Patria, Nazione – vol. II

    image_pdfimage_print
    Autore: Guido Formigoni

    Come già nell’epoca risorgimentale, i cattolici italiani anche dopo l’unificazione del paese coltivarono un forte senso della nazione e una spiccata coscienza di italianità. Ne fu carattere largamente prevalente l’amplissima diffusione del mito dell’Italia come “nazione cattolica” per eccellenza. Tale visione “guelfa” della nazione, sedimentata già nelle vicende del primo ‘800, codificata in opera molto influenti come quella di Gioberti, attraversò il periodo del Risorgimento e poi fu continuativamente coltivata e sviluppata nel mondo cattolico. Naturalmente si trattava di una visione mitica e retorica che poteva avere applicazioni anche molto diverse e condurre a esiti del tutto pluralistici.

    La rottura consumatasi tra la Chiesa di Pio IX e il moto risorgimentale, definitivamente cristallizzata con le vicende del 1870 e la presa di Roma da parte dello Stato italiano, non spazzò via affatto questo mito diffusissimo. Il nascente cattolicesimo intransigente (v.) sviluppò un discorso di questo tipo, in cui contrapponeva la “vera nazione” cattolica al nuovo Stato, la cui legittimità non venne riconosciuta per molti anni. I cattolici papalini e intransigenti si sentivano quindi i “veri” italiani, contrapposti all’élite deviata che aveva condotto il moto politico unitario. Il simbolo di questa opposizione fu la lunga stagione del non expedit, cioè del rifiuto ufficiale di partecipare alle elezioni politiche, codificato nel 1874 e continuato formalmente fino al 1919, anche se ammorbidito all’inizio del secolo XX. L’armamentario concettuale della nazione serviva in modo precipuo a difendere l’idea dell’esistenza di una “Italia cattolica”, tradizionale e profonda, che costituisse propriamente il «paese reale», contro quella ristretta élite, fuorviata dalle ideologie moderne, atea e anticlericale, che aveva realizzato contro il papa e contro la Chiesa il fragile “paese legale”, lo Stato unitario. Lo stesso rifiuto da parte del movimento cattolico di definirsi come un «partito» era frutto di una rivendicazione nazionale orgogliosa: i cattolici non si percepivano come una «parte» nella nazione, bensì in via di principio coincidevano con essa, in quanto ne esprimevano l’essenza più vera. Naturalmente sostenere questa visione delle cose non era affatto incompatibile con un comportamento pratico che assumeva tutti gli aspetti battaglieri della moderna concezione del partito, esclusa la partecipazione elettorale. L’assenza sostanziale di resistenze cattolico-legittimiste, ad eccezione di qualche frangia meridionale, non rendeva meno duro il conflitto con le istituzioni, ma inseriva comunque in una nuova dimensione i cattolici e le chiese italiane. Proprio in questo orizzonte mentale, quindi, si svolsero capillari ancorché peculiari processi di nazionalizzazione delle masse popolari cattoliche. Fu possibile l’integrazione di strati popolari consistenti, che uscirono attraverso le iniziative dell’Opera dalle angustie della dimensione locale e regionale, dalla condanna della marginalità e della periferia, impegnandosi su cause e orizzonti definitivamente nazionali. La nascita di un movimento cattolico nazionale diede spunto e concretezza al rilancio di questa visione guelfa dell’Italia, quando ancora non esisteva nessuna esperienza nazionale sul terreno delle strutture ecclesiastiche: le chiese italiane per molti decenni ancora guardarono sostanzialmente al papato come elemento di integrazione.

    Ma la stessa visione dell’”Italia cattolica” ispirò altre logiche, e in particolare i tentativi di riconciliazione con il corso degli eventi messi in atto dai cattolici moderati e conservatori che si sentivano “cattolici con il papa e liberali con lo Statuto” (il motto fu usato sulla rivista conciliatorista «Rivista universale» fin dal 1873). Era lo sviluppo di una coscienza nazionale pacificata con la guida sabauda del processo di unificazione, già mostrata da una generazione di credenti nelle vicende risorgimentali. Molti credenti assunsero quindi senza difficoltà ruoli civili e anche istituzionali di rilievo nello Stato monarchico e liberale, giungendo a formare una quota significativa della sua classe dirigente, che sviluppò un patriottismo segnato da una forte anche se spesso implicita dimensione religiosa. Ancor più evidentemente e chiaramente, passato qualche decennio, il guelfismo ispirò le iniziative di quei giovani che alla fine del secolo e all’inizio del ‘900 si sentivano ormai «democratici e cristiani» (Meda, Murri, Sturzo). Per costoro, accompagnare le masse popolari all’emancipazione, nel quadro del nuovo contesto statuale che veniva sostanzialmente accettato, era un’applicazione innovativa del vecchio mito guelfo. Il patrimonio dell’intransigentismo diveniva fattore di battaglia politica e culturale per modificare la cornice dello Stato unitario, anziché strumento di una sua contestazione radicale.

