Scuola – vol. I

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    Autore: Raffaele Savigni

    Sin dai primi secoli all’interno delle comunità cristiane coesistettero atteggiamenti diversi nei confronti della cultura: alcuni movimenti privilegiarono nettamente la dimensione dell’oralità e l’annuncio del Vangelo «sine glossa», mentre altri cercarono di reinterpretare in chiave cristiana la cultura classica, e pur promuovendo specifiche scuole teologiche (come la celebre scuola alessandrina di Clemente ed Origene) utilizzarono il sistema scolastico dell’antichità, incentrato sull’insegnamento della grammatica e della retorica.  Agostino è un testimone autorevole della paideia classica: nelle Confessioni egli ricorda il proprio percorso di studi, dalla scuola che diremmo elementare, finalizzata all’apprendimento delle litterae e dei numeri, alla scuola di grammatica, e quindi agli studi di di retorica ed eloquenza, distinguendo i primi magistri dai grammatici e dagli insegnanti di retorica e precisando di avere poi insegnato lui stesso le disciplinas liberales.

    Antonio, il padre del monachesimo, viene presentato dal suo biografo Atanasio come inlitteratus ma dotato di una memoria che teneva il posto dei libri, nel quadro di una contrapposizione tra la semplicità della fede e le litterae ed i sillogismi. Sulpicio Severo ricorda che nella comunità monastica di Martino di Tours, anch’egli homo inlitteratus ma dotato di scientia ed ingenium, «nessun’arte era esercitata, eccettuato il lavoro dei copisti», ribadendo peraltro che il Regno di Dio non si fonda sull’eloquenza ma sulla fede, e che la salvezza non fu predicata al mondo da oratori, bensì da pescatori. Questa istanza antiintellettualistica è stata ribadita più volte da esponenti di una cultura monastica che intendevano difendere la simplicitas della fede rispetto alla cultura mondana: Gregorio Magno dichiara che il discorso dell’uomo di Chiesa (così come lo stesso messaggio evangelico) non può essere sottoposto alle regole del grammatico Donato; e Pier Damiani afferma che Dio non ha bisogno della nostra grammatica per attirare a sé gli uomini, dal momento che per spargere i semi della nuova fede non inviò filosofi ed oratori ma sem,plici pescatori.

    Nonostante queste riserve, il sistema delle arti liberali, delineato tra IV e V secolo da Marziano Capella nel suo De nuptiis Philologiae et Mercurii  ed articolato in trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), costituì  il fondamento dell’organizzazione medievale del sapere: adottato da Cassiodoro, esso fu trasmesso alle scuole medievali attraverso le opere enciclopediche di Isidoro di Siviglia (Etymologiae I 2, 1-3) e Rabano Mauro (De clericorum institutione, III 18-25) ed i commenti di Scoto Eriugena e Remigio di Auxerre. Il sistema educativo antico entrò in crisi con la caduta dell’Impero romano d’Occidente: poiché la cultura delle popolazioni germaniche che occuparono la penisola era caratterizzata da una netta prevalenza dell’oralità sulla scrittura, dopo la chiusura delle scuole pagane i monasteri e le Chiese si trovarono di fatto ad esercitare un monopolio quasi totale sulla trasmissione della cultura, anche se in età carolingia non manca qualche laico colto, come il marchese Eberardo del Friuli, di cui è nota, attraverso il suo testamento, la ricca biblioteca, che comprendeva testi biblici, liturgici e teologici ma anche opere storiche. Il termine laicus fu a lungo considerato sinonimo di illitteratus, espressione chiamata ad indicare una persona priva di un regolare curriculum di studi letterari, mentre chi conosceva le lettere latine era tendenzialmente assimilato ad un clericus.

