Soppressioni, Beni culturali – vol. II

    image_pdfimage_print
    Autore: Paola Picardi

    Negli anni immediatamente successivi alla costituzione dello Stato unitario italiano una parte di enorme rilievo del suo patrimonio artistico fu investita dal decisivo evento della soppressione delle corporazioni religiose. Per valore, storia, committenza e diffusione sul territorio, infatti, il loro patrimonio rappresenta parte rilevante della ricchezza artistica dell’intero territorio nazionale. Si trattò di un momento cruciale per la storia della gestione del patrimonio culturale che impegnò in modo incisivo le nuove strutture dello Stato ad essa preposte in un’articolata attività di conoscenza e tutela.

    Aspetto prioritario acquistava, in questa epoca, la necessità di intervenire nel campo della legislazione ecclesiastica ed in particolare nel riordinamento delle sue vaste proprietà. La materia, infatti, presentava implicazioni economiche, politiche e sociali e dette origine a lunghi ed accesi dibattiti parlamentari. Alcune categorie di enti ecclesiastici erano reputate dallo Stato superflue per la funzionalità della Chiesa e dannose alla pubblica e privata economia per la sottrazione di molti beni, specie immobili, alla normale circolazione e ai tributi. Venne sancita, quindi, la soppressione di tali enti, vale a dire, fu tolta loro la personalità giuridica (cioè la capacità di acquistare e possedere) e fatto divieto che potessero riassumerla in avvenire. In questo quadro generale, il coinvolgimento del patrimonio artistico sembrava, all’epoca, assumere un’importanza limitata ma, in realtà, il nuovo Stato unitario dovette misurarsi con la complessità del lascito artistico e con l’inevitabile esigenza di tutelarlo.

    L’origine della complessa vicenda può essere individuata nella legge 25 agosto 1848, n. 777, la quale sciolse le case e le congregazioni della Compagnia di Gesù in Piemonte, ai cui componenti fu vietato di continuare a vivere adunati. La successiva legge Cavour-Rattazzi sopprimeva, invece, gli enti ecclesiastici che «non attendevano alla predicazione, all’educazione o all’assistenza degli infermi» prevedendo la gestione dei loro beni da parte della “Cassa ecclesiastica”, ente autonomo appositamente istituito. Questa legge, con le annessioni dei nuovi territori, venne progressivamente estesa, una volta costituito il Regno d’Italia, all’Umbria (decreto Pepoli del dicembre 1860), alle Marche (decreto Valerio del gennaio 1861), alle Province napoletane (decreto Mancini del febbraio 1861) ed al Veneto (decreto del luglio 1866).

    Il dibattito che si svolse in parlamento nel tentativo di formulare una legge nazionale su tale materia, denuncia la presenza di atteggiamenti di differenti matrici ideologiche. L’esame del progetto di legge portò all’approvazione del Regio Decreto 7 luglio 1866, n. 3036 che regolava, per tutto il territorio nazionale fino a quel momento annesso, la soppressione delle corporazioni religiose (cioè tutti gli enti regolari, pur conservando i religiosi, singolarmente considerati, il diritto di convivere sotto l’egida del diritto comune), non che molti enti secolari (capitoli collegiali, ricettizi ed enti analoghi, benefici semplici, legati pii perpetui autonomi e, nei capitoli cattedrali, i canonicati e cappellanie eccedenti rispettivamente il numero di dodici e sei). I loro beni, salvo alcune eccezioni, sarebbero stati incamerati dal demanio ed amministrati, nell’ambito del Ministero di Grazia, Giustizia e Culti, dall’amministrazione autonoma del Fondo per il Culto (art. 25). La legge 15 agosto 1867, n. 3848, infine, stabilì le disposizioni per la liquidazione dell’asse ecclesiastico.

    Le questioni relative al patrimonio artistico, rimasero al margine del dibattito parlamentare il quale si limitò a chiarire che, tra i beni eccettuati dalla demaniazione, vi erano solo le chiese mantenute al culto, con il loro patrimonio artistico, e gli edifici, con le loro adiacenze, che rivestivano un carattere di monumentalità (art. 18, R.D. 7 luglio 1866, n. 3036). I «libri e i manoscritti, i documenti scientifici, gli archivi, i monumenti e gli oggetti d’arte o preziosi per antichità» che non erano nè esposti al culto né raccolti in collezioni erano considerati devolvibili ad istituti museali o a biblioteche, comunali o statali, ubicate nella provincia nella quale era situato il convento soppresso (art. 24, R.D. 7 luglio 1866, n. 3036). Il restante patrimonio era considerato alienabile.

    Per comprendere, invece, la vastità della ripercussione sul patrimonio artistico, va ricordato che il numero di case religiose soppresse al 1877, ammonta a 4.000 e che, al 1874, ben 1.650 edifici claustrali furono indemaniati, vuotati degli arredi liturgici, destinati al riuso, venduti o distrutti. Il governo ebbe quindi a disposizione una massiccia massa architettonica per assolvere alle diverse necessità dell’amministrazione pubblica: finanziarie, militari, burocratiche…etc.

