabolario richiamano la polemica anti-protestante. Bisogna dare comunque conto anche di esperienze diverse, come le scuole dei francescani riformati a San Pietro in Montorio (1622) e dei Carmelitani scalzi a Santa Maria delle Grazie (1626), dove all’insegnamento della lingua araba si accompagnava un’introduzione alla polemica controversistica e apologetica con i musulmani. Pur condividendo la prospettiva dello scontro ereticale, in queste sedi si cerca anche una concreta comprensione della realtà islamica a partire dall’esperienza diretta di missionari richiamati come docenti. Né va dimenticata la presenza di una stabile comunità di maroniti arabofoni nell’Urbe, che diedero il proprio contributo sia a Propagande che al Sant’Uffizio nel giudicare questioni legate al mondo arabo e all’Islam.

    Sintesi: Nell’800 le scienze illuministe sottraggono ai religiosi il monopolio dell’Orientalismo e di fatto si perdono le tracce di una lettura teologica prettamente cattolica dell’Islam che solo in epoca recente torna ad occupare la Chiesa, con prospettive ben diverse. Il Papato rinascimentale, in conclusione, continua a trattare l’Islam come avversario politico prima che teologico, e sviluppa la propria attrezzatura polemica allo scopo di mostrare gli errori, le contraddizioni e i fallimenti della religione musulmana. Tutto questo si salda con l’imperativo di dare invece risalto al Papato e alla Chiesa di Roma, impegnata nel riscattarsi dagli scismi del Nord Europa e nell’affermare il primato cattolico nell’evangelizzazione del Nuovo Mondo e dell’Africa.

    – Milano

    Nella prima parte del ‘600 il Cardinale di Milano Federico Borromeo, che aveva dalla sua una elementare conoscenza dell’Arabo, si adoperò per dotare la Biblioteca Ambrosiana di un fondo in questa lingua. Oltre ad opere cristiane si procurò anche diverse copie del Corano e molti scritti islamici di scienza e filosofia. Di lui abbiamo anche un manoscritto, intitolato “Lux matutina”, nel quale immagina di dover spiegare le essenziali verità del Cristianesimo ad un musulmano persiano. Altro fattore peculiare del territorio ambrosiano, fra il XV e il XVIII secolo, sono le Confraternite dedite al riscatto degli schiavi cristiani prigionieri dei musulmani. Queste esistevano in tutto il mondo cattolico, ma nel Milanese vedono una fioritura tale da poter risultare paradigmatiche per la nostra sintesi. Gestite da ordini religiosi, queste istituzioni vivevano delle offerte raccolte per la causa e delle indulgenze che potevano offrire in cambio. Ogni qual volta un gruppo di cristiani veniva affrancato e portato in città si organizzavano fastose cerimonie e processioni, durante le quali era uso drammatizzare la condizione vissuta dagli schiavi nei paesi islamici ed accostarla alla Passione di Cristo. L’Islam era così presentato come l’Inferno in terra, che alla sofferenza fisica univa la tentazione dell’apostasia dietro laute ricompense. Difficile non considerare quantomeno assai colorite molte delle descrizioni pervenute fino a noi, e non avvertire in esse un fine propagandistico che si mescola al genuino slancio devozionale. Da notare che mai veniva data ai liberati la possibilità di raccontare con proprie parole l’esperienza vissuta; la regia delle celebrazioni era appannaggio di teologi che di solito non avevano mai messo piede in terra islamica. Altra fonte d’informazioni per le popolazione dell’Italia nord-occidentale sono i resoconti dei viaggi missionari dei Frati Minori francescani, che soprattutto nel XVIII secolo percorrono le regioni balcaniche e gli stati del Mediterraneo orientale in cerca di occasioni di predicazione e di martirio. Nelle loro testimonianze si rintracciano due opposte percezioni, da un lato quanti hanno trovato nelle autorità turche una difesa contro l’intransigenza ed il fondamentalismo religioso della popolazione musulmana locale, dall’altro invece chi ha assistito al martirio di confratelli e quindi racconta di crudeltà e barbare torture. Va riconosciuto come i frati, pur impegnati in una dichiarata propaganda sia della fede cristiana che delle virtù del proprio Ordine, abbiano saputo accostare con una certa onestà il mondo islamico in cui spesso trascorrevano più decenni della loro vita, riuscendo a comporre il rifiuto della fede musulmana con la genuina meraviglia per molte acquisizioni morali, scientifiche e sociali di quelle popolazioni, fino ad una seria autocritica come quella di frà Timoteo Canevese. Egli, dopo essere stato missionario, prigioniero, ospite ed amico dei musulmani, ammonisce: «La republica christiana non deve divenire scandalo per gli infedeli, appresso de quali non v’ha chi possa corromper la giustizia, che con essi non vale quell’assioma, chi ha denari ed amicitia non teme la giustizia!». Agli scritti dei missionari milanesi va riconosciuta un’attenzione all’obiettività senz’altro superiore rispetto ad altri testi dello stesso periodo.