    Una spia dell’emergere delle scuole episcopali è costituita dal concilio di Toledo del 531, il quale stabilisce che presso la casa del vescovo siano istruiti coloro che sono destinati alla carriera ecclesiastica, ma non esclude che da questa scuola possano uscire laici istruiti, poiché precisa che all’età di diciotto anni gli allievi potranno anche rinunciare all’ordinazione se non si sentiranno pronti a vivere castamente. La breve esperienza monastica avviata a Vivarium (presso Squillace) da Cassiodoro, e fondata sul connubio tra ascesi e ricerca intellettuale, non ebbe seguito, in quanto si collocava ad un livello troppo alto rispetto alle concrete possibilità dell’epoca.

    La Regola benedettina, pur presupponendo la presenza nel monastero di alcuni novizi incapaci di scrivere, dispone che i monaci si dedichino alla lectio all’inizio della giornata e dopo il pranzo, e che durante i pasti un monaco legga testi spirituali scelti secondo un ordine preciso; durante la Quaresima ciascun monaco dovrà leggere per intero un codice tratto dalla biblioteca del monastero (Regula Benedicti 48, 15). Nella Vita di Colombano Giona di Bobbio ricorda che il santo studiò le arti liberali (in particolare grammatica, retorica, geometria). Perlomeno sino alla riforma di Benedetto di Aniane, che col decreto sinodale di Aquisgrana (10 luglio 817) riservò agli oblati la scuola monastica, i monasteri trasmisero non solo ai novizi ma anche ad allievi esterni le conoscenze linguistiche necessarie per la lettura e la comprensione della Bibbia: a tal fine vennero copiate anche le opere di autori classici, utilizzate come strumento propedeutico per l’apprendimento della grammatica. Il divieto dell’817 fu ben presto eluso mediante l’istituzione di due scuole distinte, l’«interna» e l’«esterna»: la pianta del monastero di San Gallo, costruito nella prima metà del secolo IX, mostra gli ambienti destinati ai due tipi di scuole già ben distinti.

    La rete di monasteri fondata sul continente dai monaci irlandesi ed anglosassoni favorì la salvaguardia della cultura antica e preparò il terreno alla riforma carolingia, che penetrò anche in Italia. Con l’Admonitio generalis del 789 Carlo Magno stabilì norme precise per i ministri dell’altare: «riuniscano e tengano presso di sé non solo i bambini di condizione servile ma anche i figli dei liberi. Organizzino scuole di lettura per i ragazzi in ogni monastero o vescovado, dove si possano apprendere i salmi, le note, il canto, il computo, la grammatica». Con un capitolare emanato a Corteolona (presso Pavia) nel maggio 825 Lotario I istituì nel regno italico una rete di scuole: «a Pavia, presso il maestro Dungalo, converranno gli studenti di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli, Tortona, Acqui, Genova, Asti, Como. Ad Ivrea il vescovo provvederà egli stesso alle scuole. A Torino converranno gli studenti di Ventimiglia, Albenga, Vado, Alba. A Cremona andranno a scuola quelli di Reggio, Piacenza, Parma, Modena. Firenze raccoglierà quelli della Tuscia».

    Nell’829 i vescovi franchi chiesero a Ludovico il Pio di promuovere in tre città dell’Impero scuole pubbliche che proseguissero il lavoro di promozione culturale già avviato da Carlo Magno. Da queste scuole centralizzate appaiono distinte le scuole promosse dai vescovi nelle singole diocesi ed indirizzate in primo luogo alla formazione dei chierici, come previsto dal concilio di Attigny (822), il quale disponeva che ogni uomo formato per svolgere un ministero nella Chiesa avesse una scuola ed un maestro adatto, e dal concilio romano del novembre 826:  «In tutti i vescovadi, nelle parrocchie dipendenti e negli altri luoghi, nei quali si presenti la necessità, si stabiliscano quindi, con ogni cura e diligenza, maestri e dottori che, istruiti nelle lettere e nelle arti liberali e nei sacri dogmi, assiduamente li insegnino, perché in questi soprattutto sono manifestati ed esposti i divini mandati […] Bisogna badare dunque che non accedano al ministero senza istruzione e senza conoscenza delle lettere, cosa quanto mai sconveniente». Riprendendo quest’ultimo canone, anche il concilio romano dell’853 (c. 34) prevedeva la presenza, nelle scuole episcopali e plebane, di magistri delle arti liberali (o perlomeno delle scienze bibliche), pur sottolineando la difficoltà di reperire «liberalium artium preceptores in plebibus», per cui appariva inevitabile richiedere perlomeno che vi fossero «divine Scripturae magistri et institutores ecclesiastici officii» che rendessero conto annualmente al vescovo della loro attività formativa nei confronti dei candidati al sacerdozio.

