Libertinismo – vol. I

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    Autore: Federico Barbierato

    Il complesso rapporto fra Chiesa e libertinismo si manifestò innanzitutto nella difficoltà da parte delle istituzioni nel dare una definizione del fenomeno. Quella di libertinismo fu sin dall’inizio e sempre più finì con l’assumere i connotati di una categoria sfaccettata e multiforme, chiamata in causa per indicare un vasto spettro di idee, comportamenti e sensibilità percepite come eterodosse e spesso restie a rientrare pienamente nelle consuete griglie del dissenso religioso. Se etimologicamente deriva da libertus, lo schiavo affrancato, il termine già nell’alto Medioevo comincia ad assumere una connotazione negativa che troverà una prima formulazione compiuta in Calvino, nel 1544, il quale utilizza il termine libertin in francese per designare colui la cui fede non è soggetta alla parola di Dio e che pertanto si abbandona senza remore ai piaceri. Nella trattatistica seicentesca il libertino è ormai stabilmente diventato il miscredente dissimulatore, il libero spirito che indulge senza remore e anzi con compiacimento alla sfrenata soddisfazione dei sensi. L’etichetta pertanto viene costituita dall’apologetica cristiana per identificare tanto l’amoralità dei comportamenti, quanto la giustificazione teorica di tale amoralità attraverso il pensiero. Un’idea che viene pienamente formalizzata nelle opere di padre François Garasse che arriva a fornire una sorta di paradigma tipologico del libertino, delle sue letture, inserendo in modo esplicito fra le caratteristiche di quest’ultimo anche l’ateismo. Non va quindi dimenticato che lo stesso termine fu originalmente elaborato e utilizzato in chiave accusatoria e solo nell’Ottocento proposto come categoria storiografica.

    L’etichetta di libertino comincia quindi nel Seicento a essere estesa a un numero e a una tipologia di dissensi molto vasti, definiti talvolta sulla base di comportamenti caratterizzati da una mancata adesione ai precetti morali religiosi. Da qui l’oscillazione continua di significati fra comportamenti e dottrine: al libertino viene progressivamente imputata una morale lassista soprattutto sul piano sessuale. La libertà nei comportamenti sessuali risulta già sufficiente a fare rientrare un individuo nella dimensione del libertinismo, stabilendo un implicito collegamento fra gli atti e la mancata adesione intellettuale alla dottrina cristiana. Tipica della concezione “libertina” è in effetti una posizione già consolidata ma ancora non pienamente sviluppata, vale a dire la convinzione che le religioni costituissero una sorta di “manto politico”, un’invenzione o una “impostura” utilizzata dai “potenti” per tenere asserviti il popolo attraverso lo spettro di una punizione o la speranza di un premio in un aldilà tutt’altro che certo. Se per alcuni libertini è l’occasione per negare qualsiasi forma di trascendenza, sostenendo tra l’altro la teoria della mortalità dell’anima, in altri si afferma una tendenza più latitudinaria, che tendeva o a sottolineare la natura simbolica delle pene dell’inferno, o a negarne la presenza, fino ad affermare che la confessione di appartenenza risultava del tutto indifferente ai fini della dannazione, in quanto un semplice vivere secondo morale era sufficiente a garantire la salvezza.

    Il libertinismo incrociava qui altri filoni di pensiero, variamente derivanti dall’aristotelismo eterodosso, dalla teoria della via larga alla salvezza, dalla leggenda dei tre anelli ben diffusa in ambito medievale, da una serie di altri spunti spesso accostati in modo spregiudicato e non organico tanto in opere quanto in discorsi. Dal punto di vista della censura ecclesiastica, pertanto, sotto l’etichetta di libertino potevano passare tanto i testi erotici e spregiudicati prodotti nell’ambito dell’Accademia degli Incogniti a Venezia, quanto Giovanni Boccaccio, Pietro Pomponazzi, Girolamo Cardano, Pietro Aretino, Marcello Palingenio Stellato, Bernardino Telesio, Francesco Patrizi, Giordano Bruno, Tommaso Campanella.