    Nel 1873, poi, venne emanata la legge di soppressione speciale per Roma e provincia (legge 19 giugno 1873, n. 1402 2° serie), che ebbe un iter formativo particolarmente travagliato, a causa della necessità di salvaguardare le prerogative del pontefice e della particolare natura degli enti esistenti nel capoluogo del mondo cattolico. Delle 221 case religiose esistenti a Roma, 126 vennero soppresse ed i rispettivi fabbricati furono indemaniati. Di questi ultimi, sette furono chiusi al culto per esigenze di “pubblica utilità”. L’incameramento di questi beni avvenne tramite la Giunta liquidatrice dell’asse ecclesiastico, organo preposto alla gestione del patrimonio ex claustrale, costituito ad hoc per Roma.

    Beni mobili. Di volta in volta venivano nominati commissioni o singoli commissari che provvedevano alla “presa di possesso” del convento redigendo un minuzioso verbale dei beni mobili presenti nell’edificio. Tali verbali erano composti da una serie di moduli nei quali dovevano essere elencate varie tipologie di oggetti. Particolare interesse riveste il quadro XI in quanto i beni che comparivano in questa parte del modulo, erano considerati devolvibili ad istituti museali o a biblioteche, dal momento che in essi era stato riconosciuto carattere di “artisticità” e non erano nè esposti al culto né raccolti in collezioni (art. 22 della normativa di soppressione per Roma).

    Una volta incamerato dallo Stato con le prese di possesso delle case religiose, il relativo patrimonio mobile veniva quindi sottoposto ad una selezione. Le opere scelte (quelle registrate nel quadro XI) erano destinate, in accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione, a pubbliche istituzioni mentre, quelle non ritenute d’interesse, venivano alienate con la procedura di pubblici incanti. E’ importante evidenziare, dunque, il peso delle scelte dei delegati governativi ai quali, di volta in volta, veniva demandato il potere di stabilire il destino delle opere d’arte interessate dal fenomeno soppressivo. Le decisioni assunte rispecchiavano, non solo le rispettive culture, ma anche i pregiudizi valutativi o l’ideologia delle personalità intervenute nonché la loro moralità. Eloquente, in tal senso, è il caso di un delegato governativo alle “prese di possesso” degli edifici ex claustrali romani presente tra gli acquirenti delle aste dei beni provenienti dagli edifici soppressi. D’altra parte la vastità della dispersione del patrimonio artistico a causa della secolarizzazione è difficilmente ricostruibile e misurabile. E’ da presumersi che molti trafugamenti si siano verificati, infatti, in violazione delle leggi allora vigenti e, salvo i casi di eventuali indagini giudiziarie, le tracce documentarie sono rarefatte.

    Nel caso di Roma, per la scelta degli istituti ai quali devolvere le opere, nacquero dissidi tra le autorità municipali e quelle governative. I beni selezionati, se ritenuti di pregio (prevalentemente le opere pittoriche), erano destinati all’Istituto di Belle Arti (attuale Accademia di Belle Arti), e non alla Galleria Capitolina o al Museo Artistico Industriale, entrambi comunali. Sebbene l’Istituto di Belle Arti fosse stato quindi istituzionalmente privilegiato, la maggior parte del patrimonio venne devoluto al Museo Artistico Industriale (le cui collezioni vennero poi smembrate) che, con le sue scuole di arte applicata poteva raccogliere oggetti di arte minore (sculture frammentarie, frammenti architettonici, ceramiche, mobili etc.), prevalente tipologia di beni rinvenuti negli ex conventi.

    Per gestire la particolare situazione di Firenze che, come Roma, vedeva coinvolto un enorme patrimonio, fu emanato il decreto 8 agosto 1867 con il quale vennero devolute alle Gallerie fiorentine tutte le opere della provincia, ad eccezione di quelle del comune di Empoli, Prato e Pistoia. Come nel caso di Roma, però, la maggior parte degli oggetti d’arte minore vennero dirottati verso il Museo del Bargello, che intendeva svolgere un ruolo educativo ed esornativo.

    Se, in generale, tutte le Accademie di Belle Arti (Bologna, Parma, Modena, Genova, Siena) incrementarono le loro raccolte con opere pittoriche, ai musei nazionali di Napoli e Palermo vennero ceduti non solo la quasi totalità di beni ex claustrali delle rispettive provincie ma anche delle due regioni. Sebbene il dettato normativo prevedesse la devoluzione dei beni artistici a pubblici istituti esistenti nella provincia nella quale era ubicato il convento soppresso, nella prassi vennero spesso accettate le richieste dei municipi che, per non essere privati di opere ritenute importanti per la propria identità, si dotarono di nuovi musei civici. Particolarmente interessante è, in questo senso, il caso nei musei civici umbri che, con loro distribuzione capillare sul territorio, garantirono una conservazione decentrata dei beni artistici.