    Richiamando una disposizione dell’813, che aveva previsto scuole per predicatori nelle quali si insegnassero le lettere e le Scritture, il concilio parigino dell’829 auspicava un maggiore impegno dei vescovi nella formazione dei milites Christi tramite le scuole diocesane: «Ordiniamo pertanto che, lasciata d’ora in poi da parte l’inerzia e la trascuratezza, si ponga da parte di tutti più attenta e vigilante cura nell’educare e nell’istruire i soldati di Cristo. Inoltre ogni vescovo, recandosi al concilio provinciale, porti con sé i maestri della propria scuola in modo che a tutti sia manifesta la sua vigile preoccupazione per il culto divino».  Come a Reims tra IX e X secolo (ove Incmaro invitava i preti ad insegnare le lettere ai loro discepoli ma a non accogliere tra di loro le fanciulle), anche in Italia dovettero esistere scuole articolate a diversi livelli, capaci di rispondere alle esigenze dei canonici della cattedrale e dei chierici rurali: ma la documentazione è sensibilmente più sporadica sin verso la fine del X secolo, anche se non manca qualche disposizione vescovile, come in Attone di Vercelli.

    Accanto alle scuole destinate alla formazione del clero compaiono scuole per una prima alfabetizzazione delle popolazioni rurali, alle quali peraltro era indirizzata una catechesi che si serviva prevalentemente delle immagini. Come ha osservato Carla Frova, il canone I del Concilio di Vaison (5 novembre 529) segna una data fondamentale nella storia della scuola medievale, in quanto affidando ai preti rurali il compito di fornire un’istruzione elementare dei ragazzi destinati al sacerdozio, dà origine a una nuova organizzazione scolastica, che presto accoglierà non solo i futuri chierici, ma laici che vogliono imparare a leggere e scrivere: «Tutti i preti che svolgono il loro ministero nelle parrocchie, seguendo l’uso che a quanto ci consta vige molto opportunamente in tutta Italia, accolgano nella propria casa i lettori più giovani, che siano ancora celibi; educandoli spiritualmente come buoni padri si sforzino di insegnar loro i salmi, di farli applicare allo studio dei testi sacri e di istruirli nella legge del Signore. Si prepareranno così successori degni e otterranno il premio eterno da Dio». Per molti secoli queste scuole, subentrate alle ormai scomparse scuole municipali romane, costituirono, insieme con quelle monastiche, la struttura scolastica di base. Anche due documenti modenesi del 796 e del 908 richiamano il dovere dei pievani di «radunare i chierici, di tener scuola, di istruire i fanciulli». A tali scuole fa riferimento nei primi anni del secolo IX Teodulfo d’Orléans, in un capitulum episcopale ripreso alla lettera, nel secolo X, dal vescovo Attone di Vercelli, che invita i preti ad istituire scuole rurali nelle quali possano essere accolti ed istruiti ad discendas litteras anche i figli dei loro parrocchiani, ribadendo altresì il principio della gratuità dell’insegnamento, pur non vietando offerte spontanee al parroco-maestro.

