Persecuzioni – vol. I

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    Autore: Paolo Siniscalco

    In senso lato con il termine ‘persecuzione’ si intende ogni attività vessatoria, violenta, repressiva esercitata da chi detiene il potere per stroncare un movimento politico, religioso etnico, di opinione contraria a quello dominante. Essa assume varie modalità: dalla condanna a morte, alla pena detentiva alla condanna dell’esilio fino alle molestie o alle minacce continuate. In questa sede la parola richiama le traversie subite dai cristiani nei primi tre secoli della nostra per opera del potere romano e da quelle subite da ebrei, pagani ed eretici a cominciare dal IV secolo per opera delle autorità romane ormai divenute cristiane.

    La prima persecuzione contro i discepoli di Gesù ha luogo a Gerusalemme. L’episodio è narrato nel cap. 5 (1-22) degli Atti degli apostoli. Il discorso compiuto di Pietro nel Tempio che insegna al popolo e annuncia in Gesù la resurrezione dei morti irrita i sacerdoti, il prefetto e i sadducei, i quali gli mettono le mani addosso e lo pongono in prigione, intimando a lui e a Giovanni di non più insegnare nel nome di Gesù. Successivamente (cf. Atti 5, 17-41), sorte analoga è riservata agli Apostoli condotti dinanzi al Sinedrio e al Sommo Sacerdote dove si proibisce loro di nuovo di parlare nel nome di Gesù e dove sono percossi e infine lasciati liberi. Un terzo racconto di persecuzione riguarda Stefano, uno dei Sette diaconi, che accusato di parlare contro il Tempio e contro la Legge e non più solamente minacciato, ma messo a morte mediante la lapidazione (cf. Atti 6,8-8,1).

    Un quarto episodio, che ha ancora per cornice la comunità di Gerusalemme, riguarda Giacomo, fratello di Giovanni che è giustiziato nel 42 d.C. per ordine di Erode Agrippa (cf. Atti 12, 1-23). Due decenni dopo, nel 62, anche Giacomo il Minore, responsabile della comunità di Gerusalemme, è ucciso (cf. Eusebio di Cesarea, Hist.eccles. II, 23, 1-25). Sono queste le prime persecuzioni che subiscono i discepoli di Cristo per la testimonianza che recano alla messianicità di Gesù. Ma ben presto lo scenario muta. Già prima della presa di Gerusalemme da parte dei romani e della dispersione di molti dei suoi abitanti (i quali vi erano certamente dei giudei-cristiani), si sa che luglio del 64 scoppia a Roma un incendio di ingenti proporzioni che reca alla città grandissimi danni. Un’autorevole fonte di parte pagana, lo storico Tacito, all’inizio della seconda decade del II secolo, in un passo ben noto dei suoi Annali 15, 44, 2-5), ci informa che l’imperatore Nerone, per soffocare le voci che lo accusavano di essere stato l’autore del disastro, colpisce con castighi crudeli i cristiani, che divengono un capro espiatorio in grado di dirottare l’ira e lo sconcerto dei cittadini. L’imperatore lo può fare perché i fedeli di colui che sotto Tiberio era stato messo a morte per ordine del procuratore Ponzio Pilato erano comunemente ritenuti odiosi per le nefandezze che erano loro attribuite. A loro carico dovevano infatti circolare accuse di incesto, omicidio e di cene tiestee, che gli scrittori cristiani del II secolo si adoperano a smentire decisamente. Il quadro tacitiano suggerisce che si trattò di una repressione occasionale, non provocata in primo luogo da motivi religiosi. Sta di fatto che in quegli anni la comunità cristiana di Roma veniva messa a dura prova: tra le vittime si annoverarono due “colonne” della Chiesa, quali Pietro e Paolo.

    Non deve sorprendere che le persecuzioni abbiano luogo nei grandi centri ove di concentrano i poteri politici, civili e religiosi che, più che altrove, esigono siano rispettate le regole dettate dalla res publica e dunque anche l’osservanza del culto della dea Roma e dell’imperatore. In tal senso la capitale dell’Impero è il punto di massima importanza, si intende, non il solo, data l’estensione dell’immenso organismo romano disseminato di grandi città. Anche i riti celebrati in occasione di anniversari imperiali o di altre feste analoghe sono occasioni che favoriscono le repressioni.

