Monetazione papale tra XV e XVI secolo. La Zecca di Roma – vol. I

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    Autore: Tomassoni Roberto

    Dopo la morte di Paolo II il conclave elesse, il 9 agosto 1471, il cardinale Francesco Della Rovere che assunse il nome di Sisto IV (1471-1484). Secondo molti autori con questo papa la dignità principesca divenne addirittura preminente rispetto alla vocazione per la cura delle anime e per il bene della Chiesa. E la monetazione si rese da subito preziosa testimone di questo importante punto di svolta.

    Al momento dell’ascesa al soglio petrino di Francesco della Rovere la Zecca di Roma si trovava in una casa nei pressi del Ponte Sant’Angelo, sulla piazzetta che precedeva il ponte alla fine della via dei Banchi Vecchi. Incaricato di incidere le monete presso la zecca romana era il celebre artista originario di Foligno Emiliano Orfini. È a partire da questo momento in effetti che l’arte si espresse pienamente nel campo dell’incisione monetale. Proprio all’Orfini dobbiamo il primo ritratto di un papa mai apparso su di una moneta. Nel gennaio 1483, infatti, venne emessa una provvisione di Zecca che prevedeva la coniazione di multipli di grossi (per l’illustrazione delle monete, tra le quali figura anche il grosso, si veda infra); di questi multipli è noto un doppio grosso del peso di 6,85 g per il quale l’Orfini ricevette l’incarico di apporre l’immagine del pontefice e lo fece con mirabile perizia. Per averne conferma basti raffrontare il ritratto sulla moneta con quello conservato presso i Musei Vaticani ed eseguito dal pittore Melozzo da Forlì nel 1477. Il ritratto di Sisto IV comparve anche sul grosso.

    In questo torno di tempo, che potremmo per comodità fissare tra il 1475 e il 1476, la Zecca di Roma coniava monete d’oro, d’argento e in mistura (cioè con una lega contenente un’infima percentuale di argento essendo le monete costituite per lo più di rame).

    La moneta aurea veniva battuta principalmente in due nominali: il ducato papale e il fiorino di camera. Entrambi venivano coniati con un fino di 24 carati, mentre il peso differiva leggermente: 3,5 g per il ducato, 3,39 g per il fiorino (considerata per l’epoca l’impossibilità di giungere ad una precisione assoluta tutti i pesi delle monete inseriti nel presente articolo sono da considerarsi puramente teorici).

    Il circolante in argento era imperniato sul grosso papale del peso di 3,79 g con un fino di 927/1000 (durante il pontificato di Giulio II – Giuliano della Rovere, 1503-1513 – il grosso prenderà il nome di “giulio” in suo onore, mentre a partire da Paolo III – Alessandro Farnese, 1534-1549 – la moneta assumerà il nome di “paolo”). Venivano coniate, inoltre, altre due monete importanti: il bolognino papale del peso di 0,92 g con un fino di 812/1000, e il baiocco del peso di 0,57 g con il medesimo fino previsto per il bolognino.

    I valori più bassi erano rappresentati dalla moneta in mistura costituita dal quattrino e dal picciolo (o denaro). Nel 1475 per il primo se ne previde l’emissione al peso di 1,17 g con un risibile contenuto argenteo di 71/1000; mentre il picciolo venne coniato al peso di 0,58 g quasi completamente in rame (con appena 19/1000 di argento).

    Ogni moneta sin qui enunciata rientrava in un sistema di conto i cui rapporti di cambio, che potevano anche variare di frequente, venivano indicati periodicamente da bandi, detti gride. Nel periodo in questione avevamo i seguenti valori:

    1 DUCATO PAPALE = 77 BAIOCCHI
    1 FIORINO DI CAMERA = 75 BAIOCCHI
    1 GROSSO PAPALE = 30 QUATTRINI O 7 ½ BAIOCCHI
    1 BOLOGNINO PAPALE = 6 QUATTRINI
    1 BAIOCCO = 4 QUATTRINI
    1 QUATTRINO = 4 PICCIOLI

    I valori delle monete dipendevano principalmente dal loro contenuto di fino (cioè dalla quantità di oro o argento presente in ciascuna moneta). Le monete più stabili, ovvero quelle che mantenevano costante ed elevato il loro contenuto in metallo, e che per questo tendevano a rivalutarsi, erano le monete d’oro, mentre le monete in mistura erano soggette a continui svilimenti, ovvero alla perdita progressiva della loro quantità di argento e di conseguenza del loro valore. Questa perdita di valore andava a tutto danno dei meno abbienti che vedevano diminuire sistematicamente la loro capacità di acquisto.