    – Toscana

    Sin dall’XI secolo Pisa ha stabili relazioni commerciali con il mondo musulmano, specie con l’Emirato di Tunisia. Nel 1133 un trattato con l’Emiro del Marocco e nel 1264 con l’emiro di Tunisi aprono ai mercanti toscani i regni islamici del Mediterraneo occidentale. Negli ambienti accademici della città era noto l’Arabo e nel XII secolo furono tradotti diversi testi arabi in Latino. Leonardo Fibonacci, grande matematico del XIII secolo, apprende tale scienza nella colonia di Bugia (Algeria) e svolge molte delle sue ricerche alla corte di Federico II di Svevia. La pittura toscana dal ‘300 in poi rappresenta frequentemente tessuti e tappeti di fattura araba, ed usa le lettere della calligrafia islamica come elemento decorativo, specie nei quadri dedicati alla Vergine, di cui era già noto il comune renderle onore. Non mancano ipotesi sulla relazione tra la Commedia dantesca e il Miraj di Muhammad (soprattutto col racconto del “Libro della Scala”, tradotto dall’arabo in spagnolo e latino a Toledo da Bonaventura da Siena). Dante stesso, del resto, se mette Muhammad in bocca a Lucifero riconosce invece Averroè tra i grandi sapienti del Limbo. Anche la grande fucina culturale toscana, dunque, beneficiando di conoscenze di prima mano dai suoi mercanti, custodisce uno sguardo quantomeno plurale verso l’Islam, fatto di rifiuto e insieme di fascinazione.

    Il ‘700 italiano e il crollo del mondo islamico di fronte al colonialismo europeo