    Alla fine del I secolo sotto Domiziano (81-96) ha luogo, a quanto sembra, una nuova persecuzione (anche se taluni storici discutono circa la sua stessa esistenza). Tuttavia alcuni indizi sembrano confermarla: nella lettera di Clemente di Roma (cf. 1, 1) della fine del I secolo, si parla di improvvise calamità e avversità sopravvenute una dopo l’altra: i personaggi perseguitati dovevano fare parte della opposizione politica senatoria, e in pari tempo essere simpatizzanti, se non adepti della comunità cristiana. È certo che Domiziano in contrasto con il tradizionalismo senatorio di marca stoica d’improvviso, in base a tenui sospetti, mette a morte Flavio Clemente, suo cugino, avente allora la funzione di console, e ordina che sua nipote, Flavia Domitilla – il cui nome è legato alle catacombe della Via Ardeatina – sia deportata nell’isola di Ponza, per il fatto di essersi dichiarata cristiana (cf. Girolamo, Chron., ad Olymp. 218).

    Nei primi anni del II secolo Ignazio, vescovo di Antiochia, era condotto a Roma per essere gettato in pasto alle fiere. Poco più tardi è l’imperatore Adriano (117-138) a interessarsi dei cristiani in seguito a denunce anonime avanzate contro di loro. Intorno al 165, a Roma, è condannato a morte Giustino, filosofo e apologeta, nato Nablus in Palestina e venuto nella capitale per insegnare. Negli stessi anni muore martire il vescovo di Smirne, Policarpo. Poco dopo, nel 177, avviene un grave episodio persecutorio a Lione e a Vienne, nella Gallia: nei giorni delle grandi feste in onore di Roma e dell’imperatore, un folto gruppo di cristiani è denunciato al governatore e fatto morire dinanzi alla folla nell’anfiteatro lionese. E si potrebbero menzionare altri episodi analoghi, testimoniati dagli Atti dei martiri, molti di quali hanno un serio fondamento storico.

    Una fonte antica, precisamente un passo della Historia Augusta (Spaziano, Septimius Severus (17,1) dà notizia di un provvedimento legislativo che avrebbe preso l’imperatore Settimio Severo (193-211) contro i cristiani proibendo, loro ogni proselitismo. Anche Eusebio di Cesarea nella Historia ecclesiastica (VI, 1) sostiene l’intento anticristiano dell’imperatore. Occorre tuttavia osservare che intorno a queste notizie si è aperto una discussione serrata, per cui appare sempre più problematica accettare la storicità dell’editto Severiano. Senza potere entrare in questa sede nel merito della questione, non è possibile negare che episodi persecutori si siano verificati in vari centri dell’impero durante il suo regno, in particolare in coincidenza i decennalia e i vota et gaudia Caesarum celebrati nel 202: fonti attendibili lo attestano con sicurezza.

    Con la metà del III secolo la situazione si aggrava. L’imperatore Decio (249-251) promulga un edito generale – il primo di cui si abbia notizia certa – di persecuzione da applicare in tutto l’Impero. Esso obbliga tutti cristiani a prestare il culto tradizionale e detta norme severe per coloro che non lo vogliano praticare e aggiunge che, in questo ultimo caso, i vescovi, i presbiteri, i diaconi siano giustiziati sul posto e i senatori e i cavalieri romani privati della loro dignità, dei loro beni e mandati in esilio (Cipriano, vescovo ci ragguaglia (cf.Epist. 80, 2 e passim) sulla situazione di Cartagine. Di fronte all’imposizione di sacrificare e quindi di ottenere il certificato che li avrebbe liberati i cittadini da ogni obbligo religioso, alcuni cristiani si presentano spontaneamente al magistrato; altri ottengono il certificato, pagando un compenso, altri ancora, pur non abiurando, si comportano con tracotanza, suscitando liti o gesti di insubordinazione verso il clero. Non pochi invece sono i “confessori” che non rinnegano la propria fede. Il vescovo stesso, dopo essersi allontanato volontariamente dalla propria sede, vi fa ritorno per essere martirizzato. Qui importa, in particolare porre in luce quanto le persecuzioni avvenute intorno alla metà del III secolo colpiscano anche la Chiesa di Roma nelle sua massime autorità.