    Il rapporto con le istituzioni repressive e censorie dei “libertini” fu ovviamente conflittuale, sebbene i termini “libertino, libertinismo, libertinaggio” non compaiano frequentemente nel vocabolario inquisitoriale. Individui che la polemistica avrebbe definito libertini, in altri termini, vengono perseguiti e accusati variabilmente per la loro incredulità, la miscredenza, l’ateismo, la mancata osservanza dei dogmi, lo scarso rispetto nei confronti delle cerimonie, l’ostentazione di un dissenso non solo anticattolico, ma spesso più compiutamente antireligioso. Così, accanto a un libertinismo “erudito” – per utilizzare una classificazione a lungo utilizzata e per certi versi ancora diffusa – caratterizzato dalla rivendicazione di una libertà di pensiero ristretta a un numero limitato di dotti consapevoli della pericolosità sociale di una filosofia priva di restrizioni dogmatiche, si andò affiancando un materialismo popolare che col libertinismo dell’aristotelismo eterodosso finì con l’avere in comune temi e suggestioni: la convinzione della mortalità dell’anima, la dottrina dell’impostura politica delle religioni, l’assoluta mancanza di un’entità provvidenziale, la casualità dei destini umani e la sostanziale solitudine dell’uomo, la convenzionalità dei codici etici e, pertanto, la possibilità di amministrare come meglio si credeva il proprio corpo e il proprio pensiero. Le posizioni di un individuo come Domenico Scandella detto Menocchio, che avrebbe chiuso tragicamente la propria vita sul rogo alla fine del Cinquecento, potevano rientrare in questa griglia di interpretazione, e la loro derivazione – dotta o frutto di una cultura popolare stratificata – diventava secondaria per gli inquisitori che si trovavano di fronte a un nemico non più riconducibile alla condivisione di un corpo di idee eterodosse ben definibili, ma a una serie di modulazioni individuali dello scetticismo.

    Proprio in questi percorsi individuali stava la difficoltà di identificare un nemico e di fissare una tassonomia in grado di rendere agevole l’inserimento dell’individuo all’interno di una griglia. Il libertinismo fu certo un movimento apparentemente elitario: la posizione era ben espressa nella celebre posizione attribuita a Cesare Cremonini, filosofo aristotelico dell’Università di Padova, il quale avrebbe sostenuto che mai avrebbe potuto prendere al proprio servizio un servitore ateo, per la paura che questi potesse ucciderlo nel sonno. Rischio che non correva con un buon cristiano. La simmetria fra codici etici e appartenenza religiosa è qui ancora lontana dalla teorizzazione dell’ateo virtuoso che sarà propria di Pierre Bayle, in un’atmosfera diversa e già vicina all’Illuminismo. La libertà di pensiero appare ancora come un pericolo, una faccenda per pochi, pericolosa qualora oltrepassi i confini di chi sia in grado di maneggiare un meccanismo tanto pericoloso. Ma nel corso del Seicento aumenta esponenzialmente il numero di quanti si ritengono in grado di poter – con possibilità di comprensione molto diverse e livelli di elaborazioni differenziati – rientrare in quella immaginaria società di saggi e spiriti forti. Rispetto al secolo precedente, infatti, il Seicento poteva contare sulla matura diffusione di uno strumento concettuale che si rivelò lo sfondo su cui si andarono ad innestare le molteplici tradizioni eterodosse che caratterizzarono il dissenso religioso libertino dell’epoca: la teoria dell’impostura politica delle religioni: già nel II secolo Celso aveva affermato senza mezzi termini che Mosè e Cristo avevano raggirato «caprai e pecorai» ricorrendo a trucchi ed espedienti. Ripresa ed elaborata da Averroè e progressivamente entrata a far parte della tradizione orale, la formulazione a più riprese era stata adattata e sviluppata nel corso dell’età moderna da averroisti radicali come Pomponazzi, da filosofi politici come Machiavelli (soprattutto nella trattazione della religione dei romani nei Discorsi) e Bodin o ancora da pensatori eterodossi come Bruno e Campanella, finendo col costituire uno dei cardini della critica anticristiana e irreligiosa. Il già diffuso e secolare anticlericalismo, alimentato nel Cinquecento dalla spinta della Riforma e dei tanti gruppi eterodossi che si erano affacciati magari brevemente nei territori italiani, andò infatti maturando nel corso del Seicento verso una visione più organica e cominciò a essere utilizzato in vista di un attacco ampio e strutturato non più solo contro l’istituzione ecclesiastica, ma si estese spesso al cristianesimo nel suo complesso e, talvolta, alla religione in genere. Si iniziò a considerare sempre più apertamente il clero come un gruppo sociale che grazie ai fantasmi della punizione o del premio dopo la morte manteneva la società su binari strettamente controllati. Come detto, era ampiamente accettato che fosse una vigilanza necessaria per mantenere intatto il tessuto sociale, tuttavia portava a considerare la religione in primo luogo come strumento di dominio, un insieme di dogmi, norme e prescrizioni del tutto staccati da ogni ipotesi ultraterrena.