    Nel sec. XI il cronista Rodolfo il Glabro (Hist. II 12, 23) evidenzia i pericoli insiti in un attaccamento eccessivo alla cultura classica, che nel caso del ravennate Vilgardo si traduce in esiti eterodossi: gli Italici appaiono caratterizzati da una predilezione unilaterale per l’ars gramatica (che può tradursi, come in questo caso, in una smodata passione per i poeti pagani ed i loro miti) rispetto alle altre artes. Da parte sua Richero (Hist. III 44) osserva che nella seconda metà del X secolo, quando si venne formando Gerberto di Aurillac (il futuro pontefice Silvestro II, sospettato dopo la sua morte, a causa delle sue vaste curiosità intellettuali, di aver praticato arti magiche), «musica et astronomia in Italia tunc penitus ignorabantur». Peraltro Gerberto, pur prediligendo la matematica, l’astronomia e la logica (Richero ricorda la pubblica disputa con Otrico tenuta nel dicembre 980 a Ravenna alla presenza di Ottone II), non temeva la lettura degli antichi poeti, ma la considerava uno strumento indispensabile per acquisire una padronanza dell’arte oratoria.

    Presso le cattedrali cittadine e le comunità canonicali (che educano i loro allievi adolescenti «ad legendum, cantandum et psallendum» e nelle dottrine ecclesiastiche, come previsto dall’institutio canonicorum di Aquisgrana dell’816)  è documentata l’esistenza di scholae cantorum (menzionate anche in un concilio di Chieti dell’840, ove compare un magister della schola cantorum et scribarum), ma non conosciamo con precisione l’itinerario formativo di chi ne faceva parte: possiamo presumere che esso comprendesse nozioni di musica e liturgia, ma anche rudimenti di grammatica, come suggerisce il riferimento dell’ep. 40 di Pier Damiani al prete fiorentino Rozo «qui dicitur magister cantorum, Florentinae aecclesiae presbiter, vir adprime litteralibus studiis eruditus». Il codice Angelica 123, presumibilmente di origine bolognese, ha sollecitato qualche studioso ad ipotizzare qualche rapporto (non documentabile in modo preciso) tra cultura ecclesiastica cittadina e nascita dello Studio.

    Pier Damiani, che dichiara di avere seguito un percorso di studi incentrato sulle arti liberali a Faenza e quindi a Parma, fa riferimento alle varie tappe dell’apprendimento scolastico (ep. 117: «In litterario quippe ludo, ubi pueri prima articulatae vocis elementa suscipiunt, alii quidem abecedarii, alii sillabarii, quidam vero nominarii, nonnulli iam etiam calculatores appellantur, et haec nomina cum audimus, ex ipsis continuo quis sit in pueris profectus agnoscimus»), ma contrappone la cultura monastica a quella scolastica (alla quale appare legato, nel proprio itinerario formativo, il clero secolare, che «ad hoc grammaticorum scolas ingreditur, ut cum fuerit in arte perfectus abscedat», ep. 152), in quanto quest’ultima rischia di distogliere i cristiani dal rigore ascetico e dalla ricerca di Dio (cf. l’allusione polemica dell’ep. 117 agli interessi astronomici dell’ambizioso chierico di Parma Ugo, che «tantae fuit ambicionis in artium studiis, ut astrolabium sibi de clarissimo provideret argento», e dell’ep. 119 alle «puerorum scolas, qui sepe rigorem sanctitatis enervant ac dissipant»).  Proprio il secolo XI è caratterizzato dall’emergere di un nuovo metodo e di nuove curiosità intellettuali, che si traducono, presso la scuola di Laon, nell’elaborazione della Glossa ordinaria. Andrea da Strumi osserva, nella sua Passio Arialdi, che il santo patarino «in diversis terris scholasticis se studiis tam diu tradidit, donec optime tam liberalium quam divinarum litterarum haberet scientiam», ed anche il vescovo lucchese Anselmo II, secondo il suo anonimo agiografo, «in arte grammatica et dialectica extitit peritus».  Guiberto di Nogent rileva, intorno al 1115, un notevole incremento di scuole rispetto ai decenni precedenti, e ricorda la severità del suo precettore, mentre i biografi di sant’Anselmo d’Aosta sottolineano la sensibilità pedagogica del santo, che utilizzava un metodo caratterizzato dalla lenitas e da un graduale passaggio da insegnamenti più semplici a altri più complessi (viene richiamata in tal senso la diffusa metafora del latte e del cibo solido, cf. Eb 5,13-14).

