Autore: Bernadette Majorana
Con l’unificazione nazionale la Chiesa non esercita più il potere politico e culturale che per quasi due millenni l’avevano resa attiva nel controllo e nella promozione delle manifestazioni teatrali: il contributo diretto del papato, della curia, degli ordini regolari, un tempo essenziale nel panorama spettacolare del Paese, e spesso dominante nella vita pubblica della società civile, diventa limitato e segmentato. Il legame fra teatro e fede permane in ambito popolare, col sostegno di vescovi e parroci: con quelle del calendario agricolo (maggio, Carnevale), canti, balli, narrazioni epiche o agiografiche, nel secondo Ottocento si rinsaldano forme drammatico-rituali legate alle maggiori feste cattoliche, soprattutto la Settimana santa e le feste patronali, espressione dei tempi forti dell’anno e di legami comunitari. Si afferma intanto, specialmente nelle città, una fitta offerta di spettacolo, articolata secondo i ritmi individuali della vita quotidiana e lavorativa. Il teatro è una pratica generalizzata, eterogenea, per tutti i ceti. In ogni centro del Regno si costruisce il teatro cittadino, emblema della progettualità civile e politica borghese: vi si dà soprattutto l’opera lirica, vero teatro nazionale. Il teatro drammatico è imperniato sui cosiddetti grandi attori, che accentrano su di sé tutta l’attenzione, incarnando prepotentemente il personaggio, subordinando alla interpretazione i testi (da Shakespeare ad Alfieri, a Goldoni, a Ibsen), dominando l’intero spazio scenico; gli autori operano per loro e spesso con loro. Acquistano influenza i critici professionisti.
Secondo la tendenza internazionale prevalente, la drammaturgia italiana si orienta verso il dramma borghese. L’impianto realista esalta i rapporti tra individuo e società e le psicologie dei personaggi (Verga, Giacosa, Carlo Bertolazzi); l’impiego del dialetto produce esiti notevoli. D’Annunzio compone le sue tragedie opponendosi al verismo (dal 1911, dopo l’ambigua sintesi erotico-sacra di Le Martyre de saint Sébastien, tutte le sue opere vengono messe all’Indice). Nelle inquietudini del Novecento, con mezzi sperimentali e rinnovati, da Pirandello, punto di riferimento della drammaturgia internazionale e della sperimentazione registica (Nobel per la letteratura 1934), al Massimo Bontempelli del realismo magico, all’espressionismo lirico di Pier Maria Rosso di San Secondo, all’inchiesta sulla verità e sulla responsabilità di Ugo Betti, la contraddizione tra intima autenticità e convenzioni sociali è sottoposta a critica radicale. I sacerdoti sono figure non rare sulle scene italiane: da buoni o da cattivi pastori partecipano delle tensioni delle coscienze, nel quadro minuto delle vicende quotidiane o negli scontri tra individui e morale comune, come l’abate infido del notissimo La morte civile di Paolo Giacometti (1861, con Ernesto Rossi) o i patrioti di Dall’ombra al sol di Libero Pilotto (1880, compagnia Moro Lin) e Prete Pero di Dario Niccodemi (1918, con Ermete Zacconi), sospeso dalla censura dopo gli attacchi della stampa cattolica; oppure sono provati da acuti patimenti interiori, come in Il piccolo santo di Roberto Bracco (1912, con Ferruccio Garavaglia). Al di là del credo degli autori e delle loro scelte estetiche, il teatro si fa anche documento culturale della religiosità degli italiani: rituale, superstiziosa quella di Cavalleria rusticana di Verga (1884, con Eleonora Duse) o di La figlia di Jorio di D’Annunzio (1904, con Irma Gramatica e Ruggero Ruggeri); bigotta, nell’universo familiare impietoso di Il rosario di De Roberto (1912, con Maria Melato); attraversata dalla tensione tra scienza e fede nei drammi di Enrico Annibale Butti; pervasa di una sacralità rivelata dalla bestemmia in Sagra del Signore della nave, o dogmatica, insidiata dal rifiuto del sacerdozio e dalla inspiegabilità del miracolo in Lazzaro, entrambi di Pirandello (1925, con Lamberto Picasso ed Egisto Olivieri; 1929, con Picasso e Marta Abba).