    Papa Fabiano (236-250) è una delle prime vittime dell’Editto deciano (cf. Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica VI, 39,1). Anche Valeriano (253-260) nell’ultimo periodo del suo regno, si accanisce contro i cristiani. Con il secondo editto che ordina la esecuzione immediata di vescovi, presbiteri e diaconi e prescrive gravi provvedimenti per senatori, cavalieri, ufficiali e matrone, Sisto II, vescovo (257-258) di Roma, è messo a morte (257-258), insieme a 4 diaconi (cf. Cipriano, Epist. 80, 1, 4). Ma successivamente sotto Gallieno (260-268), la Chiesa gode di anni di pace. Un editto di tolleranza restituisce alle comunità i luoghi di culto e ordina di fare cessare ogni azione penale a carico dei suoi fedeli. Anni di pace che durano per circa 40 anni, fino all’inizio della grande persecuzione di Diocleziano (284-305). Di fronte alla grave crisi dell’Impero che si fa più forte nelle ultime decadi del III secolo, l’imperatore propone e in parte attua una serie di riforme nel campo istituzionale (ne è un esempio l’ordinamento tetrarchico), monetario, religioso. In questo ultimo campo egli irrigidisce la politica contro i culti stranieri con l’intento di promuovere i culti pagani tradizionali e quindi di dare rafforzare i vincoli dei cittadini verso l’Impero. Nel 297 rende pubblico un editto contro i manichei. Nel febbraio del 303 emana un altro editto in cui si ordina di radere al suolo le chiese e di bruciare le Scritture cristiane; ad esso seguono altri provvedimenti che impongono di imprigionare i capi delle chiese, di costringerli a sacrificare con ogni mezzo, promettendo la libertà a quanti avessero abiurato e il supplizio a quanti non lo avessero fatto. Nel 304, stando a ciò che scrive Eusebio di Cesarea (cf. Mart.Pales. 3,1), sono date disposizioni perché tutti sacrifichino e di facciano libagioni agli idoli. Queste misure provocano episodi sanguinari, morti violente, specialmente nella parte orientale dell’Impero. Ma anche l’Occidente (che pure trova in Costanzo Cloro e, a Roma, in Massenzio, maggiore tolleranza) ha le sue vittime. E, ancora una volta il cuore della Chiesa di Roma, nella figura del suo vescovo, ne soffre. Sempre Eusebio (cf. Historia ecclesiastica 7, 32, 1) scrive che Marcellino (296-304) è una delle vittime della persecuzione. Ma proprio Galerio, che era stato tra i più decisi persecutori dei cristiani, il 30 aprile del 311 rende pubblico a Serdica, l’attuale Sofia, un editto di tolleranza secondo il quale i cristiani erano autorizzati a celebrare pubblicamente il culto e a ricostruire i luoghi di riunione, a condizione che non turbassero l’ordine stabilito. Si sa che Galerio emise quel provvedimento mentre soffriva di una grave malattia che lo avrebbe condotto ben presto alla morte Difficile dire che cosa abbia provocato un mutamento tanto deciso della sua politica religiosa. Non di meno appare chiaro il fallimento dell’opposizione fatta dalle massime autorità romane al cristianesimo. Ma un elemento va sottolineato: l’editto l’imperatore riconosce come ciascun cittadino abbia il diritto di render culto al proprio Dio e quindi anche i cristiani al loro. Un’affermazione fondamentale: ma non è questo il luogo per darne conto. Due anni dopo, nel 313, le decisioni prese nel loro incontro di Milano da Costantino e Licinio e le lettere che nel medesimo anno sono diramate da Licinio, accordano piena libertà ai cristiani, come a tutti, di seguire la religione e praticare il culto da ciascuno scelto. Comincia una nuova era in cui gli imperatori romani favoriscono con diversi atteggiamenti e a prescindere dal breve regno di Giuliano (361-363). il movimento iniziato in Palestina dalla parola e dagli atti di Gesù Cristo.