    Anzi, in questa stagione, soprattutto dopo il 1904, si verificò una consistente diffusione di temi, sensibilità e opinioni nazionaliste nel cattolicesimo italiano. Ci furono episodi di vicinanza di giovani cattolici rispetto al nascente movimento nazionalista italiano, che predicava la grandezza nazionale e il riscatto della patria, in chiave spiritualista e antidemocratica. Una parte del movimento sostenne una politica estera coloniale, come il occasione della guerra di Libia. Per la verità, la gran parte del cattolicesimo ufficiale e anche i più influenti “cattolici deputati” dell’inizio del secolo criticarono il nazionalismo assoluto e imperialista. Il cattolicesimo italiano aveva elaborato alcuni potenti anticorpi nei confronti della terribile possibilità dell’assolutizzazione dell’idea nazionale, che spesso era storicamente giunta ad assumere i caratteri di vera e propria religione secolare. Del culto della patria, dei suoi eroi, dei suoi sacrifici e dei suoi martiri sono infatti piene le pagine della letteratura nazionale. La modalità più consueta di questo approccio prudente consisteva nell’utilizzare il continuo richiamo equilibrante a un’idea organica di convivenza internazionale, secondo forme «comunitarie» e giuridicamente organizzate, capaci di stemperare la contrapposizione potenziale tra le nazioni in un quadro garantito dall’unica verità universale. Giocava poi sempre la limitazione tipicamente religiosa, che impediva al mito nazionale l’assolutizzazione che l’avrebbe portato ad assumere tratti concorrenziali all’universo della fede.

    La prima guerra mondiale costituì però un grande crogiolo in cui anche la coscienza nazionale dei cattolici si fuse con le istanze del paese in guerra: anche se nel dibattito del 1914-’15 tra le file cattoliche fu prevalente il neutralismo, ben presto ci fu una forte dislocazione, che condusse molti ambienti e protagonisti del movimento cattolico ufficiale all’approvazione delle ragioni del conflitto. La decisione del governo di permettere ad alcuni preti di assumere la funzione di cappellani militari, dopo decenni di polemiche, aiutò questa saldatura. Le correnti interventiste di segno democratico dei giovani d.c., che avevano inizialmente sostenuto l’idea di una guerra contro l’autoritarismo austro-tedesco per affermare il principio di nazionalità, condivisero peraltro progressivamente le sorti dell’interventismo tutto, che fu alla fine egemonizzato dalle posizioni imperialiste ed espansioniste. Posizioni sostanzialmente fatte proprie dal governo e condizionanti tutta la diplomazia nazionale. Non fu un caso, comunque, che si creassero tensioni tra la prevalente corrente “nazionale” cattolica e le linee del magistero di Benedetto XV, che avevano indicato nella guerra una tragedia europea e una “inutile strage”. Il papa e le istanze di governo centrali stentarono a controllare l’enfasi nazionale che si sviluppò in molti ambienti del movimento cattolico.

    Dopo il conflitto, la coscienza nazionale cattolica si trovò comunque molto più a suo agio nel contesto statuale e civile italiano. Non a caso, il Partito popolare di Sturzo scelse una linea patriottica molto netta, attingendo all’iconografia dei comuni medievali (si pensi al simbolo dello scudo crociato), per sottolineare un’alleanza tra libertà, religione e nazione che diventava definitivamente chiave riformatrice dello Stato liberale, non più strumento di irriducibile alterità nei suoi confronti. Un patriottismo forte, anche se aperto alla collaborazione tra le patrie, ad esempio in un’ottica di rifiuto dell’imperialismo e di collaborazione con i giovani Stati mediterranei e balcanici. Non a caso, il culto dei caduti cattolici nella guerra fu al centro dell’esperienza aggregativa dei giovani cattolici. Non a caso, anche alla luce delle riflessioni magisteriali di Benedetto XV sulla pace e di Pio XI sulla nazione (favorevoli al patriottismo ma critiche del “nazionalismo esagerato”), si sviluppò tutta una ricerca giuridica e anche teologica che tentava di ricucire l’idea di una “comunità internazionale” cooperativa con la valorizzazione delle singole esperienze nazionali.