    Il rapporto dei “moderni” con le auctoritates viene prospettato da Bernardo di Chartres mediante il ricorso all’immagine dei «nani sulle spalle dei giganti», che legittima talune innovazioni rendendole compatibili con l’ossequio dovuto ai classici. Con Abelardo si afferma la figura moderna dell’intellettuale, che organizza l’insegnamento in modo più critico rispetto alla tradizione, sviluppando il metodo della quaestio: l’insegnamento diventa una professione retribuita, con uno stacco rispetto al principio (ribadito dal concilio lateranense del 1139, c. 9 e poi da Alessandro III) secondo il quale la scienza, in quanto dono di Dio, non può essere venduta. Il suo grande antagonista, Bernardo di Chiaravalle, distingue varie modalità di conoscenza, legittimando solo quelle finalizzate all’edificazione del prossimo o di se stessi, e liquidando le altre come espressione di curiositas e vanitas o di una turpe ricerca del guadagno.

    Nel XII secolo entrò in crisi il sistema altomedievale, incentrato sul monopolio ecclesiastico della cultura  e riscontrabile (con l’eccezione di qualche scuola notarile) anche in Italia: va infatti  sfumata la contrapposizione, prospettata nel secolo XI da Wipone (Tetralogi, v. 165), tra i Tedeschi, che riservavano l’insegnamento delle lettere ai futuri chierici, e la situazione della penisola italica, ove i giovani nobili avrebbero frequentato abitualmente le scuole (modello che Wipone vorrebbe esportare in Germania). La scuola medica salernitana, consolidata alla fine del secolo XI, svolse un ruolo significativo ma non riuscì a trasformarsi in una vera e propria università, mentre una facoltà di medicina sorse a Montpellier verso la fine del XII secolo.

    Per quanto i concili lateranensi del 1179 e del 1215 ribadissero la necessità che presso le cattedrali ed altre chiese dotate di forze sufficienti vi fosse un maestro che istruisse gratuitamente i chierici e gli studenti privi di mezzi, emersero gradualmente scuole a pagamento gestite da laici, mentre nei confronti dei monaci venne richiamato il detto (riconducibile a Girolamo, Contra Vigilantium 15) «Monachus non doctoris, sed plangentis habet offitium», veicolato da Graziano (Decretum II 16, 1, 4). Le scuole laiche, che rispondevano alle nuove esigenze degli uomini d’affari e di coloro che praticavano le artes mechanicae (ora rivalutate), si svilupparono soprattutto nelle città dell’Italia centro-settentrionale, ove il tasso di alfabetizzazione delle popolazioni subì un incremento notevole. Si trattava di scuole gestite da maestri laici, con una combinazione variabile di intervento pubblico (a Venezia pressoché inesistente sino al pieno Quattrocento) ed iniziativa privata: gli insegnanti venivano retribuiti dalle famiglie degli alunni o stipendiati almeno in parte dal Comune, che impose talora una sorta di monopolio sull’insegnamento elementare. La didattica rimase per lo più quella tradizionale, incentrata su testi tradizionali quali i Disticha Catonis (una raccolta di sentenze moraleggianti), il Theodolus, il Liber Aesopi, talora volgarizzati. Esaminando il processo di alfabetizzazione nelle campagne toscane (ove, nelle piccole comunità, lo stesso maestro insegnava ad un pubblico differenziato ora i primi rudimenti, ora il latino), il Balestracci osserva che «i preti, in genere, sono il primo punto di riferimento per chi vuole imparare a leggere e a scrivere» e che «il passaggio dalla scuola tenuta da ecclesiastici a quella gestita dai laici non è affatto lineare», tant’è vero che «i maestri che insegnano nelle scuole laiche sono ampiamente debitori ad una formazione culturale ecclesiastica». Se alcuni Statuti quattrocenteschi prescrivono che l’insegnante sia un laico, all’inizio del ‘500 il pievano di Barga insegna ancora ai ragazzi della sua comunità.In alcune aree le scuole sono gestite direttamente dai laici, mentre in altre (ad esempio a Venezia) sopravvive più a lungo un ruolo determinante dell’iniziativa privata; ed a Milano svolsero un ruolo significativo alcune confraternite. Il livello di alfabetizzazione appare differenziato sul piano geografico, ed in genere più elevato nelle città toscane del tardo Medioevo, come suggerisce l’eccezionale presenza di memorie familiari redatte nel ʼ400 da un contadino.

