Resistenza – vol. II

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    Autore: Stefano SodiOsoppo

    Il termine Resistenza venne utilizzato per la prima volta nel giugno 1940 dal generale Charles De Gaulle, fuggito a Londra, che lanciò un appello ai suoi concittadini per invitarli ad opporsi al governo del maresciallo Philippe Pétain, che aveva sottoscritto un armistizio che lasciava la maggior parte del suolo francese in mano ai tedeschi e l’area centro-meridionale, con capitale Vichy, a un governo collaborazionista. A partire da allora, il termine Resistenza ha designato in tutta Europa i movimenti di ribellione e di lotta armata contro il regime d’occupazione nazista, configurandosi come espressione ed anticipazione dei valori che sarebbero divenuti la base ideale dell’Europa democratica.

    La Resistenza italiana fu l’ultima a costituirsi in Europa: le sue prime formazioni nacquero nell’Italia centro-settentrionale ad opera di militanti antifascisti e di soldati che non si consegnarono alle truppe tedesche né entrarono nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana (Rsi) dopo l’armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943). Da quel momento, il Comitato di liberazione nazionale (Cln), presentatosi come guida dell’Italia democratica, invitò gli italiani ad unirsi nella lotta contro i nazifascisti. In principio le iniziative ebbero più un valore politico che militare, ma il movimento partigiano crebbe rapidamente di numero e fra il 1944 e il 1945 riuscì a costituire numerosi gruppi armati o addirittura piccoli eserciti in grado di controllare intere aree territoriali (es. la Repubblica dell’Ossola, le Langhe, l’Oltrepo pavese). Nelle città operavano invece formazioni più esigue, i Gruppi di Azione Patriottica (Gap), formati prevalentemente da comunisti.

    Recenti stime hanno calcolato che nell’estate 1944 i partigiani in Italia erano 82.000 e raggiunsero il numero di circa 200.000 al momento dell’insurrezione, nella primavera del 1945. Questa cifra comprende coloro che parteciparono alla vera e propria “resistenza armata” e non quanti, assai più numerosi, fornirono loro protezione e supporto (“resistenza civile”). Sul fronte avverso militava un numero pressoché uguale di italiani, essendo l’esercito della Repubblica di Salò composto da circa 50.000 effettivi, cui si affiancavano le 150.000 unità della Guardia Nazionale Repubblicana, la milizia di partito.

    Fin dall’inizio la Resistenza italiana si mostrò divisa in base all’orientamento politico. I partigiani di ispirazione comunista militavano nelle Brigate Garibaldi, quelli di orientamento socialista in quelle Matteotti; le formazioni cattoliche, numericamente più consistenti di quanto comunemente si ritenga (in proposito Lorenzo Bedeschi ha parlato di «daltonismo prospettico»), erano spesso definite Fiamme Verdi e le brigate di Giustizia e Libertà si rifacevano al Partito d’Azione; vi erano anche brigate di ispirazione liberale o di orientamento filomonarchico. Non mancarono episodi di scontri tra partigiani, soprattutto in Friuli e in Venezia Giulia, dove le formazioni garibaldine agivano spesso in collaborazione con i partigiani comunisti di Tito, la cui intenzione era di annettere Trieste, l’Istria e la Dalmazia alla Jugoslavia. L’episodio più clamoroso avvenne in Friuli, a Malga Porzus, dove nel febbraio 1945 un gruppo comunista trucidò ventidue componenti della Brigata Osoppo, composta prevalentemente da partigiani cattolici, accusati ingiustamente di aver trattato con i fascisti e la X Flottiglia Mas.Lazzeri Innocenzo

