Nunziatura – vol. II

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    Autore: Alberto Guasco

    Secondo il Codex Iuris Canonici del 1917, nunzio apostolico è colui che detiene l’incarico di rappresentare la Santa Sede presso i governi stranieri, curando le relazioni tra le due istituzioni e vigilando la locale vita diocesana, per riferirne direttamente al papa. In questo senso, per le specifiche condizioni dell’Italia, il ruolo dei nunzi e della nunziatura pontificia presso i governi del nostro paese si è fino a oggi configurato in maniera del tutto particolare, tanto durante gli anni del regime fascista quanto nell’arco della storia repubblicana.

    L’11 febbraio 1929, giorno della firma dei Patti del Laterano, la Santa Sede e il Regno d’Italia ristabilirono relazioni diplomatiche, interrotte il 20 settembre 1870 a seguito dell’ingresso delle truppe piemontesi a Roma. In questo senso, la norma giuridica concordataria – all’articolo 12 del Trattato – stabilì l’insediamento di un nunzio apostolico presso il re d’Italia: “Le Alte Parti contraenti si impegnano a stabilire tra loro normali rapporti diplomatici, mediante accreditamento di un Ambasciatore italiano presso la Santa Sede e di un Nunzio pontificio presso l’Italia, il quale sarà il Decano del Corpo Diplomatico, a termini del diritto consuetudinario riconosciuto dal Congresso di Vienna con atto del 9 giugno 1815”.

    Designato da papa Pio XI, primo nunzio in Italia fu monsignor Francesco Borgongini Duca (1884-1954), già segretario della congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari, che ricoprì la carica dal 1929 al 1953. Nel quadro dei rapporti con il regime fascista, gestiti direttamente dal papa e dalla segreteria di stato, ad Achille Ratti occorreva un ecclesiastico conosciuto dal regime – tale era Borgongini, coinvolto nelle trattative concordatarie per tutto il loro arco – e a esso non sgradito, ben inserito nella curia e nel mondo ecclesiastico romano, fedele interprete della linea pontificia e non, eventualmente, di una propria. In questo senso, non è un caso che accanto alle istruzioni relative ai privilegi e alle prerogative del nunzio in Italia, e a quelle di Propaganda Fide inerenti i tre vicariati africani, il materiale relativo alla nomina di Borgongini non conservi alcuna istruzione riguardante le linee di politica ecclesiastica che il nunzio avrebbe dovuto mantenere verso il regime fascista. Tali linee, peraltro, dopo tre anni di trattative a singhiozzo, doveva essere ben evidente a Borgongini, destinato a occuparsi di stampa anticlericale e pornografica, attività comuniste in danno alla gioventù, moralità degli spettacoli, rispetto del riposo festivo, situazione del clero congruato e protezione demografica della città di Roma.

    Il 2 luglio 1929 Borgongini si insediò nel palazzo di via Nomentana, entro un contesto cerimoniale che – descritto al cardinal Gasparri nel primo rapporto del 15 luglio 1929 – lasciava intravedere il rapporto ancora traumatico con il 1870 e il compiacimento dell’uomo di chiesa che nella sconfitta del liberalismo massonico rileggeva provvidenzialmente un intero tratto di storia: “Passando per Porta Pia manifestai la mia emozione al Cerimoniere di Corte … “Sessant’anni fa” io osservavo “entrando le truppe italiane per questa Porta, la massoneria intendeva di dare l’ultimo colpo alla Chiesa e al Pontificato; oggi, con il consenso universale del popolo italiano, l’umile rappresentante del Sommo Pontefice entra solennemente, e riprende il posto d’onore nella vita pubblica della Nazione. La Provvidenza ha disposto che noi passassimo per la stessa Porta. Altrettanto dissi a Sua Maestà il Re, e poi al Capo del Governo”. Tuttavia, allo stesso tempo, la nomina prese corpo nel crescendo di polemiche tra Santa Sede e governo italiano che seguì alla stipula del Concordato, in qualche modo già restituendo il peso specifico del nunzio e della nunziatura nel rapporto tra le due istituzioni: un ruolo marginale, ma al contempo un barometro dell’accordo o dell’attrito alternativamente intercorrente tra le due autorità.