    Alla fine del Duecento il milanese Bonvesin de la Ripa (Le meraviglie di Milano, III 33-36) menziona la presenza in città di otto professori di grammatica, quattordici insegnanti esperti nel canto ambrosiano e più di settanta maestri di istruzione elementare, nonché almeno quaranta copisti di libri; e nel Quattrocento anche alcune confraternite milanesi promossero l’istituzione di scuole per il popolo. A Firenze il livello di scolarizzazione appare più elevato: Giovanni Villani (Nuova cronica, XII 94) distingue tre diversi livelli scolastici, dalla scuola elementare (che accoglieva 8-10 mila fanciulli su una popolazione complessiva di circa novantamila abitanti) alle scuole tecniche (destinate ai ceti mercantili) ed a quelle di grammatica.  In questo contesto cittadino si inserirono nel ‘200 i nuovi Ordini Mendicanti: più decisamente i Domenicani, ma, dopo qualche tensione interna, anche i frati minori. Se Francesco d’Assisi aveva manifestato qualche timore nei confronti dei possibili esiti negativi della nuova cultura (che poteva tradursi in una forma di superbia intellettuale, allontanando le élites dal popolo), autorizzando solo Antonio da Padova ad insegnare ai frati la teologia, «purché nel tempo dedicato al suo studio non si spenga lo spirito di preghiera e di devozione», alla fine del secolo Salimbene di Parma ricorda il proprio percorso di studi, dal calcolo alla gramatica e infine alla teologia, sottolineando in termini positivi il passaggio dai primi tempi  dell’Ordine, caratterizzati dalla preminenza dei frati laici, all’epoca attuale, segnata dalla presenza qualificata di chierici litterati. Le scuole degli Ordini mendicanti formarono progressivamente una rete gerarchizzata di Studia, al vertice della quale si collocavano gli Studia generalia, destinati a competere con le Università, nelle quali i frati si inserirono progressivamente, acquisendo il controllo della maggior parte delle cattedre di teologia.

    Gli umanisti italiani prepararono il terreno ai moderni collegi, istituendo pensionati a pagamento e redigendo trattati pedagogici come il De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae di Pier Paolo Vergerio (1402). Guarino Guarini (1374-1470), che introdusse lo studio del greco, e Vittorino da Feltre (1378-1446) si sforzarono di superare il tecnicismo delle scuole tradizionali, valorizzando la formazione morale e gli esercizi fisici. La “Ca’ gioiosa” avviata presso Mantova, col sostegno dei Gonzaga, da Vittorino integrava la preparazione culturale con la pratica religiosa, gli esercizi ginnici e le escursioni; e preparava gli allievi tanto agli studi universitari quanto all’assunzione di pubblici uffici. Vittorino, che non volle sposarsi per potersi dedicare completamente ai suoi ragazzi, accettò anche fanciulli poveri e abolì quasi completamente le punizioni corporali, riservandole ai casi di bestemmia e turpiloquio. Nel ʼ400 si diffuse comunque, tra le famiglie dell’élite aristocratica, la figura dell’istitutore privato.

