Questione meridionale – vol. II

    image_pdfimage_print
    Autore: Gennaro Cassiani

    L’espressione “questione meridionale” ebbe la sua prima formulazione nel 1873, ad opera del deputato radicale lombardo Antonio Billia.

    All’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento, la situazione socio-economica del Mezzogiorno che segnalava miseria, analfabetismo, criminalità, disuguaglianza, disoccupazione, corruzione dei costumi e difetto di infrastrutture s’impose come “questione”, ovvero come ricerca degli strumenti più idonei a portarla a soluzione e abbattere quella sorta di frontiera interna all’Italia unificata già misurata con il fenomeno del brigantaggio. Un florido dibattito su riviste, le inchieste private di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, quelle parlamentari coordinate da Romualdo Bonfadini, Stefano Jacini e Claudio Faina e numerose statistiche ministeriali misero a nudo le dimensioni del problema, favorendo la definitiva presa di coscienza collettiva che al riscatto e all’unificazione della patria non corrispondesse pari unificazione socioeconomica.

    Rispetto alle cause della “questione meridionale”, l’impegno della critica più avvertita fu in primo luogo di liberare il campo dalle tesi peregrine che insistevano sulla connaturata infertilità dei suoli agricoli meridionali o che imputavano la depressa condizione del Sud all’eccessiva prolificità delle popolazioni locali o, ancora, che l’ascrivevano alla nativa feracità dei suoi abitanti. A seguire, l’indagine storica delle vicende politiche, economiche e sociali del Mezzogiorno saggiò con varietà di prospettive e di approdi interpretativi l’intreccio dei fattori responsabili del sottosviluppo di quelle regioni. Almeno nella prima fase, la chiave interpretativa della loro arretratezza venne rintracciata univocamente nei residui del sistema feudale, negli effetti del protratto malgoverno, specie borbonico. In breve, tuttavia, cominciarono a emergere anche le responsabilità della nuova Italia, incapace di risolvere gli antichi problemi del meridione e, al contempo, apportatrice di nuovi gravami al fragile tessuto socioeconomico di quelle aree del Paese.

    Alla stagione del primo meridionalismo postunitario, nella quale si distinsero i contributi di Pasquale Villari e Leopoldo Franchetti, seguì quella assai più disillusa circa il ruolo equilibratore dello Stato liberale ben rappresentata dalle ricerche di Giustino Fortunato.

    Con il nuovo secolo, si farà strada un nuovo meridionalismo caratterizzato da un afflato di rinnovamento politico in senso autonomistico (Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini) e di emancipazione dal ritardo economico, ora di ispirazione liberista (Antonio De Viti De Marco), ora statalista e protezionista (Napoleone Colajanni e Francesco Saverio Nitti). Al definitivo superamento del meridionalismo postunitario contribuirono gli scritti di Antonio Gramsci, il quale lesse il ritardo del Sud attraverso il prisma della lotta di classe e all’interno di un progetto rivoluzionario. Non meno significativo concorso all’apertura della nuova stagione di studi conferirono i contributi del cattolico don Luigi Sturzo e del laico Guido Dorso, accomunati nella polemica contro il trasformismo, l’opportunismo e l’inerzia del ceto politico tradizionale che aveva vanificato le speranze di emancipazione socioeconomica, civile e culturale del Mezzogiorno.

    Con il secondo dopoguerra e l’avvio del corso democratico, gli studi meridionalistici si alimentarono della speranza, coltivata tanto dagli intellettuali di sinistra quando da quelli laici, che il sollevamento delle condizioni del Sud, sensibilmente peggiorate durante ventennio fascista, potesse maturare nel quadro del processo di ricostruzione del Paese uscito dal disastro bellico. Agli argomenti del meridionalismo classico (riforma agraria, lotta all’analfabetismo, bonifica delle terre malariche, scorporo del latifondo), vennero affiancandosi nuove istanze incentrate sul ruolo di sostegno e di stimolo dello Stato in funzione dello sviluppo del Mezzogiorno. Il tema della riforma agraria si impose con forza come nodo decisivo della “questione meridionale”.

    La legge stralcio n° 841 e la nascita della Cassa del Mezzogiorno (1950) conferirono stimolo al lavorio storiografico. Altro impulso esso ricevette dalle sensibili trasformazioni intervenute nell’economia e nella società italiana nel corso del decennio 1950-60. A seguire, in seno al cantiere della ricerca meridionalistica si sono fatte strada novità di rilievo come lo spostamento della prospettiva di indagine dalle campagne alle città e la dilatazione dei termini cronologici ereditati dalla tradizione degli studi. Non è poi mancata, oltre alla problematizzazione di molte tesi consolidate, la rimodulazione della “questione meridionale” sui tempi lunghi della storia socio-econonomica e del territorio e in relazione al tema dello sviluppo dello stesso Mezzogiorno e di altre regioni europee.