    Il ventennio fascista vide ancora all’opera intorno al mito dell’Italia cattolica una complessa vicenda di utilizzazioni e strumentalizzazioni reciproche. Lo Stato totalitario fascista tentava di far proprio – particolarmente dopo la Conciliazione del 1929 – lo strumento di una religione “nazionale” come sostegno del potere. La linea prevalente nel fascismo tentò infatti di “assimilare”, piuttosto che sostituire il cattolicesimo, ai fini di rafforzare la concezione totalitaria. Avendo concesso molto con il Concordato che riconosceva uno spazio di libertà alla Chiesa, Mussolini e i fascisti si aspettavano acquiescenza (cosa che ebbero, con le falangi dell’Ac chiamate disciplinatamente a votare i plebisciti), ma anche un cordiale sostegno alle mete nazionalistiche del regime. Pio XI e il movimento cattolico ufficiale, dal canto loro, lavoravano invece per rendere il “totalitarismo cattolico” l’anima di una riconquista sociale che era apparentemente allineata al regime nazionale, ma conservava un’anima e una forma mentale sostanzialmente alternativa all’ideologia fascista. La discussione attorno alla nazione e al rapporto con le altre nazioni fu una straordinaria cartina di tornasole di queste tensioni. Un vero e proprio “nazionalcattolicesimo” sembrò potersi definire, soprattutto nel periodo 1929-1936, attorno a eventi come la Conciliazione, la risposta alla grande crisi economica, la guerra di Spagna e la conquista dell’Etiopia. Si giunse quindi a manifestazioni anche simbolicamente pregnanti di sovrapposizione tra sentire religioso e religione della patria. Si pensi al conferimento delle fedi nuziali delle madri cattoliche, ma anche delle suppellettili religiose e degli anelli episcopali, nella raccolta dell’«oro per la patria» avviata con l’autarchia. Alla fine, però, tale mentalità non giunse a saldarsi come ideologia ufficiale del regime, per una serie di resistenze speculari, diffuse sia tra i fascisti che tra i cattolici. Anche in questo caso comunque, all’ombra di tale braccio di ferro “istituzionale”, si videro singoli, riviste e gruppi cattolici schierati su fronti diversi. Da coloro che più si illusero sulla possibile utilizzazione del fascismo per ricattolicizzare la nazione, fino addirittura ai nuclei antifascisti che si ispiravano al «guelfismo» di una nuova alleanza tra «Cristo re» e il popolo (si pensi al gruppetto milanese di cospiratori antifascisti scoperti e condannati nei primi anni Trenta, guidato da Malvestiti e Malavasi).

    La Resistenza fu vissuta da una ristretta ma non poco influente élite cattolica, nell’ottica di un grande riscatto nazionale nella libertà. Tale esperienza drammatica forgiò un’originale e stabile sintesi fra la propria identità religiosa e culturale e una nuova idea di patria, cementata dall’antifascismo e dalla lotta contro lo straniero e collegata decisamente a ipotesi di superamento democratico di tutti i nazionalismi. Visione condivisa da figure e personalità di formazione cattolico-moderata, che avevano trovato nuove sintesi tra patria e nazione proprio all’ombra della Conciliazione, e che dopo l’8 settembre seguirono con tranquilla coscienza la monarchia e la legittimità della continuità statale del Regno del Sud piuttosto che la nuova avventura mussoliniana di Salò. Non a caso si diffuse infatti allora ampiamente anche tra i cattolici la tematica del «secondo Risorgimento»: l’idea rappresentava in parte la nuova e più tranquilla acquisizione dell’eredità patriottica del passato, ma innestava su quel riferimento un’esigenza di compimento (o in qualche caso addirittura di superamento e sostanziale sostituzione), i cui motivi erano scoperti proprio nella nuova dimensione popolare del moto resistenziale e – soprattutto – nella partecipazione cattolica al comune riscatto nazionale.