    L’esaltazione della maestà regale del pontefice vide probabilmente la sua massima espressione durante i pontificati di Alessandro VI (Rodrigo Borgia, 1492-1503) e Giulio II (Giuliano della Rovere, 1503-1513). E ancora una volta la monetazione venne abilmente utilizzata quale specchio di tale magnificenza. Nuovamente comparve sulle monete il profilo del papa regnante; nell’anno del Giubileo 1500 venne coniato un grosso d’argento con al dritto lo stemma della famiglia Borgia sormontato dalle chiavi decussate e dalla tiara papale e al rovescio il ritratto di Alessandro VI (sulle monete papali di questo periodo lo stemma della famiglia del pontefice sormontato dalle chiavi e dalla tiara rappresenta un elemento iconografico pressoché costante).

    Con questi due papi l’immagine del pontefice viene rappresentata anche sulle monete d’oro, in particolare su alcuni multipli del ducato e del fiorino di camera.

     

     

    La moneta che qui si presenta mostra al dritto il profilo del papa volto a destra, mentre al rovescio compaiono i santi Pietro e Andrea alla pesca. Merita soltanto una breve annotazione il riferimento alla terra di origine di Giulio II (nativo di Albisola) espresso dalla parola LIGVR riportata sulla legenda del dritto.

    Da un punto di vista monetario un’importante innovazione si verificò con il pontificato di Clemente VII (Giulio de’ Medici, 1523-1534). Nel 1533 la Zecca di Bologna emise, a nome del papa, lo scudo d’oro di lontana derivazione francese (più o meno contemporaneamente emise lo scudo d’oro a nome del papa anche la Zecca di Ancona). Quattro anni più tardi, nel 1537, anche la Zecca di Roma avviò la coniazione di scudi d’oro. Questa moneta aveva preso a circolare sul territorio italiano sin dai primi anni del 1500 causando alcuni inconvenienti di notevole rilevanza. La prima Zecca ad emettere lo scudo era stata quella di Genova seguita ben presto da molte altre. Il successo di questa moneta venne determinato da ragioni principalmente monetarie e speculative; lo scudo, infatti, era coniato al peso di circa 3,38 g con un fino di 22 carati, mentre la principale moneta d’oro circolante in Italia, il fiorino (o ducato a Venezia), circolava al peso di 3,5 g con un contenuto di metallo prezioso pari a 24 carati (purezza assoluta). In questa particolare circostanza il mercato dimostrò di saper cogliere l’opportunità che si presentava e i due carati di differenza, associati al peso leggermente inferiore, provocarono un’interessante fenomeno. Il valore nominale dello scudo d’oro (ossia il suo potere di acquisto) rimase molto vicino a quello del fiorino non risentendo in maniera determinante delle difformità appena menzionate. Tale situazione innescò il meccanismo che prende il nome di Legge di Gresham: i fiorini iniziarono a sparire rapidamente dalla circolazione per essere tesaurizzati o rifusi per ricavarne scudi. Della gravità della situazione si rese portavoce il cronista fiorentino Benedetto Varchi (1503-1565) che sotto l’anno 1533 scrisse: «E perché quasi per tutte le zecche della Cristianità s’era cominciato a lasciar di battere i fiorini d’oro e a battere scudi, i quali son d’oro manco fine che non è il fiorino [24 carati contro 22, ndr]…; di qui nasceva, che i fiorini che si battono nella zecca di Firenze, erano subitamente portati fuora della città o disfatti dall’altre zecche vicine, e battutone scudi con grande utilità di chi gli faceva battere, ma con grandissimo danno della città, la quale in questa maniera si votava d’oro» (Varchi 1858, Vol. III, pp. 44-45). Il meccanismo coinvolse progressivamente tutte le principali Zecche dell’Italia centro settentrionale che non poterono far altro che avviare la coniazione di scudi. Roma, come abbiamo visto, vi si adeguò nel 1537. La produzione dello scudo si affiancò a quella del fiorino di camera la cui coniazione terminò durante il pontificato di Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585).

    I pontefici di questo periodo, a partire da Clemente VII, poterono avvalersi dell’opera di un artista d’eccezione: Benvenuto Cellini (1500-1571). Già intorno al 1530 il papa commissionò al celebre orafo una moneta che è lo stesso artista a descriverci nel dettaglio: «…mi commise il papa una moneta di valore di dua carlini, inella quale era il ritratto della testa di sua santità, e da rovescio un christo in sul mare, il quale porgeva la mana a San Piero, con lectere intorno che dicevano: quare dubitasti?» (Bacci, 1901, p. 99). In seguito Cellini ebbe modo di prestare i suoi servigi anche presso la corte di Paolo III per il quale disegnò la stampa di uno scudo d’oro. Ancora una volta possiamo leggere dall’autore la descrizione della sua opera. Dalle parole del Cellini è possibile comprendere quanto elevata fosse l’opinione che l’artista aveva del proprio talento: «Cominciai a fare le stampe degli scudi inelle quali io feci un mezo sanpagolo, con un motto di lectere che diceva: vas electionis. Questa moneta piacque molto più che quelle di quelli che havevan fatto a mia concorrenza. Di modo che il papa disse che altri non gli parlassi più di monete, perché voleva che io fussi quello che le facessi e no altri» (Bacci, 1901, pp. 143-144).