    La Chiesa agì contro il diffondersi di questa incontrollabile rete di pensieri sia cercando di utilizzare le armi della censura preventiva, proibendo tutti quei libri e scritti in genere che potessero in qualche misura mettere in circolazione elementi di critica o di scetticismo. Intervenne al tempo stesso contro la diffusione di opere stampate clandestinamente o circolanti in forma manoscritta: Venezia e l’Accademia degli Incogniti rappresentarono, da questo punto di vista, probabilmente il centro più prolifico di idee e scritti di carattere libertino e solo la tenace politica giurisdizionalistica veneta riuscì a proteggere personaggi come il già citato Cesare Cremonini, o Antonio Rocco, Giovan Francesco Loredan e molti altri autori di opere dissacratorie e almeno anticuriali. Lo stesso Ferrante Pallavicino godette a lungo della protezione dello stato veneto, fino a quando decise di abbandonarlo per incontrare la morte ad Avignone. Martire del “libertinismo” e del libero pensiero, Ferrante Pallavicino fu in morte ancor più che in vita un punto di riferimento per quanti intrapresero una lotta senza quartiere per screditare e a ridicolizzare l’Inquisizione, che finiva così sotto attacco per l’«impertinenza degl’Inquisitori, li quali non più lasciano che scrivere, o che leggere a letterati». In una delle molte Anime, opere uscite a partire dal 1643 forse per mano di Giovan Francesco Loredan e a Pallavicino attribuite post mortem, un Ferrante pensoso dichiarava che «per haver scritto con libertà ci hò lasciata la testa e che «gl’inquisitori al giorno d’hoggi fanno tre uffici, di spia, di bargello, e di carnefice». Ma in fondo la censura inquisitoriale era fatica sprecata: «alcuni libri si perderebbero nell’oblivione col nome degli stessi autori, se da gli Indici de l’inquisitione, non venissero resi immortali. Et io ho conosciuto degli Amici, che non facevano raccolta d’altri libri, che di quelli nominati sopra l’Indice».