    Nel dopoguerra, il sottile equilibrio del senso nazionale dei cattolici mutò ancora. L’emergere della mediazione democristiana fu vincente in molte direzioni: sia perché dimostrò la capacità di ricostruire un sobrio ma convinto senso nazionale dopo la sconfitta dell’ultra-nazionalismo fascista e il fallimento del totalitarismo, sia nel senso democratico di riuscire a creare una piattaforma avanzata di tipo costituzionale e civile, scongiurando pericolose fratture rivoluzionarie. Ma anche nel senso di essere in grado di ricucire un paese piuttosto frammentato, pieno di campanilismi e di rivalità, in cui le drammatiche vicende belliche avevano accentuato le divergenze. Tale posizione permise al mondo cattolico di scoprire un inatteso ruolo centrale nelle vicende del paese, definitivamente realizzatosi con la straordinaria affermazione elettorale della Dc nel 1948. Naturalmente, per la classe dirigente democristiana, continuare a utilizzare il mito guelfo poteva servire in diverse direzioni. Permetteva di rivolgersi ai vincitori della guerra, rivendicando un’Italia diversa, come fece De Gasperi nella drammatica congiuntura del trattato di pace. L’Italia doveva rinunciare definitivamente a ogni velleità di occupare un ruolo di «grande potenza» e a declinare aggressivamente il suo senso nazionale. Ma tutto il percorso di inserimento nelle istituzioni del “mondo libero” occidentale della guerra fredda, oppure nella nascente integrazione europea, fu gestito dai democristiani senza sconfessare l’idea nazionale, anzi, con una decisa volontà di salvaguardarla. Lo stesso mito guelfo legittimava anche la ricerca di un terreno interno unificante, ispirato dai valori cristiani ma potenzialmente presentabile come comune a tutte le componenti democratiche del paese (come avvenne nella congiuntura costituente, attorno alla cultura del personalismo). In questo senso, De Gasperi nel 1947 poteva presentare la Dc come “partito nazionale”, che interpretava l’anima profonda del paese e quindi era capace di costruire efficaci mediazioni tra le sue diverse componenti, sociali e territoriali.

    Per altri ambienti, all’ombra del pontificato di Pio XII, lo stesso richiamo aveva invece un senso più rigido e chiuso: padre Lombardi nella sua focosa predicazione sosteneva che era arrivato il momento di una grande palingenesi in cui fosse chiaro che chi non era cattolico non era nemmeno un “vero italiano”. Un pericoloso “esclusivismo cattolico” venne a pesare sulle sorti stesse della democrazia, con pressioni confessionalizzanti, che vennero a stento mitigate da De Gasperi. In un paese cattolico non si poteva ad esempio tollerare la libertà per l’errore, per la stampa anticlericale o per i pericolosi avversati ideologici della fede. Per contrapporsi al comunismo o alla deriva verso sinistra del paese, in questa visione occorreva fondere le forze cattoliche con tutte le destre, in una visione di “fronte cattolico nazionale”.

    La successiva rapida e sostanzialmente poco guidata modernizzazione del paese, condusse a sbiadire l’idea stessa di nazione, anche per la presa del mondo bipolare della guerra fredda, in cui il tema cruciale divenne la difesa della “civiltà occidentale” contro il comunismo e non quella di una particolare coscienza nazionale. Intanto, nel paese, con la crescita economica e la modernizzazione venne ad affermarsi una forte secolarizzazione di massa dei costumi, e quindi vennero a crescere prepotentemente le pulsioni individualistiche: queste dinamiche – inattese quanto pesanti – condussero a mutare ancora una volta il quadro, rispetto alle antiche certezze. La battaglia attorno alla legge che introduceva il divorzio in Italia, nei primi anni Settanta, fu un discrimine decisivo. La Dc veniva isolata politicamente dai partiti cosiddetti «laici». Falliva traumaticamente nel referendum del 1974 l’appello, voluto da una forte maggioranza della Chiesa, al popolo concreto dell’”Italia cattolica”, contro il nuovo presunto tradimento delle élite laiciste. Dal canto suo, Aldo Moro propose in quel frangente una riflessione diversa, sulla necessità di affidare la difesa dei valori cattolici non più allo schermo legislativo, ma alla coscienza diffusa nel paese. La Chiesa che viveva in Italia ebbe occasione di affrontare queste novità con una iniziale struttura di rappresentanza: la Conferenza episcopale italiana aveva preso forma timidamente negli anni ’50, ma fu nel postconcilio che assunse un ruolo sempre più importante. Occorreva adattarsi alla nuova consapevolezza di essere minoranza nel paese: si parlava anzi, nell’ambito della cosiddetta “scelta religiosa” di quegli anni di una Italia divenuta «paese da evangelizzare» (e la stagione dei piani pastorali Cei su “Evangelizzazione e sacramenti” sviluppava proprio questa intuizione). Anche le nuove correnti «neointransigenti» sviluppatesi proprio in quel periodo (si pensi al movimento di Comunione e liberazione), non si ispiravano più a un mito dell’Italia cattolica passata da ricostruire, ma preferivano organizzare una presenza a modo di lobby o di «contromondo sociale», concependo il pluralismo come un accostamento di mondi istituzionali e ideologie distinte, più che non come una convivenza ispirata al dialogo e al mutuo riconoscimento. Insomma, in modi certamente differenti, il nuovo problema sembrava come essere “cattolici in Italia”, non come rifare una mitica “Italia cattolica”.

