Prima Guerra Mondiale – vol. II

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    Autore: Sergio Tanzarella

    Premessa. Il papa Benedetto XV pronunciò sin dai suoi primissimi discorsi parole tanto chiare e tempestive quanto inascoltate e vanamente ribadite di totale condanna della I guerra mondiale – compresa sempre però come punizione divina. Una posizione chiara e ribadita ufficialmente con l’enciclica Ad Beatissimi dell’1 novembre 1914: «Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto […] nessun limite alle rovine, nessun limite alle stragi» e ripresa con una intensa azione diplomatica per favorire la fine della guerra o almeno un armistizio, dall’Esortazione ai popoli belligeranti e ai loro capi del 28 luglio 1915: «Scongiuriamo Voi, che la Divina Provvidenza ha posto al governo delle Nazioni belligeranti, a porre termine finalmente a questa orrenda carneficina che ormai da un anno disonora l’Europa», fino alla Nota ai capi degli Stati in guerra del 1° agosto del 1917. Nonostante ciò i cattolici italiani assunsero nei confronti di quella guerra mondiale – sia prima dell’intervento, sia durante la guerra – una quantità di posizioni che mostrano una grande varietà di giudizi e di motivazioni complessivamente inconciliabili tra di loro e che è impossibile ridurre ad unità.

    La Chiesa italiana appare, infatti, vivere un profondo travaglio nel quale, oltre alle isolate ed esemplari posizioni come quella pacifista del barnabita Alessandro Ghignoni, l’adesione, la sacralizzazione o il rifiuto della guerra sembrano poco condizionate dalle parole del papa, e appaiono ispirate non soltanto da un giudizio morale o da valutazioni concrete e contingenti, ma rispondono a motivi più profondi della storia nazionale come il perdurare della questione romana e delle sue conseguenze. Alla base quindi di quelle posizioni divergenti, fin dalla contrapposizione interventisti-neutralisti non vi fu soltanto un pacifismo evangelico o l’adesione ai principi della teoria della “guerra giusta”, quanto il riaffermarsi dell’intransigentismo ottocentesco in opposizione ad un patriottismo desideroso di riconoscimento ufficiale da parte della Stato unitario di modo da poter dimostrare quanto i cattolici italiani fossero ormai divenuti dei buoni cittadini. A queste posizioni si aggiunge quella del padre Rosa su La Civiltà Cattolica per il quale il conflitto in atto manca degli elementi per essere definito “guerra giusta”, ma tuttavia egli giustifica – in nome del “principio di presunzione” – l’obbligo dei cittadini a prendervi parte perché si presume che lo Stato abbia avuto giusti motivi per fare la guerra. Di altro tenore sono poi le posizioni filogovernative di Meda che dal neutralismo arriva alla giustificazione dell’interventismo e quella di Miglioli che manterrà la linea di totale rifiuto della guerra sia per motivazione religiosa sia perché convinto che la maggioranza dei cattolici italiani è ad essa contraria.

    Tutti questi elementi che caratterizzarono le posizioni ufficiali di una componente di rilievo del mondo cattolico italiano come associazioni, giornali e riviste cattoliche a diffusione nazionale, e singoli cattolici come alti ufficiali, uomini politici, figure di rilievo della cultura, non esauriscono tuttavia la ricchezza e la frammentarietà di quello stesso mondo cattolico come una certa storiografia – evemenenziale e talvolta a servizio della propaganda del mito della “Vittoria” – ha semplicisticamente proposto affermando una unità di posizioni e di adesioni di fronte alla guerra che di fatto non c’è mai stata. Ma almeno a partire dal settembre del 1962, in occasione del fondamentale convegno di Spoleto, si comprese come fosse necessario abbandonare generalizzazioni ed esclusive attenzioni ai rappresentanti ufficiali del mondo e del pensiero cattolico italiano (spesso rappresentativi solo di se stessi) e quanta differenza di posizioni e di sensibilità emergeva appena ci si spostava sul terreno dell’indagine locale negli archivi diocesani e parrocchiali i quali possedevano una quantità di fonti che ancora oggi solo in parte sono state studiate, e quelle che lo sono state mostrano la ricchezza di quel patrimonio e la necessità che esso venga posto a disposizione della ricerca vincendo ancora diffuse resistenze. Si tratta di ciò che concretamente i vescovi delle tante piccole diocesi pensavano sulla guerra, posizioni diversificate, da quelle patriottiche, nazionaliste e lealiste nei confronti del governo a quelle di accettazione della guerra come castigo di Dio fino a quelle, certo più rare, di neutralismo. Ci sono poi i diari di parroci, gli epistolari di preti e parrocchiani soldati, di cappellani militari cui si deve aggiungere la stampa diocesana e quella parrocchiale. Era dunque necessario contrapporre alla celebrazione retorica di quella esperienza bellica – direttamente promossa in ambito storiografico dai vertici militari e governativi dell’immediato dopoguerra e poi su larga scala prima dal fascismo e poi nei primi anni dall’Italia repubblicana – una considerazione attenta allo studio di tutte le fonti disponibili. Così i cinquant’anni trascorsi da quel convegno hanno prodotto una messe di studi che ha confermato – da parte dei cattolici italiani – un ventaglio di grande varietà di posizioni e di giudizi su quella guerra che conoscono tra l’altro evoluzioni e sviluppi tra i mesi della neutralità e all’interno degli anni di guerra dalle “radiose giornate di maggio” – con l’illusione di un successo militare sicuro e immediato e con costi limitatissimi – alla guerra combattuta e continuata con armamenti di nuova e inaudita capacità mortifera, da Caporetto fino al 4 novembre del 1918, alla sua successiva celebrazione e al processo di giustificazione dei costi della guerra nonostante la crisi economica da essa provocata fino all’inchiesta insabbiata sulla ormai certa corruzione per le spese di guerra. Non è un caso che, negli anni della guerra, nelle relazioni di prefetti e procuratori diversi vescovi e non pochi parroci sono descritti come promotori di proteste e di disfattismo anche quando si erano limitati soltanto ad invitare a pregare per la pace o avevano manifestato preoccupazione per le misere condizioni del popolo e dei soldati –anche per non lasciare campo libero alla propaganda socialista – o avevano citato gli interventi di Benedetto XV.