    Le prime risonanti prese di posizione dei presuli meridionali rispetto alla condizione di arretratezza del Sud si ebbero da parte dei presuli pugliesi (27-28 aprile 1944) e della Calabria (19 giugno 1945). Risale invece al 25 gennaio 1948 la lettera collettiva dell’episcopato meridionale (non firmata però dai vescovi siciliani) su I problemi del Mezzogiorno, distesa dal vescovo di Reggio Calabria Antonio Lanza.

    Ispirato dalla dottrina sociale della Chiesa e dalla lezione dei meridionalisti otto-novecenteschi, ai quali si doveva l’identificazione della “questione meridionale” con una questione agraria (immediato riferimento della lettera su I problemi del Mezzogiorno fu non a caso la XXI Settimana sociale dei cattolici tenuta a Napoli, nel settembre del 1947, con in tema I problemi della terra e del lavoro nella dottrina della Chiesa), il documento del 1948 traspira viva preoccupazione per la persistente condizione di miseria di larghi strati popolari; per la precarietà di vita del bracciantato; per i bassissimi livelli di reddito dei coloni e l’iniquità di talune forme contrattuali; per l’insufficienza delle strutture economiche e i gravi problemi connessi al persistere del latifondo.

    La lucida analisi dei presuli, di timbro sociale e insieme pastorale, non si limitò a richiamare i doveri dello Stato. Sollecitò altresì l’impegno dei cattolici e l’iniziativa privata, l’associazione dei lavoratori e la cooperazione. Nel concerto delle speranze indotte dalla riforma agraria e dall’avvio delle nuove politiche per il Mezzogiorno, i vescovi lucani e pugliesi, con l’intento di dare concreta attuazione alla pastorale collettiva del 1948, fondarono nel 1952 la Charitas socialis, una sorta di comitato votato all’assistenza socio-religiosa delle popolazioni. Nel complesso, la lettera del 1948 mancò di avere un impatto decisivo sulla realtà ecclesiale meridionale. In ciò si è riconosciuto il segno dell’insuccesso delle istanze sociali più aperte e democratiche durante la fase finale del pontificato di Pio XII, allorché si puntò piuttosto sulla modernizzazione di morfologie devote tradizionali mentre, di concerto al “miracolo economico italiano”, anche la società del Sud avviava la sua profonda trasformazione.

    Dalla fine degli anni Sessanta e durante il corso del decennio successivo, più vescovi del Sud tornarono sulla questione sociale nel Mezzogiorno che, all’epoca, conosceva un vasto fenomeno migratorio verso il Nord del Paese e così pure una grave crisi del settore agricolo.

    Sull’onda del Vaticano II, il filo interrotto della discussione avviata nel 1948 venne ripreso. Nel 1969, alcuni vescovi, in margine alla quarta assemblea generale della Cei, ricordando il ventesimo anniversario della lettera del 1948, rilanciarono la questione sociale meridionale. Il documento fu approvato all’unanimità dall’assemblea, ma non ebbe un vero seguito.

    Nel 1972, in seno all’episcopato pugliese, si fece strada l’idea di celebrare il 25° della lettera del 1948 mediante un nuovo testo. Il progetto venne fatto proprio dalla presidenza della Cei, ma l’atteso pronunciamento dell’intero episcopato italiano venne infine a mancare. Frattanto, l’arcivescovo allora di Potenza e Marsico Aurelio Sorrentino, nella propria lettera pastorale del 19 ottobre 1973, denunciò la “questione meridionale” come un’emergenza dell’intero Paese. Sollecitando una riflessione sulla consapevolezza ecclesiale dell’acutezza del problema, Sorrentino rilanciò altresì il tema della maturazione della coscienza nazionale della Chiesa italiana avvenuta con una leadership settentrionale che, almeno fino al concilio Vaticano II, aveva egemonizzato il personale ecclesiastico, i paradigmi pastorali, le forme organizzative laicali e finanche i modelli di santità del Mezzogiorno. Lo stesso Sorrentino, passato alla guida della diocesi di Reggio Calabria, tornerà in più occasioni sulla cosiddetta “questione meridionale ecclesiale”. Al tempo stesso, si moltiplicarono gli interventi di altri presuli (come monsignor Guglielmo Motolese, vescovo di Taranto) e di conferenze episcopali regionali come quelle dell’Abruzzo e della Sicilia, della Lucania e della Calabria.