    Solo dopo la crisi del sistema politico repubblicano degli anni Novanta e la scomparsa definitiva della Dc, si ebbe una nuova evoluzione. La nascita di una inedita minaccia all’unità nazionale e statuale con lo sviluppo di particolarismi e localismi (si pensi al lancio da parte della Lega Nord della parola d’ordine della “secessione” del Nord operoso e ricco), si collegava alla complessa dinamica della globalizzazione e dei suoi risvolti insicuri. Questo contesto favorì un’inattesa ripresa delle radici del mito guelfo nel mondo cattolico. Per i vescovi, rivendicare la tradizione cattolica nazionale è servito negli ultimi anni primariamente a giustificare una difesa aperta e non scontata dell’unità nazionale, intesa come un bene per il paese. Giovanni Paolo II, dal canto suo, ha rilanciato accenti guelfi nella sua «grande preghiera per l’Italia» del 1994. Il riferimento alla tradizione cattolica italiana – pur magari interpretata soprattutto come retaggio culturale secondo i canoni della «legge naturale», piuttosto che come dato confessionale esclusivo – è stato sfruttato, soprattutto nell’epoca della presidenza Ruini della Cei, per un rilancio del ruolo della Chiesa istituzionale e dei suoi vertici. La gerarchia guidava un’immagine di Chiesa come minoranza organizzata, mediaticamente e socialmente visibile e quindi portatrice di una possibilità di influsso diretto nella storia civile e anche politica. Del resto, l’Italia appariva in quest’ottica un paese bisognoso almeno di una “unificazione antropologica”, se non di un impossibile uniformità confessionale. Su questo terreno, la gerarchia ecclesiastica offriva la propria capacità di guida e convinzione.

    Dopo il 2000, abbiamo assistito anche ad un ulteriore fenomeno: il recupero del concetto di tradizione cattolica nazionale italiana al di fuori degli ambienti religiosi, da parte di intellettuali e politici di estrazione magari laicista (i cosiddetti teo-con) o della stessa Lega Nord (che ha abbandonato disinvoltamente i miti e i riti pagani del decennio passato). Naturalmente, in queste elaborazioni non si vuol riferirsi tanto al cristianesimo come fede, ma a un lascito culturale tradizionale abbastanza indistinto, quanto simbolicamente pregnante e immediatamente identificabile (il crocifisso, il presepe). Un lascito utilizzabile quindi come strumento identitario da far valere in una battaglia mediatica attorno al bisogno di rassicurazione delle popolazioni moderne – ma culturalmente e civilmente spiantate – dell’Italia di inizio millennio. Tale discorso appare portatore di una specifica istanza conflittuale nel quadro del crescente pluralismo religioso e culturale del paese. Rispetto a queste dinamiche, il mondo cattolico ha dovuto ricollocarsi, in modo non sempre facile e scontato.

    In sede di valutazione sintetica, dopo questo profilo suoneranno certamente fuori luogo le generalizzazioni astratte, che mettano sul banco degli imputati un presunto sovrannazionalismo (o anti-nazionalismo) cattolico «di principio», individuato spesso come il fattore (o uno dei maggiori fattori) che avrebbe impedito il dispiegamento in Italia di una coesa identità nazionale.

    Fonti e Bibl. essenziale

    G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento ad oggi, Bologna 20102; M. Impagliazzo (a cura di), La nazione cattolica. Chiesa e società dal 1958 a oggi, Milano 2004; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, Bologna 2007.


    LEMMARIO