    La lettura dei rapporti e degli appunti delle udienze con Mussolini stilate dallo stesso Borgongini nel corso degli anni non disegna il ritratto di un pedissequo esecutore delle indicazioni pontificie, ma certo quello d’un diplomatico tenuto ad attenersi strettamente alle linee formulate dal pontefice, costretto a operare – come annotato dal suo segretario, monsignor Giulio Barbetta – “in Roma, cioè presso i dicasteri diplomatici della S. Sede, in contatto con due personalità fortissime, quali Pio XI e Benito Mussolini, e in circostanze spesso drammatiche”. Per quanto scrupolosamente Borgongini svolgesse il ruolo di portavoce del papa, specie sui problemi specifici della post-conciliazione (l’abolizione della festa del XX settembre, la gestione della “vigilanza” contro i nemici della chiesa, protestanti, massoni e anticlericali), tuttavia finì sempre per essere accantonato nei momenti di più acuto urto con il regime, cioè durante la crisi di Azione Cattolica del 1931 e del 1938.

    Nelle sue linee di fondo, il peso specifico della nunziatura non aumentò durante con il pontificato di Pio XII, né durante il periodo bellico, né negli anni del dopoguerra e del centrismo degasperiano. In questo senso, anche se la normativa concordataria parlava chiaro fu sempre papa Pacelli – che dalla morte del cardinal Maglione tenne anche la segreteria di stato – il referente ultimo delle questioni di carattere politico e diplomatico concernenti i rapporti con il governo italiano. Di conseguenza, la nunziatura finì costantemente scavalcata dai rapporti diretti tra governi a guida democristiana e segreteria di stato, nonché dal canale rappresentato dall’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Ulteriore fattore di debolezza della nunziatura fu poi costituito dalle iniziative personali attraverso le quali cardinali e vescovi – in un contesto sempre più segnato dal contrasto tra i ritmi della modernizzazione e dell’incipiente boom economico – si approcciarono al potere politico, tentando di condizionarne le scelte nel senso dei propri obiettivi specifici. L’attività della nunziatura restò dunque concentrata in settori secondari della vita ecclesiastica (modifiche dei confini diocesani, adeguamento della congrua al clero, richiesta di commissari qualificati nei concorsi magistrali per esaminare i futuri maestri di religione) finendo sistematicamente esclusa nel caso di più delicati casi di frizione tra Santa Sede e stato italiano (come nel caso di monsignor Pietro Fiordelli) o di nomine episcopali di particolare importanza (come quella di Giovanni Battista Montini a Milano).

    Il quadro restò tale durante la nunziatura dell’eporediese Giuseppe Fietta (1883-1960), già nunzio in America Centrale e nell’Argentina di Peron, che nel 1953 sostituì Borgongini Duca. Fu una “quarta scelta”, se prima di lui – come scrisse l’ambasciatore Mameli il 24 dicembre 1952 – la Santa Sede aveva pensato a monsignor Filippo Bernardini, già nunzio a Berna, e a due altri prelati. Tuttavia, si trattava pur sempre, aggiungeva l’ambasciatore il 21 gennaio 1953, d’un “prelato di alte doti” e di “sentimenti altamente italiani”. Simile scelta fu ripetuta anche nel caso del successore di Fietta, monsignor Carlo Grano (1887-1976), operata da Giovanni XXIII nel 1958. Entrato in segreteria di stato nel 1923, non si trattava d’una personalità di elevata esperienza politica e diplomatica, quanto – come scrisse l’ambasciatore Migone il 1° dicembre 1958 – “noto per la sua pietà e il senso di assoluta devozione ai pontefici”. In questo senso, aggiungeva l’ambasciatore mostrando notevole consapevolezza, “la Santa Sede sembra preoccuparsi di designare quale Nunzio in Italia personalità politicamente incolori e quindi non portate ad agire per iniziativa propria”. Se ci fu invece un livello di novità nell’azione di papa Roncalli, fu il tentativo di normalizzazione delle relazioni con l’Italia, riconducendole entro i canali diplomatici prestabiliti, frenando il protagonismo delle diverse correnti democristiane e dei cardinali e dei vescovi italiani.