    Fin qui qualche cenno ai fatti. Ma l’argomento induce a fare due riflessioni: una prima relativa all’Impero romano e al motivo per cui ha perseguitato i cristiani e una seconda relativa alla Chiesa e all’esperienza che ha vissuto, subendo le persecuzioni. Inizialmente, al livello del popolino, i cristiani erano accusati di compiere delitti nefandi, lo si è visto, e degni quindi di essere puniti. A livello dei responsabili della res publica il cristianesimo non era religio licita (a differenza dell’ebraismo) e bastava la confessio nominis, vale a dire la professione del nomen christianum, per essere processati e condannati. Essa non poteva rivendicare alcuna ascendenza, alcuna tradizione nazionale. Anzi l’ecumenicità in cui credeva era considerata un elemento minaccioso per l’universalismo romano; di qui l’accusa di ‘ateismo’. I comportamenti dei cristiani non avevano nulla di disonesto o di empio, per chi li avesse conosciuti. Ma il fatto di rifiutare tradizioni venerande, garanti del patto sociale, era un comportamento incomprensibile per i pagani della Roma imperiale dei primi te secoli. Espressione pubblica di tale patto era rappresentato dal culto della dea Roma e dei divi imperatores. Il rifiutare tale culto costituiva un gesto gravissimo, giacché quell’atto di devozione aveva il valore di una dichiarazione di lealismo verso la comunità, anche se non supponeva esplicita proclamazione di una qualsiasi fede religiosa. Perciò lo scopo più vero dei responsabili della cosa pubblica che vessavano i cristiani sembra essere stato in primo luogo quello non di eliminarli, ma piuttosto di fare loro mutare opinione perché rientrassero nell’alveo della grande tradizione romana costituita dal mos maiorum e dai veterum instituta. Come ha osservato Theodor Mommsen per il cittadino romano la religiosità era una forma di patriottismo che si manifestava sacralmente, perché l’ordine della romanità esigeva la piena adesione al nomos e richiedeva un comportamento corrispondente. Si comprende allora, al di là delle accuse mosse in special modo dal popolino ai discepoli del Signore, l’irritazione e, in certo modo, l‘incomprensione del comportamento che essi tenevano. Il non giurare per il genius dell’imperatore, il non bruciare qualche granello di incenso ai piedi della statua della Vittoria era ritenuto segno di pura e gratuita ostinazione, segno di pazzia (dementia) tanto più che, compiendo quel gesto, essi avrebbero potuto tornare liberi e rispettati (→ Paganesimo). Occorrerà la lenta disgregazione del mondo istituzionale, politico e religioso a cui concorse, oltre al cristianesimo la pressione sempre più minacciosa dei popoli dell’Est e del Nord europeo, perché i cristiani fossero riconosciuti quale a forza positiva e viva da cui non si poteva più prescindere per la vita stessa dell’Impero. Dopo le prime manifestazioni di un tale atteggiamento avvenute nella seconda parte del III secolo – per esempio, con Filippo l’Arabo e con Gallieno – dapprima Galerio e poi compiutamente Costantino, presero decisioni da ritenere rivoluzionarie.

