Soppressioni, Beni culturali – vol. I

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    Autore: Paola Picardi

    Il patrimonio artistico delle corporazioni religiose, che è parte rilevante dell’intero patrimonio artistico italiano, è stato sottoposto, nel corso dei secoli, a fenomeni di dispersione e di distruzione provocati da interventi di eliminazione, coercizione o limitazione di tali corporazioni. I fenomeni di questa specie sono risalenti: la loro origine è individuabile già nei primi secoli di vita della Chiesa.

    In età moderna, anche se ancora non sufficientemente studiato sotto il profilo storico-artistico, uno dei più casi significativi è quello legato a papa Innocenzo X. Il Pontefice, nel 1652, decretò la soppressione dei piccoli conventi, il che comportò, negli Stati italiani, la chiusura di 1.513 conventi su un totale di 6.238, numero complessivo stimato in base ad un censimento di due anni anteriore. Le conseguenze del provvedimento dovettero riguardare anche il patrimonio storico ed artistico realizzato appositamente per tali edifici e lì stratificatosi per secoli. Indicativo in tal senso è, ad esempio, il fatto che i beni incamerati in seguito alla soppressione, incluse le opere d’arte, dovevano essere messe a disposizione del Pontefice, che li avrebbe usati, a sua discrezione, per scopi pii od altri fini. Ricordiamo, a titolo esemplificativo, la fortunata vicenda di quattro quadri di Tiziano presenti nella chiesa di Santo Spirito a Venezia, che il Papa decise di non vendere e di trasferire, insieme ad altri nove dipinti, nella chiesa della Salute, sempre a Venezia.

    Nella seconda metà del Settecento, l’imperante ideologia “giurisdizionalistica”favorì numerosi provvedimenti soppressivi. A partire da quegli anni, inoltre, le soppressioni, che fino a quel momento avevano riguardato singole corporazioni religiose, obiettivi mirati, assumono carattere estensivo, rivolgendosi all’insieme della vita religiosa come tale. Queste soppressioni si verificarono, fra l’altro, nei territori italiani soggetti all’impero Austriaco, soprattutto ad opera di Giuseppe II, il quale ordinò non solo la chiusura dei monasteri contemplativi, ma stabilì i programmi di formazione del clero.

    Ma l’epoca che potremmo definire classica per la soppressione delle corporazioni religiose, è rappresentata dalla rivoluzione francese e dal successivo periodo napoleonico. Già nel 1792 in Franciavennero soppresse congregazioni secolari e confraternite, ordinando la nazionalizzazione e parziale vendita dei beni artistici che ne formavano la dotazione, procedura che fu successivamente utilizzata da tutte le emanazioni repubblicane di marca francese nella penisola italica, con applicazioni diverse a seconda delle circostanze.Con l’arrivo delle truppe francesi, in generale, si possono infatti riscontrare le prime lacerazioni del quasi intatto tessuto artistico italiano delle corporazioni religiose, le prime asportazioni e decontestualizzazioni.

    Interessante, ad esempio, è il caso della Repubblica cisalpina, dove, per far fronte alle contribuzioni forzose imposte dai francesi, tra il maggio ed il luglio del 1798, furono soppresse trecentotrenta corporazioni religiose, tutte le abbazie e tutte le confraternite. La globalitàdelle opere d’arte presenti negli immobili degli enti religiosi soppressi divennero di competenza del Demanio statale, che era incaricato di depositarle in musei, o di alienarle tramite aste pubbliche. In questo quadro, interessante è il ruolo svolto dall’Accademia Clementina che, già nel periodo della Repubblica cispadana, censì le opere presenti nei conventi soppressi che erano destinate alle aste e ne selezionò una parte, escludendola dalla vendita. Analogo ruolo, poi, fu successivamente svolto dall’Agenzia dipartimentale dei beni nazionali, che prescrisse ai vari agenti nei dipartimenti di stilare elenchi dei beni artistici presenti nei conventi soppressi o da sopprimere, per evitare il rischio di vendite illegittime.

    Altro caso rappresentativo è quello della Repubblica Romana, dove, in base al proclama dell’11 maggio 1798, trentuno edifici conventuali vennero soppressi ed una parte dei loro beni mobili venne venduta all’incanto a profitto del tesoro pubblico. Gli oggetti d’arte che invece vennero ritenuti “preziosi” da un’apposita commissione d’esperti sarebbero stati trasferiti in un pubblico museo (le raccolte capitoline o, forse, quelle vaticane).

    Successivamente Napoleone, con decreto imperiale del 25 aprile 1810,stabilì la soppressione di tutti gli stabilimenti, corporazioni, congregazioni, comunità ed associazioni ecclesiastiche di qualunque natura e denominazione. Si tratta del testo di legge fondamentale, applicato in tutto il Regno d’Italia, a cui si ispireranno le successive normative emanate dagli Stati preunitari.

    Gli effetti sul patrimonio artistico della legge soppressiva napoleonica sono di non immediataquantificazione. Non è semplice determinare il numero delle sedi di corporazioni religiose che in pochi anni furono soppresse, vuotate degli arredi liturgici, vendute o distrutte. E’ indubbio, comunque, che l’intero patrimonio artistico ha subito una riduzione di smisurate proporzioni.