    A questa novità si aggiunsero poi quelle degli anni del Concilio, con il suo tentativo – e le relative difficoltà – di armonizzare la figura diplomatica del nunzio apostolico con il nuovo ruolo pastorale progressivamente delineato per i vescovi diocesani e per le conferenze episcopali. Già nel 1951, nel discorso tenuto in occasione dei 250 anni della Pontificia Accademia Ecclesiastica – semenzaio dei diplomatici vaticani – Montini aveva sottolineato l’indole sacerdotale del nunzio, sì impegnato a “difendere i diritti della Santa Sede”, ma anche a “a servire i bisogni dei popoli presso cui va”. Il 24 giugno 1969, in pieno post-concilio, il motu proprio di Paolo VI Sollicitudo Omnium Ecclesiarum riprendeva in esame il problema, per descrivere la nunziatura e il nunzio apostolico non solo quale rappresentante del pontefice presso le chiese del mondo, ma anche delle chiese del mondo presso il pontefice.

    Tale intendimento trovava quindi formalizzazione – mentre quali nunzi in Italia si succedevano, dal 1967 al 1969, l’emiliano Egano Righi-Lambertini (1906-2000) e, dal 1969 al 1986, il marchigiano Romolo Carboni (1911-1999) – nel nuovo codice di diritto canonico promulgato da papa Giovanni Paolo II nel 1983. Ne usciva confermato un ruolo più ecclesiastico che diplomatico dei nunzi, comunque più formati in missione, sul campo, che non all’Accademia. In questo contesto e in quest’ottica, durante il pontificato woytilano, si sono succeduti alla nunziatura: il piacentino Luigi Poggi (1917-2010), nunzio in Italia dal 1986 al 1992 dopo aver contribuito allo stabilimento del concordato tra Santa Sede e Tunisia (1964) e una lunga trafila d’incarichi diplomatici nei paesi dell’Africa centrale, in Perù, nunzio con incarico speciale per migliorare le relazioni con diversi paesi aderenti al patto di Varsavia (1973), in particolare con la Polonia; l’eporediese Carlo Furno, (1921-), nunzio in Italia dal 1992 al 1994 dopo l’analogo incarico ricoperto in Perù (1973), in Libano (1978) e in Brasile (1982); il barese Francesco Colasuonno (1925-2003), nunzio in Italia dal 1994 al 1998 dopo aver rivestito il ruolo di pro-nunzio in Yugoslavia (1985), di nunzio con poteri speciali in Polonia (1986) e rappresentante presso la Federazione Russa (1990); il torinese Andrea Cordero Lanza di Montezemolo (1925-), nunzio in Italia dal 1998 al 2001 dopo l’analogo incarico svolto in Honduras e Nicaragua (1980) durante la rivoluzione sandinista, in Uruguay (1986), e il lavoro quale delegato apostolico e pro-nunzio in Gerusalemme e per la Palestina (1990-1998); il catanese Paolo Romeo (1938-), nunzio in Italia dal 2001 al 2006, dopo le esperienze ad Haiti (1983), in Colombia (1990) e Canada (1999). Infine, per quel che riguarda gli anni di pontificato di Benedetto XVI, nunzi in Italia sono stati nominati il torinese monsignor Giuseppe Bertello (1942), che ha ricoperto l’incarico dal 2006 al settembre 2011, quando gli è subentrato nel ruolo Adriano Bernardini, nativo di Pian di Meleto (Pesaro-Urbino) già nunzio in Thailandia e ambasciatore vaticano in Argentina.

    Fonti e Bibl. essenziale

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    LEMMARIO