    Nel 1976, nel corso del primo convegno ecclesiale nazionale Evangelizzazione e promozione umana, la questione del Mezzogiorno si impose nei dibattiti, pur non trovando spazio nelle relazioni. L’attuazione del concilio Vaticano II ispirava un nuovo modello pastorale fungibile sul piano nazionale: un modello pastorale meridionale incentrato sulla parrocchia, come comunità ministeriale e missionaria, e su un’istanza di liberazione dalla cultura padronale e da quella mafiosa. All’avvio degli anni Ottanta, aperti dal tragico evento tellurico in Campania e in Basilicata, siffatto modello pastorale riscosse un effettivo ascolto su larga scala. Ebbe risonanza, nel 1985, nella cornice del convegno ecclesiale di Loreto dedicato al tema Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini e concorse all’approvazione da parte di tutti i vescovi italiani del primo documento organico della Cei sul Mezzogiorno, intitolato Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà ed edito il 18 ottobre 1989. Ivi l’episcopato, misurandosi in forma corale con la “questione meridionale” (che Giovanni Paolo II, sin dal discorso ai vescovi campani del 21 novembre 1981, aveva posto al centro del suo magistero), ne colse le matrici nelle perduranti distorsioni vigenti in seno ai processi economici e all’esercizio dei poteri politici locali. Vibrante fu inoltre la denuncia del fenomeno della criminalità organizzata.

    A valle della profonda trasformazione, non priva però di elementi vischiosità, di tendenze trasformistiche e anche di derive localistiche ed etniciste, maturata in seno al sistema politico italiano nel corso degli anni Novanta del Novecento, si è fatto strada un diffuso sentimento della necessità di un cambio di passo nella pastorale della Chiesa italiana e quest’ultimo ha riportato l’attenzione alla questione del Mezzogiorno. Ne è espressione, nel 2010, il documento della Cei intitolato Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, frutto dell’incontro di studio di Napoli, nel 2009, nel ventennale di Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella solidarietà.

    Fonti e Bibl. essenziale

    Si segnalano con ulteriori richiami: S. Tramontin, Ad un trentennio dalla lettera collettiva dell’episcopato meridionale (1948): riflessione sugli aspetti religiosi e pastorali, in Id., Società, religiosità e movimento cattolico in Italia meridionale, Roma 1977, 321-354; G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, Napoli, 1978; Il Sud nella storia d’Italia, a cura di R. Villari, Roma-Bari, 1984; M.L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, 1989; P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Roma, 1993; A. Sorrentino, Esiste una questione meridionale in senso ecclesiale?, in P. Borzomati, La questione meridionale. Studi e testi, Torino, 1996, 197-203; P. Borzomati, Chiesa e società meridionale dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Roma, 1982; Id., La Chiesa nel Mezzogiorno dopo il 1948: progetti e vicende di un quarantennio, in La Chiesa e i problemi del Mezzogiorno. 1948-1988, a cura di P. Borzomati, D. Pizzuti, M. Giordano, Roma, 1988, 32-34; Id., La questione meridionale ecclesiale nel pontificato di Pio X, in Pio X e il suo tempo, Atti del Convegno (Treviso, 22-24 novembre 2000), a cura di G. La Bella, Bologna, 2003, 789-799; G. Rumi, Questione meridionale e questione settentrionale nella riflessione dei vescovi italiani, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano, 2003, 423-432; R. Violi, La Chiesa e il Mezzogiorno, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, II, Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana e G. Marramao, Soveria Mannelli, 2003, 497-520; G.M. Viscardi, Tra Europa e “Indie di quaggiù”. Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno: secoli XV-XIX, Roma, 2005, 24-30; F. De Giorgi, La questione del “Mezzogiorno”: società e potere, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato, 1861-2011, direz. scient. di A. Melloni, Roma, 2011, 551-562; V. De Marco, La Chiesa italiana tra fine Ottocento ed avvento del fascismo, in Chiesa del Nord e Chiesa del Sud a confronto. Le diocesi di Mantova e Potenza e il vescovo Augusto Bertazzoni (1930-1966), Atti del Convegno nazionale di studio (Potenza, 13-14 maggio 2011), a cura di G. Messina e G. D’Andrea, Galatina, 2013, 21-39; Id., Vescovi del Sud per i problemi del Sud nel secondo dopoguerra, in Società, politica e religione in Basilicata nel secondo dopoguerra. Il contributo dei fratelli Rocco e mons. Angelo Mazzarone di Tricarico, Atti del Convegno di studio (Matera-Tricarico, 25-26 settembre 2009), a cura di A. Cestaro e C. Biscaglia, Galatina, 2013, 119-149.


    LEMMARIO