    In questo contesto va ricordato, ad esempio, che dopo pochi anni dall’occupazione napoleonica – coerentemente con il progetto francese relativo alla riforma delle Accademie di Belle Arti che dovevano essere dotate di spazi per l’esposizione di opere d’arte con finalità didattiche – si assiste alla formazione della Pinacoteca di Bologna, della Galleria dell’Accademia di Venezia, e della Pinacoteca di Brera, tre grandi musei progettati per accogliere i dipinti provenienti dai conventi soppressi dei Dipartimenti. Gli studi recenti hanno messo in luce come le operazioni di prelievo di migliaia di dipinti sul territorio, siano state condotte, con differenze da valutare caso per caso, senza competenza, e che molte delle opere destinate ad essere accentrate nei musei, furono invece in parte lasciate in deposito alle municipalità, in attesa di essere distribuite sul territorio (sull’esempio francese iniziato nel 1790), in parte furono vendute ed in parte furono disperse, in quanto non considerate adeguate al disegno culturale affidato alle nuove pinacoteche.

    Interessante, in particolare, è il caso della Pinacoteca milanese di Brera, per l’arricchimento delle cui collezioni, a partire dal 1802, Eugenio di Beauharnais si affidò alla consulenza artistica di Andrea Appiani, il quale procedette ad una vera e propria incetta di opere d’arte, prevalentemente provenienti dai conventi soppressi. Appiani stilò delle liste delle opere presenti nei territori che progressivamente venivano annessi al Regno Italico (per la maggior parte dipinti appartenenti alla scuola bolognese, romagnola e marchigiana), e fu seguito in questa opera, negli anni successivi, dal restauratore modenese Aurelio Boccolari e dal pittore bolognese Giuseppe Santi. Questi ultimi misero in atto una vera e propria organizzazione di prelievo ed asportazione, finalizzata all’inaugurazione della pinacoteca braidense che si sarebbe svolta il 15 agosto 1809, in occasione del compleanno di Napoleone. Le opere prelevate venivano selezionate in base a tre categorie. Alla prima appartenevano i dipinti che per qualità artistica sarebbero confluiti nella galleria milanese, alla seconda le opere da poter assegnare, tramite scambio, ad altre pinacoteche del Regno (Bologna, Venezia). Alla terza categoria appartenevano i dipinti da assegnarsi alla vendita o al deposito nelle chiese minori lombarde.

    Con la fine dell’epoca napoleonica immediata si presentò la questione della restituzione delle opere trasferite a Milano per effetto delle soppressioni. Già nel 1816 molte delle richieste vennero accolte. Altre rivendicazioni, invece, rimasero lettera morta come, ad esempio, quelle per la celebre Pala di San Bernardino di Piero delle Francesca che Appiani aveva sottratto al suo ambiente originario, sul colle urbinate, per collocarla nella pinacoteca milanese di Brera.

    Altro caso rappresentativo è quello di Roma dove, ad esempio, le direttive del 7 e del 28 maggio 1810, decretarono la soppressione delle corporazioni religiose e l’incameramento di centoquarantacinque conventi. I rispettivi beni furono venduti portando nuova liquidità alle casse dello Stato e gli edifici ex conventuali furono convertiti in caserme, scuole, ospedali, risolvendo in tempi rapidi l’istallazione sul territorio dei servizi di pubblica utilità. I problemi di ordine conservativo del ricchissimo e secolare patrimonio di arredi sacri, suppellettili e opere d’arte presente nei conventi destinati al riuso furono affrontati con provvedimenti, se non risolutivi, senz’altro consapevoli della straordinarietà del patrimonio interessato. Ad esempio vennero nominati quaranta commissari di nomina prefettizia, molti dei quali giudici di pace, coadiuvati dai superiori dei conventi, che procedettero all’incameramento dei beni compilando dettagliati inventari che, nella gran parte dei casi, si rivelarono utili a vincolare i beni artistici ed evitarne la dispersione. Il 25 febbraio 1811, peraltro, veniva decretata la formazione a Roma di un Tesoro della Corona, che avrebbe comportato il trasporto di capolavori presenti negli edifici di culto soppressi, sia romani che del dipartimento, nei Musei Vaticani e Capitolini. Il progetto, che rispondeva ad una volontà accentratrice delle opere d’arte, caratteristica dell’epoca napoleonica, prevedeva a Roma, come d’altra era già accaduto per altre grandi città, la riorganizzazione dell’Accademia di Belle Arti (Accademia di San Luca), accanto alla quale la Pinacoteca Capitolina avrebbe assolto il ruolo di luogo di raccolta e di selezione di exempla figurativi da offrire ai giovani artisti in formazione. In particolare, il suo conservatore, Agostino Tofanelli, al fine di incrementare le collezioni della Pinacoteca, selezionò cinquantuno dipinti delle corporazioni religiose umbre soppresse, raccolti a Perugia, che dovevano essere portati nella seconda Città dell’Impero, cioè Roma, dichiarata tale nel 1809. Il progetto, che vide l’aspra opposizione del maire di Perugia, fu portato a termine nel gennaio del 1814 con il trasporto a Roma di un gran numero di dipinti che, per la maggior parte, furono restituiti, non con poche difficoltà, qualche anno dopo.

    Fonti e Bibl. essenziale

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