    Se Lutero promosse una intensa scolarizzazione, nel clima di riforma cattolica che precedette ed accompagnò il Concilio di Trento iniziò un processo di riclericalizzazione dell’insegnamento: nel 1587 a Venezia sono registrati 258 maestri, di cui solo 97 laici, mentre nel ʼ400 i maestri di condizione ecclesiastica menzionati nelle fonti erano una minoranza. Con la bolla In sacrosancta beati Petri (1564) Pio IV obbligò tutti gli insegnanti a prestare una professione di fede; l’autorità ecclesiastica esercitò un controllo anche attraverso la concessione della licentia docendi, e l’attenzione fu rivolta alla moralità dei comportamenti prima ancora che alla qualità dell’insegnamento. All’insegnante venne affidata una funzione di educatore morale e civile: negli Statuti cinquecenteschi di Camaiore (in Lucchesia) si chiede che gli scolari siano timorati di Dio, frequentino i Sacramenti e la dottrina cristiana, pregando per la repubblica di Lucca e la comunità di Camaiore, ed obbediscano ai genitori ed ai superiori. Il card. Silvio Antoniano (1540-1603) scrisse, su suggerimento di san Carlo Borromeo, il trattato in tre libri De l’educazione cristiana de’ figliuoli (1584), che abbandonava l’ottimismo rinascimentale e considerava necessario infondere nel fanciullo i principi morali mediante un continuo sforzo di correzione degli impulsi; mentre Cesare Crispolti (1563-1608) cercò di delineare nell’opuscolo Idea dello scolare che versa negli studi, affine di prendere il grado del dottorato, ispirato ai medesimi principi pedagogici, il modello perfetto di studente universitario.

    Il sacerdote Castellino da Castello avviò a Milano, a partire dal 1536, le Scuole della dottrina cristiana, allo scopo di «riformare il mondo a vera vita christiana» mediante l’organizzazione delle scuole parrocchiali di catechismo, considerate uno strumento utile anche per formare il buon cittadino. Da questo nucleo iniziale fiorirono progressivamente le piccole scuole che insegnavano al popolo a leggere, scrivere e far di conto, impiegando come insegnanti sia sacerdoti che laici. Il binomio catechismo-grammatica costituisce la matrice dell’acculturazione religiosa e dell’alfabetizzazione dei ceti più umili. Sorsero inoltre nuove congregazioni religiose che fecero dell’insegnamento la loro missione principale. I Gesuiti rivolsero la loro attenzione soprattutto alla formazione delle classi dirigenti mediante l’istituzione di appositi collegi fondati su una precisa Ratio studiorum (1599), che si fondava sul principio dell’unità del sapere e sulla centralità della figura del docente, privilegiando lo studio del latino, dei classici e della filosofia; ma delinearono anche un percorso di studi preuniversitario, ponendo le premesse per l’istituzione del ginnasio-liceo classico. Ad un pubblico più ampio si rivolgevano le Scuole pie degli Scolopi, create da san Giuseppe Calasanzio (1557-1648), che rappresentarono uno strumento efficace di promozione dell’alfabetizzazione popolare, sostuituendo le scuole private dirette da maestri laici. Attive a Bologna dal 1616, esse assorbirono di fatto quegli insegnamenti (come l’aritmetica e la calligrafia) ormai marginali all’interno dello Studio: nel 1796 gli scolari erano ben 1362, con una netta prevalenza delle classi di aritmetica rispetto a quelle di grammatica.  Se G.Domenico Peri (Il negotiante, Genova 1638) aveva raccomandato anche al mercante un curriculum di studi umanistici, gli Ordini aritmetici di Giacomo Venturoli (1663) illustrano le finalità prevalenti delle scuole pie: formare un massaro, un contabile, un artigiano.