    Una seconda riflessione, come si diceva, riguarda la Chiesa e il significato che ha attribuito alla confessione della fede e, non di rado, al martirio (o all’abiura). È interessante innanzitutto notare che il termine ‘testimone’ (martys) fin dal II secolo designi chi muore a causa della sua fede, mentre colui che testimonia la medesima fede è definito ‘confessore‘ (omologos). Non solo, lo ‘spettacolo’ del martirio è considerato una ‘testimonianza, e colui che dona la propria vita è assimilato a Cristo stesso, il ‘testimone fedele’ (ho martys ho pistos), il ‘primogenito dei morti’, come il libro dell’Apocalisse definisce Cristo (cf. 1, 5); il martire è un suo imitatore che, soffrendo, vince la morte. All’opposto per chi abiura, in quanto tradisce con se stesso, anche Cristo. E ancora, con il suo atto il martire non riproduce solamente le vicissitudini del Signore, ma ne attualizza la presenza. È Cristo che soffre con lui, che con lui si misura con la morte. D’altra parte i suoi gesti supremi rappresentano una forma di testimonianza pubblica che riveste un forte impatto comunicativo, provocando una reazione che scuote profondamente i pagani che vi assistono (tanto che si può parlare di un effetto missionario esercitato dal martirio) e che conferma i correligionari nella fede. Di qui derivano i doni di cui godono i martiri e di cui anche la comunità profitta: essi hanno visioni, operano miracoli, respingono le potenze demoniache, intercedono per i vivi. possono riconciliare i penitenti e, soprattutto, richiamano fortemente la dimensione escatologica propria dell’esistenza cristiana. Non stupisce dunque che la comunità accompagni durante il processo e fino all’istante supremo i ‘testimoni’, che stanno per divenire ‘martiri’; e neppure stupisce che, dopo la morte li ricordi, rendendo loro un culto specifico. Quanto detto si desume dalla letteratura agiografica che si compone di lettere, di Acta e di Passiones martyrum (→ Storiografia) e pure di iscrizioni: un insieme ricchissimo di documenti che hanno un differente grado di affidabilità storica, ma che, nell’insieme, delineano un quadro, delle figure dei martiri e delle vicende a cui si sottopongono, assai omogeneo e coerente. Anche questo è un esito di quel fenomeno ben presente nella prima epoca della Chiesa di cui si è fin qui parlato. Dopo Costantino vi saranno martiri di cristiani in paesi esterni al mondo romano, per esempio in Persia in particolare sotto i Sasanidi.

    Infine non si può dimenticare un’ulteriore capitolo riguardante le persecuzioni nel Tardo Antico. Da una parte si devono ricordare le persecuzioni condotte dal potere civile contro i donatisti e dall’altra quelle condotte dal medesimo potere, ormai cristianizzato, contro i pagani, gli eretici e i giudei. In proposito si hanno notizie assai abbondanti circa la legislazione antipagana. Essa comincia con Costantino e si fa molto più esplicita e dura con i successivi imperatori. Il codice Teodosiano ha conservato, tra l’altro, 5 costituzioni che proibiscono i sacrifici, il culto degli idoli, condannano ogni superstitio, ordinano di chiudere i templi, ecc., comminando gravissime pene. Momento decisivo è rappresentato dall’editto di Tessalonica (380) con il quale Teodosio dichiara di volere che tutti i popoli da lui governati seguano la religione trasmessa da Pietro ai romani. Si è parlato in questo caso della “religione di stato”, ma l’espressione è fuorviante in quanto si vale di concetti moderni applicandoli al tempo antico. Si può ben dire, tuttavia, che da quel tempo comincia il difficile rapporto tra l’Impero e la Chiesa, in una situazione nuova rispetto alla precedente, in quanto la seconda non si distingue con sufficiente fermezza e chiarezza dal primo. Anzi, non di rado, ne asseconda le decisioni dal secondo. Dal 381 al 435 si moltiplicano le leggi antipagane, mentre successivamente si vanno più rare. Esse intendono abbattere il paganesimo mirando alle pratiche cultuali, al patrimonio e alle persone, prevedono la chiusura dei templi, la confisca dei beni e il loro trasferimento ai cristiani, la soppressione dei privilegi ai sacerdoti pagani. Con i pagani sono presi di mira anche gli eretici, i giudei e gli apostati, in altre forme, soprattutto con la limitazione di diritti. La situazione precedente all’inizio del IV secolo si è capovolta. Lo scopo sembra essere stato quello indurre quanti fossero lontani o si fossero allontanati ad una conversione, o ad un ritorno, al cristianesimo da ottenere con la costrizione e l’intolleranza, in uno spirito ben lontano da quello predicato e vissuto da Gesù Cristo, anzi opposto ad esso. Come nei primi secoli, certamente, sono le autorità pubbliche, ormai cristiane, che dettano le regole, non è la Chiesa, in quanto tale. Pure molti vescovi sono presenti e influenti sulla scena: la politica ecclesiastica, molto spesso si intreccia con la politica imperiale.

    Fonti e Bibl. essenziale

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