    Preti in guerra. Il perdurare della questione romana e quindi l’assenza di riconoscimenti ufficiali da parte dello stato italiano nei confronti della Chiesa espose seminaristi, preti e religiosi alla chiamata alle armi in tempo di guerra. Dei circa 15.000 preti coinvolti solo un 2500 poterono essere arruolati come cappellani militari, altri riuscirono a trovare spazio nel servizio sanitario e in vari compiti non di combattimento, tuttavia la maggioranza del clero fu costretta a prestare servizio armato direttamente al fronte. Fu per molti, sia preti combattenti sia cappellani una esperienza durissima che non incrinò però i sentimenti patriottici, anche se solo una piccola – ma attivissima – minoranza, tra cui il domenicano Reginaldo Giuliani cappellano degli Arditi – continuò a sostenere, dinnanzi alle stragi della guerra, fortissimi entusiasmi bellici.

    Complessivamente la posizione dei cappellani militari – ufficialmente inquadrati nell’esercito con il loro vescovo di campo Angelo Bartolomasi – fu lealista, con un invito alla rassegnazione e alla preghiera mentre si affermavano tra i soldati, anche contro talvolta la volontà dei cappellani, forme varie di devozioni con largo uso di immaginette, scapolari, medaglie, distintivi utilizzati spesso, nell’illusione di una speciale protezione, quasi come amuleti. Le immaginette sacre segnavano però due linee fortemente differenziate e se l’una sosteneva un intervento diretto di Dio per la vittoria e per la protezione del soldato – come facevano tra l’altro non poche preghiere, litanie e suppliche – un’altra tendeva ad affermare il valore assoluto della pace e della preghiera per impetrarla e per questo fu imputata di disfattismo e collaborazionismo col nemico.

    Figura di primo piano tra i cappellani militari fu il barnabita Giovanni Semeria, cappellano del Comando Supremo, che testimonia una dolorosa evoluzione passando da posizioni pacifiste ad un convinto interventismo sostenitore del risveglio cattolico grazie alla guerra fino ad una profonda crisi di fronte all’orrore del conflitto.

    Anche se non fu cappellano il frate francescano Agostino Gemelli – arruolato come capitano medico – svolse contemporaneamente quello di assiduo predicatore tra le truppe. Assegnato allo Stato maggiore Gemelli offrì al generale Cadorna, che fu per lui prodigo di sostegni, la personale competenza di psicologo per motivare le truppe ad andare incontro alla morte senza particolari resistenze e per realizzare su larga scala un condizionamento di massa fino alla elaborazione della teoria della catechesi del cannone: «se vi ha dunque rinascita religiosa al fronte, questa si ha esclusivamente nell’ospedale. Ma la professione di fede cristiana non si realizza d’un tratto. L’educazione religiosa è stata compiuta dalla voce del cannone durante i mesi di trincea, e il soldato ha appreso questa lezione quasi senza avvedersene» (Gemelli, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Treves, Milano 1917, 137). L’attività di Gemelli negli anni della guerra fu frenetica: dalle messe da campo alle ricerche sperimentali – anche se scientificamente molto discutibili – all’iniziativa della devozione dei soldati al Sacro Cuore di Gesù, fino alla pubblicistica su Vita e Pensiero nella quale il sostegno alla guerra – una volta superata l’indecisione dell’intervento – fu pieno. La rivista ridonda di articoli di lealismo al Governo italiano, nazionalismo e convinta partecipazione alla guerra. Nonostante quella guerra abbia visto su una popolazione di circa 28 milioni di italiani poco meno di 5 milioni di combattenti – di cui la metà contadini – e con una età media di poco più di 25 anni. Si trattò – fuor di retorica e di celebrazioni – di una ecatombe che segnò la società e la Chiesa italiana: 700.000 morti, 500.000 reduci invalidi gravi, 100.000 soldati morti nei campi di prigionia.