    Beni immobili. L’imponente patrimonio edilizio delle corporazioni religiose fu indemaniato e destinato al riuso. Fanno eccezione le chiese mantenute al culto e i conventi dichiarati monumentali, spesso unica forma di conservazione per il contenitore ed i suoi arredi. Per la stesura dell’elenco degli edifici monumentali nacquero dissidi tra il Ministero della Pubblica Istruzione, animato da preoccupazioni conservative, ed il Fondo per il Culto, che tendeva a ridurre al minimo gli edifici monumentali la cui manutenzione sarebbe stata interamente a suo carico.

    La generalizzata riconversione dei beni immobili, soprattutto urbani, permise la diffusione dei servizi pubblici in tempi relativamente brevi. Il riutilizzo più diffuso e di maggior impatto sugli edifici, che generalmente erano storici e di notevole interesse artistico ed architettonico, fu quello militare. Indicativo, in tal senso, è l’epiteto «della demolizione» usato all’epoca per definire gli ingegneri impegnati nei lavori necessari per gli adattamenti dei conventi. Nell’impossibilità di contrastare questa massiccia riconversione, spesso gli addetti alla tutela si limitavano a ricorrere a misure, anche minime, di primo intervento. Per salvaguardare i dipinti murali talvolta li si ricopriva con tavolati, misura che, però, rese difficile lo studio ed il controllo dello stato di conservazione degli affreschi e, alle volte, fu anche causa di danni. Talvolta si procedeva allo stacco dei dipinti murali, non solo nei casi non rari di demolizione dell’edificio, ma anche nell’intento di assicurarne la visione al pubblico con la devoluzione a pubblici istituti museali.

    Il quadro conservativo degli edifici ex claustrali si aggravò quando, terminate le cessioni agli enti locali, individuate le chiese da mantenere al culto ed in via di riconoscimento quelli monumentali, il rimanente patrimonio immobiliare cominciò ad essere alienato dal demanio. Il Ministero della Pubblica Istruzione, se non poteva impedirne la vendita, richiese spesso la sua sospensione per il tempo necessario a trasportare altrove i beni artistici mobili o inserì nell’atto di vendita alcune clausole a garanzia della salvaguardia del bene.

    Uno dei casi più rappresentativi di questo delicato e problematico tornante della storia del patrimonio artistico italiano è l’insieme delle vicende che portarono alla demolizione ed alla dispersione degli arredi della residenza pontificia al Campidoglio, la così detta “torre di Paolo III Farnese”, di proprietà dei Minori Osservanti del convento di Santa Maria in Aracoeli, ai quali il fabbricato era stato donato da Sisto V con motu proprio del 1585. Le vicende dei suoi affreschi, fortuitamente sopravvissuti, insieme a quelle di altri dipinti e sculture coinvolti nelle soppressioni, notevoli per qualità, stile e provenienza, nel loro insieme contribuiscono a delineare una visione del fenomeno nella sua portata di buone intenzioni, ma anche di devastazione e dispersione.

    Fonti e Bibl. essenziale

    V. Carini Dainotti, La Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele al Collegio Romano, Firenze, L.S. Olschki, 1966; G. Dalla Torre, Il Fondo per il Culto. Ascesa e declino di un Istituto giurisdizionalistico. Dal prerisorgimento alle fasi concordatarie: evoluzione del quadro normativo nel clima storico, in Il Fondo Edifici di Culto. Chiese monumentali, storia, immagini, prospettive, Napoli, Elio De Rosa, 1997, 15-17; A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione. Inventario dei “Beni delle corporazioni religiose” 1860-1890, Roma, Ministero per i beni culturali ed ambientali, 1997; G. Manieri Elia, La nascita di un “sistema museale umbro” e la contrastata vicenda della salvaguardia del patrimonio nella regione dopo l’Unità d’Italia, in Piccoli musei d’arte in Umbria, a cura di E. Borsellino, con la collaborazione di B. Cirulli, Venezia, Marsilio, 2001, 21-30; F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna, Zanichelli, 2003; Nuove funzionalità per la città ottocentesca. Il riuso degli edifici ecclesiastici dopo le soppressioni del 1866-67, atti del convegno, Bologna 16 marzo 2001, a cura di Angelo Varni, Bologna, Bononia University Press, 2001; A. Gioli, Una chiesa all’asta: San Torpè a Pisa e le vendite dei beni del demanio, Pisa, ETS, 2006; P. Picardi, Il patrimonio artistico romano delle corporazioni religiose soppresse. Protagonisti e comprimari, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2008; B. Toscano, Appunti per una proposta di storia sociale della tutela dopo l’Unità, in Economia della cultura, XXI, 2011, 371-377; P. Picardi, Perino del Vaga, Michele Lucchese ed il palazzo di Paolo III al Campidoglio. Circolazione ed uso delle decorazioni farnesiane a Roma, Roma, De Luca Editori d’Arte, 2012, 15-22.


    LEMMARIO