    L’atteggiamento ostile nei confronti del libertinismo non cambiò sensibilmente nei secoli successivi. Accuse in questo senso furono mosse contro quietisti e deisti, e più in genere il misticismo fu considerato anche sinonimo di licenziosità morale e sessuale. Anche le logge massoniche furono percepite come occasioni di libertinaggio e di comportamenti sessuali sfrenati, di cui venne sottolineata la pericolosità anche per quanto riguardava la diffusione di idee come la mortalità dell’anima o la negazione della Trinità. Nel Settecento, e ancor più nel secolo successivo, il libertinismo si identificò sempre di più quindi, dal punto di vista ecclesiastico, con la sfera dei comportamenti oltre che con quella del pensiero. L’ateismo razionalista dell’Illuminismo venne interpretato come una forma di libertinismo, così come lo erano stati in passato le riproposizioni dell’atomismo lucreziano. Nella stessa Massoneria la Chiesa intravvide la possibilità della diffusione di idee di matrice irreligiosa e di fermenti legati a un generico libertinismo: le logge apparirono pertanto come dei centri in cui venivano coltivati tanto discorsi eterodossi quanto comportamenti licenziosi. Si trattava del resto di un’opinione diffusa anche fuori dalla struttura ecclesiastica: nel 1737, l’agente lucchese a Firenze Lorenzo Diodati scriveva che della loggia fiorentina non si sapeva poi molto, ma aveva sentito dire che la massoneria, «quando fu tentato d’introdurla a Turino, fosse scoperto che tenevano li seguenti tre perversi principi, cioè che l’usare carnalmente colle donne non fosse peccato; che non è necessaria la confessione, bastando la contrizione per rimettersi in grazia e che si può mangiar carne il venerdì e il sabato». Di lì a poco Tommaso Crudeli – nell’ambito della persecuzione di quella stessa loggia, la prima a subire tale destino in Italia – sarebbe stato condannato per aver letto Lucrezio, la Vita di Sisto V e quella di Paolo Sarpi, per aver inoltre ironizzato sul Sacro Cuore di Gesù e, infine, per «aver frequentato un’adunanza dove si parlava di filosofia e teologia e dove si osservano vari empi riti e s’insegnano molte eresie». Tutti riferimenti che richiamavano a quel mondo confuso che appariva essere quello della devianza libertina: d’altro canto la Bolla In eminenti emanata il 28 aprile 1738 da Clemente XII non proibiva la Massoneria per motivi di carattere dogmatico o ereticale, ma proprio per l’inquietudine di ciò che si sarebbe potuto celare dietro una struttura così opaca.

    Fra Sette e Ottocento, per altri versi, andò consolidandosi una sorta identità naturale fra teorie “libertine” e la loro traduzione sul piano dei comportamenti, in primo luogo quello sessuale. Casi come quello di De Sade non contribuirono del resto a tranquillizzare gli animi di una Chiesa sempre più preoccupata da un fenomeno che appariva sempre meno limitato alle élites, capace di fondersi con un anticlericalismo spesso appoggiato dagli Stati. Gli strumenti a disposizione della Chiesa erano oramai spuntati: venuti meno i tribunali inquisitoriali sul finire del Settecento, lo stesso Index librorum prohibitorum trovò crescenti difficoltà nell’essere applicato, soprattutto fuori dal territorio italiano. Ateismo, libertà di pensiero, anticlericalismo, irreligiosità, immoralità andarono pertanto a connotare una sempre più sfuggente idea di “libertino”, ormai stabilmente diventato una categoria accusatoria definita sulla base della sfida ai buoni costumi e alla morale. La storia del libertinismo di fatto era diventata la storia del laicismo, e il libertinismo una categoria storiografica.

    Fonti e Bibl. essenziale

    F. Barbierato, Politici e ateisti. Percorsi della miscredenza a Venezia fra Sei e Settecento, Edizioni Unicopli, Milano 2006; J.-P. Cavaillé, Libertino, libertinage, libertinismo: una categoria storiografica alle prese con le sue fonti, «Rivista storica italiana», 2 (2008), 604-655; M. Cavarzere, La prassi della censura nell’Italia del Seicento. Tra repressione e mediazione, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, 2011; N. Davidson, Unbelief and Atheism in Italy, 1500–1700, in Michael Hunter and David Wootton (eds), Atheism from the Reformation to the Enlightenment, Clarendon Press, Oxford, 1992; D. Foucault, Storia del libertinaggio e dei libertini, Salerno, Roma, 2009; C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino, 1974; M. Infelise, I libri proibiti da Gutenberg all’Encyclopédie, Laterza, Roma-Bari, 1999; A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino, 1996; D. Riposio, Il laberinto della verità. Aspetti del romanzo libertino del Seicento, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1995; Sergio Bertelli (a cura di), Il libertinismo in Europa, Ricciardi, Milano-Napoli, 1980; G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, La Nuova Italia, Firenze 1983; S. Zoli, L’Europa libertina, Nardini editore, Firenze, 1997.


    LEMMARIO