    La pace di Carlowitz del 1717, cui si è già accennato, costituisce il definitivo arresto della spinta espansionistica ottomana grazie all’alleanza tra l’Austria e Venezia. Secondo alcuni autori questo momento chiude una lunga fase della storia mediterranea e segna un radicale cambiamento nella posizione della Chiesa Cattolica rispetto alla realtà politica europea. Così sintetizza il Leoni: «Quel giorno si concludeva un’intera epoca: la minaccia ottomana, incombente sull’Europa per più di tre secoli, era finita per sempre. […] Il vincitore in questione era la Chiesa Cattolica che, fin dalla metà del XIV secolo, si era adoperata instancabilmente per tessere alleanze e finanziare eserciti che stornassero la minaccia musulmana sull’Europa. Un flusso incalcolabile di danaro era confluito nelle casse vaticane per distribuirsi fra gli Stati che avevano deciso di resistere contro quello che sembrava un destino ineluttabile. […] Scomparsa l’emergenza del Turco, anche il ruolo politico della Chiesa venne meno, iniziò il rapido declino degli ordini militari di Malta e Santo Stefano ed ebbe inizio la grande partita tra i sovrani assoluti nelle guerre di successione polacca e austriaca». Di certo la storia delle transazioni finanziarie che fecero della Santa Sede un potente sostenitore ed organizzatore della resistenza anti musulmana può offrire contributi interessanti alla nostra ricerca, ma allo stato attuale i contributi sembrano scarsi. Ad ogni modo, il fatto che dal ‘700 in avanti non vi siano più nazioni musulmane percepite come una minaccia per l’Europa e la Cristianità consente di innescare nella Chiesa Cattolica un cambiamento di prospettiva, che attraversando l’epoca coloniale vedrà maturare nuovi approcci all’Islam. La prima e forse maggiore novità è la ricerca minuziosa ed accurata dei fatti storici e delle posizioni teologiche del mondo islamico, che trova il suo esponente esemplare in Ludovico Marracci (1612-1700). Egli porta a termine la prima traduzione latina completa del Corano a Padova nel 1698, con testo originale integrale a fronte. Con lui nasce l’Islamologia in senso moderno, basata sullo studio delle fonti in lingua originale. Membro dei Chierici regolari della Madre di Dio di Lucca, il Marracci dedica allo studio dell’Islam e in particolare alla traduzione critica del Corano buona parte della sua vita accademica. Buon conoscitore della lingua araba, la insegna alla Sapienza di Roma e contribuisce alla traduzione della Bibbia. Nell’orizzonte accademico del tempo si inserisce perfettamente nella linea controversistica cui già abbiamo accennato. Egli si adopera per «Una traduzione del Corano integrale, che segua criteri scientifici, con spirito antiriformista, e i criteri pastorali-pedagogici della Chiesa Cattolica». Il suo lavoro sul Corano si divide in due parti: la prima viene pubblicata a Roma nel 1691 e tratta della vita di Muhammad e dei fondamenti teologici dell’Islam, tutti accompagnati da puntuale confutazione. La seconda parte, con la traduzione del testo coranico, non può essere pubblicata a causa della messa all’Indice di ogni testo che contenesse citazioni dirette del Corano. La scelta di pubblicare a Padova si deve alla protezione accordata dal Vescovo Barbarigo, di cui diremo più avanti. Nella sintesi di Rizzi: «Acquisizione fondamentale di quest’opera è dunque l’intento di una conoscenza obiettiva dell’Islam nella sua interezza, facendo riferimento alle fonti stesse; altra prospettiva interessante è quella della presa in considerazione sia pratica che teorica del problema dell’evangelizzazione dei musulmani. Inoltre è significativo il tentativo di elaborare un’istanza teologica nella lettura dell’Islam». Tutto questo senza tradire lo spirito apologetico del tempo, ma cercando una fondazione accademica alla confutazione dell’eresia islamica. Quanto ancora fosse forte l’antica tradizione teologica, già del Damasceno, di considerare l’Islam un’eresia giudeo-cristiana lo attesta sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che nel 1768 dedica due articoli della sua “Storia delle eresie” alla “setta di Maometto”. Il Dottore della Chiesa considera il Profeta dell’Islam il maggior eresiarca del VII secolo, in quanto avrebbe composto il suo Corano con l’aiuto di “un certo monaco chiamato Sergio” mescolando elementi della tradizione giudaica e cristiana ed inserendovi poi credenze arabe. Sant’Alfonso riprende la confutazione dell’Islam nelle “Verità della fede”. In particolare evidenzia come incompatibili con la vita cristiana gli eccessi carnali e il compiacimento dei sensi che invece il Corano mostra di stimare, in quanto descrive persino il paradiso in termini di diletto corporale. La poligamia è un altro elemento di scontro, ed infine le discrepanze sulla storia di Gesù e la sua identità. Curiosamente, invece, viene detto che Maometto avrebbe aderito al dogma trinitario. Sant’Alfonso mostra di conoscere la varietà delle scuole di diritto e teologia del mondo islamico, le diverse convinzioni sulla realtà creata o increata del Corano, le discrepanze nel riportare i testi coranici più controversi, ed usa questa conoscenza per presentarlo come diviso in se stesso. Rileva anche la frattura fra l’interpretazione allegorica proposta da Avicenna ed il letteralismo che aveva poi avuto il sopravvento nella grande maggioranza dell’Islam. Non manca di dare conto delle controversie sulla natura di Cristo, citando quei passi in cui egli viene talvolta descritto come uomo e profeta, talaltra come Spirito di Dio. Maometto resta un nemico della verità, un uomo astuto e dedito ai piaceri sensuali, il cui solo scopo è confezionare una religione che giustifichi la sua condotta contraria alla buona vita cristiana. Di tanto in tanto emergono apprezzamenti per istituti come l’elemosina rituale, la preghiera quotidiana e il digiuno prolungato, sui quali però l’Autore non si sofferma.

    Sintesi: La fine del ‘700 italiano vede così affermarsi un’apologetica dotta ed una ripresa iniziativa missionaria verso le popolazioni islamiche, considerate spesso moralmente inferiori ed inclini alla sensualità e alla brutalità. In questo senso lo sguardo ecclesiale è organico all’orizzonte culturale europeo delle imprese coloniali, cui presto parteciperà anche l’Italia post-unitaria.

    Fonti e Bibl. essenziale

    Vedi al termine del lemma corrispondente nel volume II


    LEMMARIO