Più dei testi sono però la peculiare organizzazione degli attori italiani e il loro carisma recitativo a determinare il sistema teatrale e l’interesse degli spettatori. Riuniti in compagnie girovaghe, si spostano di città in città vivendo degli incassi delle rappresentazioni; fanno il loro apprendistato in scena (tranne pochi esperimenti, fino al 1935 non ci sono istituzioni accademiche per la formazione teatrale); i maggiori sono acclamati anche all’estero: la Duse esercita un’influenza senza pari in tutto il mondo. Guardano ai modelli recitativi dei professionisti anche le compagnie filodrammatiche, sorte negli ambienti più diversi. Il teatro è ritenuto un’utile pratica pedagogica nelle scuole, negli oratori, nelle parrocchie: si afferma in quest’ambito il teatro salesiano di don Bosco, inteso come esperienza edificante e ludica. In esso, il divieto di formare compagnie miste esprime il timore della promiscuità e delle seduzioni ravvisato nel teatro di mestiere, che in Italia è caratterizzato dalle famiglie d’arte, la cui vita fa tutt’uno col teatro, e dalla convivenza di uomini e donne al di fuori del sistema comunitario e domestico corrente. Benché non più richiamato in forma polemica, anche l’antico argomento teologico-morale della finzione come espressione della natura demoniaca di attori e attrici rimane sullo sfondo della percezione sociale che di essi generalmente si ha: un universo parallelo a quello delle persone comuni.
Il regime fascista attua una politica di accentramento dell’organizzazione delle tournée delle compagnie, a cui eroga finanziamenti statali, e della censura; controlla ugualmente le attività filodrammatiche. Nel 1933 si apre la sezione di prosa del Maggio musicale fiorentino: Jacques Copeau, uno dei massimi registi europei, allestisce nel chiostro di Santa Croce La rappresentazione di Santa Uliva, spettacolo subito leggendario, modello di una possibile rifondazione morale del teatro secondo la ricerca rigorosa e autenticamente religiosa di bellezza e verità, così come in Italia la concepisce anche Silvio D’Amico, critico e storico del teatro, poi fondatore dell’Accademia nazionale d’arte drammatica (Roma, 1935) e della Enciclopedia dello spettacolo, un progetto editoriale senza precedenti, avviato nel 1949. Dal 1934, a Venezia, è attiva la Biennale internazionale del teatro. Nel 1943, caduto Mussolini, alcuni giovani, marxisti e cattolici (Orazio Costa, Diego Fabbri, Gerardo Guerrieri, Vito Pandolfi, Tullio Pinelli), redigono un appello «Per un teatro del popolo», teatro d’impegno, libero di manifestare le aspirazioni morali e sociali degli italiani.
Col secondo dopoguerra, mentre provengono dalle scene meditazioni importanti come quelle di Eduardo De Filippo, attore-drammaturgo centrale nell’Italia a venire, il teatro s’impone come possibile condizione di ripresa civile. Vi contribuiscono alcune personalità del mondo cattolico: oltre a D’Amico, già molto autorevole, i citati Costa e Fabbri, l’uno regista e docente all’Accademia, dove forma generazioni di attori, l’altro drammaturgo, i cui personaggi sono posti sempre di fronte a un’opzione di fede, attivo nel nuovo sistema teatrale italiano; nonché Mario Apollonio, tra i fondatori del primo teatro stabile pubblico italiano, il Piccolo Teatro (Milano 1947), dal 1954 primo docente di storia del teatro in una università italiana, la Cattolica di Milano, dove esercita un influente magistero, basato sull’idea di comunità e coralità dell’esperienza teatrale.