    La divisione tra le varie componenti del mondo partigiano e le vicende postbelliche hanno profondamente influenzato anche l’interpretazione storica. Una prima fase storiografica ha fornito della Resistenza una lettura di piena adesione e di incipiente mitizzazione, che enfatizzava due aspetti: da una parte essa appariva come l’epifenomeno di un intero «popolo in lotta», unito da un comune sentimento antifascista, dall’altra costituiva il compimento del «secondo Risorgimento», l’ultima guerra di liberazione contro gli stranieri, dando un nuovo fondamento alla nazione italiana, alternativo all’esperienza fascista (esemplare R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953). Una svolta radicale nella riflessione sul fenomeno resistenziale si è sviluppata agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso con Claudio Pavone, secondo cui la Resistenza deve essere letta da tre diversi angoli visuali: quello di una guerra patriottica, di una guerra di classe, di una guerra civile. Per il movimento partigiano la Resistenza si configurava come una guerra di liberazione del territorio italiano dall’occupazione tedesca, ma anche come l’orgogliosa riconquista di un’identità nazionale; per i fascisti, in una logica rovesciata ma speculare, la prosecuzione della guerra a fianco dei nazisti rappresentava invece l’unica possibilità di mantenere intatto l’onore della patria. L’idea di una guerra di classe era invece la speranza di quanti ritenevano possibile che la rovina dei nazi-fascisti avrebbe dato il via alla lotta di classe, preludio alla dittatura del proletariato. L’utilizzazione della categoria di guerra civile, fino ad allora lasciata appannaggio di correnti dichiaratamente vicine all’ultimo fascismo (G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia (1943-1945), FPE, Milano 1965-1966), significò un cambiamento di prospettiva storiografica, che pose al centro dell’attenzione, più che gli aspetti politici e militari, le storie individuali, le motivazioni profonde delle scelte, il quadro di riferimento ‘morale’, non solo di quanti vissero la guerra partigiana come scelta di vita, ma anche della popolazione civile, di quanti praticarono una “resistenza passiva” o, più correttamente, “civile”. Riguardo al mondo cattolico e alla sua gerarchia Pavone, nel suo saggio evidenziò una contraddizione, quasi insanabile, tra la tendenza ad un atteggiamento super partes rispetto ai conflitti militari e politici e la crescente consapevolezza che fosse invece necessario schierarsi, quanto meno dalla parte delle proprie comunità colpite dalla violenza (si ricordi che la Santa Sede non riconobbe mai la Rsi).

    In questo rinnovato clima storiografico particolare rilievo hanno assunto nel 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione, nuove ricerche sul ruolo dei cattolici che hanno avuto la loro massima – ma non unica – espressione in una serie di convegni realizzati in varie parti d’Italia sul tema Cattolici, Chiesa, Resistenza. Dalla ricerca è emersa con chiarezza la necessità di analizzare contemporaneamente sia il livello politico-istituzionale sia il vissuto religioso. Se da una parte infatti «la Chiesa-istituzione si trovò a svolgere un ruolo di supplenza dello Stato, di mediazione fra le parti combattenti, comandi tedeschi e comandi partigiani per una tregua di armi […] perché uno Stato legittimato non c’[era] né dall’una né dall’altra parte» (De Rosa, 18-19), dall’altra non poteva essere misconosciuta quella forma di “resistenza civile” che si manifestò nell’impegno concreto a favore dei partigiani, ma anche degli sfollati, degli ebrei ricercati, dei renitenti alla leva, dei prigionieri di guerra.

    Al di là della partecipazione diretta alla “resistenza armata” da parte di cattolici, singolarmente o in gruppi organizzati, che necessita comunque di essere ancora messa in piena luce, è necessario evidenziare quegli episodi di impegno e quotidiana disobbedienza rispetto all’occupante che sempre di più emergono dalla ricerca storica. Passando, come osserva Maurilio Guasco, dallo studio della «resistenza dei cattolici al modo di essere cattolici nella Resistenza», valutando la «qualità della partecipazione», il «vissuto etico che viene prima delle scelte politiche» (M. Guasco, I cattolici e la resistenza, 305-306) si è potuto verificare sempre più puntualmente come, davanti ad una situazione di ingiustizia nei confronti della popolazione civile, la maggior parte dei vescovi, del clero, dei membri dell’associazionismo cattolico abbiano scelto di mettersi dalla parte delle vittime, qualunque esse fossero, con un atteggiamento di condivisione considerata doverosa, sulla base di un ethos maturato non tanto sul terreno politico o ideologico, quanto in virtù di un universo di valori umani e religiosi, assumendo spesso i caratteri della martyrìa cristiana.

    Fonti e Bibl. Essenziale

    F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Studium, Roma 1980; C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991; M. Guasco, I cattolici e la resistenza: ipotesi interpretative e percorsi di ricerca, in B. Gariglio (ed.), Cattolici e resistenza nell’Italia settentrionale, Il Mulino, Bologna 1997, 305-317; G. De Rosa (ed.), Cattolici, Chiesa, Resistenza, Il Mulino, Bologna 1997; B. Bocchini Camaiani – M.C. Giuntella (edd.), Cattolici, Chiesa, Resistenza nell’Italia centrale, Il Mulino, Bologna 1997.

    Immagini:

    1) Don Redento Bello (nome da partigiano “Candido”), sfuggito per caso alla strage di Porzus, officia nel 1946, circondato dai partigiani dell’Osoppo, la Messa commemorativa per i caduti dell’eccidio [Biblioteca Seminario Arcivescovile “B. Luigi Scrosoppi”, Udine].

    2) Don Innocenzo Lazzeri, medaglia d’oro al valor civile, ucciso il 12 agosto 1944 durante la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, mentre prestava aiuto alla popolazione inerme.


    LEMMARIO