    I cattolici italiani dall’interventismo alla condanna della guerra. Tutti questi elementi della realtà della guerra aiutano a comprendere le trasformazioni di giudizio di interventisti come don Primo Mazzolari o don Luigi Sturzo. Il primo molti anni dopo la fine della guerra prenderà apertamente e amaramente le distanze dalle personali illusioni patriottiche con un passaggio doloroso ed estremo da interventista ad oppositore totale della guerra considerata il suo “secondo seminario”. La testimonianza di quell’esperienza dolorosissima è raccolta nel romanzo autobiografico dove egli ripercorre il cammino della propria conversione attraverso le atrocità della guerra. Un guerra accolta ingenuamente come soluzione ai problemi sociali della società italiana ed esperienza di catarsi attraverso la catastrofe. Una guerra per la quale i giovani sacerdoti avrebbero dovuto sentirsi dire: «Se invece di dirci che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste i nostri teologi ci avessero insegnato che non si deve ammazzare per nessuna ragione, che la strage è inutile sempre, e ci avessero formati ad una opposizione cristiana chiara, precisa e audace, invece di partire per il fronte saremmo discesi sulle piazze. … e siamo partiti come per una crociata. Perché a noi non importava né Trento, né Trieste, né questa, né quella revisione di confini» (La Pieve sull’argine 1952, 66). Sturzo, dopo avere assunto più volte pubblicamente una posizione interventista, già nel 1911 per la guerra libica, la ribadirà alla vigilia e durante tutta la I guerra mondiale. Ciò è dimostrato dalla sua firma all’Appello dell’Unione Popolare dell’8 maggio 1915 per l’ingresso dell’Italia in guerra, sebbene la sua posizione non avesse nulla dello spirito nazionalista dei Governi dell’epoca. L’idea di Sturzo è quella di sostenere un principio antimperialista che intravede nella guerra una possibilità di trasformazione dell’Europa attraverso nuovi equilibri e l’affermazione di libertà per le nazioni. Egli mantiene questa idea nonostante il tragico svilupparsi della guerra e i ripetuti interventi di condanna della stessa guerra da parte di Benedetto XV. Ad essi Sturzo dedicò sempre grande attenzione sottolineando il ruolo pacificatore della Chiesa e la sua equidistanza da tutte le fazioni in lotta. Tuttavia, ancora all’inizio del 1918 egli contrastava apertamente ogni tentazione disfattista. Nel rileggere la storia italiana dall’unificazione in poi come occasione mancata dalle classi dirigenti, la guerra viene da lui ancora considerata un elemento di coesione sociale e una fattore per la costituzione di una memoria nazionale del giovane Stato italiano, non differenziandosi quindi dalla linea della propaganda bellica del tempo. Una posizione imbevuta dei tradizionali elementi patriottici. Sturzo riafferma la grave necessità dell’esecuzione degli ordini che scaturisce dal dovere morale dell’ubbidienza assoluta. Su questa visione celebrativa della guerra e sulla sua valutazione positiva Sturzo rimase fermo ancora all’indomani del 4 novembre del 1918. Ma bastarono alcuni mesi successivi alla cosiddetta vittoria per indurlo progressivamente a cambiare idea e a riconsiderare la follia e le contraddizioni di quegli anni [cf. L. Sturzo, I Discorsi Politici, Istituto L. Sturzo, Roma 1951, 55-56], l’inconsistenza di quelle aspettative con il gravissimo peso economico conseguente [cf. I Discorsi Politici, 44] e la devastante crisi agraria e quella economica nella quale si intravedevano anche le ruberie realizzate dagli stati maggiori dell’Esercito e dagli industriali attraverso le forniture di guerra. Ma soprattutto Sturzo intravide, progressivamente, le insidie che quella guerra avrebbe prodotto a breve distanza e sulle quali ritornerà a parlare già nei primi mesi di esilio e sintetizzate nella considerazione che «il fascismo italiano è figlio della guerra» [I Discorsi Politici, 415].

    Fonti e Bibl. essenziale

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