I primi registi italiani (Costa, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Pandolfi, Gianfranco De Bosio, Luchino Visconti) basano le messinscene su una concezione unitaria di spettacolo e stile recitativo. Con la fine degli anni ’50 ciò che non appartiene al binomio teatro di regia-teatri stabili, assurto a norma delle scene italiane, è respinto ai margini. Si formano allora attività minoritarie, intenzionalmente separate dal teatro ufficiale, da cui emergono personalità come quelle formidabili di Carmelo Bene e Dario Fo (Nobel per la letteratura 1997), che con la sua rielaborazione attoriale e drammaturgica delle antiche pratiche comiche e affabulatorie rilegge in chiave politico-ideologica il conflitto tra umili e potenti: nel 1977 la trasmissione televisiva del suo Mistero buffo, rappresentato sin dal 1969, produce un duro scontro con la Chiesa che lo accusa di blasfemia tramite «L’Osservatore romano» e «Avvenire».
Tendendo a costruire una drammaturgia del corpo e dello spazio che esautori le pratiche del teatro borghese, quello di intrattenimento come quello impegnato, gruppi e singoli artisti diversi per ispirazione e metodi si accostano a maestri delle scene internazionali (Living Theatre, Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor, Peter Brook, Eugenio Barba), i cui spettacoli e modelli di lavoro irrompono con gli anni ’60 nella riflessione teorico-pratica, e guardano attentamente a talune esperienze cruciali di performance e contaminazione delle arti (Bread and Puppet Theater, Meredith Monk, Robert Wilson). In questi ambiti, negli anni ’70 e ’80 e in seguito, si manifestano esperienze e si delineano percorsi che, ispirati da istanze partecipative, rituali, festive, riconsiderano le pratiche della tradizione cristiana e la possibilità di reinventarla.
Sono polemici sia con la scena ufficiale sia con quella d’avanguardia drammaturghi come Pier Paolo Pasolini, che fonda le sue tragedie sulla fiducia nella parola, e Giovanni Testori, per il quale il teatro è esperienza lacerante, rivelatrice della complessità carnale e psichica dell’uomo corrotto, compenetrato col peccato, e insieme della sua appartenenza all’eterno: nel 1961, L’Arialda, regia di Visconti, viene sospesa per oscenità e offesa al pudore.
Negli stessi anni ’70-’80 il teatro è anche strumento di animazione sociale: è presente nelle scuole, negli oratori, nelle fabbriche, nei manicomi, nei carceri, nei quartieri decentrati; il rifiuto del teatro come prodotto corrisponde alla importanza attribuita al processo creativo e al diritto alla espressione per tutti. Le esperienze di ricerca sono feconde lungo tre generazioni di artisti, comunità, spettatori: con molte trasformazioni e innovazioni, si configurano come eccezioni nel panorama del teatro commerciale, anche di alto livello, e aspirano a restituire l’essenza del teatro nella interazione fra etica ed estetica.
Fonti e Bibl. essenziale
M. Apollonio, Storia del teatro italiano, edizione critica a cura di F. Fiaschini, 2 voll., Rizzoli BUR, Milano, 2003; C. Bernardi, La drammaturgia della Settimana santa in Italia, Milano, Vita e Pensiero, 1991; C. Bernardi, Il teatro sociale. L’arte tra disagio e cura, Carocci, Roma, 2004; S. D’Amico, Dramma sacro e profano, Tumminelli, Roma, 1942; S. D’Amico, Storia del teatro drammatico, 4 voll., Rizzoli, Roma-Milano, 1939-1940; S. Dalla Palma, La scena dei mutamenti, Vita e pensiero, Milano, 2001; S. Dalla Palma, Il teatro e gli orizzonti del sacro, Vita e pensiero, Milano, 2001; C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Bulzoni, Roma, 2008 (prima ed. 1984); C. Meldolesi, La microsocietà degli attori. Una storia di tre secoli e più, «Inchiesta» (XIV/1984, n. 63-64), 102-111; O. Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano, 1975-1988. La ricerca dei gruppi. Materiali e documenti, La casa Usher, Firenze, 1988; P. Puppa, Tonache in scena, in T. Caliò – R. Rusconi (edd.), Le devozioni nella società di massa, «Sanctorum» (5/2008), 51-65; F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna, 1995.
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