    Per concludere, non risulterà superfluo accennare brevemente al valore che veniva assegnato alle monete forestiere circolanti all’interno dello Stato Ecclesiastico. Da questo punto di vista un importante bando venne emesso durante il pontificato di Paolo III, l’11 maggio 1542. Nella provvisione si evidenziava che «essendo moltiplicata la trista moneta nell’alma città di Roma e per tutto il Stato Ecclesiastico, anzi tutta Italia, … la Santità di N. S. Paolo per la divina providenza papa III, considerando quanto importi all’interesse publico ed all’honore di S. Santità, che nel Stato suo corra buona moneta, ci ha commesso che dobbiamo remediare opportunamente a tal disordine, e dare la valuta conveniente alle monete forestiere et l’altre che corrano in Roma, et che dobbiamo far battere buone monete». In altre parole all’interno di Roma e più in generale dello Stato Ecclesiastico (ma la situazione non differiva di molto rispetto ad altri stati italiani come il Granducato di Toscana o la Repubblica di Venezia) circolavano monete il cui valore nominale (potere di acquisto) risultava spesso superiore rispetto al loro reale valore intrinseco (contenuto di metallo prezioso presente in ciascuna moneta). Per ovviare a questo stato di cose le autorità romane cercarono da un lato di definire, con maggior chiarezza, il valore da assegnare alle valute straniere e, contestualmente, ribadirono i criteri di coniazione delle monete interne. Non mancarono casi per i quali vennero assunte decisioni alquanto drastiche: «Le monete di Siena e di Lucca d’argento, & Bajocchi & Quatrini di Fano siano banditi, & non si possano spendere, sotto pena di cento scudi”. In ogni caso, prudenzialmente, si decise che qualunque “moneta battuta fuori di Roma di qual si voglia parte, non si possa spendere…se prima non è vista & aprobata per la Camera Apostolica sotto pena di falso, & di perdere la moneta».

    Fonti e Bibl. Essenziale

    R. Aubenas – R. Ricard, L’assolutismo violento e tracotante di Sisto IV, in La Chiesa e il Rinascimento (1449-1517), Torino 1963, pp. 102-124; O. Bacci, Vita di Benvenuto Cellini, Firenze 1901; G.R. Carli, Delle monete e dell’instituzione delle zecche d’Italia, Aja 1754; CNI = Corpus Nummorum Italicorum. Primo tentativo di un catalogo generale delle monete medioevali e moderne coniate in Italia o da Italiani in altri paesi, XV, Parte I (dal 496 al 1572), Roma 1934; G. Garampi, Saggi di osservazioni sul valore delle antiche monete pontificie, Roma 1766; E. Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Roma 1915; E. Martinori, Clemente VII, Annali della zecca di Roma, Roma 1917; E. Martinori, Sisto IV – Innocenzo VIII, Annali della zecca di Roma, Roma 1918; E. Martinori, Alessandro VI – Pio III – Giulio II, Annali della zecca di Roma, Roma 1918; F. Muntoni, Le monete dei papi e degli stati pontifici, Vol. 1, Roma 1996; M. Pellegrini, Il papato nel Rinascimento, Bologna 2010; A. Saccocci, Aspetti artistici della monetazione italiana del Rinascimento, in G. Gorini, R. Parise Labadessa, A. Saccocci, A testa o croce. Immagini d’arte nelle monete e nelle medaglie del Rinascimento. Catalogo della mostra, Padova 1991, pp. 11-65; C. Serafini, Le monete e le bolle plumbee pontificie del medagliere Vaticano, Vol. I, Milano 1910; B. Varchi, Storia fiorentina, Vol. III, Firenze 1858.

    Immagini

    Fig. 1 – Doppio grosso (g 7,05), Sisto IV (1471-1484), zecca di Roma. Ex asta NAC, Auction 90, Lotto 528. Scala 2:1
    Fig. 2 – Doppio fiorino di camera (g 6,67), Giulio II (1503-1513), zecca di Roma. Ex asta Artemide, Auction XLIX, Lotto 556. Scala 2:1

    LEMMARIO

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