    Esistevano inoltre, nelle principali città, anche scuole parrocchiali; ed i Seminari per chierici accoglievano spesso anche convittori laici. Giovanni Battista de La Salle (Reims 1651-1719) cercò di assicurare un’educazione cristiana al giovani dei ceti popolari ed alle popolazioni rurali, aprendo in Francia diverse scuole di carità per ragazzi poveri, i cui maestri costituirono l’embrione della congregazione dei «Fratelli delle Scuole Cristiane», riconosciuta ufficialmente da Benedetto XIII (1725). Egli, distinguendosi dalla prassi del tempo, diede priorità alla madrelingua rispetto al latino nell’avviamento alla lettura; fondò Scuole normali per formare i maestri rurali (denominate “seminari per i maestri di campagna”) e scuole serali e domenicali per i giovani lavoratori, e ideò una scuola ad indirizzo tecnico-professionale, esponendo i suoi principi educativi in diverse opere che ebbero notevole fortuna (Guida delle Scuole Cristiane; Regole di buona creanza e di cortesia cristiana); e soprattutto nella prima metà dell’Ottocento la sua congregazione,  si diffuse anche in Italia. Va sottolineato il ritardo notevole dell’alfabetizzazione femminile, che fece passi significativi solo nell’’800, grazie a personalità come Luisa Amalia Paladini (1810-1872), soprintendente degli asili infantili a Lucca e quindi direttrice di istituti femminili di vario grado a Firenze e Lecce. Dalla pia Opera di Santa Dorotea, fondata nel 1815 a Calcinate (Bergamo) da Luca e Marco Passi, sorsero varie congregazioni femminili denominate “Dorotee” e impegnate nell’educazione cristiana delle giovani.

    L’attenzione alla condizione di abbandono dei bambini delle classi popolari indusse don Ferrante Aporti (1791-1858) a fondare nel 1828 a Cremona la prima scuola infantile d’Italia. Nella sua prospettiva l’asilo doveva formare i figli dei lavoratori sul piano intellettuale, religioso, morale, dedicando ampio spazio al gioco, all’educazione fisica, alla preghiera, al canto, mentre la storia sacra si insegnava per mezzo di tabelloni illustrati, e l’apprendimento di lettura, scrittura e nozioni di aritmetica era riservato all’ultimo anno. Egli promosse anche scuole per sordomuti, ciechi e orfani, nonché corsi per maestri, scuole festive di disegno e architettura, e presentò un progetto di riforma per creare gli istituti tecnici. L’istituzione dell’asilo suscitò dibattiti anche vivaci: le scuole aportiane, diffuse in diverse regioni italiane, furono proibite nello Stato Pontificio a causa di taluni pregiudizi, dovuti anche al suo impegno per costruire l’identità nazionale. A Venezia i due fratelli Antonio (1772-1858) e Marco Cavanis (1774-1853) aprirono nel 1804 la prima scuola di carità, e  nel 1808  diedero  vita  anche  ad un convitto  femminile: le loro scuole erano destinate soprattutto ai ragazzi poveri, ai quali venivano insegnati l’italiano parlato e scritto ed i fondamenti dell’aritmetica e del latino. Essi aprirono anche una tipografia per dare lavoro agli allievi che non avevano intenzione di proseguire gli studi. Per garantire la continuità dell’opera diedero vita ad una comunità religiosa, approvata  nel 1835 da Gregorio XVI e denominata “Congregazione delle scuole di carità” (o Istituto Cavanis). Da parte sua don Giovanni Bosco (1815-1888), pur non sviluppando una sistematica riflessione pedagogica, rivolse l’attenzione all’educazione dei giovani dei ceti popolari ed anche ai marginali, elaborando, in alternativa alla repressione dei comportamenti devianti, un “sistema preventivo” incentrato sullo forzo di “guadagnare il cuore dei giovani” curando, mediante oratori, scuole professionali e collegi, la loro formazione umana e cristiana per preparare ad un tempo “utili cittadini e buoni cristiani”.

    Queste scuole cattoliche, gestite per lo più da Ordini religiosi, svolsero un ruolo determinante nel periodo della Restaurazione, ma sopravvissero in genere anche dopo la politica di laicizzazione dell’insegnamento intrapresa dal governo sabaudo. Il modello scolastico esercitò una forte influenza anche sull’organizzazione del catechismo parrocchiale, strettamente intrecciato con l’istruzione popolare.

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